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sinistra

Una doverosa replica ad una risposta

Alcune note critiche all’articolo di Guglielmo Carchedi L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va

di Antonio Pagliarone

In calce a questo articolo un primo provvisorio commento di Pagliarone, seguito da una replica di Carchedi

schiele129Punto Primo

Carchedi definisce l’imperialismo come “appropriazione, anche con la forza ma non solo, di plusvalore internazionale”. Cosa significhi lo sa solo lui. Secondo gli esempi che fa (petrolio e bilancia commerciale in deficit) sembrerebbe che teorizzi l’imperialismo come appropriazione ossia l’aggressione (militare ed economica) per rapinare materie prime o chissà che altro). Innanzitutto vorrei ricordare a Carchedi che nell’opuscolo “Imperialismo fase suprema del capitalismo” Lenin riprende le tesi di Bucharin e di Hilferding per diffonderle alle masse. In esso si fa riferimento all’espansione del capitale nei paesi arretrati per la realizzazione di plusvalore grazie al lavoro e a materie prime a basso costo. Non si tratta di appropriazione pura e semplice ma di classici investimenti di capitale. Naturalmente a quel tempo la guerra mondiale rappresentava lo strumento per poter realizzare l’obiettivo della conquista di aree di egemonia. Purtroppo l’epoca delle guerre mondiali preconizzata da Lenin si è rivelata erronea. Dopo il Secondo Conflitto mondiale (in realtà prosecuzione del Primo) non abbiamo mai più visto, e grazie al cielo non subiremo mai più, una devastazione del genere a meno che Carchedi non voglia paragonare le “guerre” che sono seguite al conflitto planetario terminato nel 1945 ad un conflitto imperialistico, allora saremmo veramente alla frutta. Ma Carchedi ci fornisce una sua definizione: “Allora che cos'è l'imperialismo?  Se ci limitiamo all'aspetto economico, che è poi quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalista portata a livello internazionale.

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mondocane

No NATO, un bel passo avanti

di Fulvio Grimaldi

No War NO NATOAver messo i piedi nel piatto nazionale (e internazionale) dell’indifferenza e della complice sudditanza nei confronti del North AtlanticTreaty Organization è merito del Comitato No Guerra No Nato che ha raccolto e cercato di dare espressione unitaria e istituzionale alle mobilitazioni che, non da ieri, sono state portate avanti da avanguardie e comunità in Sicilia (No Muos), Sardegna (No Nato), Vicenza (No Base Usa), Friuli (No Base Usa) e anche in Val di Susa (No Tav contro la militarizzazione del territorio e del mondo). Aver raccolto queste istanze, come espresse anche in una legge di iniziativa popolare depositata in Parlamento fin dal 2008, e averle interpretate in termini di messa in discussione del Trattato e della sua applicazione, se non dell’immediata uscita dell’Italia (e dell’Europa), quanto meno nell’esame dell’ipotesi e della fondamentale rivendicazione della neutralità del nostro paese, è una grande merito dei parlamentari Cinque Stelle. Tanto più che succede in coincidenza con uno Stoltenberg (forzando un po’: Montagna degli stolti, nomen omen), maggiordomo Nato con il logo SS tatuato sulle natiche, dalla Nato scovato in qualche manicomio criminale, che aveva appena finito di intimarci di spendere di più per agire e perire di guerre e di atomiche. Bella risposta, quella del 29 gennaio a Roma.

Il 29 gennaio, nella sala dei gruppi della Camera, si è svolto un convegno dal significativo titolo “Se non fosse NATO”, che già adombra, al di là delle puntualizzazioni di vario peso dei relatori e convenuti, un’Italia che non abbia subìto dal patto leonino con gli Usa l’affronto alla sua sovranità e alla sua Costituzione.

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Commento critico a L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va di Guglielmo Carchedi

di Antonio Pagliarone

http://www.sinistrainrete.info/estero/6501-guglielmo-carchedi-l-imperialismo-oggi-che-cos-e-e-dove-va.html

Non si capisce cosa c'entrino i riferimenti all'imperialismo di Lenin con il resto dell'articolo. Viviamo nel nuovo millennio e si insiste nel blaterare di imperialismo quando ciò che sta accadendo mostra il totale stravolgimento delle banalità del passato. Ma oltre a ciò viene presentato il seguente grafico che illustrerebbe l'andamento della produttività in Germania e Italia.

Si tratta di una clamorosa cantonata.

