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il ponte

Nuovi cieli e nuova terra

di Lanfranco Binni

migranti ungheria 744x4451In Siria non è andata come doveva andare. La spartizione neocoloniale del paese è rinviata a tempi migliori. Contrordine: va interrotta l’evacuazione forzata della popolazione civile e bisogna promuovere il rientro, forzato, dei profughi; via dall’Europa, compatibilmente con le esigenze tedesche di capitale umano di qualità; i campi di concentramento in Turchia saranno aree di transito per il rientro in Siria, mentre al governo turco è stato concesso di lucrare sui profughi con finanziamenti europei. La Nato passa al piano B: consolidare la Turchia come avamposto dell’Occidente contro la Russia (la guerra ai curdi siriani e irakeni, la feroce repressione della società turca, sono effetti collaterali da «comprendere»), spostare il focus degli interventi militari dalla Siria alla Libia, all’intero continente africano. Il cambio di strategia comporta la dislocazione nell’area libica di quello che resta dell’Isis, indebolito dalla sconfitta militare in Siria e da conflitti crescenti con la galassia del jiadismo, in primo luogo con le reti di al Qaeda.

Nella notte del terrorismo tutte le vacche sono grigie, ma le semplificazioni non aiutano certo a capire quanto sta accadendo nel continente africano: un intreccio caotico di «islamizzazione della radicalità» sul retroterra delle lotte anticoloniali degli anni sessanta del Novecento e delle esperienze del nazionalismo, del socialismo, del panarabismo e del panafricanismo.

La storia di BokoAram in Nigeria, erede dei movimenti progressisti antifeudali duramente repressi dal governo centrale, e dal 2015 milizia criminale affiliata all’Isis, è sintomatica di una radicalizzazione islamista eterodiretta. «Naturalmente – scrive Philippe Houdon in “Le Monde Diplomatique” (marzo 2016) – i paesi africani sono le prime vittime della violenza armata. Il terrorismo conduce a rafforzare i regimi autoritari e a innescare un ingranaggio di violenza, povertà e marginalizzazione rovinando le prospettive economiche e creando zone inaccessibili o abbandonate», e i conflitti «non fanno che aumentare il numero di sfollati, rifugiati e migranti». Alla desertificazione climatica si aggiunge la desertificazione sociale, mentre l’Occidente persegue, su una linea neocoloniale, strategie del «caos» funzionali alla rapina delle risorse del continente, allo spaccio di armamenti, alla disgregazione di società fragili e ostaggio di oligarchie servili e corrotte. Ma la «strategia del caos», che aveva un suo disegno nella politica statunitense ed europea, si sta trasformando nel caos delle strategie. In un quadro geopolitico sempre più complicato e confuso, tutte le variabili (presunti interessi «nazionali» dell’Occidente, protagonismi predatorii, manovre sottotraccia, reazioni e potenzialità di un «nemico» fondamentalmente sconosciuto) risultano ingovernabili. La guerra mondiale, alla vigilia della prossima crisi finanziaria occidentale, è entrata in un vicolo cieco, e il confronto economico-militare tra Stati Uniti-Europa e Russia-Cina per ora si è risolto a favore della Russia, partner principale del governo siriano nella ricostruzione del paese devastato, e della Cina che prosegue in silenzio la sua metodica penetrazione economico-politica nel continente africano. Nell’area siriana la nascita di una confederazione democratica nei cantoni curdi di Kobane, Afrin e Jazira, non su base etnica e religiosa, è un dato nuovo e importante, alternativo a logiche di spartizione territoriale: la confederazione prefigura un nuovo assetto federale dello Stato siriano.

Non molto meglio sta andando in Libia, nonostante i proclami bellicosi della Nato, lo sferragliare di sciabole e gli sgomitamenti dei governi europei, dagli eredi di Tartarino di Tarascona ai ruggiti del topo del governicchio italico. Anche in questo caso il disegno strategico di una spartizione della Libia e delle sue risorse energetiche nella prospettiva di una spartizione neocoloniale dell’intero continente africano, sta fallendo miseramente. La farsa del terzo governo libico come governo fantoccio al servizio di grandi imprese belliche si sta scontrando con la dura realtà di un paese reso ingovernabile dall’Occidente e che comunque, nonostante i basisti come il generale Haftar, agente della Cia, può solo compattarsi di fronte a una nuova aggressione militare dei predatori delle risorse energetiche del paese, provocando nuove fughe di profughi sulla rotta italica.

