Print Friendly, PDF & Email
Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Cile 1973, il vero “11 settembre” della democrazia

di Giorgio Cremaschi, Franco Astengo

11 settembre 1973. Salvador Allende viene assassinato in Cile da un golpe sanguinario organizzato da militari e fascisti, padroni e democristiani, Cia e multinazionali

Cile ALlende golpeOggi è importante ricordare quella data per almeno due ragioni di fondo.

La prima è che il Cile sotto la sanguinaria dittatura di Pinochet divenne la cavia della prima sperimentazione liberista del secondo dopoguerra. Camminando sopra le decine di migliaia di cadaveri di sostenitori del governo socialista democraticamente eletto, i Chicago boys di Milton Friedman giunsero in Cile per gestire la politica economica del tiranno. E sperimentarono la distruzione del sistema pensionistico pubblico, della sanità e di tutti i servizi sociali , la privatizzazione in favore delle multinazionali di tutto il sistema produttivo a partire dalle ricche miniere di rame, la cancellazione di ogni diritto per il lavoro. La cavia cilena servì a sperimentare le ricette e le dosi delle politiche liberiste, che poi dilagarono in tutto il mondo e che oggi più che mai confermano la loro natura intrinsecamente criminale. Politiche liberiste che in Europa hanno avuto un nuovo impulso con l'uso come nuova cavia della Grecia, sottoposta alla dittatura bancaria della Troika

La seconda ragione per cui è importante e attuale il sacrificio di Allende e del suo popolo è che oggi ci stanno riprovando. In tutta l'America Latina, dopo quasi quindici anni di governi progressisti, è in atto una controffensiva reazionaria che vuole restaurare il dominio assoluto dei poteri e degli interessi che hanno sempre vessato i popoli di quel continente.

Print Friendly, PDF & Email

fattoquotidiano

Quando i cowboy ordinarono: “Ora invadiamo l’Afghanistan”

di Massimo Fini

Quindici anni fa l’attacco alle Torri Gemelle di New York. Non c’era un solo talebano nel commando di terroristi

ED img79097561Furio Colombo in un articolo pubblicato dal Fatto qualche giorno fa ci chiede se ci ricordiamo che cosa stavamo facendo alle 14:45 (ora italiana) dell’11 settembre 2001. Io lo ricordo bene. Dormivo, dopo una notte balorda. Mi svegliò lo squillo del telefono. Era un’amica: “Stanno bombardando New York. Accendi la Tv”. Accesi e vidi quello che più o meno tutti abbiamo visto, fino al collasso delle Torri. Non provai né costernazione né fui preso dalle isterie Fallaci style (“Oh God! Oh my God!”) che poi diventeranno il tema de La rabbia e l’orgoglio. Nella mia testa aleggiavano piuttosto i pensieri che poco dopo il filosofo francese Jean Baudrillard avrebbe messo sulla carta con crudezza, con lucidità e con grande coraggio (e ce ne voleva davvero tanto in quel momento): “che l’abbiamo sognato quell’evento, che tutti senza eccezioni l’abbiamo sognato – perché nessuno può non sognare la distruzione di una potenza, una qualsiasi, che sia diventata tanto egemone – è cosa inaccettabile per la coscienza morale dell’Occidente, eppure è stato fatto, un fatto che si misura appunto attraverso la violenza patetica di tutti i discorsi che vorrebbero cancellarlo” (Lo spirito del terrorismo, 2002).

Per tutta la vita ho sognato che bombardassero New York e non potevo essere così disonesto con me stesso e con i lettori da negarlo nel momento in cui il fatto era avvenuto. Eppure ho provato anch’io un istintivo orrore per quella carneficina, per quello sventolar di fazzoletti bianchi, per quegli uomini e quelle donne che si buttavano dal centesimo piano.

