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A che punto è la crisi?

di Rino Malinconico

A che punto è la crisi economica?

La domanda ha senso perché una crisi è sempre un percorso. E’ costituita di momenti diversi, pur dentro un'unica, più o meno lunga fase di difficoltà o di vera e propria recessione economica. D’altra parte, ogni crisi è anche un nuovo inizio, come suggerisce l'etimologia stessa (krìsis in greco vuol dire “scelta”, “decisione”, oltre che “separazione”). Si tratta, perciò, di una dinamica di disequilibrio e, contemporaneamente, di ricerca di nuovi equilibri. Ed è bene non sottovalutare questo carattere costituente della crisi, il fatto, cioè, che essa prelude e prepara un nuovo assetto delle relazioni capitalistiche, tanto all'interno dei singoli sistemi-paese quanto a livello delle più complessive relazioni tra i diversi Stati nazionali.

Ovviamente coloro che pensano di essere alla vigilia del vero e proprio crollo del sistema capitalistico non hanno affatto bisogno di interrogarsi sul decorso della crisi, tantomeno sul suo andamento costituente. Se si stabilisce in maniera apodittica che siamo di fronte a un'agonia, l'unica trasformazione possibile diventa il passaggio dall'agonia alla morte. E però, un tale convincimento a me pare non solo immotivato nei suoi termini teorici, ma anche linearmente contraddetto da quanto avviene in vaste aree del mondo, dalla Cina al Brasile all'India, che presentano ancora consistenti trend di crescita, capitalistica appunto, e sono soltanto marginalmente sfiorati dalla crisi economica, la quale si incentra tutta, invece, tra le due sponde dell’Atlantico. Lo stesso Giappone, pur drammaticamente colpito dal disastro nucleare dei mesi scorsi, e penalizzato nelle esportazione da uno yen troppo forte, mantiene un trend economico più che accettabile, tanto che la borsa di Tokyo ha già sostanzialmente recuperato rispetto alla caduta del 2008.

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La Cina può salvare il capitalismo?*

Sander

In tutto il mondo, gli stati capitalistici adottano delle misure d'austerità per rallentare la crescita del debito pubblico. Ma dal momento che frena il consumo, questa politica non è  in grado di sostenere la crescita necessaria all'accumulazione del capitale.

Da dove può venire allora lo stimolo per mantenere la macchina in funzione? Per mancanza di alternative, lo sguardo si volge verso l’est. Sembra infatti che la storia - suprema ironia - abbia scelto la Cina "comunista" per il ruolo di salvatore del capitalismo mondiale.

Quale crisi?

PI (Perspective Internationaliste)  individua nella crisi attuale non solamente un evento ciclico nel processo d’accumulazione del capitale ma la manifestazione dell’obsolescenza delle fondamenta stesse del modo di produzione capitalistico, cioè a dire, della forma valore. La quale costringe il capitalista a misurare la ricchezza in termini di lavoro astratto quando, invece, la creazione di ricchezza reale dipende sempre meno dalla quantità di tempo di lavoro fornito, e sempre più dalle applicazioni produttive della conoscenza.

La previsione di Marx (nei 'Grundrisse'), che individuava in questa contraddizione fondamentale i limiti storici del capitalismo, trova oggi la sua piena realizzazione. Fondare sulla legge del valore le decisioni su cosa, come, quanto, dove e per chi produrre è diventato assurdo. Questa assurdità si manifesta nella coesistenza di una sovrapproduzione diffusa e di un’estrema povertà, nell’incapacità crescente del capitale di sfruttare l'aumento della forza lavoro disponibile –il cui effetto è la rapida espulsione di manodopera dalla produzione- mentre il denaro ricerca una sicurezza illusoria nelle bolle finanziarie.

Questa assurdità si manifesta negli sforzi fatti per imporre una carenza artificiale di beni che sarebbero altrimenti abbondanti e privi di valore (come i beni informatici). Nell'incapacità del Capitale di porre fine alla distruzione dell'ambiente, pur sapendo che le conseguenze disastrose sono sempre più minacciose.

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Scenari possibili dopo la crisi globale1

Domenico Mario Nuti2

1. La nuova crisi globale: déjà vu

La crisi globale iniziata nell'estate 2007 è senza dubbio “la più seria crisi finanziaria che abbiamo visto dagli anni „trenta in poi, se non da sempre” (Merving King, Governatore della Banca d‟Inghilterra, Sunday Times, 9/10/2011). E non solo questa crisi non è ancora finita. Non solo si sono verificate e ci si attendono ancora, dopo timidi parziali inizi di ripresa, nuove ricadute o “double dips”, soprattutto nella zona dell‟euro nel primo semestre del 2012 (compresa l'Italia al -0,5% per tutto l‟anno, secondo le previsioni dell‟OCSE di novembre 2011 (OECD, 2011a), o al - 1,6% secondo la Confindustria; come del resto la Grecia e il Portogallo rispettivamente al -3% e al -3,2%). Quel che è peggio è che alla fine del 2011 il ciclo economico del 2007-20?? si trova in esattamente la stessa, identica posizione dell‟estate 2007, con le stesso tipo di forze all‟opera e lo stesso meccanismo malefico innescato di nuovo, ma su una scala maggiore e in una forma molto più grave.

