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lavocedellelotte

Il punto sulla crisi

Intervista a Tony Norfield, Michael Roberts e Paula Bach

recessione 1000x650Pubblichiamo la traduzione di un’intervista (già apparsa su LeftVoice e LaIzquierdaDiario) a tre importanti economisti marxisti che fanno il punto sulla più recente congiuntura economica. In realtà si tratta di studiosi non molto noti in Italia, se non in circoli ristretti. Questo nella misura in cui il dibattito teorico nella sinistra italiana è pressoché assente, da cui lo scarso interesse a rendere disponibile nella nostra lingua i lavori e gli articoli di chi invece è impegnato in serrate discussioni a livello internazionale, e in particolare in America Latina e nel mondo anglofono. Paula Bach è un’economista marxista argentina che si occupa di economia internazionale; è inoltre militante del Partido Socialistas de los Trabajadores e collaboratrice de La IzquierdaDiario e di Ideas de Izquierda. Micheael Roberts, invece, è un economista marxista britannico (con un passato “nel ventre della bestia” come analista finanziario); ha scritto alcuni importanti libri come “The Great Recession” e con Guglielmo Carchedi il recentissimo “World in Crisis”. Micheal tiene inoltre un’aggiornatissimo blog, purtroppo solo in lingua inglese, ma dal quale – prendiamo qui l’impegno – vedremo di attingere più frequentemente per delle traduzioni. Anche Tony Norfield è un economista marxista britannico “forte” di un passato nella City di Londra, del quale ha potuto giovare per scrivere un libro sul ruolo centrale che ancora svolge l’imperialismo britannico nell’architettura geo-economica e geo-politica mondiale. Il libro si chiama “The City”. Abbiamo già tradotto un’intervista a Tony QUI. Anche Tony Norfield tiene un blog molto interessante che si concentra sull’economia e sull’imperialismo.

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È difficile prevedere precisamente quando avrà luogo una recessione, ma è possibile individuare alcuni segnali, come ad esempio la tendenza all’appiattimento della curva dei rendimenti*, la quale indica che potremmo essere vicini a una nuova decelerazione.

La percezione del rischio tra gli operatori finanziari si è certamente intensificata nelle settimane scorse , come mostra la volatilità generalizzata sul mercato azionario [*è la curva che rappresenta la relazione tra i rendimenti dei titoli e la loro scadenza: normalmente i titoli a breve danno rendimenti più bassi di quelli a lungo termine, dato che più lunghi sono i tempi di rimborso maggiori sono i rischi. In periodi normali pertanto la curva in questione dovrebbe avere un andamento parabolico, su un grafico dove le ascisse sono il tempo e le ordinate i tassi d’interesse. Quando invece una recessione si avvicina, la rischiosità relativa dei titoli a breve aumenta, mentre si riduce quella dei titoli a lungo: si riducono gli acquisti di titoli a breve e aumentano quelli di titoli a lungo, il rendimento dei primi aumenta e quello dei secondi si riduce. Di conseguenza il differenziale tra i tassi di interesse a breve e a lungo diminuisce e la curva di cui sopra tende ad appiattirsi. N.d.t.]

Michael Roberts: sembra sempre più evidente una diminuzione della crescita nelle maggiori economie capitalistiche, successiva a un periodo di accelerazione, il quale a sua volta si verificava dopo una mini-recessione nel 2015-16. Le tendenze ribassiste alle quali stiamo assistendo sui mercati finanziari riflettono la preoccupazione che l’economia possa rallentare in un contesto di aumento dei tassi di interesse da parte della FED e di altre banche centrali. L’appiattimento della curva dei rendimenti riflette questo. Come altro fattore c’è poi da considerare l’intensificazione della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, mentre i livelli di indebitamento dei grandi oligopoli capitalistici ha superato il picco precedente il crack di Wall street del 2008. Detto questo, se guardiamo i dati sulla profittabilità delle principali imprese, tanto negli USA quanto nel resto del mondo, osserviamo una congiuntura positiva, favorita negli Stati Uniti anche dai tagli fiscali di Trump sulle “corporate taxes”. Per questo motivo non mi aspetto che che l’attuale lunga – ma invero anche molto debole – espansione che ha caratterizzato la fase post-2009 cesserà nei prossimi sei mesi.