Print Friendly, PDF & Email

mondocane

La stangata

Tutti contro tutti, tutti contro la Siria e il più pulito ha la rogna

di Fulvio Grimaldi

Erdogan e DaeshPrevenzione anti-terremoto no, Tav sì

Scrivo da un’Italia che, dopo aver esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a urlare in faccia  ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo, alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre. Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono – vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”. Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre, Ponte sullo Stretto, per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici. Basterebbe rimettere l’IMU a chi può.

Si ristabilirebbero l’organico e i bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio, tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del 2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo di firma.

Print Friendly, PDF & Email

znet italy

Provocare la guerra nucleare tramite i media

di John Pilger

war propaganda by glogauerL’assoluzione di un uomo accusato del peggiore dei crimini, il genocidio, non ha fatto notizia. Né la BBC né la CNN se ne sono occupate. Il Guardian si è permesso un breve articolo. Un’ammissione ufficiale così rara è finita sepolta o soppressa, comprensibilmente. Spiegherebbe troppo riguardo a come i reggitori del mondo lo governano.

La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) de L’Aia ha sollevato in silenzio l’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, dalle accuse di crimini di guerra commesse durante la guerra bosniaca del 1992-95, compreso il massacro di Srebrenica.

Lungi dall’aver cospirato con il condannato leader serbo-bosniaco Radovan Karazdic, in realtà Milosevic “condannò la pulizia etnica”, si oppose a Karazdic e cercò di fermare la guerra che ha smembrato la Jugoslavia. Sepolta verso la fine di una sentenza di 2.590 pagine lo scorso febbraio, questa verità demolisce ulteriormente la propaganda che giustificò l’offensiva illegale della NATO in Serbia nel 1999. Milosevic è morto d’infarto nel 2006, solo nella sua cella de L’Aia, nel corso di quello che è stato un processo fasullo da parte di un “tribunale internazionale” inventato dagli Stati Uniti. Negatogli un intervento al cuore che avrebbe potuto salvargli la vita, le sue condizioni sono peggiorate e sono state controllate e mantenute segrete da dirigenti statunitensi, come da allora ha rivelato WikiLeaks.

Print Friendly, PDF & Email

mondocane

USA-Italia-Etiopia, Yemen, Eritrea

I criminali, le vittime, il target e rispettivi corifei

di Fulvio Grimaldi

E a Ventotene tre frodatori, eredi di tre frodatori, con i loro corifei

OromoMedaglia d’argento della maratona, medaglia d’oro dell’eroismo

Il  drammatico, coraggioso, nobilissimo gesto della medaglia d’argento etiopica della maratona di Rio ha squarciato non solo l’ipocrita e cinica immagine dello sport affratellante e pacificante, in effetti mercato mafioso e strumento di guerra fredda (vedi la montatura del doping russo). Ha squarciato il velo dietro al quale l’Occidente e l’Italia in prima persona nascondono, a vantaggio di rapine e profitti, l’orrenda dittatura e i sistematici genocidi compiuti dal regime di Addis Abeba nei confronti dei vari popoli del Corno d’Africa. Tra i quali i somali e, sottoposti ad aggressioni latenti o attive da oltre sessant’anni, gli eritrei.

L’eroico Feyisa Lilesa, con i polsi levati alti e stretti nel gesto delle manette all’arrivo della maratona, nello sbatterli sul muso dei mercanti e boccaloni olimpici e sulla coscienza del mondo e, a seguire, con le interviste e denunce, ha determinato anche il suo destino: schiacciato nella scelta tra ritorno in patria per raggiungere in carcere i suoi famigliari Oromo o, più probabile, essere ucciso, e l’esilio perenne, quanto meno fino alla caduta del terrorismo di Stato che gestisce l’Etiopia ininterrottamente dai tempi di Haile Selassiè, l’amerikano, Mengistu, il sovietico-cubano, Meles Zenawi e, ora, Haile Mariam Desalegn, di nuovo amerikani.