Infatti la crisi globale corrente iniziava nell‟agosto 2007 come crisi bancaria negli Stati Uniti, in seguito all‟accumulazione nei bilanci delle banche di titoli “tossici” che incorporavano prestiti immobiliari a mutuatari resi insolventi dalla loro disoccupazione, dall‟aumento dei tassi di interesse e dallo scoppio della bolla immobiliare. L'espansione di questi mutui, nonché di mutui al consumo tramite altri prestiti e carte di credito, era stata facilitata dalla de-regolamentazione finanziaria: ad esempio, l'abolizione nel 1980 della "Regulation Q che proibiva alle banche di pagare interessi sui depositi a vista, e nel 1999 della legge Glass-Steagall, che prima separava le attività di credito al dettaglio e di investimento delle banche. Più in generale questi sviluppi erano incoraggiati dal predominio dell‟ideologia iper-liberale che dagli anni novanta si diffondeva negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell‟economia globale.

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Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro

di Guglielmo Carchedi


Data la rapida sequenza degli avvenimenti, questo articolo sarà regolarmente aggiornato

Aggiornato all’11 Gennaio 2012


I.
Una delle caratteristiche della crisi finanziaria scoppiata nel 2007 - e ancora irrisolta - è il suo intreccio con la crisi dell’euro. In sintesi, la tesi di questo articolo è che la crisi dell’euro è la manifestazione nella eurozona della crisi dei derivati. Questa, a sua volta, affonda le sue radici nella caduta secolare del tasso medio di profitto nei settori produttivi degli USA. Questa tesi è stata sviluppata in Dietro e Oltre la Crisi.1 Questo articolo prosegue su quella linea di indagine. A tal fine, sarà necessario riprodurre alcuni argomenti già presentati in Dietro e Oltre la Crisi, ma solo quelli strettamente necessari e in versione accorciata.

Consideriamo, per incominciare, i settori che producono beni materiali negli USA che per approssimazione possono essere considerati come rappresentanti di tutti i settori produttivi.

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Cinque domande sulla crisi

a cura di Sandro Mezzadra e Toni Negri

L’approfondimento della crisi, con le sue devastanti conseguenze sociali, continua a spiazzare consolidati paradigmi interpretativi. Ne risultano non soltanto la bancarotta della scienza economica mainstream, ma anche inedite sfide per quanti hanno continuato in questi anni a praticare in forme originali la critica dell’economia politica. In questione, sempre più chiaramente, ci sembra essere proprio il rapporto tra le categorie economiche e le categorie politiche. Per aprire la discussione all’interno del sito di UniNomade abbiamo rivolto cinque domande ad Andrea Fumagalli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone. Presentiamo di seguito le risposte di Andrea e di Christian, in forma di dialogo. Carlo ha svolto alcune riflessioni sull’insieme dei temi da noi proposti: le si possono leggere in conclusione.

 

Pensate che davvero i mercati non abbiano una leadership latente, qualcuno che suggerisca le operazioni da fare? Questo fuori da ogni teoria del complotto, ma semplicemente dentro l’analisi di ogni meccanismo di decisione, che prevede momenti di unificazione cosciente e non semplicemente condensazioni di spontaneità. 

Andrea Fumagalli: le grandi società finanziarie hanno un comportamento che possiamo definire da oligopolio collusivo. Il loro scopo è fare plusvalenze. In questa fase, le plusvalenze più elevate sono ricavabili dallo scambio dei derivati Cds, in particolare quelli relativi al rischio di default privato e pubblico. La natura collusiva dell’oligopolio finanziario viene garantita dall’intermediazione svolta dalle società di rating. A partire dalla crisi dei sub-prime (fine 2007), si è assistito ad un ulteriore processo di concentrazione nei mercati finanziari. Ecco alcuni dati.

Se il Pil del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi.

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Regalo di Natale

I derivati sui titoli di stato come arma di distruzione di massa

Antonio Pagliarone

Il 21 dicembre il Governatore della BCE Mario Draghi ha confezionato un bel pacco dono di 489 miliardi di euro, garantiti dallo stato, destinati a 523 banche europee in difficoltà corredandolo con lustrini dorati da un tasso di interesse dell’1% per tre anni. Si è finalmente realizzato il sogno di quei keynesiani del nuovo millennio che chiedevano a gran voce l’intervento della BCE perchè acquistasse quei titoli di stato divenuti tossici, veri e propri virus che hanno impestato il sistema. In realtà il regalo natalizio di Draghi assomiglia moltissimo al famoso intervento della Fed americana che si è accollata i titoli tossici legati ai mutui subprime per 1,45 trilioni di dollari senza essere riuscita tutt’oggi a smaltire questa montagna di sterco. Invece di farlo direttamente, la BCE ha però messo le sue succursali nelle condizioni di operare una sorta di quantitative easing (creazione di moneta) per dare una boccata di ossigeno al sistema finanziario europeo, rinviando - solo di qualche mese - l’inevitabile crash che investirà tutta l’eurozona. Gli ingenui keynesiani si illudono che tali immissioni di “liquidità” possano spingere gli istituti bancari a rilanciare il credito alle industrie ed ai privati affinché possa essere riavviata una nuova fase di crescita dell’economia reale e dei consumi. Ma sono stati presto delusi. Infatti nel 2012 le banche dovranno rifinanziare poco più di 800 miliardi di debiti mentre i governi 1700 miliardi e allo stesso tempo dovranno sostenere le banche stesse. Le banche acquistano titoli di stato finanziando i governi e questi a loro volta devono finanziare le banche. E’ un cul de sac dal quale non se ne esce.

