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Il fiasco di Copenhagen

Leonardo Mazzei

L’impossibile patto tra ambiente e capitalismo

Per non decidere nulla, decidendo in realtà che il disastro ambientale può tranquillamente proseguire, si sono riuniti a Copenaghen in 15.000 (quindicimila). Per raggiungere la capitale danese in aereo (alcuni, come Obama e Sarkozy, con i rispettivi jet presidenziali) e per spostarsi con le loro auto di lusso (secondo il Telegraph erano presenti 1.200 «limousine»), hanno prodotto l’emissione di 40.500 tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente delle emissioni annue di 660mila etiopi.
Non è uno scherzo, sono dati ufficiali dell’ONU, forse resi noti per dare ancora un qualche senso alla propria attività sul fronte climatico dopo il fallimento consumatosi nella città della Sirenetta.
Un fallimento annunciato, ma che ha superato al ribasso la più pessimistica delle previsioni.

Il “Disaccordo storico”

Quello che è stato sancito alla conclusione della Conferenza è stato definito un “Disaccordo storico”. Insomma, un fiasco totale scandito dall’andamento surreale dei lavori, che ripercorriamo in breve.
All’inizio, come inevitabile, la fanno da padrona – tanto non costa niente – la retorica ed i buoni sentimenti. Al punto che Copenaghen diventa per i creduloni, tanto più per quelli di stretta osservanza obamiana, Hopenaghen.  I media, ovviamente, parlano di clima positivo e di ottimismo. Poi, al secondo giorno, salta fuori la bozza segreta rivelata dal Guardian: una risoluzione finale già elaborata prima che la Conferenza cominciasse, del tutto sfavorevole ai paesi del terzo mondo. Che compatti rispondono picche.

Da lì in avanti il previsto fallimento si è trasformato ogni giorno di più in assoluta certezza. Restava da capire come si sarebbe consumata la farsa finale. Tutti sapevano che sarebbe arrivato da Washington se non proprio il “Salvatore”, almeno il paladino della green economy. L’altro “Salvatore” – stiamo parlando del megalomane che risiede all’Eliseo, che si era attribuito la missione di “Salvare la Terra” – aveva già rinunciato al suo modestissimo proposito, andandosene da Copenaghen già al secondo giorno.
Alla fine, il penultimo giorno, Obama è arrivato. Ha incontrato il primo ministro cinese, Wen Jabao, con il quale si dice abbia discusso aspramente, arrivando infine alla decisione di non decidere niente. La montagna di Copenaghen ha così partorito il più classico dei topolini: un testo privo di contenuti, di impegni, di vincoli. Un niente sottoscritto da Usa e Cina, ma anche (affinché non si parlasse troppo di G2) da India, Brasile e Sudafrica. L’Europa si è adeguata, accettando amaramente di non contare ormai più nulla. Gli altri non hanno proprio sottoscritto un bel niente, inventandosi all’atto finale la formula un po’ irrituale, ma assai significativa, della “presa d’atto”.
Del resto tutti, ma proprio tutti, hanno dovuto “prendere atto” del fallimento totale di una Conferenza dove si sono fatti molti sforzi per nascondere la polvere sotto il tappeto, prima ancora che cercare di ridurre le emissioni di gas serra nell’atmosfera.


Quel nulla chiamato “Copenhagen Accord”

Sfidando arditamente il senso del ridicolo, hanno voluto chiamare “Accordo di Copenaghen”, un testo “riconosciuto”, ma non approvato dai 193 Paesi presenti alla Conferenza. La cosa più importante da capire, infatti, prima ancora del contenuto del testo “riconosciuto”, è il suo carattere assolutamente non vincolante.
C’è qui un’enorme differenza con il Protocollo di Kyoto del 1997, con il quale 37 Paesi industrializzati (ma non gli Stati Uniti) si impegnavano a ridurre le emissioni di sei gas serra di almeno il 5,2% rispetto al 1990 (ormai convenzionalmente assunto come “anno zero”) entro il 2012.
Il protocollo fu sottoscritto da 160 Paesi, ma imponeva la riduzione delle emissioni solo a quelli maggiormente industrializzati, 37 appunto.
Sia chiaro, questi impegni sono stati completamente disattesi. Giusto per fare un esempio, basti pensare che la produzione di CO2 di questi Paesi è aumentata nel solo periodo 2000-2009 di quasi il 30%, nonostante la riduzione dell’ultimo anno dovuta agli effetti della crisi economica.
Tuttavia Kyoto stabiliva almeno dei precisi obiettivi, per quanto modesti, ed i contraenti si impegnavano (anche se, come abbiamo visto, solo sulla carta) a rispettarli.
Nulla di tutto ciò è avvenuto a Copenaghen.