Il sedicente governo italiano, sempre più espressione di gruppi dirigenti autocratici al servizio delle banche, dei predatori della finanza internazionale e della Nato, sta annaspando sul terreno della politica estera: la missione in Libia che avrebbe voluto guidare (un posto al sole, l’Italia ha di nuovo un impero, Tripoli bel suol d’amore, ecc.), si sta incartando. Agli annunci dell’egolatra di Rignano, ragazzo di bottega del Pentagono, non crede più nessuno; le sue furbizie di «gran comunicatore» hanno le gambe corte. Ha distrutto quello che poteva, dal lavoro allo stato sociale, alla Costituzione, ma è a fine corsa. Negli ultimi giorni, lo spudorato servilismo nei confronti del fascista al-Sisi (con la connivenza di «la Repubblica» renziana), l’attacco ai contenuti del referendum sull’acqua pubblica, l’attacco al referendum del 17 aprile contro le trivellazioni petrolifere lungo le nostre coste, la tenace difesa del recinto oligarchico del «partitino della nazione», sono tutti segni di profonda debolezza di un sistema politico imploso. Il nemico della banda al governo è la democrazia, la partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale. È l’esito del bombardamento economico che ha aumentato la povertà e la precarietà, alla vigilia di grandi disastri. Alle chiacchiere mediatiche sulla crescita economica, sull’Italia che riparte, sulle magnifiche sorti del capitalismo italiano, non crede più nessuno. L’unica crescita è quella del debito pubblico, delle disuguaglianze, dell’insicurezza sociale, dell’abbandono alla povertà di intere generazioni di giovani e anziani, delle tasse di rapina che colpiscono i sempre più poveri e senza speranza, della distruzione della scuola pubblica, dell’analfabetismo di massa. Non importa avere il patentino di sociologi per capire quanta disperazione, depressione e violenza si stia riversando nelle vite quotidiane, trasformando le famiglie in luoghi d’inferno: la cronaca «nera» è anche cronaca politica.

Il sistema politico italiano è imploso: guerra per bande a destra come a «sinistra», un «governo della malavita» isolato, un intero paese tramortito, impaurito, demograficamente invecchiato. Bisogna capire il senso di tutto questo, vedere i limiti dello scenario, ma soprattutto saperne vedere le potenzialità sommerse, represse, occultate dalla comunicazione dei media al servizio del potere. In questo paese ci sono sempre state due Italie, non è una novità. Nel Novecento, c’erano nell’Italia giolittiana, durante il fascismo, hanno continuato a esserci dopo la Resistenza e la Liberazione, fino ai decenni del liberismo straccione berlusconiano e del suo proseguimento in altra forma: non sto parlando della destra e della sinistra, parlo dell’«alto» e del «basso», della piramide sociale, in termini storici e strutturali. La crisi attuale, certamente non solo in Italia, della democrazia rappresentativa che rappresenta soltanto le oligarchie al potere, è nello stesso tempo un punto di arrivo e di partenza: punto di arrivo della forma politica di un sistema economico in crisi strutturale; punto di partenza di un diverso modello di sviluppo della società, oltre le aporie distruttive del capitalismo, e di una diversa visione dell’economia e della socialità. È stato questo il terreno di elaborazione e sperimentazione del socialismo, del comunismo e del libertarismo nell’Ottocento e nel Novecento, con i suoi gloriosi «assalti al cielo» (la Comune di Parigi, la rivoluzione russa, la rivoluzione cinese, i movimenti di liberazione del !terzo mondo»), le sue sconfitte, le sue trasformazioni e insistenze carsiche (oggi, in Russia e in Cina, in America latina, ma anche – sia pure in forme marginali e talvolta residuali – in Europa e negli stessi Stati Uniti. Sono cambiate le forme dell’organizzazione capitalistica, dal taylorismo al postfordismo, sono cambiate le forme delle organizzazioni statuali, sono cambiate le classi, sono emersi nuovi bisogni di massa. In generale, lo storico proletariato industriale è stato marginalizzato dalla crisi dell’ economia «reale», mentre si sono estesi processi di proletarizzazione dei ceti intermedi. La cultura neoliberista degli anni ottanta-novanta ha compiuto l’opera, trasformando tutti, lavoratori o no, in consumatori (o no, se la proletarizzazione diventa nuova povertà); ne è stata un’applicazione per tutte le borse la cultura del postmoderno, con le sue scemenze sulla società liquida, sull’eterno presente (delle merci e quindi della coscienza), sulla beatificazione delle nuove tecnologie. Nella «sinistra» italiana, la rimozione delle esperienze e del pensiero critico del Novecento, la desertificazione della storia, è stata accompagnata dalle rimozione fisica delle generazioni attive nelle lotte politiche e sociali degli anni sessanta-settanta: «vecchi», vuoti a perdere, scarti dei processi produttivi. È stata spezzata la dinamica intergenerazionale, in un paese demograficamente invecchiato in cui ai giovani è riservato un lavoro precario, quando c’è, senza diritti. Ai vecchi viene riservata la paura, la chiusura nei ghetti familiari, la vita nera della solitudine.