Se una banca dovesse acquistare con i nuovi fondi BCE dei titoli di stato a dieci anni al 7% con danaro prestato all’1 % di interesse ne ricaverebbe un utile del 6% ossia una sorta di carry-trade[1], come afferma Mike Whitney, un sussidio diretto della BCE con la speranza che le banche acquistino direttamente i titoli spazzatura dei PIGS (Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, i paesi a rischio default).

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Capitalismo 2011: decomposizione in atto

Antonio Carlo  

1) L’economia mondiale. Ripresa inesistente, disoccupazione elevatissima, debito che esplode, disuguaglianze crescenti ed insostenibili. 2) Gli USA. Economia ferma, consumi ed occupazione al palo, deficit e debito “monstre”, costi dell’impero insopportabili. 3) Europa ed euro: un tramonto grottesco. 4) Italia. Sempre più a fondo tra dramma e ridicolo. 5) Oriente. La Cina, declino irreversibile. Giappone un paese senza prospettive. 6) L’economia crolla e la società esplode. Bilancio delle lotte nel 2011. 7) Segue. Internet e le lotti sociali. Una svolta epocale. Il declino della infrangibilità burocratica e della “folla solitaria”. Tootle va in pensione. 

1) L’economia mondiale. Ripresa inesistente. Disoccupazione elevatissima, debito che esplode, disuguaglianze crescenti ed insostenibili.


A) Il PIL, il debito sovrano e la crisi bancaria.

Nel 2010 il PIL è rimbalzato del 5,2% a livello mondiale contro precedenti previsioni (o stime) del 4,8%, nel 2011 si prevedeva un incremento del 4,4%, poi calato al 4% ed a fine anno l’OCSE ci fa sapere che siamo al 3,9%.

In realtà, però, le cose stanno decisamente peggio di quanto appaia da questo dato, perché ormai crescono solo i paesi sottosviluppati che, in genere, producono scarti di bassa qualità, spesso falsi dozzinali dei beni prodotti nelle aree avanzate1 .

Nelle aree avanzate, dove si concentra il grosso della ricchezza e delle capacità scientifico-tecnologiche del pianeta si è ormai vicini ad un ristagno che è una recessione mascherata2 . La prima delusione arriva dagli USA dove il PIL nel primo trimestre del 2011 cresce solo dell’1,8%, molto meno del previsto, epperò il dato riveduto crolla allo 0,4%, nel secondo trimestre + 1,3% corretto poi all’1%. Ma gli USA non sono isolati, la tabella che segue (fonte FMI) illustra bene la tendenza per il 2011 su base trimestrale3

 

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"Il mondo è già entrato nella seconda fase della crisi"

Armando Boito Jr. intervista Gérard Duménil

L'economista francese Gérard Duménil è autore di vari testi e saggi sul capitalismo contemporaneo. Quest'anno ha pubblicato, in collaborazione con Dominique Lévy, il libro “The crisis of neoliberalism” (Harvard University Press, 2011). Dumenil ha tenuto all'Unicamp una conferenza sulla crisi attuale nel Centro di Studi Marxisti (Cemarx) nell’ambito del programma post-laurea di scienze politiche dell'Istituto di Filosofia e Scienze Umane (IFCH) dell'Unicamp. In questa occasione, ha concesso un'intervista al politologo Armando Boito Júnior, professore titolare dell'IFCH.

Jornal da Unicamp - Lei sta analizzando il capitalismo neoliberista da molto tempo. Nella sua analisi, come si caratterizza la fase attuale del capitalismo?

Gérard Duménil - Il neoliberismo è la nuova tappa in cui è entrato il capitalismo dopo la transizione degli anni ‘70 e ‘80. Con Dominique Lévy parliamo di un nuovo "ordine sociale". Con questa espressione designiamo la nuova configurazione dei poteri tra le classi sociali, delle dominazioni e delle difficoltà incontrate. Il neoliberismo si caratterizza con il rafforzamento del potere delle classi capitaliste in alleanza con la classe dei dirigenti (quadri), in modo particolare quelli che sono in cima alla gerarchia sociale e nel settore finanziario.

Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le classi capitaliste videro diminuire il proprio potere e i propri redditi nella maggioranza dei paesi. Semplificando, potremmo parlare dell'esistenza di un ordine "socialdemocratico" durante questo periodo.

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utopiarossa2

Le lezioni della crisi*

di Michele Nobile

Lezione 1.

Nell’autunno 2008 molti commentatori e politici di sinistra annunziarono la fine del cosiddetto neoliberismo. Si facevano così due errori, tra loro connessi. Il primo errore concerneva proprio la caratterizzazione dell’epoca, la stessa nozione di neoliberismo. Il secondo errore concerneva il rapporto tra crisi economica, sbocchi politici e radicalizzazione sociale.

Ora siamo nella fase in cui governi e padronato intendono effettivamente far pagare alla classe dei salariati i costi della crisi capitalistica e del salvataggio delle banche private. Con l’eccezione parziale della Grecia, questo accade senza che al momento si profili una risposta delle classi dominate europee all’altezza dell’attacco che ad esse viene portato.

La prima lezione è che non esiste alcun nesso meccanico tra crisi, anche crisi grave, e fuoriuscita dalla cosiddetta globalizzazione neoliberista; e non esiste neanche nessun nesso meccanico tra crisi e rilancio della lotta di classe.


Bisogna chiedersi perché.


Lezione 2.