La produttività in Germania ha avuto negli ultimi anni una fra le crescite più basse del mondo (vedi ad es. Lapavitsas e vedi il grafico sottostante a quello che Carchedi ha tratto dall'articolo di Giussani sull'Eurozona apparso sul n 1 di Countdown, dove ci sono assieme il saggio di accumulazione netto tedesco e il tasso di variazione della produttività della Germania - i quali, guarda caso, vanno insieme-, che sono anche più basse della Grecia. Esattamente come l'accumulazione in capitale fisso che è pressochè zero. Cose che sono state notate da tutti al mondo.

Tasso di crescita della produttività del lavoro (PIL/L) in Italia e Germania
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Germania. Saggio netto di accumulazione e tasso di variazione della produttività del lavoro. 1971-2012.

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Suggerirei anche di visionare il grafico 12 relativo agli investimenti netti in Capitale fisso in Germania. 1951-2012 presente sempre nell'articolo di Giussani “L’Euro e la crisi dell’Eurozona”.

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Giussani così commenta: “La diminuzione del saggio del profitto può spiegare il declino del saggio di accumulazione solo fino all’inizio degli anni ’80 (grafico 9). Dopo, il movimento del saggio di accumulazione assume una sua propria fisionomia discendente che lo porta a formare nel tempo una notevole massa di capitale monetario eccedente (grafico 11).L’interessante sarebbe capire come questo capitale è stato impiegato. Ma la Germania è altra cosa dagli Stati Uniti, e, in omaggio alle sue grandi tradizioni di libertà, tolleranza, circolazione delle idee, spirito critico e efficienza, non possiede statistiche pubbliche degne di tal nome, ergo dei flussi di capitale e reddito dell’economia tedesca sappiamo poco o nulla”

Suggerisco una lettura di tutto il poderoso articolo di Giussani che smentisce tutti i luoghi comuni sulla zona Euro che circolano regolarmente. Leggiamo meno i quotidiani pseudo economici e cerchiamo di andare a fondo alle questioni.

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fabioalberti

La “Questione d’Oriente”, l’”Infelicità araba” e il Daesh

di Fabio Alberti

Oriente, questione d’ Complesso dei problemi politici internazionali aperti dalla progressiva decadenza dell’impero ottomano. La questione d’O. interessò le cancellerie europee dalla fine del sec. 17°, dopo la sconfitta dell’esercito turco a Vienna (1683). L’impero ottomano divenne oggetto delle ambizioni delle potenze occidentali.”(Dizionario di storia, Enciclopedia Treccani)

 L’infelicità araba ha questo di particolare: la provano quelli che altrove parrebbero risparmiati, e ha a che fare, più che con i dati, con le percezioni e con i sentimenti”. (Samir Kassir)

sykes picot20map20 20british20libraryIl modo in cui funziona l’occhio umano dà luogo al quel fenomeno per il quale l’illuminazione di un oggetto impedisce la vista di ciò che vi sta intorno. E’ così che la luna nasconde il firmamento e che i fari dell’automobile impediscono di vedere ciò che sta ai lati della strada. Così vale anche per la cronaca, che nasconde la storia ed impedisce di comprendere i fatti. Per questo, prima di ricostruire i minuti, i giorni, o gli anni che precedono gli attentati di Parigi (e del Sinai, di Beirut, di Bamako, di Tunisi…) occorrerebbe volgere lo sguardo ai secoli che li precedono.

Verso la fine del 17° secolo quella vasta area geopolitica che va dal Maghreb all’Azerbaigian, dai Balcani allo Yemen[1], allora controllata dall’impero ottomano, comincia ad andare in crisi. Con la perdita di centralità nel commercio mondiale, dovuto all’apertura delle rotte marittime ed il ritardo tecnologico rispetto all’area europea, si avvia un declino economico che favorisce l’emergere di spinte centrifughe dal variegato mosaico di popoli che la componevano.

E’ da allora che tra le cancellerie europee si discute la “Questione d’Oriente” come modalità di spartizione delle sue future spoglie. Se ne parlerà già al Congresso di Vienna, a latere dei negoziati sul ripristino dell’ordine monarchico seguito all’avventura napoleonica, e terrà impegnate le cancellerie europee per tutto il XIX secolo.

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la citta futura

Aspettare l’Alba?