Print Friendly, PDF & Email

militant

Il burkini e il dress code neocoloniale

di Militant

BurkiniDa ormai oltre un quindicennio, la questione dei diversi veli  indossati da alcune donne islamiche si impone ciclicamente  nel dibattito pubblico e politico. Dopo il patetico tentativo di pinkwashing con cui si giustificò l’attacco all’Afghanistan governata dai talebani («Dobbiamo liberare le donne dal burqa»), abbiamo avuto la discussione in Francia sul divieto di indossare il burqa e il niqab. Dopo l’orribile Daniela Santanché – quella che si fa chiamare col cognome dell’ex marito dopo oltre vent’anni dal divorzio e blatera sulla libertà delle altre donne – che se ne andava in giro a strappare i veli alle donne islamiche, abbiamo visto le Femen invitare in modo neocoloniale le musulmane a spogliarsi girando in topless per i quartieri islamici di Parigi (leggi 1 e 2). Ecco che adesso – in periodo di vacanze – la questione è diventata quella del cosiddetto burkini, termine nato da una contrazione impropria tra la parola burqa (abito che copre integralmente tutto il corpo – viso incluso – usato da una minoranza di donne islamiche) e la parola bikini, indumento che evidentemente – soprattutto se succinto – è ritenuto dover caratterizzare le donne occidentali. Il dibattito è stato scatenato dalla decisione di alcune città francesi di vietare l’uso del burkini in spiaggia, convalidata giuridicamente dal tribunale amministrativo e politicamente dal ministro dell’Interno francese Manuel Valls (leggi), secondo il quale addirittura il burkini non sarebbe compatibile coi valori della repubblica francese in quanto espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna.

Print Friendly, PDF & Email

mondocane

Bloody Sunday Forever

di Fulvio Grimaldi

Tranquilli. E' lungo quanto un instant book. Ma c'è tutto Ferragosto e io per un po' non apparirò. Buon Ferragosto

BloodyNon domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo (Eugenio Montale, “Ossi di seppia”)

Ci sono i romanzi di formazione e ci sono le esperienze di formazione. La mia è racchiusa nelle 16 ore che vanno dalle 14 del 30 gennaio 1972 alle 06 del 31 gennaio.Tra quando partì la marcia dei diritti civili a Derry a quando, dopo il massacro, poi iconizzato come  Domenica di Sangue, sfuggendo aille ricerche dell’esercito britannico, raggiunsi Dublino e consegnai ai giornali e alla radio della Repubblica irlandese le pellicole e i nastri di quanto avevo fotografato e registrato. Avevo vissuto la tragedia palestinese, la Guerra dei Sei giorni, la brutalità della guerra tra Stati giocata sul raggiro e il sacrificio dei sudditi, il feroce razzismo contro una popolazione cui usurpare la terra e da togliere di mezzo. Avevo già avuto prove di come si sopprimono voci sconvenienti per il potere del momento: la censura israeliana controllava i miei reportage da trasmettere a Paese Sera e sbianchettava qua e là. E’ vero che, alla fine, mi buttò fuori, quando è troppo è troppo, ma fu più che altro per un alterco con un capitano dell’esercito che abusava dei caduti e prigionieri arabi.

Print Friendly, PDF & Email

ilpungolorosso

Terrorismo e guerra infinita

Intervista alla redazione di Il Cuneo Rosso

Trovate qui un’intervista fatta alla redazione del Cuneo rosso da un redattore de “Il pane e le rose” a seguito del documento “Parigi, Bruxelles e la guerra infinita“, riguardo all’islam politico e alla guerra infinita dichiarata dalle potenze occidentali alle masse arabo-islamiche

neverending war by c dane1) Cominciamo dall’ISIS. In un vostro scritto del mese di aprile, intitolato “Parigi, Bruxelles e la guerra infinita” – pur sottolineandone l’ideologia reazionaria – esprimete l’esigenza di distinguere tra una critica di classe e una borghese a questa componente dell’islam politico…

Risposta – Sì, per noi è fondamentale la più rigorosa separazione dalla campagna di stato contro l’ISIS. Follìa, fanatismo, barbarie, odio per la democrazia, e altre balle del genere sono i temi ripetuti fino alla nausea dai mass media per arruolarci nella guerra che, a dire loro, l’ISIS ci avrebbe dichiarato. Questa propaganda di stato, rilanciata alla grande dagli ultimi attentati a Orlando in Florida e a Dacca, rovescia il rapporto causa-effetto, e nasconde il reale contenuto della lotta dell’ISIS e del jihadismo.