La risposta alla prima questione è che la nozione di globalizzazione neoliberista è analiticamente errata e politicamente fuorviante. Non è vero che i poteri d’intervento economico degli Stati dei paesi a capitalismo avanzato siano in via d’obsolescenza o di drastico ridimensionamento. Gli Stati capitalistici hanno effettivamente dei limiti d’azione: ma non è vero che essi siano impotenti di fronte alla cosiddetta globalizzazione dei mercati finanziari e delle merci, o che ne siano vittime.

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La bolla dell’insubordinazione

Christian Marazzi

La crisi del capitalismo finanziario che si è imposto negli ultimi trent’anni è speculare alla crisi del rapporto tra capitale e lavoro che ha siglato la fine del regime fordista d’accumulazione e la transizione verso un capitalismo caratterizzato dalla centralità della rendita rispetto alle variabili «reali» dell’economia, ossia salario, prezzo e profitto. La finanziarizzazione dell’economia prende avvio negli anni Settanta con la deregolamentazione dei mercati dei cambi che ha fatto seguito alla rottura degli accordi di Bretton Woods, si sviluppa con la deregolamentazione dei mercati finanziari con la nascita dei mercati obbligazionari ai quali gli Stati si rivolgono per finanziare i propri debiti pubblici, si espande ulteriormente alla fine degli anni Ottanta con lo sviluppo dei mercati dei prodotti derivati e, dalla metà degli anni Novanta a oggi, con la globalizzazione dei mercati monetari e finanziari. «Ma l’elemento più impressionante – scrive François Morin nel suo Un mondo senza Wall Street? – è senza alcun dubbio la rapidità con la quale i mercati di copertura si sono sviluppati. Nel 1987, sui mercati delle opzioni e dei futures il volume degli scambi era pari a 1,7 teradollari (T$), mentre alla fine 2009 aveva raggiunto i 426,7 T$. Se si eccettuano i Cds che sono passati da 0,9 T$ nel 2001 a 62,1 T$ nel 2007, prima di calare di nuovo a 30,4 T$ nel 2009, questa folgorante espansione non è stata arrestata dalla crisi». La creazione di liquidità, in altre parole, è praticamente illimitata e lubrifica una finanza di mercato in cui i rischi legati ai più diversi prodotti finanziari sono tra loro tutti correlati, dando origine a processi contagiosi che alimentano una bolla dopo l’altra, dalla bolla internet a quella dei subprime alla bolla dei debiti sovrani. È infatti nella natura stessa dei mercati finanziari il fatto di essere intrinsecamente instabili, soggetti cioè a processi autoreferenziali, tali per cui l’aumento del prezzo di un attivo finanziario non provoca la riduzione della sua domanda, bensì l’opposto, ossia un ulteriore aumento della domanda, facilitato dall’accesso al credito.

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Stato del debito etica della colpa

Ida Domimijanni intervista Christian Marazzi

La missione impossibile del salvataggio dell'euro, la frana della de-europeizzazione, il cataclisma geopolitico che ne può derivare. Ma con l'austerità non si esce dalla crisi, si produce recessione e depressione. Intervista a Christian Marazzi sulla penitenza dopo l'abbuffata neoliberale e sull'antidoto del comune

Economista, docente alla Scuola universitaria della Svizzera italiana e, in passato, a Padova, New York e Ginevra, militante e intellettuale di riferimento dei movimenti della sinistra radicale, Christian Marazzi è uno degli analisti più lucidi della crisi economico-finanziaria in corso. Fra i primi a diagnosticarne il carattere storico e l'impatto globale, già nel 2009, quando la crisi impazzava negli Usa, aveva previsto l'inevitabile coinvolgimento dell'eurozona. Fine analista della finanziarizzazione come modus operandi del biocapitalismo postfordista, non crede nella possibilità di uscire dalla crisi o di contenerne le contraddizioni attraverso le politiche del rigore. Partiamo dal salvataggio dell'euro per ragionare di quello che ci attende.


L'andamento della crisi ha dato ragione alle tue analisi. Nel giro di due anni l'epicentro si è spostato dagli Stati uniti all'Europa, e nel giro di poche settimane siamo passati dal rischio di default di alcuni paesi, Italia compresa, al rischio del crollo dell'intera eurozona, che equivale al crollo dell'Unione per come è stata fin qui (malamente) realizzata. Secondo te come può evolvere la situazione?

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Un Audit sul debito

Guido Viale

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell'ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan). Il liberismo ha di fatto esonerato dall'onere del pensiero e dell'azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, "i mercati"; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un'attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell'auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un'inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell'Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai "mercati" ha significato la rinuncia a un'idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra - quella "vera", come la vorrebbero quelli di sinistra - è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy.

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Monti non è il meno peggio

E' l'ultimo rantolo prima del Ballo di San Vito

di Giulietto Chiesa

Il punto di partenza di questo ragionamento è una constatazione: nel 2007 è sopravvenuto il crollo repentino del sistema finanziario mondiale (sarebbe più preciso dire del sistema finanziario occidentale, perché la Cina e altri paesi del mondo emergente sono rimasti per ora fuori dalla catastrofe, per diversi motivi che non è possibile qui approfondire).  Alla fine del 2007, in sostanza, tutte le grandi banche d’investimento, e affini, che rappresentano il vero potere mondiale al momento attuale - di gran lunga più potenti di quasi tutti i più forti paesi dell’occidente, e indifferenti al destino di questi ultimi - sono andate in fallimento.

