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Breve storiella del debito pubblico

Militant

Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà  in Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso dalle stesse cure che toccheranno a noi.

 Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare avanti. La storia è più o meno questa:

I mercati, che sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile insolvenza di questi paesi.

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Vizi privati, pubbliche virtù

Paolo Giussani

Con un mezzo solo il governo provvisorio avrebbe potuto eliminare tutti
questi inconvenienti e trarre lo Stato dal suo vecchio binario:
dichiarando la bancarotta dello Stato. È nella memoria di tutti
come Ledru-Rollin, più tardi, recitasse all'Assemblea nazionale
la commedia della virtuosa indignazione, respingendo
un suggerimento di questo genere dello strozzino di Borsa Fould,
attuale ministro delle finanze. Quello che Fould
gli offriva era il frutto dell'albero della sapienza.
K.Marx, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.

Lo era anche prima, ma ormai ogni residuo dubbio si è dissolto: è evidente che al mondo non esiste più nessuna forza che possa deviare il capitalismo dalla sua traiettoria. Come in una tragedia di Eschilo, il meccanismo ineluttabile dell'autodistruzione è ormai in pieno svolgimento, e come nella sceneggiata napoletana ha addirittura trovato degli attori molto ben specializzati nei ruoli grotteschi necessari oggi, dove la situazione è del tutto tragica ma per nulla seria1, e soprattutto molto adatti al gran finale tragicomico che ci attende.

Nella potente crisi esplosa nel 2007-2008, che ha portato al fallimento virtuale di tutto il settore finanziario e creditizio mondiale, e passando da questo a una contrazione iniziale del prodotto lordo mondiale nettamente superiore a quella iniziale della grande depressione, il processo di rianimazione era stato messo in pratica abbastanza rapidamente sostituendo al debito privato il debito pubblico e mantenendo dei deficit dei bilanci pubblici relativamente elevati, non solo perché le entrate fiscali si erano ridotte proporzionalmente alla diminuzione dei redditi nazionali ma anche per cercare di sostenere in qualche modo una domanda complessiva che prometteva di dissolversi.

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La Grande Crisi, l’Unione europea e la Sinistra

Felice Roberto Pizzuti

Per un'applicazione più "rigorosa" delle vecchie regole la Sinistra è inutile. Serve invece se c'è del nuovo da tentare, per rilanciare in Europa una crescita ricca di equità e di democrazia sociale

1. Quella che stiamo vivendo da 3-4 anni è una fase di transizione storica caratterizzata dalla grande crisi globale esplosa nel 2007-2008, tuttora in corso e di cui ancora non si vede quale sarà la via d’uscita. Come in altre grandi crisi, essa riguarda non solo le modalità assunte dal sistema economico-finanziario - che nel trascorso trentennio è stato caratterizzato dall'affermarsi del neoliberismo e della globalizzazione -, ma anche i valori culturali, sociali e politici che in questo periodo si sono affermati e il senso comune formato dalla diffusione di quei valori nell'opinione pubblica.

L’Unione europea e la Sinistra sarebbero, potenzialmente, in una condizione ideale per dare un contributo positivo al superamento della crisi, ma – almeno finora – ciò non sta accadendo; anzi, per certi versi, si sta verificando il contrario.

 
2. Nonostante la crisi appaia, per il modo in cui si manifesta, di natura essenzialmente finanziaria, le sue cause strutturali vanno individuate in contraddizioni reali che continuano ad essere sottovalutate o negate dalle visioni economiche e politiche ancora dominanti. Anche nell’opinione pubblica si avvertono segnali di smarrimento e insofferenza, ma - a conferma del complessivo disorientamento dei tempi - non s’intravedono le capacità di una loro canalizzazione politica in senso progressivo.

Tra i principali motivi economici della crisi globale vanno schematicamente ricordati: il peggioramento tendenziale della distribuzione del reddito iniziato negli anni ’80 nei paesi più sviluppati e il conseguente squilibrio tra la sostenuta dinamica delle capacità d’offerta e l’inadeguatezza della domanda, determinata anche dal contenimento della spesa pubblica (in particolare di quella sociale); la finanziarizzazione dell'economia, espressione significativa dell’autonomizzazione della logica del profitto rispetto all’economia reale e ai rapporti sociali e, allo stesso tempo, strumento per sopperire in modo effimero (le “bolle”) alla carenza strutturale della domanda;

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Qualche esercizio di scenario

di Riccardo Achilli

Introduzione

I dati occupazionali di agosto 2011 mostrano che, negli USA, non si è creato alcun posto di lavoro, contro una previsione su base mensile di 60.000-75.000 nuovi posti. E' la prima volta dal 1945 che la crescita occupazionale degli USA è nulla. Tale dato non è a beneficio dei collezionisti della statistica, o delle curiosità generate dalla presente fase recessiva. In realtà segnala la prosecuzione di una fase recessiva che sembra essere priva di via d'uscita. Le sciocchezze a proposito di “jobless recovery”, ovvero, in italiano, di ripresa senza lavoro, messe in campo da molti economisti e giornalisti economici, sono, per l'appunto, sciocchezze. Vediamo perché si tratta di sciocchezze, e che conseguenze il continuo peggioramento del mercato del lavoro potrà avere sul capitalismo globale, e qual è la strategia di uscita dalla crisi che il capitalismo sta mettendo in campo, aiutandoci con qualche considerazione di fatto, e pervenendo ad alcuni scenari possibili.