L’Accordo di Copenaghen (utilizziamo questa terminologia assolutamente impropria solo per comodità) ribadisce che “l’aumento della temperatura globale dovrebbe (notare il condizionale – ndr) restare contenuto sotto i due gradi centigradi”.
Questa debolissima premessa è in realtà l’unico pezzo “forte” del documento conclusivo.
Tutto il resto che era stato oggetto delle trattative che hanno preceduto la Conferenza è scomparso. Scomparsa ogni indicazione quantitativa sui tagli delle emissioni, scomparsa ogni data di riferimento. Qualcuno ricorda, ad esempio, l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 50% entro il 2050? Totalmente scomparso. Ora ogni Paese si auto-assegnerà degli obiettivi teoricamente auto-vincolanti.
Ma se non ha funzionato il protocollo di Kyoto, perché mai dovrebbe funzionare una soluzione così strampalata? Ed infatti nessuno ci crede davvero.
Si è molto parlato dei finanziamenti dei Paesi ricchi a quelli poveri, per favorire il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. In realtà anche su questo non c’è niente di certo, in particolare non si dice da dove verranno i soldi, alimentando il sospetto che si intenda stornarli da altri fondi già destinati alla “cooperazione internazionale”.
Perfino l’accordo sulla protezione delle foreste, che sembrava ormai acquisito, è tornato incerto e confuso nel testo finale. L’accordo si limita a dire che “Riconosciamo il ruolo cruciale del ridurre le emissioni della deforestazione”. Insomma, a Copenaghen hanno scoperto che gli alberi assorbono anidride carbonica! Forse non avranno il Nobel – non tutti si chiamano Obama! – ma certo nessuno potrà togliergli un bell’invito alla “festa degli alberi”, con tanto di scolaresche e pic-nic.


Quali sono stati gli attori della Conferenza?

Visti i contenuti dell’accordo, e prima di arrivare ad alcune necessarie conclusioni, è ora utile soffermarsi sul ruolo avuto dai diversi protagonisti della Conferenza.
Di Obama si è già detto, ma restano da aggiungere due considerazioni. La prima riguarda la sua ineguagliabile faccia di bronzo, che lo ha portato a parlare di “un accordo significativo, anche se insufficiente”. La seconda riguarda invece la sua arroganza. E’ arrivato, ha chiuso l’accordicchio e se n’é ripartito di corsa verso gli Stati uniti senza neppure attendere la conclusione formale dei lavori. Ha umiliato, sapendo di umiliarla, l’Europa. Non ha degnato neppure di uno sguardo le posizioni del terzo mondo e del G77.
Sull’Europa non c’è nulla da aggiungere a quanto già detto. L’Unione ama fare la prima della classe in materia ambientale, ma il suo attuale peso politico è uguale a zero ed  a Copenaghen si è visto.
La Russia è stata un’altra grande assente, ma forse i suoi rappresentanti, ben avvertiti della certezza del fallimento e senza la necessità di dover recitare una parte nella commedia, al contrario degli europei, hanno scelto deliberatamente di disinteressarsene.
La Cina ha fatto la parte che gli compete. Ha agito da potenza emergente, ma senza perdere il contatto con i Paesi della periferia, dagli africani ai latinoamericani dell’Alba (Alleanza Bolivariana per le Americhe). Wen Jabao ha certamente portato a casa il “diritto di inquinare”, ma ha giustamente respinto il tentativo occidentale di scaricare su Pechino il fallimento della Conferenza. Giustamente, non solo perché le emissioni pro-capite dei cinesi sono ancora notevolmente più basse di quelle degli americani e degli europei, ma anche perché la Cina è il paese che sta investendo di più nei progetti ambientali, ed in generale nella cosiddetta green economy.

Il G77, che raggruppa ormai 131 Paesi inclusa la Cina, ha respinto fin dall’inizio dei lavori il tentativo occidentale di scaricare anche la questione climatica sui paesi più poveri del pianeta. In particolare questo raggruppamento piuttosto composito, presieduto dal sudanese Lumumba Di-Aping, bocciando da subito la risoluzione segreta predisposta dalla presidenza danese, ha fatto emergere immediatamente le contraddizioni e l’ipocrisia dello schieramento occidentale. “Il testo ruba ai paesi in via di sviluppo la loro quota giusta ed equa di spazio atmosferico. Cerca di trattare ricchi e poveri allo stesso modo”, questo il lapidario giudizio espresso da Di-Aping.
Se ferma è stata la posizione durante la Conferenza, ugualmente netto il giudizio finale: “Questo accordo infliggerà massiccia devastazione all’Africa e alle piccole nazioni-isola. Hanno mostrato il livello di ambizione più basso che si possa immaginare”. Con queste parole il presidente sudanese del G77 ha chiarito che nessuna copertura è stata data all’accordo finale, benché sottoscritto da quattro stati membri (Cina, India, Brasile e Sudafrica).