La prima cosa da rilevare – ed è molto importante sottolinearlo – è che la finanza mondiale è crollata per cause interne, endogene. Non ha subito minacce da un qualche “esterno” ostile. È affondata da sola. Il che si può anche esprimere in termini economici, con la formula di “crisi sistemica”. Perfino il presidente della Commissione Europea, Manuel Barroso, ha usato recentemente questa definizione. Che significa che una semplice cura (cura da crisi ciclica, cura da crisi di sovrapproduzione, etc.) non basterà per risollevarne le sorti. Anzi, si può dire, al contrario, che è ormai impossibile salvare il sistema, che si è rotto irrimediabilmente perché ha in sé la causa della sua fine.

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I “salvataggi” che non ci salveranno

di Alberto Bagnai

Intervenendo su lavoce.info prima della manovra di luglio prevedevo che essa difficilmente avrebbe placato i mercati. La previsione si è avverata e i motivi che ne hanno determinato il successo sono gli stessi che determineranno, purtroppo, l’insuccesso delle attuali strategie di salvataggio della zona euro.


Lo squilibrio strutturale

Si parla solo di debiti “sovrani”, ma la scansione dei fatti mostra che la crisi dei PIGS nasce dall’accumulazione di debito privato verso creditori esteri. Dal 2000 al 2007 nei PIGS è cresciuto il debito estero (in Grecia, Portogallo e Spagna per circa 60 punti di Pil; Fig. 1), ma il debito pubblico era stazionario (come in Grecia) o in calo (Spagna, Irlanda, Italia). Il debito estero era quindi essenzialmente privato (questo è chiaro ad esempio a De Grauwe). Certo, il debito “nato” privato è poi “morto” pubblico: dal 2008 la perdita di credibilità dei PIGS chiude il rubinetto dei capitali esteri e i salvataggi pubblici della finanza privata fanno esplodere l’indebitamento pubblico. Ma se non si ricorda che il problema è il debito privato, non si capisce perché le manovre non hanno risolto nulla e perché i “salvataggi” autunnali si avviano sulla stessa strada.

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Truffati e truffatori

di Anonimo

Non solo il debito non lo paghiamo, ma rivogliamo indietro i nostri soldi!

“Noi il debito non lo paghiamo!”

“Come: ti hanno prestato dei soldi e adesso non li vuoi restituire?”

Detta così sembra che in torto ci siamo noi.

Invece questa della “crisi del debito” non è altro che l’epilogo di una serie di truffe che si sono sommate tra loro, dove i protagonisti sono sempre gli stessi e di cui viene chiesto a noi adesso di saldare il conto.

La prima truffa è stata fatta nel 2001 ed è continuata fino al 2009 e riguarda la Grecia.

Per poter entrare nell’Euro nel 2001 la Grecia, visto che non era in regola con nessuno dei parametri previsti dal trattato di Maastricht, si è rivolta a due banche d’affari, la Goldman Sachs e la JP Morgan Chase che le hanno suggerito come fare.

La truffa consisteva nel falsificare i bilanci pubblici utilizzando alcuni strumenti finanziari che si chiamano derivati. In particolare si trattava, attraverso l’uso dei Cross Currency Swap, di ristrutturare il debito pubblico del settore sanitario, convertendolo prima in Dollari, poi in Yen e quindi in Euro ad un tasso di cambio particolarmente favorevole per le casse elleniche.

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Insostenibilità del debito*

Intervista a Luca Fantacci**

Professore, che cosa sta succedendo da qualche settimana nelle borse?

Niente, è proprio questo è il problema. Non c’è un solo fatto nuovo che giustifichi il terremoto finanziario delle scorse settimane: dalle difficoltà di Obama con il Congresso alle fragilità fiscali dell’Europa, tutto era già presente e noto. Perfino il downgrading degli USA era già stato più volte preannunciato. Per non parlare dei debiti pubblici, che hanno potuto crescere per anni senza preoccupare nessuno. Davvero, non è successo niente di nuovo e sconvolgente.


Nulla di cui preoccuparsi, dunque?


Tutt’altro. E’ proprio questo terremoto in assenza di novità il dato su cui è opportuno riflettere: se oggi senza motivo i mercati finanziari tremano, vuol dire che fino a ieri erano spavaldi, ugualmente senza motivo. Niente giustificava i guadagni di ieri, così come niente può spiegare le perdite di oggi o i recuperi di domani. I mercati finanziari dimostrano di avere sempre meno un criterio attendibile per distinguere fra quando va bene e quando va male, fra chi va bene e chi va male.


Una finanza che vive in un mondo che ha poco a che fare con la realtà?


Non mi riferisco a una semplice scollatura tra finanza ed economia reale. E’ perfettamente legittimo, e anzi necessario, che il valore di borsa di un’azienda possa discostarsi temporaneamente dall’andamento corrente dei suoi affari. Perché la borsa, per sua natura, guarda avanti: guarda ai profitti futuri, non a quelli attuali; esprime aspettative e può sbagliarsi. Ma, affinché questo gioco di scommesse abbia un senso, bisogna che almeno due condizioni siano rispettate. Primo, occorre che a un certo momento una linea sia tracciata e i conti siano fatti. Bisogna che finisca la gara, in modo che si veda chi ha scommesso sul cavallo vincente.

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Gli scenari politici internazionali della crisi sistemica*

di Piero Pagliani

1. Capitale e Potere: l’origine della crisi

1. Poche settimane or sono, in pieno attacco all’euro, “La Repubblica” mentre da una parte terrorizzava i suoi lettori parlando della caduta nell’abisso delle borse e persino dell’oro, dall’altra li invitava surrettiziamente ad investire in titoli a lungo termine del debito pubblico della Germania e degli Stati Uniti, ultimi rifugi al riparo dalla bufera planetaria.