Questa è la realtà spacciata dai gruppi di potere attraverso i media, funzionale a un dominio incontrastato dei sudditi, ridotti a spettatori inerti di uno spettacolo miserabile. Non vanno a votare? Meglio. Ma questa «narrazione» di realtà è completamente falsata, anche se il bombardamento ideologico produce assuefazione, asservimento, complicità corruttive, rinuncia a vivere. Parlare di pensiero critico libertario, di socialismo, di comunismo, in una situazione del genere può apparire anacronistico, ma anche questa è una reazione indotta da chi sta riscrivendo la storia, nei media, nell’editoria e nelle università, occultandone i conflitti e criminalizzando chi confligge, in nome di una «democrazia» e di un «liberalismo» che ammettono esclusivamente i riti e gli inganni dei poteri oligarchici nell’economia, nella politica, nella cultura. Con questa «democrazia liberale», copertura delle peggiori nefandezze del capitalismo finanziario, stanno entrando in conflitto settori sempre più estesi della società italiana: non risolve i problemi di un paese in crisi, anzi li aggrava. È il momento di una grande rivolta «dal basso», riattivando esperienze e percorsi di «nuova socialità», progettando e prefigurando una realtà radicalmente diversa, fondata sulla centralità dei singoli indipendentemente dalla collocazione sociale, dal genere, dalle generazioni. Capitini parlava di «omnicrazia», come tensione culturale e operativa a una società di tutti, come capacità di costruzione di relazioni in una «realtà liberata», qui e ora, non rinviabile al futuro, confliggendo con i limiti e le imposture di una falsa democrazia, con il potere dei pochi. Con la sua sapiente semplicità, apparentemente ingenua, così scriveva negli anni cinquanta lo sperimentatore e teorico della democrazia diretta:

[…] Che non vi sia, né sia stata mai vera e propria democrazia in Italia, lo provano, tra gli altri, questi due fatti: che poche migliaia di persone, anche ora che esiste una certa libertà legale, si occupano attivamente, intensamente di molteplici iniziative civili, sociali, politiche, religiose, culturali; qualche milione di persone guarda o segue; il resto non se ne cura nemmeno. Così avviene che quei pochi sono carichi di lavoro; gli altri non aiutano, non collaborano effettivamente. E così le associazioni si reggono su “cirenei”, e non c’è un decentramento di lavoro. L’altro fatto è il modo di sentire (ed entrambi i fatti hanno lontane origini nella società italiana) le leggi, le autorità, le amministrazioni pubbliche, come cose dall’alto, di provenienza maledetta e necessaria.

Per reagire a questi due gravi fatti io ed amici iniziammo a Perugia, pochi giorni dopo la liberazione dal fascismo, il lavoro dei Centri di orientamento sociale (C.O.S.). Il primo nella città, e gli altri che poi sorsero negli stessi rioni di Perugia e in villaggi ed altre città, come Arezzo, Ferrara, Ancona, Firenze, avevano lo scopo di promuovere riunioni periodiche per l’esame di tutti i problemi, amministrativi locali e nazionali, e politici, sociali, tecnici, culturali, A Perugia, al C.O.S. centrale, tenuto prima nella sala della Camera del lavoro, poi dell’ex Fascio, e infine nel Palazzo comunale, le riunioni erano due: il lunedì per i problemi cittadini, il giovedì per i problemi politici e sociali.