Alcuni dati di fatto e di scenario internazionale


Negli USA, il tasso di disoccupazione “reale”, ovvero comprensivo anche degli effetti di scoraggiamento nella ricerca di una occupazione non computati nel tasso ufficiale, è pari al 10,6%, mentre oltre il 12% della popolazione vive con meno del 40% del reddito mediano (fonte: Ocse). Nell'Unione Europea, il tasso di disoccupazione ufficiale raggiunge il 10,1%, più dell'8% della popolazione vive in condizioni di grave deprivazione materiale ed il 23% della popolazione è a rischio di caduta nella povertà (fonte: Eurostat).

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Il punto sulla crisi e sui suoi possibili sbocchi

Vincenzo Comito

Premessa

Nonostante che il fenomeno della crisi in atto sia stato esplorato in tutte le direzioni e continui costantemente a esserlo, permangono molti punti controversi sulla sua origine, sulla sua stessa definizione e sulla sua natura di fondo, nonché conseguentemente sulle vie di salvezza, if any.

In ogni caso, sono ormai passati diversi anni dallo scoppio della crisi e nessuno sembra avere a livello politico delle idee adeguate, nonché la capacità e la volontà per uscire fuori dai guai.


Una definizione della crisi

Manca intanto apparentemente una qualche espressione definitoria che sintetizzi la sostanza del fenomeno in atto e questo appare piuttosto sorprendente. Al momento delle sue prime manifestazioni si è parlato di crisi del sub-prime; successivamente, man mano che essa si apriva nuove strade, si è tentato di appiccicargli qualche altra etichetta, quale “crisi sovrana”, “crisi finanziaria” o anche “crisi del credito”, ecc., ma nella sostanza sembrerebbe mancare a oggi, almeno sui media occidentali, una definizione chiara e convincente.

Dobbiamo andare in Asia per trovarne una che sembri plausibile; in tale angolo del mondo si parla chiaramente di “crisi atlantica” (Padis, 2010), di un fenomeno cioè che riguarda essenzialmente la parte più sviluppata del pianeta.

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La crisi e i suoi derivati

di  Vladimiro Giacchè

Chi adopera youtube è probabile che conosca già il geografo e sociologo inglese David Harvey, per via di un’animazione sulla crisi del capitalismo che ha avuto grande successo (oltre un milione e duecentomila visualizzazioni) e che da qualche tempo è stata anche tradotta in lingua italiana. Rispetto a quel video, il libro più recente di Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, tradotto quest’anno da Feltrinelli (il titolo originale era un po’ meno immaginifico: The enigma of capital and the crises of capitalism), con le sue oltre 300 pagine, ha il difetto di non poter essere passato in rassegna in dieci minuti. Ma il linguaggio di Harvey non è meno chiaro sulla carta stampata di quanto sia su video. E il suo testo riesce ad introdurci con grande semplicità alle modalità di funzionamento della società capitalistica e alle sue crisi. Con un occhio particolare, ovviamente, a quella in corso. Che per Harvey, come tutte le crisi, sta svolgendo la sua funzione di riconfigurare il capitalismo permettendogli di continuare a sussistere. Ossia di far ripartire l’accumulazione del capitale, momentaneamente ingolfata (a causa di un eccesso di capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente).

“Le crisi” – dice Harvey – “servono a razionalizzare le irrazionalità del capitalismo; di solito conducono a riconfigurazioni, a nuovi modelli di sviluppo, nuove sfere di investimento e nuove forme di potere di classe… Durante una crisi come quella che stiamo vivendo attualmente, è sempre importante tenere a mente questo fatto. Dobbiamo sempre domandarci che cos’è che viene razionalizzato e qual è la direzione in cui procede la razionalizzazione, poiché questo definisce non soltanto la maniera in cui usciremo dalla crisi, ma anche le future caratteristiche del capitalismo”.

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Solo un Leviatano può salvarci

Gianni Ferrara

Non è vero che i mercati hanno espropriato gli stati. È vero, invece, che gli stati hanno abdicato a favore dei mercati. E' ora che tornino, dopo il fallimento dell'Unione così come disegnata dai Trattati

Riflettendo sulla crisi che attraversa l’Europa, Rossana Rossanda pone “agli amici economisti e ai padri e padrini (di battesimo cattolico) della Ue” una domanda evidentemente retorica. Questa: “Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?”

A rigore, non sarei tenuto a rispondere. Sia perché non sono un economista e, d’altronde, non sulle dottrine economiche dominanti mi sono formato … ma sulla “critica dell’economia politica”. Sia perché nessun rapporto di parentela culturale e politica avrei potuto avere con i “costituenti” dell’Unione europea e con gli sperticati apologeti dell’Ue. Per di più, un certo impegno di studioso lo ho dedicato alle istituzioni europee, da quello di Maastricht in poi, lasciandone su “la rivista del manifesto” alcune tracce, il cui senso,1 per eleganza, ometto di ricordare. Rossana però, riferendosi alla “costituzione” della Ue, quasi mi impone di intervenire.