Viaggio nella crisi. Parte IX

di Ascanio Bernardeschi

Quali possono essere gli interlocutori internazionali di un'alternativa al capitalismo? Dopo aver esaminato i paesi cosiddetti Brics, giungendo a conclusioni problematiche e non definitive, parliamo – con viva preoccupazione – dell'Alleanza Bolivariana per le Americhe (Alba) che negli ultimi anni si è opposta alla supremazia Usa nel continente latinoamericano

f863e4fb1b47b206b2276d9b70a5b183 LUn po' di storia

La quasi totalità dei paesi dell'America latina è integrata in vario grado nel Mercato Comune dell'America Latina, Mercosur, (per approfondimenti v. sotto Rif. 1) istituito nel 1991. Ancora più ampia è l'Unione delle Nazioni Sudamericane, Unasur (per approfondimenti v. sotto Rif. 2), che costituisce una comunità non solo economica ma anche politica.

Tradizionalmente l'America Latina costituiva il “cortile di casa” degli Usa ai quali sono legati Canada e Messico, attraverso l'Accordo nordamericano per il libero scambio, Nafta (per approfondimenti v. sotto Rif. 3), accordo che venne subito contestato dall'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale della regione del Chiapas (Ezln), perché molto favorevole agli USA. 

Includendo le maggiori economie nordamericane, il livello degli scambi all'interno del Nafta è nettamente superiore a quello del Mercosur (vedi grafico n. 1). Ma il livello di integrazione delle economie latinoamericane tra di loro e con la Cina è andato crescendo negli ultimi anni.

Per consolidare la propria egemonia nell'area, gli Stati Uniti, ai tempi di George W. Bush, proposero la costituzione dell'Area di Libero Commercio delle Americhe, Alca (per approfondimenti v. sotto Rif. 4), ma nel 2004, con l'ascesa al potere di Hugo Chàvez in Venezuela, si realizzò un asse tra quel paese e Cuba, quale primo impianto di un disegno alternativo a quello statunitense.

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resistenze1

L'imperialismo oggi: che cos'è e dove va

Guglielmo Carchedi * | retedeicomunisti.org

5 May 1919 Trotsky Lenin KamenevI. Con la disfatta storica del movimento operaio, la parola "imperialismo" è scomparsa dal vocabolario della sinistra ed è stata rimpiazzata da "globalizzazione". Tuttavia, se la parola è scomparsa, la realtà persiste.

Vediamo prima di tutto cosa non è l'imperialismo. Prendiamo ad esempio la nozione di Impero di Toni Negri. Ho scritto una lunga critica di Impero in un mio libro recente (Behind the Crisis). Qui posso solo menzionare telegraficamente alcuni dei punti chiave di Impero senza aver la pretesa di dare una valutazione anche minimamente completa .

Nell'Impero di Negri, mentre l'imperialismo era un'estensione della sovranità degli stati europei oltre i loro confini nazionali, ora l'Impero è un network globale di potere e contro potere senza un centro (p. 39). Quindi gli Stati Uniti non formano, e nessuno stato può formare, il centro di un progetto imperialista (p.173). Gli Stati Uniti intervengono militarmente nel nome della pace e dell'ordine (p.181).

Ma è ovvio

(1) che il ruolo degli stati non stia scomparendo, anche se come vedremo, alcuni sono inglobati in blocchi imperialisti

(2) che la nozione di potere e contropotere ignora che il potere delle nazioni dominanti non è lo stesso potere delle nazioni dominate

(3) che l'imperialismo, lungi dallo scomparire si sta trasformando pur rimanendo essenzialmente lo stesso

(4) che poi gli USA intervengano militarmente per mantenere la pace, è un'affermazione che glorifica e giustifica quell'imperialismo di cui Negri nega l'esistenza.

Consideriamo allora una persona più seria, Lenin.

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peacelink

Libia: la piazza chiede diplomazia, la Germania chiede le bombe

E l'Italia, chi ascolterà?

Patrick Boylan

Dopo le manifestazioni riuscite di sabato contro la guerra permanente, urge ora incalzare di continuo il governo, sollecitato da più parti a mandare l'Italia in una nuova e catastrofica avventura militare in Libia

Libia1Venticinque anni di guerra evidentemente non bastano a certi paesi della Nato, preoccupati per il caos che regna in Libia.