Un discorso a parte va fatto per i Paesi dell’Alba.
I Paesi dell’alleanza bolivariana (Venezuela, Bolivia, Ecuador, Cuba, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Dominica, Saint Vincent e Grenadine) a Copenaghen hanno marcato con forza la loro presenza.
Oltre all’importante discorso di Chavez, c’è stato un forte attivismo durante tutti i lavori della Conferenza. E per sottolineare l’assoluta alternatività delle proprie posizioni, i membri dell’Alba si sono ritrovati il 17 dicembre in una sorta di controvertice al palazzetto dello sport del Valbyhallen dove, davanti a 3.500 persone, si sono dati il cambio al microfono Chavez, Morales e gli altri esponenti bolivariani presenti.
Morales, preannunciando il fallimento certo della Conferenza, l’ha spiegato con l’inconciliabilità degli interessi e dei punti di vista in campo, ma soprattutto con l’impossibilità di fronteggiare il problema climatico affrontando solo gli effetti del riscaldamento globale, ma non le sue cause.
Qual è allora l’alternativa? “El socialismo”, ha ripetuto Chavez.
Nessuno pensi che le posizioni dell’Alba a Copenaghen siano state dottrinarie o propagandistiche. I rappresentanti bolivariani sono entrati decisamente nel merito dei problemi, ma mai rinunciando ad evidenziare l’inconciliabilità dell’obiettivo di difendere il pianeta con la volontà delle potenze dominanti di salvare in ogni modo il capitalismo.


L’alternativa di sistema

Se la conclusione della Conferenza ha dimostrato, in negativo, che il capitalismo è strutturalmente incapace di risolvere la contraddizione tra la propria natura e le esigenze ambientali di fondo; i leader bolivariani hanno avuto il merito di far emergere, in positivo, la necessità e la possibilità di un’alternativa di sistema.
Il fallimento dimostra innanzitutto la difficoltà complessiva di un sistema in crisi. Una crisi che non è solo economica, ma che si manifesta anche come incapacità di rispondere alle più elementari esigenze sociali, in questo caso il semplice diritto alla vita sul pianeta.
Ma questa volta, nonostante la farsa finale di un accordo che sancisce solo il disaccordo, i potenti della terra non sono riusciti a nascondere il più clamoroso dei fiaschi.

Prima di concludere ci sia concesso un breve inciso. Alcuni appassionati di dietrologia avevano ipotizzato che dietro a tanta (apparente) passione per il clima ci fosse il solito complotto per far digerire al mondo una sorta di governo planetario, o quantomeno per imporre una svolta “verde” al mondo della produzione, in modo da fare della green economy uno dei possibili traini per superare la crisi.
Come è del tutto evidente, il capitalismo è assolutamente indifferente al fatto che i propri profitti vengano alimentati dall’eolico piuttosto che dal carbone, ciò che conta è che i profitti ci siano. Il capitalismo, dunque, è ben felice di poter sviluppare la green economy; quello che invece non può proprio fare è mettere in discussione il meccanismo della “crescita”, specie nei Paesi dominanti.
Non dubitiamo, perciò, che alcuni settori industriali favoriscano la diffusione di dati ed analisi allarmiste, come al contrario (ma per gli stessi motivi) ve ne sono altri pronti a dimostrare che i gas serra non hanno alcun effetto sull’ambiente e sul clima.
Da qui a vedere sempre in atto il complotto ce ne (dovrebbe) corre(re). La verità è che vi sono, anche in questo ambito, spinte e controspinte che corrispondono ai diversi interessi in gioco. In ogni caso, se il complotto “allarmista” vi fosse realmente stato, bisognerebbe ora spiegare il suo esito totalmente disastroso. Ma chiedere un simile esercizio ad un dietrologo sarebbe come proporre un bicchiere d’acqua minerale ad un alcolista.

Chi pensava ad una “conversione ecologista” del capitalismo è dunque rimasto deluso. Il dogma della “crescita”, un concetto quantitativo che ormai si è separato da quello di “sviluppo”, non può essere messo in discussione nella cornice del sistema. Tra ambiente e capitalismo non può esserci un vero patto, meno che mai un matrimonio.
Giustamente uno slogan dei manifestanti di Copenaghen, ripreso nel discorso di Chavez, diceva “Non cambiate il clima, cambiate il sistema”.
Anche per la strada di un ambientalismo serio e coerente torna dunque a riproporsi la necessità di un anticapitalismo che sappia rilanciarsi sulla base di una nuova prospettiva socialista.
Non era scontato che da Copenaghen giungesse questo segnale. Invece è arrivato, e forse anche questo è un segno del cambiamento di fase che stiamo vivendo.

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