Inizio con una constatazione che a me pare del tutto evidente. Un fallimento vero e proprio si è avuto, è avanti a noi. È insieme istituzionale, politico, culturale. Può scadere in un catastrofico default finanziario. È il fallimento dell’Unione europea come disegnata dai Trattati. Ne investe il principio politico, quello del neoliberismo cui questi Trattati si ispirano. È quindi il fondamento su cui si erge l’intero e complesso edificio istituzionale denominato Ue che viene travolto dal default.

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Crisi sistemica e strategia “a pietre miliari” ai tempi di Obama e del settimo miliardo

di Piero Pagliani

In varie occasioni la crisi sistemica attuale è stata collegata in modo diretto a problemi di sovrappopolazione e, per contro, di progressiva scarsità di risorse. Chi, come me, al contrario legge sia i termini demografici sia quelli fisico-naturali attraverso categorie di carattere sociale viene a volte visto come un “fissato” dei “rapporti di produzione” che non terrebbe conto dei contesti fisici nei quali tali rapporti si dispiegano.   E’ un dibattito, che al di là delle etichette filosofiche o di scuola che può assumere, tocca punti nevralgici che hanno riflesso sul modo di prevedere quanto succederà e di conseguenza sul modo di intendere le lotte politiche da condurre da qui in avanti.


1. Come si genera l’«esubero»


Personalmente non ho una visione totemica dei “rapporti di produzione” e meno che mai li ho disinseriti dai loro vari limes fisici e territoriali. La mia storia politica e polemica si è sempre basata, al contrario, su uno stretto intreccio degli aspetti economici, finanziari, politici, culturali e infine fisico-spaziali. Cionondimeno non ritengo che abbia senso negare la fondatività di detta categoria, ovviamente se la si sottrae ad ogni lettura di tipo economicistico.

Cosa si intende infatti con “rapporto di produzione”? Se si intende semplicemente il rapporto capitale-lavoro come è stato inteso dalla tradizione tardo-marxista, allora penso che si sia sulla strada errata, perché tale rapporto non può mai essere considerato isolatamente né in termini di specificità analitica esclusiva né, tanto meno, di specificità politica risolutiva.

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Discariche di rifiuti tossici per il Credito

by Robert Kurz

Chiunque abbia conservato un po' di capacità di memoria potrebbe essersi chiesto dove sia andata a finire l'enorme massa di crediti irrecuperabili. Questi debiti non sono mai stati pagati e, al contrario, ogni forma immaginabile di debito ha continuato a crescere. Il gioco di far finta di pagare i vecchi prestiti per mezzo di quelli nuovi, e quelli nuovi per mezzo di quelli ancora più recenti, è finito da tempo, nel settore privato. E, a causa della loro enorme grandezza, i famosi "toxic assets" non potevano essere ammortizzati interamente (salvo alcune operazioni cosmetiche fatte dalle banche). Secondo le parole dei guru finanziari, questo avrebbe causato la "fusione del nucleo" del sistema finanziario globale. Ai fini contabili delle banche è stato permesso loro di gettare a mare i rifiuti tossici. Ma nulla è stato detto a proposito della "banche cattive", che dovevano fare affidamento sulle garanzie statali per compensare temporaneamente il crollo del "sistema bancario ombra" dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La speranza ufficiale e l'aspettativa erano che le garanzie statali potessero rapidamente ripristinare la "fiducia" in modo che i titoli, a lungo senza valore, riuscissero ancora una volta a spuntare un prezzo decente. La condizione era che il settore immobiliare statunitense, dove era cominciata la crisi, si riprendesse con forza. Nulla da dire su questo. Ma le garanzie dello Stato non erano pagabili. Non potevano essere pagati, per il semplice motivo che questo avrebbe causato la "fusione del nucleo" nel bilancio statale. Perciò, dove sono andati a finire i rifiuti tossici del sistema finanziario? Sono finiti nella discarica finale: le banche centrali. Come tutti sanno, queste banche stanno attualmente inondando il mondo di dollari, euro, ecc., al fine di dare ossigeno ad un'economia mondiale clinicamente morta.

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Merkel-Sarkozy: contro l’Europa

Alfonso Gianni

Più che il classico topolino, il vertice dei due leader dei più forti paesi del continente ha prodotto un vero e proprio mostriciattolo. Non tragga in inganno l’accelerazione, soprattutto da parte francese, sulla introduzione della Tobin Tax, che peraltro fa già innervosire i mercati finanziari. Da un lato questa proposta è ormai stramatura anche in ambienti che nulla hanno a che spartire con una visione anche solo pallidamente progressista. La sortita di Warren Buffet a favore di una maggiorazione delle tassazioni sui ricchi e sulla ricchezza ne è un esempio, anche se proviene d’oltreoceano. Dall’altro lato nulla di concreto viene fatto, poiché tale idea verrebbe consegnata per la sua realizzazione nientemeno che nelle mani del presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy, più adatte a insabbiarla che a tradurla in pratica.