Venticinque anni di guerra sono invece fin troppi per le migliaia di italiani scesi nelle piazze di molte città italiane sabato scorso per esigere la fine di un susseguirsi ininterrotto di guerre nel mondo, iniziate il 16 gennaio del 1991 con l'operazione “ Tempesta nel deserto”. Quel giorno attaccarono l'esercito iracheno di Saddam Hussein le forze armate degli Stati Uniti affiancate da quelle di numerosi alleati, ivi compresa l'Italia – e ciò malgrado il divieto della sua Costituzione di partecipare alle guerre offensive. Purtroppo, dopo aver assaggiato quel primo frutto proibito, l'Italia si è data poi ad una scorpacciata durata un quarto di secolo: nel 1996, la guerra in Kosovo; nel 2001 (e fino ad oggi), la guerra in Afghanistan; nel 2003 (e fino ad oggi), la guerra in Iraq e, poi, nel 2011 la guerra in Libia e, indirettamente, la guerra in Siria.

E oggi l'Italia sta forse per partecipare ad una nuova guerra in Libia, voluta dai paesi della NATO, Germania in testa , per portare l'ordine nel caos libico con i missili e con le bombe: infatti, per la Ministra tedesca alla Difesa von der Leyen, è l'unico modo per dare alla Libia una speranza per il futuro e per salvarla da un oppressore. Ossia, la stessa argomentazione di quattro anni fa, con “unità nazionale” che rimpiazza “primavera araba” come speranza e “Isis” che rimpiazza “Gheddafi” come oppressore.

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contropiano2

2016. La Nato che verrà…

Antonio Mazzeo

07c8409f40b2e7854073bc70a441eac0 LAggressiva, dissuasiva e preventiva; onnicomprensiva, globale e multilaterale; cyber-nucleare, superarmata e iperdronizzata; antirussa, anticinese, antimigrante e anche un po’ islamofoba. Strateghi di morte e mister Stranamore vogliono così la NATO del XXI secolo: alleanza politico-economica-militare di chiara matrice neoliberista che sia allo stesso tempo flessibile e inossidabile, pronta ad intervenire rapidamente e simultaneamente ad Est come a Sud, ovunque e comunque.

La prova generale della NATO che verrà… si è svolta dal 3 ottobre al 6 novembre 2015 tra lʼItalia, la Spagna, il Portogallo e il Mediterraneo centrale. Denominata Trident Juncture 2015, è stata la più grande esercitazione NATO dalla fine della Guerra fredda ad oggi, con la partecipazione di oltre 36.000 militari, 400 tra cacciabombardieri, aerei-spia con e senza pilota, elicotteri, grandi velivoli cargo e per il rifornimento in volo e una settantina di unità navali di superficie e sottomarini. Presenti le forze armate di 30 paesi, sette dei quali extra-NATO o in procinto di fare ingresso formalmente nell’Alleanza (Australia, Austria, Bosnia Herzegovina, Finlandia, Macedonia, Svezia e Ucraina). In qualità di “osservatori”, inoltre, gli addetti militari di Afghanistan, Algeria, Azerbaijan, Bielorussia, Brasile, Colombia, Corea del Sud, El Salvador, Emirati Arabi Uniti, Giappone, Kyrgyzistan, Libia, Marocco, Mauritania, Messico, Montenegro, Russia, Serbia, Svizzera e Tunisia.

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mondocane

Il mio Iraq. E quello degli altri

16/1/2016, 25 anni dall'inizio dell'olocausto

di Fulvio Grimaldi

Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)

E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).

prigionieriUna partita con tre campi da gioco

In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni  dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”. Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.

Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012.

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militant

La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/terza parte

di Militant

Qui e qui la prima e la seconda parte

Obama US Saudi Arabia Horo 1 e1396027024834V. La Cooperazione internazionale e le ONG, braccio "non armato" del capitale in Siria

Uno sguardo sull’attività di cooperazione dei paesi del golfo e il caso della Qatar Charity in Siria: dall’introduzione del concetto di guerra umanitaria e di “bombing for democracy”, gli interventi di assistenza umanitaria sono sempre più legati a doppio filo a contesti di guerra, al di là di eventi quali catastrofi naturali. Anche la cooperazione internazionale, governativa o meno (attraverso il tramite delle cosiddetto associazionismo da società civile), costituisce molto spesso l’apripista per gli interventi belligeranti, laddove accordi, diplomazia e buone maniere non raggiungono il loro scopo: o c’è da dire che forse la guerra costituisce spesso il cavallo di troia attraverso cui è possibile instaurare nuovi tipi di relazioni politiche ed economiche.

Negli ultimi anni tra i donatori che non appartengono al Development Assistance Committee (DAC) dell’Ocse più recentemente saliti alla ribalta si distinguono i paesi del golfo: tra questi i donatori maggiori sono riconducibili ai paesi dell’Arabia Saudita, del Kuwait e degli Emirati Arabi Uniti.  In particolare, gli EAU nel 2014 si sono classificati per il secondo anno di fila come il più grande donatore di ODA (aiuto ufficiale allo sviluppo) al mondo in relazione al PIL: circa 1,17% del prodotto interno lordo secondo le stime DAC.