Ma come? D’accordo la Germania, ma gli Stati Uniti? Il Paese più indebitato del mondo da che mondo è mondo?

D’acchito la perplessità è d’obbligo. Eppure, per lo meno sul breve periodo (ma difficilmente sul medio e a maggior ragione sul lungo - e qui sta una parte del trucco degli imbonitori) i titoli di debito pubblico di questi Paesi potrebbero veramente essere un affare sicuro.

Fino a quando?

Fino a quando regge la credibilità degli Stati Uniti come superpotenza dominante sul piano militare, politico e diplomatico mondiale, anche se non sul piano economico, dato che è dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso che gli USA hanno perso questo primato (o, come si diceva una volta, non sono più l’opificio del mondo). I Paesi dominanti sul piano economico devono allora essere “contenuti” o associati all’impero come viceré sub dominanti, come nel caso, per l’appunto, della Germania.

Questa frattura tra il dominio economico e il dominio politico-militare è poco comprensibile se ci si attiene alla divisione meccanica struttura-sovrastruttura. E’ molto più comprensibile se invece si assume l’ottica leninista dell’analisi dell’intreccio tra le contraddizioni sociali e quelle intercapitalistiche.

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Fuori dall'euro! Fuori dal debito!

Riportiamo alcuni degli interventi effettuati al Convegno di Chianciano del 22/23 ottobre 2011 dal titolo "Fuori dall'euro! Fuori dal debito!"

Sergio Cesaratto Interessi nazionali e sovranità monetaria. Spazi per un’uscita progressista dalla crisi europea

https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=A1V-SmLTcv4


Alberto Bagnai
– Euro: uscirne è di destra? Perché, entrarci è stato di sinistra?

https://www.youtube.com/watch?feature=player_detailpage&v=XKFs6P_RyGo

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L’Europa di fronte alla “Grande contrazione”

di Alfonso Gianni *

No, non se ne esce. Anzi, la crisi si aggrava. Probabilmente la definizione coniata da Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart - “grande contrazione”, la più grande dopo quella del ’29 - è la più esatta perché unisce la recessione dei settori produttivi alla crisi devastante del settore immobiliare, finanziario e bancario, nonché ad una diminuzione non recuperabile - perlomeno non dagli automatismi del sistema - dell’occupazione. Non aveva senso suddividere i tempi della crisi in due fasi, quasi vi fosse stata quella generata dall’esplosione della bolla dei subprime (2007-2009), “superata” la quale si sarebbe abbattuta sul mondo quella del debito pubblico.

Era una lettura “ideologica” della crisi, tesa a occultarne le cause di fondo che risiedono nel meccanismo di sviluppo capitalistico, nella forzatura del sistema del credito per fare fronte alla sovrapproduzione e al sottoconsumo di merci, e a minimizzarne durata e gravità. Invece questa crisi durerà forse più dei sette biblici anni, 2007-2013, che già i migliori analisti avevano preventivato un po’ di tempo fa ed è destinata a segnare indelebilmente la vita di almeno una intera generazione.


Se l’America piange…

E’ quello che in sostanza ci ripetono persone tra loro molto diverse e animate da intenti a volte persino distanti. Nel tradizionale incontro di fine agosto a Jackson Hole il governatore della Federal Reserve ha spiegato che l’economia americana ristagna. In effetti la crescita del Pil americano è stata rivista al ribasso, da +1,3% a +1,1%, e quindi ogni attesa è riposta sugli andamenti del secondo trimestre. Ma c’è da stare poco allegri, visto che lo stesso Bernanke ci avverte che l’occupazione continuerà in ogni caso ad essere in forte sofferenza, poiché l’economia statunitense sta conoscendo «un livello straordinariamente elevato di disoccupazione di lunga durata», cioè superiore a sei mesi, secondo la metodologia statistica applicata in quel Paese.

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Fuori dal debito, fuori dall’euro o fuori dall’Unione europea?

A proposito di un articolo di Vladimiro Giacché

di Stefano D’Andrea

Vladimiro Giacché ha scritto un articolo nel quale, in diciassette brevi paragrafetti, ricostruisce in modo persuasivo l’itinerario della crisi economica, considerata esattamente come un complesso di fenomeni causalmente collegati, iniziati nel 2007 (1).

Giunto alla situazione italiana attuale, alla quale dedica il diciottesimo paragrafetto, Giacché si sofferma sulle conseguenze che avrebbero le politiche di austerità: “Se prevarranno i pasdaran del pareggio di bilancio e della riduzione del debito a ogni costo, che hanno nella Bce il loro principale punto di riferimento e nelle sue ricette neoliberiste e reazionarie (pedissequamente eseguite dal governo Berlusconi) il più clamoroso esempio recente, il destino dell’economia italiana è segnato: nessuna crescita sarà possibile e quindi – precisamente per questo – il default sarà garantito”.

Tuttavia, continua l’autore, “l’alternativa non può essere rappresentata dalla parola d’ordine del ripudio del debito che qualcuno agita a sinistra. E non può esserlo per diversi motivi: a) Perché il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dalla popolazione italiana e in particolare da lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a vedere proprio nei titoli di Stato il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi: in altre parole non si può, per il solo fatto che lo si desidera, dare al concetto di default selettivo (che significa semplicemente “non pagamento di alcune emissioni di debito e non di altre”) un significato diverso e più gradito (onorare il debito rispetto ad alcune classi di creditori e non ad altre); b) Perché ogni default costringe a un avanzo primario che non ha nulla da invidiare a quello richiesto dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio, e questo per il semplice motivo che dopo di esso i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare il deficit italiano per diversi anni; c) Perché un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione, tra i cui effetti più immediati ci sarebbe una notevole deflazione salariale, nella forma di un crollo del potere d’acquisto dei lavoratori”.