In ogni caso anche se la dichiarazione sulla Tobin volesse essere considerata come un mezzo passo in avanti, quelli più numerosi – e decisi – all’indietro ci riportano bruscamente alla realtà.

Intanto è stata ribadita con ancora maggiore forza la cosiddetta “regola d’oro”, ma sarebbe meglio dire “ferrea”, ossia l’obbligo per i paesi membri della Ue di inserire nelle loro carte costituzionali il pareggio di bilancio. Con il che verrebbe seppellita la possibilità di qualunque politica economica da parte degli stati che non volesse ridurre gli stessi a un puro ruolo ragionieristico.

Come si sa la norma è già presente nella Costituzione tedesca, che prevede dal 2016 un tetto al deficit strutturale federale pari allo 0,35% del Pil. Se non è pareggio poco ci manca. Mentre nessuna norma è prevista in tal senso nella Costituzione francese. Si pensa di farla approvare entro la fine dell’anno, ma per raggiungere la necessaria maggioranza qualificata dei due terzi a Sarkozy mancano ancora una quarantina di voti. La dichiarazione congiunta con la cancelleria tedesca va quindi letta soprattutto  in chiave di pressione sui resistenti francesi a muoversi in tale direzione. A ciò i due hanno aggiunto un ulteriore carico: intanto niente fondi Ue ai paesi poco virtuosi in termini di controllo del deficit.

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6 Agosto 2011: l’Italia rasa al suolo dalla BCE

di Carlo Bertani

Le porte sono aperte, e i servi rimpinzati si fanno beffe della loro consegna russando.
William Shakespeare – Macbeth – Atto II, Scena Seconda.

Questi giorni sonnacchiosi, d’Agosto, questa falsa Estate che già si tinge delle dolenti piogge autunnali, questi cieli bigi sul mare, le nuvole di vapore sui colli e sui monti, sembrano un messaggio degli Dei ai mortali: lascia il chiasso delle spiagge e dei ristoranti all’aperto, smettila d’osservare ostinatamente il dito e lascia spaziare l’occhio in cielo, perché questa è un’Estate di guerra. La Libia? Sì, anche, ma non è questa la grande guerra che è in atto: anzi, sono più d’una, almeno tre o quattro. Vediamole nell’ordine.

a) La guerra per il primato geostrategico nel Pianeta fra USA e Cina.

b) La guerra, interna all’Unione Europea, fra la BCE e la Commissione Europea.

c) L’eterna guerra fra John Maynard Keynes e Milton Friedman.

d) La (finta) guerra fra i nani e le ballerine italiane.


La guerra per il primato geostrategico nel Pianeta fra USA e Cina

La notizia del declassamento del debito USA, da AAA ad AA+ (con outlook negativo), è di portata storica, verrebbe quasi da dire “la notizia del secolo” ma siamo prudenti, poiché il secolo che avanza – almeno, secondo chi scrive – ne riserverà altre di ben diversa portata. In ogni modo, sarebbe come se al Soglio Pontificio fosse salito il cardinal Milingo, con Vasco Rossi al Quirinale e il mago Otelma ministro dell’Economia. Tutto ciò era inevitabile: anzi, il giudizio è stato ancor troppo bonario.

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Verso il default, questione di tempo

Guido Viale

Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci sarà alcune «crescita»: né in Italia (dove la manovra ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico), né in Europa, Germania compresa: che sconterà presto il disastro a cui sta condannando metà dei suoi partner commerciali. Meno che mai negli Stati Uniti; di conseguenza soffrirà anche l’economia cinese, dovesostituire la domanda estera con quella interna non è così facile. Nemmeno il Brasile se la passerà più molto bene, mentre l’economia giapponese è scomparsa dai radar.

In Italia, e in molti altri paesi senza «crescita», il pareggio di bilancio diventerà irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per colmare i deficit. Così gli interessi si accumulano, anno dopo anno, e il debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con essi il deficit. Anche se prescritto dalla Costituzione (con una norma che seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento) il pareggio di bilancio diventa una chimera.

Per anni i titoli di Stato avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori – cittadini che avevano un avanzo di reddito a disposizione – una specie di cassaforte dove mettere al sicuro il loro denaro.

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La spinta propulsiva del capitalismo è finita

Fenomenologia della crisi e del possibile passaggio

Rodolfo Ricci

L’affannosa discussione agostana sui turbinii delle borse mondiali intorno al vacillare dei debiti sovrani (cioè degli Stati in quanto istituzioni), di fronte al mercato globalizzato della finanza, è penosa.

Si approccia il problema, generalmente, come scarsa capacità degli Stati di assecondare la fiducia dei mercati, ovvero, per la condizione transitoria, degli investitori (che sono milioni di individui gestiti dai fondi di investimento riconducibili a poche mani), nella loro funzione di risparmiatori.