Punto primo: non sono stati né l’ISIS, né il jihadismo ad avere aperto la guerra in corso. È stato l’intero Occidente, con l’avallo morale di Gorbaciov, a scatenarla, se non vogliamo risalire ancor più indietro, dal 1990-’91, con la prima aggressione all’Iraq di Saddam Hussein – la successiva è stata nel 2003. Da allora non c’è stato un solo giorno di tregua: Iraq (straziato anche da uno spietato embargo dell’ONU, che costò la vita a 500.000 bambini), Somalia, Palestina, Libia, Afghanistan, Sudan, Pakistan, Siria, etc., ovunque le armate yankee, europee, israeliane, hanno colpito nel mucchio, facendo montagne di cadaveri (6-8 milioni, si stima) e fiumane di profughi (almeno altrettanti), e producendo distruzioni apocalittiche.

Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Ucraina: popolo in miseria e timori tra i golpisti

di Fabrizio Poggi

poveraucraina 606x300La situazione sociale ed economica ucraina è in caduta libera: lo dimostrano alcune cifre pubblicate a Kiev e altre rese disponibili a Langley. I sondaggi del Comitato statale di statistica (ComStat) indicano che il 72% degli ucraini si dichiara “povero” (era il 57% nel 2008, anno di crisi) e solamente lo 0,7% (il 2% nel 2008) ritiene di far parte della “classe media”, mentre è scesa dal 41 al 27% la porzione di popolazione che considera il proprio stato a metà strada tra povertà e “condizione media”. Soltanto il 6,2% delle famiglie considera il proprio reddito sufficiente e riesce a mettere da parte qualcosa. Il ComStat scrive di un 43% di famiglie che rinunciano costantemente all’essenziale, tranne il cibo e un 46% che riesce a far pari, senza però fare risparmi; ma il 4,9% delle famiglie, nel 2015 non ha potuto assicurarsi nemmeno gli alimenti quotidiani e ha dovuto digiunare per 1 o 3 giorni.

La questione, ovviamente, non riguarda oligarchi quali Rinat Akhmetov, Igor Kolomojskij, Gennadij Bogoljubov o Viktor Pinčuk che, con un patrimonio complessivo di 7,2 miliardi di $, detengono poco meno del 30% della ricchezza totale (circa 24 miliardi di $, secondo la classifica di Focus Ucraina: miliardo più, miliardo meno, secondo le diverse classificazioni) dei 100 uomini più ricchi d’Ucraina.

Print Friendly, PDF & Email

orizzonte48

L'equalizzazione, la guerra civile permanente e l'israelizzazione €uropea

di Quarantotto

charlatan e14477617544971. L'autore della strage di Nizza era di origine tunisina ma con documenti di cittadinanza francese; aveva alle spalle una storia di piccoli reati (di violenza).

Riferita alla situazione francese, che è quella che nell'Occidente europeo si presenta come la più caratterizzata dal terrorismo, si conferma quanto si era più volte evidenziato, parlando dell'evidente stortura di una "guerra con l'Islam". Bazaar ha ripetutamente analizzato questo aspetto in termini di conflitto sociale, e quindi distributivo, in un'economia dominata dal mercato globalizzato, parlando di "menti elementari", cioè quelle che reagiscol'israelizzazione €no in automatico-acritico allo spin mediatico indotto dagli stessi che sostengono il mercatismo mondialista.