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essere comunisti

20 tesi sulla crisi

di Vladimiro Giacché

1. La crisi attuale non è altra cosa rispetto a quella iniziata nel 2007-2008. La crisi è la stessa: semplicemente, non ne siamo mai usciti. Il modello che allora è andato in frantumi, quello della crescita a debito, dell’espansione economica drogata dal credito e dalla finanza, è ancora in pezzi. In questi anni si è tentato di farlo ripartire, ma inutilmente. Per capire la fase della crisi che stiamo vivendo oggi, è necessario ricapitolarne le tappe precedenti.


2. La violenza della crisi
manifestatasi a partire dal 2007 nasce dalla profondità delle sue radici. Essa infatti

- nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni), ma
- nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.
- nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971 non è legata ad alcun sottostante).
 


3. La crisi scoppia
a causa del collasso del modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni.

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marx xxi

Le cause del debito europeo e il che fare

Domenico Moro

1. Un passaggio di fase storica

La crisi del debito sovrano europeo sta determinando una guerra non guerreggiata tra Stati, tra aree valutarie, soprattutto una guerra di classe. Oggetto di questa guerra sono i lavoratori, che subiscono un attacco senza precedenti al salario e al welfare, con possibili ripercussioni sui livelli di democrazia. I governi adottano politiche restrittive nel tentativo di ridurre il debito con l’effetto di ridurre la crescita e aumentare il peso percentuale del debito sul Pil. Praticamente l’economia europea si trova in un cul de sac. Confindustria ripete il solito refrain, la richiesta delle salvifiche “riforme” di struttura: privatizzazioni, riduzione delle tasse per le aziende, riduzione del costo del lavoro, aumento dell’età pensionabile, abolizione del contratto nazionale. Tutte misure, alcune già adottate nel passato, che ci hanno portato alla situazione in cui siamo, e che ora la aggraverebbero.

Il problema è che, in questo momento, l’attenzione è monopolizzata da due fenomeni. Il primo è il debito pubblico, che assurge al ruolo di male assoluto, tanto che si pretende l’introduzione nelle Costituzioni europee del pareggio di bilancio obbligatorio. Una decisione paradossale e nei fatti inattuabile, che va contro la storia economica, in cui il debito pubblico ha rappresentato il mezzo di affermazione del capitalismo e lo strumento per far decollare economie arretrate o tamponare le crisi. Il secondo è l’euro. Oggi, tutti si rendono conto che l’introduzione di una moneta unica senza un minimo di unità politica, e soprattutto senza un bilancio e un sistema fiscale comuni, affidandosi unicamente al libero mercato, è stata un errore. Il punto, però, è che debito pubblico ed euro rappresentano o delle conseguenze o delle aggravanti delle vere cause che, invece, rimangono sullo sfondo. Per individuare queste cause bisogna partire da due fatti. Il primo è la crisi del centro dell’economia capitalistica - Usa, Ue e Giappone - e il perdurare del ristagno della crescita di queste aree. Infatti, i problemi dell’euro si sono manifestati a seguito della crisi del 2008, e se ne è avuta una recrudescenza con il vanificarsi della ripresa. Il secondo, collegato al primo, è lo spostamento del baricentro economico mondiale dall’Occidente e dal centro dell’economia mondiale alla periferia, Cina, India, Brasile, ecc. Si tratta di un passaggio di fase storica, che avviene dopo cinque secoli di ascesa e due secoli di dominio europeo ed occidentale. Negli anni ‘80 e ‘90, il debito era il problema delle aree periferiche - Africa, Asia, Europa dell’Est e America Latina - caratterizzate da bancarotte e crisi di liquidità dovute alle decisioni finanziarie dei Paesi del centro. Ora, il debito è diventato il problema dei Paesi ricchi, dipendenti semmai dai finanziamenti di altre aree mondiali con forti surplus commerciali.

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Finestra sul vuoto: ovvero, la crisi dell’euro e la rótta della sinistra 

Riccardo Bellofiore

A metà luglio mi sono stati chiesti da Fausto Bertinotti e da Rossana Rossanda due articoli: uno sulle politiche europee dentro la crisi, l'altro sulla rotta d'Europa. Ho scritto a fine agosto un lungo testo, da cui poi ho "tagliato" con modifiche i due lavori:  l'uno è comparso sui siti del manifesto e sbilanciamoci (e sul quotidiano),  l'altro è in uscita su Alternative per il socialismo

1. L’Europa è nel mezzo di una tormenta economica e sociale. Intanto l’economia mondiale viaggia verso quella ricaduta nella recessione che è in realtà nient’altro che la prosecuzione di una medesima grave crisi strutturale del capitalismo: la Grande Recessione. Pur con tutte le contraddizioni del disegno istituzionale che ha dato vita all’euro, è la crisi globale all’origine della crisi europea. La crisi europea non fa che retroagire sulla dinamica mondiale. La costruzione dell’euro rischia intanto di implodere.