Pratiche d’altri tempi, sull’onda lunga dell’antifascismo e della Resistenza? Piuttosto pratiche sociali rimosse dai partiti della sinistra negli anni della restaurazione democristiana e atlantica. La democrazia è la lotta per la democrazia, lotta politica e culturale nell’intera società, soprattutto in «basso». E quando l’«alto» diventa espressione di una società ristretta, e come sta accadendo si autoisola e si dimostra incapace di governare, e tenta disperatamente di consolidare il suo dominio oligarchico con atti d’imperio autocratici calpestando diritti costituzionali e interessi sociali di settori sempre più estesi della popolazione, allora è il momento dell’attacco dal «basso», della democrazia diretta come strumento di opposizione e prefigurazione di un assetto sociale diverso. Le «due Italie» dell’«alto» e del «basso», oggi visibilmente separate, hanno sempre avuto il loro doppio nelle «due Italie» trasversali dell’impegno civile e della servitù volontaria, della lotta per la democrazia e delle complicità con il potere. Con il riflusso delle lotte operaie e studentesche negli anni ottanta e il suicidio del Pci dopo il 1989, l’Italia dell’impegno civile e della conflittualità sociale ha resistito, sia pure in condizioni di frammentazione e assenza di rappresentanze, alle derive neoliberiste di un sistema politico in perenne stato di crisi. Oggi, in una situazione internazionale drammatica che ci coinvolgerà sempre più direttamente, è necessario sviluppare senza incertezze nuovi processi di aggregazione «dal basso», esperienze di «nuova socialità» capaci di incidere sulle organizzazioni sociali periferiche, in primo luogo le «autonomie locali», su linee di autorganizzazione e democrazia diretta, rovesciando le «narrazioni» comunicazionali del potere politico, economico e culturale in visioni e prospettive fondate sulla vera realtà dei rapporti sociali e della vita quotidiana. La questione centrale è la voce dei senza voce. I vecchi? Non più vuoti a perdere ma «pantere grigie» consapevoli della loro storia, della nostra storia. I giovani? Non più funzioni inerti del mercato, consumatori di cianfrusaglie tecnologiche, aspiranti cuochi e camerieri, ma ribelli attivi, nuovi partigiani. Le donne? Non più subalterne ai riti dei ruoli sociali e familiari, ma conflittuali con le prigioni familiari. I migranti? Non più invisibili, ma avanguardie politiche della specie che si difende dalle guerre e dalle devastazioni del pianeta. La guerra? Noncollaborazione, antimilitarismo, sabotaggio, boicottaggio, fuori dalla Nato. L’Europa? L’internazionalismo non ha confini. Gli intellettuali? Non più patetici cani da guardia della cultura del potere, vitelloni del cazzeggio in spazi consentiti dai media, ma creatori di pensiero critico e antagonista.

Si tratta di sviluppare processi di liberazione collettiva, libertari e più che socialisti, fondati sul protagonismo dei singoli, dei piccoli gruppi, degli impegni comuni, intervenendo su ogni aspetto della vita sociale, piccolo e grande, contro il governo della malavita, contro i suoi attacchi alla Costituzione nata dalla Resistenza, ai diritti di chi lavora e di chi è condannato alla precarietà, alla scuola pubblica, alle condizioni di vita delle classi popolari. Né si tratta di sostituire a un potere oligarchico un altro potere di pochi, perché tutto continui come prima. Si tratta di cambiare prospettiva: «nuovi cieli e nuova terra» (Capitini, Rivoluzione aperta, 1956). Molto da pensare e molto da fare.

Comments

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Claudio
Monday, 28 March 2016 17:57
L’intera analisi che fa mi trova d’accordo, l’apprezzo soprattutto per la sua chiarezza, ma la ricetta che da non mi convince affatto. Le molteplici esperienze d’intervento dal basso dei decenni passati, su vari aspetti della vita sociale, non hanno portato ad un bel niente, anzi, dopo avere inizialmente creato tante speranzose illusioni, col passare degl’anni, accorgendosi di battersi inutilmente contro un muro di gomma, si sono via via disfatte come neve al sole, lasciando un deserto fatto di disillusione apatica, di abbandono della politica attiva, di azzeramento di ogni spinta al protagonismo politico e sociale. Mi dispiace per lei e per chi ancora ci crede, ma la ricetta anarchica è soltanto pura contestazione, che, come tale, lascia il tempo che trova, ed è per questo che da un bel pezzo è stata rilegata tra i ferri vecchi della storia e non credo proprio che possa mai rimettersi in sesto. Probabilmente mi sbaglierò, ma credo che la via da battere resti soltanto quella indicata da Marx, dei “proletari di tutti i paesi unitevi” e della creazione dell’organizzazione politica dirigente a scala il più possibile internazionale per l’assalto al potere, badando, come dice lei, che “non diventi espressione di una società ristretta, e come sta accadendo si auto isoli e si dimostri incapace di governare, e tenti disperatamente di consolidare il suo dominio oligarchico”. Affermo ciò, in quanto non dimentico, come invece sembra fare lei, che siamo dominati dalla grande finanza globale, che è ultra organizzata ad ogni livello, alla quale la lotta dal basso non fa nemmeno un graffio.
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