Dall’altra parte, abbiamo altri milioni di individui. Questa volta, nella funzione di produttori, che, a causa della crisi, restano disoccupati o, ove si tratti di imprenditori, rischiano di fallire miseramente.

Poi, vi sono i consumatori, sempre meno entusiasticamente predisposti all’acquisto, a causa del vizioso rapporto tra reddito disponibile e capacità di consumo, ovvero del potere di acquisto, ridotto ai minimi termini.
Risparmiatori, produttori, consumatori. Tutti in lotta l’uno contro l’altro.

Ma quegli individui, quelle persone, sono le stesse: di volta in volta inquadrati dall’obiettivo del risparmio, della produzione, del consumo. Una specie di santa trinità intristita dalla crisi.

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Grande Recessione? No, è Grande Contrazione

Kenneth Rogoff

Chi ha seguito questa crisi dalle origini, avrà avuto sicuramente modo di ritrovarsi davanti un articolo o ancor meglio un libro scritto da Kenneth Rogoff, , professore da Harvard e brillante economista, che ha trovato fino ad ora le giuste chiavi di lettura di questa crisi. Vi propongo questo suo ultimo scritto. Come sempre di ottima qualità e molto realistico. facciamo molta attenzione a distinguere recessione (un evento ciclico e “normale”) con contrazione (evento straordinario e raro). Purtroppo oggi possiamo dire che siamo non in recessione ma in contrazione. Come mai? La causa è proprio quella più evidente. L’esorbitante debito. Ma leggete qui e capirete. Articolo da leggere e da appendere al frigo, che vi propongo tradotto in italiano, vista l’importanza dell’argomento.  Buona lettura!

Perché tutti continuano a far riferimento alla recente chiamandola “La Grande ”? Dopotutto, questo termine è basato su una diagnosi sbagliata, e per questo pericolosa, circa i problemi che affliggono gli Stati Uniti ed altri paesi causando previsioni e policy erronee.
L’espressione “Grande dà l’impressione che l’economia stia assumendo il profilo di una tipica , anche se un po’ più severa – qualcosa come un’influenza molto brutta. Ecco perché, durante questo ribasso, gli esperti e gli analisti che hanno tentato di fare analogie con le precedenti recessioni americane post-belliche si sono sbagliati completamente. Inoltre, troppi policymaker si sono basati sulla convinzione che, alla fine dei conti, quella che osserviamo è solo una profonda che può essere domata facendo generosamente affidamento sugli strumenti di policy convenzionali, come un’adeguata politica fiscale o bailout massicci.
Tuttavia il vero problema è che l’economia mondiale si è eccessivamente indebitata, e non c’è alcuna via di scampo veloce senza un piano per trasferire ricchezza dai creditori ai debitori, tramite dei default o delle repressioni finanziarie o utilizzando l’inflazione. 

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Il default come contropotere alla speculazione finanziaria

Andrea Fumagalli

Nei commenti della maggior parte degli organi di stampa e nelle dichiarazione sia degli uomini politici che dei cosiddetti esperti, uno spettro (o meglio un incubo) si aggira per l’Europa. Non è lo spettro del comunismo, bensì l’incubo dei mercati finanziari.  Tutti sono in attesa del loro responso, forma di moderno oracolo, in grado di condizionare e incidere sulla vita di milioni di persone, di far cadere un governo, di imporre elezioni anticipate oppure la sottoscrizione di documenti e patti sociali altrimenti poco credibili tra firmatari altrettanto poco credibili.

Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reale: industrie, agricoltura, servizi. Tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.

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Default

La sospensione della democrazia e le ragioni dei mercati

Militant

L’Italia, non da oggi, è di fatto commissariata dalla BCE, sperando che non arrivi il turno del Fondo Monetario Internazionale. La politica in quanto tale non conta più nulla, ogni decisione economica (cioè le uniche decisioni che dettano l’indirizzo di un governo e marcano le differenze fra destra e sinistra) vengono prese direttamente dalla sede della Banca Centrale Europea, nonché dai famigerati mercati. Vediamone le conseguenze.

Quella che salta agli occhi più nettamente è che questa cosiddetta crisi finanziaria, o attacco speculativo all’Italia, ha di fatto sospeso la democrazia nel nostro paese, dopo averlo fatto con la Grecia, il Portogallo, l’Irlanda e la Spagna (più altre decine di stati “sovrani” in giro per il mondo nelle mani del FMI). I governi in carica non hanno la possibilità di decidere alcunché; proprio come negli anni belli delle dittature latinoamericane, chi decide quali politiche attuare sono alcune strutture economiche controllate dai fondi d’investimento, dalle grandi multinazionali e da alcune grandi banche. E’ in atto un colpo di stato contro la democrazia occidentale, che si sta sperimentando nei paesi più esposti per “sondare” il terreno. La politica, fino a prova contraria, è l’unico strumento che può realizzare lo sviluppo democratico di un territorio. Se la politica non influisce più, se gli si tolgono gli strumenti per governare, ci sono buoni motivi per avere paura. Proprio quella che dovremmo avere tutti noi in questo momento. Abbiamo gridato (giustamente) al fascismo di ritorno nel quale stavamo sprofondando, al neoliberismo che ci governava, a una democrazia svuotata di significato e contenuti. Ma non è niente rispetto a quello che potrebbe accadere se l’Italia accettasse gli aiuti internazionali.