Non era difficile da prevedere. Chiudendo, a novembre dell’anno scorso, un articolo con Joseph Halevi sull’International Journal of Political Economy, citavo una scena da Frankenstein Junior . “Freddy” Frankenstein scava con Igor una tomba per esumare il mostro, e commenta: “Che lavoro schifoso!” Igor replica: “Potrebbe andare peggio”. “Come?” commenta stupito Freddy. “Potrebbe piovere” è la risposta di Igor. Immediatamente tuoni e fulmini, e pioggia a dirotto. Da dicembre, in Europa e nel mondo, ha diluviato. La crisi greca, dalla periferia più debole del continente, passando per Irlanda e Portogallo, ha investito infine la Spagna. Come era atteso. A quel punto, istantaneamente, e con una accelerazione inattesa dai più, ha impattato pure sull’Italia, sino a lambire la Francia, e ora persino la stessa  Germania. Una Germania che si sta bruscamente risvegliando dall’illusione di un parziale sganciamento dalla domanda europea: illusione che sola giustifica la sua linea suicida dal 2010.

I ‘germogli di ripresa’ sono appassiti rapidamente, e il rimbalzo dopo la crisi è risultato alquanto sovrastimato. La Cina – l’unico paese che all’inizio del 2009 ha praticato una vera politica keynesiana di spesa pubblica massiccia e attiva - è a rischio di deragliamento. La sua crescita dipende da un eccesso di investimento infra-strutturale, e dal sospetto di una gigantesca bolla immobiliare. Il resto del mondo pretende di insegnarle che non si può andare avanti col sottoconsumo delle masse: anche qui però illudendosi che un eventuale aumento dei salari cinesi sia speso, e speso all’estero. L’America Latina rischia a sua volta di rallentare bruscamente: impaurita dall’inflazione; strangolata dall’aumento del cambio (nominale e reale); dipendente non solo dalla domanda estera, ma anche dalla evoluzione dei prezzi delle materie prime che può rivolgerlesi contro.

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Per capirci qualcosa

di Alberto Rocchi  

Cercare di capire il concatenarsi di eventi che ha caratterizzato la tempesta di mezza estate dell’economia italiana è impresa ardua. La borsa che crolla, il “giudizio dei mercati”, il dibattito, gli appelli alla coesione intorno a una manovra simbolo (o simulacro) di una politica ormai aggrappata soltanto a dei numeri per lo più incomprensibili: tutto appiattito nell’arco temporale delle 24 ore, in cui succede tutto, per poi ricominciare ciclicamente il giorno dopo con un’altra combinazione, in una rincorsa all’irrazionale che coinvolge in egual misura economisti, semplici operatori, politici e naturalmente giornali, giornalisti e pseudo tali.

Il risultato (l’obiettivo?) di tutto ciò è il disorientamento che colpisce chiunque ancora si sforzi di esercitare la propria ragione critica e rivendichi la necessità di provare ancora a discernere il bianco dal nero, il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. È così impossibile restituire la disciplina economica alla materialità da cui era partita 250 anni fa? Siamo ancora in grado di analizzare i problemi e cercare di trovare delle soluzioni prima che ci travolgano?


Situazione di partenza: debito, banche, borsa


Partiamo da un numero, molto semplice (i dati sono del dipartimento del Tesoro): 1.900 miliardi di euro è l’ammontare del debito pubblico italiano in valore assoluto al 31 dicembre 2010. Di questo, circa l’80% è rappresentato da titoli: Bot, Ctz, Btp, altri titoli emessi sul mercato estero. I titoli di stato italiani sono per circa il 60% nelle mani di investitori stranieri, particolarmente banche, investitori istituzionali internazionali, fondi sovrani (dati diffusi da Bnp Paribas). La restante parte invece è nel patrimonio di soggetti nazionali quali risparmiatori, istituti di credito italiani e fondi di investimento interni. Stando poi agli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali risalenti a fine 2010, la quota di titoli di stato italiani detenuta dalle banche tedesche, francesi e inglesi è superiore all’ammontare dei bond governativi portoghesi greci ed irlandesi posseduti da quelle stesse banche.

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Il conflitto sociale, l’unica chance che ha il capitale di sopravvivere

Militant

Come andiamo dicendo ormai da anni, questa crisi – a nostro modo di vedere – nasce da una lenta ma inesorabile perdita di diritti e potere d’acquisto dei lavoratori occidentali. Una crisi che non inizia nel 2008, o nel 2007, ma parte da molto più lontano, e solo l’assuefazione finanziaria e debitoria ha reso possibile mascherare l’enorme problema che covava il capitalismo, manifestandosi solo recentemente. La droga del consumo a debito ha potuto rimandare di qualche anno un esito che però appariva prevedibile (e infatti c’è chi lo aveva previsto, e non il solito pluricitato Roubini, che ormai ha assunto il ruolo di stregone dell’economia mondiale), e cioè una sovrapproduzione sempre più dilagante a fronte di sempre peggiori condizioni di vita di coloro che producevano. Tutto questo sta diventando, lentamente, coscienza comune. Tutti, infatti, si stanno rendendo conto di come, in fin dei conti, le loro condizioni di vita siano cambiate di poco rispetto a prima della “crisi”, e che nel 2006 non è che stavamo nettamente meglio di oggi. Di come le nostre condizioni di vita, le nostre esistenze, erano già in crisi prima che questa si palesasse come complotto finanziario alla buona e sana economia industriale che invece prosperava prima dell’uragano Lehman Brothers. Insomma, la soluzione non è tornare al 2006, o al 2000, per risolvere, anche in parte, i nostri problemi.