Paula Bach: un rallentamento nell’economia USA e in quella mondiale nel 2018\2019 – del quale abbiamo visto delle anticipazioni già all’inizio di quest’anno – è praticamente un fait accompli. Un pesante calo della crescita, se non addirittura un recessione è probabilmente quello che ci dobbiamo aspettare per il 2020, se non addirittura prima. Questo confermerebbe che la crescita relativamente forte che abbiamo visto nelle principali economie nel 2017 non è altro che un fenomeno congiunturale incapace di modificare nella sua essenza la particolare debolezza che ha caratterizzato la ripresa dopo la crisi del 2008-09. C’è anche da rilevare come per quanto riguarda gli Stati Uniti il “boom” sbandierato da tutte le parti da Trump e dai media mainstream sia in buona sostanza una “fake news”. L’economia USA, è vero, cresce ai tassi più elevati dal 2010 a questa parte, ma è spinta dagli effetti a breve termine del taglio delle tasse a vantaggio dell’1% più ricco della popolazione. Tuttavia, la maggior-parte dei profitti ottenuti all’estero e reimpatrati negli Stati Uniti sono utilizzati per fare “buyback”, piuttosto che investimenti reali e\o volti ad aumentare la produttività, i quali rappresentano i famosi “fondamentali” dell’economia. [ il “buyback” è la pratica speculativa messa in campo soprattutto dai grandi gruppi multinazionali che consiste nell’acquisto di miliardi di azioni proprie di modo tale da influenzarne il prezzo. Si calcola che ormai una grandissima percentuale degli investimenti e dei profitti dei principali colossi capitalistici USA – non solo le banche, ma anche e soprattutto aziende dell’ “economia reale” – sia ascrivibile a questo meccanismo. N.d.t.]

Questa conclusione è di estremo interesse politico per i lavoratori nella misura in cui evidenzia il gravissmo impasse di lungo periodo nel quale è invischiato il capitalismo, tanto nel “centro” quanto nei paesi semi-coloniali o dipendenti come il nostro (l’Argentina). Questa la premessa per un futuro ancora caratterizzato da attacchi sempre più pesanti contro le condizioni di vita e dei settori a basso reddito volta a restaurare la profittabilità capitalistica. Più precisamente si continuerà ad avere a che fare con contro-riforme del lavoro e della previdenza, tagli alla spesa pubblica, riduzione dei salari e vincoli di bilancio giustificati con la necessità di pagare il debito pubblico etc. Si tratta di una conclusione importante, insomma, poiché ci mostra come l’eventualità che si apra un “periodo di riforme” sia essenzialmente utopica, sia nel centro che nella periferia. Per quanto concerne la volatilità dei mercati, io credo dipenda molto dalle problematiche strutturali dell’economia. L’appiattimento della curva dei rendimenti segnala numerosi fattori che si intrecciano, tra cui il debito delle corporations in ascesa sin dalla fine della recessione, l’aumento dei tassi di interesse che rende tale massa di debito sempre più rischiosa e le tensioni commerciali con la Cina che minacciano i profitti delle grandi multinazionali.

Tony Norfield: Mi permetto di rispondere alla domanda con un’altra domanda: perchè dovrebbe interessarci il fatto che il ritmo della crescita USA sia un po’ più elevato o un po’ più ridotto l’anno prossimo? A meno che non si preveda un tracollo, credo si tratti di una questione poco importante. Molto più rilevante è il tema delle politiche commerciali degli USA e dei loro risvolti, i quali minacciano di avere un grandissimo impatto, tanto negli Stati Uniti quanto a livello internazionale. Peraltro, se è vero che gli Stati Uniti sono l’economia più grande e sulla quale si concentra l’attenzione maggiore (rendendo molto più facile rispetto ad altri casi trovare informazioni), lo è altrettanto che essa ammonta ormai solo per un quarto del prodotto interno lordo mondiale. Ci sono anche i paesi dell’UE e la Cina i quali rappresentano rispettivamente il 20% e il 15% dell’economia globale.

 

L’Arresto di Meng Wanzhou, amministratore delegato [responsabile dell’area nord-americana n.d.t.] della Huawei, ha rimesso all’ordine del giorno il tema della rivalità USA-Cina. Quale sarà, secondo voi, la traiettoria della guerra commerciale?

Tony Norfield: le preoccupazioni statunitensi rispetto alla competizione cinese si sono accumulate nel tempo. In un primo momento esse si concentravano sulla questione degli investimenti esteri cinesi in Africa, America Latina e Asia. Ora, gli USA si stanno focalizzando sulla minaccia che la Cina rappresenta per la loro leadership mondiale nei settori tecnologici più moderni. Il caso Huawei è emblematico in questo senso, trattandosi del secondo produttore mondiale di smartphones (dietro solo la Samsung e davanti alla Apple) e in prima posizione nello sviluppo del 5G. In quest’ultima casella gli Stati Uniti compaiono alla voce “non pervenuti”; perciò stanno provando a spingere per il boicottaggio della Huawei da parte degli altri paesi, e in primis di quelli che insieme a loro rappresentano i “fiori all’occhiello dell’ Anglosfera” – Canada, Regno Unito, Australia e Nuova Zelanda (in effetti, l’Australia già nel 2012 era andata in questa direzione). L’elemento che rende l’attacco alla Huawei particolarmente interessante è il fatto che sia imbastito usando come pretesto le sanzioni USA all’Iran, rispetto alle quali gli europei non sono favorevoli; anzi: cercano in ogni modo di aggirarne gli effetti. L’impostazione anticinese della politica statunitense è destinata a durare rappresentando un momento centrale di una strategia per mantenere Washington come capitale della principale potenza mondiale. Nei prossimi anni, inoltre, vedremo sempre di più riflettersi le tensioni internazionali – anche tra i maggiori paesi imperialisti – nelle politiche commerciali.