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orizzonte48

Colonialismo e cooperazione delle élites locali

A volt€ ritornano (i nuovi sepoy)

di Quarantotto

Antefatto

9d96a1a814edb044770eff9572adf884Tralasciando per il momento la "questione ambientale" (per il cui ulteriore approfondimento rinvio a questo commento di "Correttore di Bozzi"), per l'argomento in questione muoverei da quanto ricordatoci da Arturo nella sua lunga citazione di Losurdo (La sinistra assente di Losurdo (Roma, Carocci, 2014, pp. 261 e ss.):

"Ma diamo uno sguardo alla storia del colonialismo nel suo complesso. 

Il Terzo Mondo e la «grande divergenza» a danno di esso sono in larga parte il risultato della deindustrializzazione e della decrescita imposte dall’aggressione colonialista e dall’apertura subitanea e violenta del mercato nazionale alle merci più a buon mercato provenienti dalla metropoli imperialista; un’a­pertura subitanea e violenta anche perché finalizzata al mantenimento e al rafforzamento del dominio coloniale: ancora nel 1810 la Cina vantava un prodotto interno lordo che costituiva il 32,4% del prodotto interno lordo mondiale mentre « l ’ aspettativa di vita cinese (e quindi la nutrizione) era circa a livelli inglesi (e perciò sopra la media continentale) persino a fine Settecento». Non molto diversa è la storia dell’ India che, sempre nel 1810, contribuiva per il 15.7% al p i l mondiale (Davis, 1001, p. 299). Proprio in seguito all’aggressione coloniale i due grandi paesi asiatici sono stati investiti da un ciclo di progressiva decrescita e sono caduti in una miseria disperata e fatale per milioni e milioni di persone; ed è per porre rimedio a tale situazione che si è imposta una politica di sviluppo autonomo."

Il tema, e ormai lo dovremmo sapere, è stato ampiamente trattato da Chang ne "The Bad Samaritans", anche con riferimento ai dati del secondo dopoguerra, come trovate illustrato qui e qui (notare che, così come ai nostri giorni, col colonialismo del liberoscambio e del gold standard, nessuno cresceva in modo rilevante e, ovviamente, le industrie altamente inquinanti proliferavano eccome, mentre, più che mai, "le risorse erano scarse", tanto che ne derivarono ben due guerre mondiali).

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la citta futura

Ttip e Tppa: accerchiare la Cina. II parte

Verso un processo di “concentrazione” imperialistica?

di Maurizio Brignoli

L’obiettivo statunitense nella formazione del Ttip e del Ttp è quello di realizzare una concentrazione imperialistica capace di imporre le sue norme a livello mondiale e di accerchiare il principale concorrente cinese. Qui la prima parte

a111f23c16ea3f29e72a482eced3b5eb LLa crisi ha offerto il destro al capitale Usa per indebolire il concorrente europeo, utilizzando abilmente l’arma della speculazione per colpire gli anelli deboli dell’Ue e la vicenda ucraina per danneggiare i rapporti Ue-Russia isolando il concorrente russo, e per spostare risorse nello scontro principale contro la Cina.

Nelle trattative per il Ttip rimangono pur sempre degli ostacoli dettati dalla realtà dello scontro fra imperialismi rivali. In questa specie di “Nato economica” l’Ue rischia di ritrovarsi subordinata agli Usa esattamente come nella Nato militare. Inoltre, non si tratterebbe di un effettivo rapporto bilaterale visto che l’Ue non è uno stato unitario o federale e gli Usa potrebbero sempre puntare sulla divisione europea e su rapporti coi singoli stati. L’Ue ha la forza di essere il mercato più importante per popolazione e per ricchezza prodotta ma ha scarse risorse energetiche e non ha una forza militare paragonabile a quella degli altri attori dello scontro interimperialistico.

I principali esponenti del capitale a base Ue hanno ben presente il rischio di sottomissione agli Usa. A settembre Matthias Fekl, Segretario di Stato al commercio estero francese, ha lamentato che, di fronte a continue concessioni da parte europea, gli Usa non abbiano offerto contropartite serie, in particolare per quel che riguarda i servizi e gli Isds, e ha aggiunto che, andando i negoziati in una direzione sbagliata, la Francia si ritiene libera di considerare tutte le alternative, compresa l’interruzione degli stessi.