 

2. Nell'illustrare come manchino le condizioni più basilari per poter parlare del "siamo in guerra con l'Islam", - salvo quanto si può aggiungere sulla questione "saudita" (e occorrerà tornarci)- si era evidenziato un aspetto così evidente che, infatti, in Italia, è del tutto trascurato:

Print Friendly, PDF & Email

lantidiplomatico

Il mancato golpe in Turchia

Sabotaggio, incompetenza o inganno?

di Federico Pieraccini

Il Golpe in Turchia rimane ancora da decifrare ma le prime conseguenze iniziano a rivelarsi

700x350c50Per capire il colpo di Stato in Turchia, bisogna analizzare le motivazioni che hanno portato il golpe a fallire. Una premessa: c’era davvero l’intenzione rovesciare il potere e arrestare Erdogan ? Chi sono i mandanti ? Partendo da questi interrogativi e vagliando le possibili risposte, si ottiene un quadro ragionevole e autentico in una vicenda ancora molto confusa.

Partiamo da qui. Ipotizzando l’esistenza di un manuale del ‘Perfetto Colpo di Stato’, è molto probabile che tratterebbe e spiegherebbe accuratamente l’importanza dei primi obiettivi da mettere a segno per il buon esito di un golpe:

  • L’arresto del Capo di Stato
  • La nomina di un Rappresentate dei golpisti e di una conferenza stampa attraverso i media nazionali per tranquillizzare la popolazione.
  • Il controllo di tutte le fonti di informazione/comunicazione.
  • L’appoggio di almeno una parte consistente delle forze dell’ordine.
  • Il controllo dei ministeri.
  • Il controllo degli aeroporti civili e militari.
  • Il controllo del parlamento.
  • Il controllo dei cieli.
  • Il Coprifuoco.

Il mancato arresto di Erdogan è una vicenda molto indicativa delle reali intenzioni del golpe.

Print Friendly, PDF & Email

mondocane

Turchia: sono capaci di tutto

di Fulvio Grimaldi

“La mente è come un paracadute, non funziona se non si apre.” (Frank Zappa)

“Siamo gli strumenti e i servi di uomini ricchi dietro le quinte. Siamo le marionette; loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre capacità e le nostre vite sono tutti la proprietà di altri. Siamo prostitute intellettuali”. (John Swinton, direttore del “New York Tribune”, 1880).

turchiagolpe 160716125740 bigPartiamo dall’ultima bufala False Flag, quella dell’autogolpe del tiranno turco, destinata a completare, con l’ennesima carneficina di propri sudditi, la serie di autoattentati con cui è riuscito a governare uno Stato di Polizia quasi perfetto. Gli mancava la liquidazione di qualche residuo di esercito, magistratura, informazione, politica (il gruppo Fethullah Gulen) e una dimostrazione ad alleati vagamente perplessi che senza di lui non si va da nessuna parte. E così ha allestito il suo incendio del Reichstag, quello che nel 1933 servì a Hitler per rimuovere comunisti, socialisti e cattolici antifascisti e, nel 2001, con l’11 settembre, alla cupola militar-finanziaria-industriale USraeliana a lanciare la guerra per la loro dittatura mondiale.

Lo sibila tra i denti anche lo stesso Gulen che, ovviamente, rintanato negli Usa sotto tutela e controllo di Washington, non c’entra niente. Anche perché quando mai lui, islamista integralista quanto Erdogan, avrebbe potuto/voluto lanciare contro il sultanato una forza militare che, a dispetto delle epurazioni islamizzanti subite negli anni, mantiene una robusta base secolare e nazionalista. Anche perché per una roba del genere i suoi sorveglianti americani non gli avrebbero mai allentato le briglia.

Print Friendly, PDF & Email

marxxxi

Un mondo senza guerre, tra idee e realtà

E. Alessandroni intervista Domenico Losurdo

In un’intervista esclusiva per il nostro sito, Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione Politico-Culturale Marx XXI, presenta il suo nuovo libro, “Un mondo senza guerre”

alessio boni guerra e paceIniziamo da un nesso immediato: il tema centrale del tuo nuovo libro (D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma) non può che richiamare alla mente, a quel lettore che ha seguito un poco il tuo percorso intellettuale, un altro tema a cui hai dedicato attenzione nel corso dei tuoi studi: quello della non-violenza (cfr. La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Roma-Bari 2010). Esiste un filo conduttore tra questi argomenti e tra queste due ricerche?