Paula Bach: senza ombra di dubbio l’arresto della CEO della Huawei è un altro mezzo attraverso il quale gli USA stanno cercando di spingere la Cina a piegarsi alle condizioni negoziate proprio qui in Argentina al recente G20, i termini delle quali non sono molto chiari. A prescindere da questo, l’attacco alla Huawei, il secondo produttore mondiale di smartphone e all’avanguardia nello sviluppo del 5G, è la prova che la “guerra” tra Stati Uniti e Cina ha molto più a che fare con la supremazia tecnologica, con la lotta per il controllo delle aree strategiche per l’accumulazione capitalistica globale, che con il commercio in sé. A dirla tutta, credo che la guerra commerciale – indigesta alle grandi multinazionali USA, come testimonia la volabilità dei mercati – sia innanzi tutto uno specchietto per le allodole rivolto a quei settori sociali che negli Stati Uniti sono stati maggiormente penalizzati dalla globalizzazione e ai quali Trump ha promesso in maniera ipocrita il ritorno di investimenti, produzione e posti di lavoro decenti. Detto questo è evidente come il carattere commerciale della guerra abbia a che fare con gli obiettivi strategici che effettivamente uniscono l’intera classe dominante – inclusi i suoi referenti nel Partito Democratico – la quale si è ormai persuasa che sia giunta l’ora di adottare un atteggiamento più aggressivo nei confronti della Cina, rivendicando la fine dei “furti di proprietà intellettuale”, mano più libera per gli investimenti USA in Cina e maggiore apertura del mercato di quest’ultima.Tutto ciò ha evidentemente a che fare con il progressivo e generale restringimento delle opportunità di profitto, con annessa bassa crescita, come abbiamo spiegato prima.

Michael Roberts: bene, abbiamo questi 90 giorni di tregua prima dell’intensificazione della guerra tariffaria tra Stati Uniti e Cina. Trump continua a dire, un giorno, che ci sarà l’accordo e quello successivo che invece non c’è trippa per gatti. L’arresto dell’esponente di punta della Huawei è un chiaro indicatore della pressione che si vuole applicare sulla Cina, la quale a sua volta è chiaro che opporrà resistenza. Anche se si farà un accordo il prossimo marzo, si tratterà solo di un cessate il fuoco prima di un nuovo scontro. Gli Stati Uniti sono determinati a bloccare l’avanzata tecnologica cinese e a scongiurare la possibilità che entro i prossimi 10 anni lo status della Cina sia uguale a quello degli USA. Dal canto suo la Cina cercherà in tutti i modi di evitare che la sua ascesa subisca una battuta d’arresto. Pertanto è evidente che la guerra commerciale non solo rimarrà una costante, ma anzi si aggraverà.

 

Forse la conclusione più importante che si può dedurre dall’ultimo G20 è che le grandi potenze economiche come gli Stati Uniti non sono più interessate a mantenere un assetto globale coordinato e relazioni cooperative. Pensate che le nuove tendenze protezionistiche e il nazionalismo economico possano ostacolare una risposta vigorosa a un imminente collasso economico, come quello avvenuto con la crisi del 2008?

Paula Bach: la profondità della crisi del 2008-09 è mostrata dalla debole ripresa che si è verificata negli anni successivi, la quale a sua volta mostra la falsità della tesi secondo cui la “globalizzazione” fosse un fenomeno in grado di portare benefici a tutti i settori sociali e a tutti i paesi. Bassi tassi di crescita, difficoltà di accesso al credito per le famiglie, livelli incredibili di indebitamento che fanno il paio con la stagnazione – se non con un vero e proprio crollo – dei salari. Tutto questo ha condotto i “perdenti della globalizzazione” a ripudiare i partiti di centro che hanno governato le potenze mondiali per decenni, anche se si è riusciti in qualche modo a contenere gli effetti della crisi. Fenomeni con forti connotati di destra come la Brexit, Trump, o l’ascesa della Lega e dei 5Stelle in Italia sono espressione di questa situazione. È molto probabile che di fronte a una nuova congiuntura economica catastrofica queste forze politiche non saranno in grado di rispondere nello stesso modo, ordinato e vigoroso, in cui i partiti di centro sono riusciti a gestire il post-2008-09.