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E se il modo di non pagare il debito in realta' ci fosse?

François Chesnais

L'economista francese François Chesnais argomenta la proposta di moratoria sul debito legandola al protagonismo dei movimenti sociali

Nella primavera del 2010 le grandi banche europee, in prima fila le banche francesi e tedesche, hanno convinto l'Unione Europea e la BCE che il rischio di insolvenza nel pagamento del debito pubblico della Grecia metteva in pericolo il loro bilancio. Le banche hanno richiesto di essere messe al riparo dalle conseguenze della loro stessa gestione.


Le grandi banche sono state aiutate nell'autunno 2008 al momento del fallimento della banca Lehman Brothers a New York, che ha portato al parossismo della crisi finanziaria. Sin dal giorno del loro salvataggio, esse non hanno purgato dai loro bilanci i titoli tossici. Hanno anzi continuato a fare investimenti ad alto rischio. Per alcune, il minimo rischio di insolvenza significherebbe il fallimento.

Nel maggio 2010, è stato concepito un piano di salvataggio, con un asse finanziario e un asse di bilancio pubblico, che prevedeva una drastica austerità e privatizzazioni accelerate, forte diminuzione delle spese sociali, diminuzione di tutte le remunerazioni dei funzionari e riduzione del loro numero, nuovi attacchi al sistema pensionistico - sia esso un sistema per capitalizzazione o per ripartizione. I primi paesi ad aver applicato questo piano, come la Grecia e il Portogallo, sono stati presi in una spirale infernale, di cui le classi popolari e i giovani sono stati le vittime immediate.

Questa spirale avvolge di mese in mese un numero sempre più importante di paesi in Europa occidentale e mediterranea, dopo che aveva devastato i paesi baltici e balcanici.

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la prospettiva

Convento povero, frati ricchi

Domenico Moro

Il crollo delle Borse, nonostante il raggiungimento dell’accordo sull’innalzamento del tetto del debito Usa, si è incaricato di confermare quanto avevamo scritto nei giorni scorsi sulla “bancarotta tecnica”, che per molti sembrava fosse il vero pericolo per l’economia Usa e mondiale. Il vero problema è invece, come si è visto, la mancata crescita. Anzi, ormai, si sta diffondendo la percezione che l’economia mondiale è sull’orlo di quello che si chiama in gergo economico “double deep”, un secondo crollo recessivo. Di certo, per ora, siamo alla stagnazione in tutti o quasi i paesi del centro economico mondiale, dagli Usa, alla Ue, al Giappone. Eppure, erano tutti ottimisti, da Obama a Berlusconi, sulla conclusione della crisi.

Però, la crisi iniziata nel 2007 non è una crisi congiunturale, né una crisi puramente finanziaria. In realtà, è una crisi che coinvolge in profondità il modo di produzione attuale, la divisione del lavoro e gli equilibri economici mondiali, i rapporti di lavoro e sindacali, addirittura le forme dello Stato “sociale” e della democrazia formale, per come l’abbiamo conosciuta dal secondo dopoguerra. Il debito pubblico è cresciuto prima come conseguenza dell’aumento del debito commerciale con l’estero nei Paesi più ricchi e, in definitiva, del rallentamento della crescita e del saggio di profitto e, poi, come conseguenza del tentativo di puntellare un sistema finanziario messo al tappeto dalla girandola dell’economia a credito, portata all’estremo nel tentativo di alimentare artificialmente economie che non vanno.

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La malattia del debito sta nella cura: le privatizzazioni

di Comidad

Alla fine della scorsa settimana, i giornali ci hanno informato del "turbamento" provato da Romano Prodi di fronte alla notizia che era stata la Deutsche Bank a dare il via al tracollo del debito pubblico italiano. La multinazionale finanziaria tedesca è stata infatti la prima a disfarsi dei titoli italiani in proprio possesso. (1)

Prodi non ha accennato al fatto che il suo amico e collega di governo, Giuliano Amato, ora senior advisor della Deutsche Bank, non si sia degnato di anticipargli personalmente la notizia. L'ex Presidente del Consiglio ha parlato invece di vocazione "suicida" dell'Europa e di fine di quella "solidarietà" europea che aveva caratterizzato i padri fondatori.

Prodi però dimentica che una volta a tenere a freno gli istinti criminali dei banchieri, e ad imporre la disciplina europea, c'era il confronto con la potenza militare ed ideologica dell'Unione Sovietica.