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campoantimp2

Giano, Podemos e Manolo Monereo

Santiago Alba Rico

Un intervento, quello qui sotto, che ci spiega molte cose sull'aria che si respira in Spagna dopo le elezioni del 20 dicembre, ma che offre elementi importanti per comprendere il fenomeno Podemos e quanto sta accadendo a sinistra

abrazo Iglesias MonereoGennaio è il mese di Giano, il dio romano che guardava sia avanti che indietro, la doppia porta che collegava il passato e il futuro. Se consideriamo le elezioni del 20 dicembre una soglia gianica e guardiamo indietro, è difficile esagerare i mutamenti subiti dalla Spagna da due anni a questa parte, da quando a Madrid venne alla luce l’iniziativa che oggi chiamiamo Podemos. La strada intensa, imprevedibile e talvolta tortuosa che ha portato a questi 69 deputati ha già consegnato al nostro Paese almeno tre cambiamenti decisivi.

Il primo ha a che fare con la messa in discussione di tutti gli accordi di ferro della cosiddetta “transizione” e, di conseguenza, delle pratiche politiche associate al bipartitismo dominante negli ultimi decenni.

Appoggiandosi all’aura immunologica del 15M [gli Indignatos, NdR], Podemos ripoliticizzato le maggioranze sociali spostando l’egemonia in una direzione opposta a quella dilagante in Europa. Nel paese che sembrava meglio blindato, peggio preparato e più conservatore, è riuscito a rimuovere il tabù che pesava su alcune questioni chiave (la monarchia, il modello economico e, soprattutto, "la questione nazionale") imponendo un nuovo quadro discorsivo alle forze proprie ed a quelle del regime e bloccando la strada, così facendo, al populismo di destra che avanza nel continente.

Un piccolo esempio recente: mentre in seguito agli attentati di Parigi il 13 novembre, il Fronte nazionale imponeva al "socialista" Hollande una reazione bellicosa e islamofoba, in Spagna Podemos, con la sua iniziativa di pace e contro i bombardamenti indiscriminati, ha dettato il ritmo agli altri partiti disattivando la danza elettoralista del “patto antijihadista".

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militant

La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/seconda parte

di Militant

Qui la prima parte

erdogan isisIII. Lo Stato Islamico, il pensiero strategico del nuovo jihadismo

Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University di Washington, ha recentemente dichiarato:

Se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia, ma anche una patria da difendere.

Il politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così, meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede. Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili per comprenderne la natura.

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militant

Perché ci odiano?

Culture neocoloniali e deindustrializzazione nel ventre molle dell’Europa

di Militant

francia mali africa colonialismo11 500x601Dopo gli attentati di Parigi dello scorso 13 novembre da più parti ci si è chiesti: perché ci odiano? Questa volta le risposte, almeno quelle presenti nell’informazione generalista – che però è quella che forma l’opinione pubblica e di conseguenza le risposte politiche che a loro volta formano l’opinione pubblica in un loop senza fine – hanno tentato la carta psicologica. I terroristi altro non sarebbero che “scarti sociali” con “un livello medio-basso di cultura, una famiglia molto solida ed unita alle spalle e la pericolosa tendenza al fanatismo religioso. In tutti i terroristi si è sempre osservato che più si chiudevano ed isolavano rispetto alla società più diminuiva il loro senso di realtà, alimentando così dichiarazioni sempre più farneticanti da rendere quindi ogni loro “delirio” come giusto e possibile. In tutti i terroristi si è anche sempre osservato che la molla che li ha spinti ad agire è sempre l’odio” (qui). La scelta terrorista sarebbe la conseguenza di un’esistenza alienata e marginale che trova nell’idea forte del radicalismo islamico una prospettiva altrimenti impossibile e con internet lo strumento di relazione della propria patologia. Di tutte le risposte che i policy makers occidentali potevano escogitare questa è davvero la più incredibile. Non che ci credano essi stessi (se il capitalismo fosse così stupido sarebbe seppellito da un pezzo tra le bizzarrie della storia), ma essendo la più veicolata diviene quella socialmente più accettata, dando vita ad un processo di de-responsabilizzazione complessivo delle società occidentali. Corollario alla risposta psicologica è la richiesta di una “psicologia dell’antiterrorismo”, che miri a prevenire psichiatricamente la patologia del terrorista. Purtroppo, a queste cose l’opinione pubblica ci crede davvero.