Penso, tuttavia, che si possano verificare anche nuove dinamiche politiche in grado di cambiare positivamente il corso degli eventi. Mi riferisco, ad esempio, alla sollevazione dei Gilet Gialli in Francia, i quali rappresentano la prima esplosione di massa progressiva, dopo la recente avanzata dei populisti di destra tanto nel nord quanto nel sud dell’Europa e del mondo. La cosa più interessante dei Gilet Gialli è che rappresentano un’espressione di odio nei confronti delle elites nei paesi imperialisti, senza però un contorno xenofobo o rivendicazioni apertamente nazionaliste e che pertanto non possono facilmente essere egemonizzati da nessuna forza di destra. Stiamo parlando di un processo molto interessante nel quale i nostri compagni francesi stanno attivamente intervenendo. Il processo che si sta sviluppando in Francia è fonte di crescente paura e inquietudine per la borghesia a livello globale ed è probabile che finirà per cambiare lo scenario politico e quindi le stesse domande che dobbiamo porci, nel caso continuerò a svilupparsi lungo una traiettoria progressiva – questo quello che spero.

Tony Norfield: nell’ottica di rispondere nella maniera migliore a questa domanda, vale la pena concentrarsi bene sul contesto. La crisi del 2008 assunse una forma finanziaria, con il mercato del credito al collasso e un enorme panico finanziario che finiva per affliggere la maggior parte dei paesi. Sebbene si trattasse di un evento epocale e globale, fu relativamente facile uscire da quella che chiamo la “fase acuta” della crisi. Questo avvenne grazie alle politiche monetarie espansive imbastite dalle banche centrali e in particolare dalla U.S. Federal Reserve a cui si aggiunsero fusioni controllate, nazionalizzazioni o chiusure delle compagnie finanziarie maggiormente colpite dalla crisi. Più tardi, misure come quelle atte a spingere le banche a migliorare i propri conti e ad avere “leverage”* più contenuti, miravano a ridurre il rischio che un’altro shock al sistema avrebbe avuto lo stesso effetto devastante di quello prodottosi in occasione dell’ultimo crack. Tuttavia le criticità “croniche” permangono. Lo segnala il livello dell’indebitamento in rapporto al PIL, maggiore ovunque di quello del 2007 [*è il rapporto tra le disponibilità liquide e l’indebitamento. Per massimizzare i profitti speculativi, infatti, le grandi banche, fondi d’investimento etc. tendono a indebitarsi contando di lucrare sulla differenza tra i tassi d’interesse e i profitti ottenuti dalla compravendita di titoli e azioni vari. Per questo si parla di “leverage”, o di leva finanziaria: più indebitamento= più “leva” per i profitti. Ovviamente il giochetto – innescato dal fatto che la profittabilità dell’economia reale è depressa (in barba a chi separa quest’ultima dall’ “economia finanziaria”) – funziona fino a quando il prezzo degli “assets” continua a crescere e il credito è a “buon mercato”, nonché a costo di un crescente indebitamento il quale a un certo punto si rivela catastrofico. Sulla dinamica dell’ultimo grande crack si veda questo ottimo paper. N.d.t. ].

La specifica forma che assumerà la prossima crisi determinerà il tipo di risposte che verranno adottate, tuttavia sono d’accordo che è improbabile vi sarà una percezione di un problema condiviso da risolvere in maniera coordinata. E’ importante rendersi contro che non stiamo assistendo solo a un “fenomeno Trump”, sebbene l’attuale presidente sembri una scheggia impazzita, favorita dal fatto che gli USA hanno molta più libertà nell’adottare una postura arrogante nei confronti degli altri. Non dobbiamo concentrarci solo su Trump negli Stati Uniti, ma anche sulla Brexit nel Regno Unito, su altre dinamiche in atto e sempre più comuni negli altri paesi europei e altrove, per vedere che larghi segmenti della popolazione supportano politiche che fomentano la conflittualità internazionale. Un grande problema politico che la sinistra deve affrontare oggi è la crescita dell’aggressività nazionalista.

Michael Roberts: gli Stati Uniti rifiutano di cooperare a livello globale praticamente su tutti i temi più importanti – il commercio, il cambiamento climatico, l’immigrazione; questo evidentemente nella misura in cui non vogliono essere trascinati in accordi che ridurrebbero la loro quota di potere globale. Pertanto la cooperazione nel caso di un nuovo crollo è molto improbabile, anche se è chiaro che la maggior parte dei governi adotteranno politiche simili per favorire il Capitale. La possibilità che l’ascesa al governo dei cosiddetti partiti populisti disintegri qualsiasi cordinamento internazionale è certamente un altro fattore nuovo da tenere in considerazione.


Intervista di Esteban Mercatante e Juan Cruz Ferre

Traduzione da Left Voice e note a cura di Django Renato

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