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I giganti della Terra verso il grande crash

di Mike Davis

Usa, Europa e Cina - i tre pilastri dell'economia globale - corrono come folli verso la crisi, sebbene da posizioni diverse. La collisione è imminente, e sarà letale

Secoli fa, a 14 o 15 anni, io e la mia vecchia banda bramavamo l'immortalità nel catorcio fumante di una brontolante Ford 40 o di una Chevy 57. Il nostro J.K. Rowling era Henry Felsen, l'ex-marine autore dei best-seller Hot Rod (1950), Street Rod (1953) e Crush Club (1958). Felsen era il nostro Omero dell'asfalto, che esaltando giovani eroi destinati alla morte ci invitava a emulare la loro leggenda. Uno dei suoi libri si conclude con uno scontro apocalittico presso un incrocio, che stermina l'intera classe di laureandi di una piccola città dello Stato dell'Iowa. Amavamo così tanto questo passaggio che eravamo soliti rileggerlo a voce alta l'un l'altro.

Difficile non pensare al grande Felsen, morto nel 1995, quando si sfogliano le pagine economiche di questi tempi.

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politicaecon

L'accordo europeo è un passo indietro

  Cari amici, troverete oggi due articoli. Un commento all'accordo europeo, alquanto negativo. La BCE è la vera vincitrice: essa si disinteressa definitivamente della crisi europea per concentrarsi nella caccia ai fantasmi inflazionistici. Al riguardo, con Lanfranco Turci inviammo al Sole-24 Ore un commento a un apprezzabile articolo di Guido Tabellini (lo trovate nel blog) che perorava, appunto, un ruolo attivo della BCE. Non è stato pubblicato, lo facciamo qui. Peccato per loro, ma nemo profeta in patria. Buona lettura.
Sergio


Il mondo sottosopra degli europei*

Sergio Cesaratto

Che giudizio dare dell’ennesimo accordo di “salvataggio della Grecia” stipulato giovedì 21 giugno dai paesi europei? I mercati hanno già dato il loro venerdì 22: i differenziali fra i tassi sui BTP italiani e quelli sui Bund tedeschi erano alla chiusura 258 punti (2,58%), un livello insostenibile per il paese.
 Il verdetto dei mercati sull’utilità della manovra “lacrime e sangue” approvata in un malsano clima di unità nazionale era stato parimenti negativo. Esaminiamo per sommi capi l’accordo.
 

1. I due punti principali sono: A) il coinvolgimento del settore privato nell’alleviare il carico debitorio della Grecia; B) l’estensione dei poteri del European Financial Stability Facility (EFSF) già creato nel 2010 con migliori condizioni dei prestiti per i tre piccoli periferici, Grecia, Irlanda e Portogallo    (GIP) e nuovi compiti.

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Capitalismo tossico

di Vladimiro Giacchè

Bertorello e Corradi contro i luoghi comuni

In questi giorni, in cui la crisi sembra riesplodere con la violenza dell'autunno 2008, è particolarmente importante possedere delle bussole per capire cosa accade. Anche oggi - come allora - la stampa e la pubblicistica dominanti ci parlano di "speculazione da imbrigliare". Ma mentre allora si "riscopriva" lo Stato, implorandolo di fare il bagnino e di riportare a riva le grandi imprese finanziarie (e non solo) che affogavano nei loro debiti, oggi la parola d'ordine è "disciplina di bilancio!". E sul banco degli accusati ci sono gli Stati, a causa dei debiti di cui si sono fatti carico. Il conto lo presentano proprio quei "mercati" che erano stati salvati. E gli Stati, contriti e ubbidienti, stanno girando la parcella ai lavoratori.

Per combattere contro questa ennesima beffa è importante capirne i meccanismi di fondo. Contro tutti i luoghi comuni. E' quanto fanno Marco Bertorello e Danilo Corradi nel loro Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi (Roma, Alegre, 2011, euro 16). Smontando la tesi, in fondo rassicurante, che contrappone una finanza "malata" ad un'economia reale "sana". Al contrario: è proprio "l'intreccio inestricabile tra finanza e produzione" ciò che caratterizza lo sviluppo economico degli ultimi trent'anni, che ha risolto a suo modo la crisi degli anni Settanta.

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Attacco Usa all'Europa

di Stefania Limiti

La soffiata di Tarpley: in una riunione del 2008 è stata decisa la crisi europea, per evitare che il biglietto verde crollasse. Gli sciacalli hanno puntato tutto sui Credit Default Swaps.
Abbiamo di nuovo scelto
Webster G. Tarpley per approfondire uno dei più temi urgenti di questi giorni, l'attacco speculativo all'euro e i suoi effetti su alcuni paesi, tra cui l'Italia. Tarpley, infatti, oltre ad essere un profondo conoscitore del sistema finanziario internazionale è, soprattutto, un osservatore di assoluta indipendenza e paladino delle battaglie contro tutte le oligarchie, come è possibile constatare dalle sue opere (tra le quali segnaliamo, per l'attinenza al tema, il recentissimo Obama dietro la maschera: golpismo mondiale sotto un fantoccio di Wall Street). Le sue sono caratteristiche essenziali, dunque, se si vuole scoprire dove siano le verità nascoste: per questo la prima domanda è diretta al cuore del problema:


1. Esiste un'intelligence che ha pensato e attuato il piano speculativo nei confronti dei paesi europei?


- Sì, questo era già chiaro dal febbraio 2010, quando il Wall Street Journal pubblicò un servizio su una cena cospiratoria (8 febbraio) tenuta nella sede di una piccola banca d'affari specializzata, la Monness Crespi and Hardt, alla quale parteciparono persone di grande influenza. In quell'occasione si cercavano strategie per evitare un'ondata di vendite di dollari da parte delle banche centrali ed il conseguente crollo del dollaro. L'unica maniera per rafforzare il biglietto verde passava attraverso un attacco all'euro le cui compravendite ammontavano circa a mille miliardi (one trillion) al ogni giorno: impossibile pensare ad un attacco frontale contro una moneta così forte. Quindi, gli sciacalli degli hedge funds di New York - fra cui anche certi protagonisti della distruzione di Lehman Brothers - hanno cercato i fianchi più deboli del sistema europeo e li hanno individuati nei mercati dei titoli di stato (government bonds) dei piccoli paesi del meridione europeo e comunque della periferia - Grecia e Portogallo - dove era possibile contare sulla complicità di politici dell'Internazionale Socialista al servizio della CIA e di Soros.

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Minacce di fallimento, disciplinamento sociale e indipendenza di classe

di  Maurizio Donato*

Che cosa possiamo imparare dagli attacchi speculativi al debito sovrano

La fase attuale del versante economico della guerra di classe si concretizza in una serie di attacchi speculativi al debito sovrano di diversi paesi dell’Europa mediterranea. Stavolta tocca all’Italia, boccone appetitoso, ma notoriamente ostico. In questo breve saggio vengono dapprima sintetizzati alcuni elementi di giudizio che possiamo ricavare dagli attacchi speculativi scatenati dall’area valutaria dollaro contro gli anelli più deboli dell’area euro, in seguito discussi alcuni temi che stanno alla base della crisi del debito sovrano, per concludere con alcune note sulla situazione italiana.

Nonostante tutte le rassicurazioni di facciata, la crisi economico-finanziaria del capitalismo manifestatasi nell’estate del 2008 sotto forma di crisi da debito privato non solo non è finita, ma è entrata nella sua fase più pericolosa e acuta, dopo che salvataggi per migliaia di miliardi di dollari l’hanno trasformata in crisi da debito pubblico, particolarmente evidente nell’area valutaria euro in cui diversi paesi di media importanza rischiano di entrare o sono già entrati in una inedita fase di fallimento non dichiarato.

La forma della crisi è finanziaria perché finanziaria è la forma prevalente del capitalismo contemporaneo, ma la sua sostanza e dunque le sue radici risiedono all’interno dei meccanismi di produzione, e più specificamente nella crisi di profittabilità che si esprime nella caduta tendenziale del saggio di profitto.

La crisi economica si manifesta contemporaneamente come crisi delle teorie e dell’ideologia che le accompagna, e questo vale sia per le sue varianti cosiddette “neo-liberiste” che per quelle “interventiste/keynesiane”. Semplicemente le stanno provando tutte, in democratica alternanza, e non ne funziona nessuna, dall’aumento della spesa pubblica alla sua riduzione, dai tassi di interesse portati a zero all’espansione monetaria senza limiti (quantitative easing).

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conflitti e strategie 2

Le virtù dello straniero

di Giuseppe G.

"I virtuosi tedeschi non hanno colpe”; così l’incipit di Alberto Alesina sul Corriere della Sera del 6 luglio. In sostanza il giornalista stigmatizza la crescente diffidenza ed ostilità degli altri paesi europei verso la Germania, colpevole, secondo i detrattori, di alimentare il proprio surplus commerciale, di approfittare del ribasso, si fa per dire, del valore dell’euro, di non alimentare la domanda incrementando il proprio deficit pubblico, di intransigenza verso la Grecia ed il Portogallo. In realtà, secondo Alesina, la Germania sarebbe un esempio di virtù in quanto, a parità di condizioni iniziali, dagli anni ’90 sino ai primissimi anni dell’euro, avrebbe riqualificato e ridimensionato la spesa pubblica, alleggerito il peso fiscale sulle imprese (appesantendolo però sulle persone fisiche), sviluppato la ricerca e soprattutto la formazione. “I veri colpevoli sono i paesi a rischio”, in pratica quelli dell’Europa mediterranea, sentenzia alla fine, per aver approfittato delle condizioni iniziali favorevoli, cioè i bassi tassi di interesse, solo per alimentare ulteriormente il debito pubblico, anche in maniera fraudolenta come apparso evidente in Grecia, con la manipolazione dei dati contabili. Una posizione di grande buon senso, la quale fonda sulla responsabilità operativa dei governi nazionali la stessa possibilità di superamento della crisi finanziaria. Una posizione apparentemente distante anni luce da quelle forze benpensanti le quali si sono fatte scudo dei vincoli e delle costrizioni europeiste per imporre le scelte scellerate degli anni ’90 così come hanno fatto dell’opinione pubblica internazionale, in pratica l’opinione costruita da giornali come l’Economist, Time ed altri, il parametro con cui giudicare e l’autorevolezza morale da cui trarre la linfa necessaria a combattere il berlusconismo.