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Il mare, la frontiera, il rifiuto: drill, baby, drill

di Cesare Del Frate

Costruita nel 2001 dalla coreana Hyundai e battente bandiera delle isole Marshall, la piattaforma della British Petroleum Deepwater Horizon era un titano tecnologico partorito dal connubio fra economia del petrolio, deregolamentazione dei mercati, ricerca scientifica privatizzata, neoliberismo selvaggio e rifugio nei paradisi fiscali. Il suo collasso ha provocato la morte di 11 operai e ha fatto esplodere uno dei disastri ecologici più gravi degli ultimi decenni, 5.000 barili di greggio ogni giorno eruttano dal pozzo alimentando la marea nera nel Golfo del Messico: cosa ci dice tale catastrofe sull’anarchia di mercato contemporanea?

Niente rivoluzione verde, almeno per ora, nonostante Obama l’avesse annunciata con toni profetici: proprio il Presidente ha deciso di rilanciare il nucleare e le trivellazioni negli oceani, annullando la moratoria che impediva le seconde sulle coste dell’Alaska e del Golfo del Messico, per l’appunto. Il bello è che Obama ha dato pubblicamente l’annuncio della scelta infausta nell’hangar della base militare di Andrews, nel Maryland, con sullo sfondo  un caccia F18 (però alimentato a biocarburante, specchietto per le allodole ecologiste). Tipico trucchetto della nuova amministrazione, che cerca di convincere i movimenti dal basso e la società civile di politiche che fino all’altro ieri erano esattamente ciò contro cui Obama avrebbe dovuto combattere una volta eletto.

Che penserà il cittadino sensibile all’ecologia: meglio il no alle trivellazioni e all’economia del petrolio, o meglio il Presidente che  alle trivellazioni eco-disastrose dà il via libera fiero ed entusiasta, però con retroscena di macchina da guerra a biocarburante? Uhm…

Questa svolta realizza il sogno dei repubblicani, e in particolare del duetto McCain Palin, il cui motto era

    DRILL BABY DRILL!

Lo urlavano pure nelle convention, tutti insieme appassionatamente, in cori da stadio da far tremare le vene nei polsi (il video qui; dopo l’incidente, però, un silenzio assordante). In quest’inno alla trivellazioni è condensata tutta la miopia di una classe dirigente supina agli interessi delle corporations e rimasta a un’idea ottocentesca di progresso: gigantismo e potenza. Quando già oggi è possibile produrre ciascuno in rapporto alle sue necessità grazie alle fonti rinnovabili: non abbiamo bisogno di mega centrali atomiche o trivellazioni dei fondali oceanici, bensì di abitazioni ognuna autosufficiente e in grado di rivendere il surplus energetico rimettendolo in rete. La scienza e la tecnologia ce lo permettono già, ma per i politici e gli analisti di mercato si tratta di cose da marziani, è più facile affidarsi ai cari vecchi sistemi di saccheggio delle risorse naturali, e del domani chi se ne frega – l’ecologia è il passatempo degli abbraccia-alberi, non il futuro dei nostri figli.

Mentre l’ondata di petrolio si espande, possiamo riflettere a partire dal mare, come elemento e come simbolo: primo tessuto connettivo della globalizzazione, le acqua sconfinate e conquistabili offrono l’immagine del mondo che domina l’occidente fin dalla scoperta delle Americhe. Se in precedenza l’ordinamento politico si fondava sul radicamento nella terra, come notava Schmitt (leggi qui), la modernità rompe questo legame facendosi tempo dell’avventura e del superamento di ogni confine: proprio i mari e gli oceani sono le frontiere da oltrepassare. In questa mentalità, ogni cosa si fa risorsa sfruttabile da un capitalismo vorace in cerca di sempre nuove occasioni di profitto: il mondo diventa usa e getta.

Ed è ciò che vediamo nell’attuale catastrofe ecologica: dal mare strappiamo le risorse per il nostro consumo e profitto, e il mare trasformiamo in discarica invasa dagli scarti o dagli errori della nostra “produzione”. Inevitabile evocare le immagini delle navi stracolme di rifiuti tossici affondate lungo le coste della Calabria e dell’Italia meridionale.

Il sociologo Zygmut Bauman sottolinea che considerare il mondo una “risorsa” da sfruttare senza preoccupazioni conduce a ridurre a “risorsa” gli uomini stessi (e non a caso le nuove politiche del lavoro parlano di “risorse umane” da gestire). Ma la risorsa è connessa non solo allo sfruttamento, ma anche al rifiuto: appena cessa la sua utilità, finisce in discarica. Se vogliamo spezzare il ciclo produzione – consumo – rifiuto, quella logica che sta divorando la casa comune degli uomini, dovremo iniziare a guardare al mondo con occhi diversi rispetto alle lenti deformanti del neoliberismo oggi imperante. Magari superando l’ossessione della crescita, del gigantismo e delle trivellazioni.

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