Il libro sulla non-violenza giunge a un risultato assai sorprendente per il comune lettore. Al momento dello scoppio della prima guerra mondiale Gandhi si offriva quale «reclutatore capo» di truppe indiane per l’esercito britannico e lanciava un appello alla mobilitazione totale: l’India doveva essere pronta a «offrire nell’ora critica tutti i suoi figli validi in sacrificio all’Impero», a «offrire tutti i suoi figli idonei come sacrificio per l’Impero in questo suo momento critico»; «dobbiamo dare per la difesa dell’Impero ogni uomo di cui disponiamo». Lenin invece esprimeva tutto il suo orrore per la carneficina che infuriava, invitava a porvi fine e promuoveva la rivoluzione in nome anche della pace.

Print Friendly, PDF & Email

trad.marxiste

L’imperialismo nel XXI secolo

di John Smith

corriga pittoreIntroduzione

La globalizzazione della produzione e il suo spostamento verso i paesi a basso reddito costituiscono una delle più significative e dinamiche trasformazioni dell’era neoliberista. La sua forza trainante fondamentale consiste in quello che numerosi economisti chiamano “arbitraggio globale del lavoro”: lo sforzo compiuto dalle imprese in Europa, Nord America e Giappone al fine di tagliare i costi e aumentare i profitti rimpiazzando il relativamente ben pagato lavoro domestico con manodopera estera a basso costo, ciò sia attraverso l’emigrazione della produzione (la cosiddetta “esternalizzazione”) sia tramite l’emigrazione dei lavoratori. La riduzione dei dazi e la rimozione delle barriere ai flussi di capitali hanno stimolato la migrazione della produzione in direzione dei paesi a basso reddito, ma la militarizzazione delle frontiere e il crescere della xenofobia hanno creato l’effetto opposto sulla migrazione dei lavoratori provenienti da questi stessi paesi – non fermandoli del tutto, bensì inibendo il loro flusso e aggravando il già vulnerabile status di serie B dei migranti. Di conseguenza, le fabbriche attraversano liberamente il confine USA-Messico e passano agevolmente i muri della fortezza Europa, così come le merci in esse prodotte e i capitalisti  che le possiedono, mentre gli esseri umani che vi lavorano non godono del diritto di passaggio. Si tratta di una parodia di globalizzazione – un mondo senza frontiere per tutto e tutti a esclusione dei lavoratori.

Print Friendly, PDF & Email

conness precarie

Il Brasile e le acrobazie della democrazia

A. Di Eugenio intervista Francisco Foot Hardman

Golpe1Pubblichiamo l’intervista realizzata da Alessia Di Eugenio, dottoranda all’Università di Bologna, a Francisco Foot Hardman, professore presso l’Università Statale di Campinas. Negli anni ’70 e ’80 del Novecento Foot Hardman è stato militante contro la dittatura militare in Brasile e tra il 1983 e il 1985, nella fase finale della dittatura, è stato uno dei principali editorialisti del quotidiano «Folha de S. Paulo», politicamente impegnato nella campagna per le elezioni dirette per la presidenza del Brasile. Si è occupato di storia del movimento operaio in Brasile e, più recentemente, del ruolo della memoria e delle rappresentazioni culturali riguardo il periodo storico della dittatura (1964-1985). Ha inoltre partecipato e sostenuto le iniziative del collettivo «Feijoada Completa», creato a Bologna da studenti e ricercatori brasiliani e italiani in solidarietà alle proteste nelle città brasiliane contro il golpe.

Foot Hardman fornisce una precisa ricostruzione dei recenti avvenimenti della crisi brasiliana, inserendola in un quadro genealogico che mostra le dinamiche complesse in cui si è prodotta.