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sinistra

Un esempio di lotta antimperialista

La Repubblica Popolare Democratica di Corea

di Eros Barone

nordcorea kimIl testo che segue è un estratto del discorso che Ernesto Che Guevara tenne il 6 gennaio 1961 alla televisione cubana al rientro da un viaggio della delegazione cubana nei Paesi socialisti. Non risulta che sia stato pubblicato in Italia, sicché la traduzione è stata condotta sul testo pubblicato in rete nel sito dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che mette a disposizione l’opera completa del rivoluzionario argentino.

 «Fra i Paesi socialisti che abbiamo visitato personalmente, la Corea è uno dei più straordinari. Forse è quello che più ci ha impressionato rispetto agli altri. Ha solo 10 milioni di abitanti e l’estensione di Cuba, un po’ meno, circa 110mila kmq; la stessa estensione territoriale della parte sud della Corea, però con la metà degli abitanti. È stata devastata a causa di una guerra così incredibilmente distruttiva che delle sue città non lasciò nulla, e quando uno dice niente è niente; è come i piccoli villaggi che gente come Merob Sosa e Sánchez Mosquera [due capi militari dell’esercito cubano nel periodo della dittatura di Batista] bruciava qui, e dei quali non rimaneva nient’altro che cenere. Così rimase, ad esempio, Pyongyang, che è una città di un milione di abitanti. Oggi non si vede un solo resto di tutta quella distruzione; tutto è nuovo. L’unico ricordo che resta sono, in tutte le strade, i buchi delle bombe che cadevano una dopo l’altra.

 Essi mi hanno mostrato molte fabbriche, tutte ricostruite ed altre nuove. (…) La Corea del Nord uscì dalla guerra senza nemmeno un’industria in piedi, perfino senza animali. In un’epoca in cui la superiorità aerea dei nordamericani era tanto maggiore, ormai non avevano nient’altro da distruggere, quindi gli aerei si divertivano uccidendo bovini e ciò che incontravano. Era davvero un’orgia di morte quella che si abbatté sulla Corea del Nord in soli due anni, al terzo anno apparvero i Mig-15 e la cosa cambiò, però questi due anni di guerra significarono forse la distruzione sistematica più barbara mai compiuta.

Tutto ciò che si può raccontare sulla Corea del Nord sembra una falsità. Per esempio, nelle foto si vede gente con odio, quest’odio dei villaggi quando arriva alla parte più profonda dell’essere, che si vede nelle foto delle caverne dove entrano 200, 300 o 400 bambini, di un’età di 3 o 4 anni, e vengono uccisi lì con il fuoco o con il gas; gli squartamenti delle persone, l’uccisione di donne incinte a baionettate per farle uscire il figlio dal grembo; il bruciare i feriti con i lanciafiamme; le cose più inumane che possa immaginare la mente umana furono compiute dall’esercito di occupazione nordamericano. E arrivò quasi al confine della Corea con la Cina, e occupò in un certo momento quasi tutto il Paese. Sommato al fatto che in ritirata distruggevano tutto, possiamo dire che la Corea del Nord è un Paese che si è rialzato dalla morte. Ovviamente ha ricevuto l’aiuto dei Paesi socialisti, soprattutto dall’Unione Sovietica, in una forma ampia e generosa. Ma ciò che più impressiona è lo spirito di questo popolo. È un popolo che uscì da tutto ciò dopo una dominazione giapponese di 30 anni, da una lotta violenta contro la dominazione giapponese senza nemmeno avere un alfabeto. Sarebbe a dire che, in questo senso, era uno dei popoli più arretrati del mondo. Oggi ha una letteratura e una cultura nazionale, un ordine nazionale e uno sviluppo praticamente illimitato della cultura. Ha un insegnamento secondario fino al nono grado, obbligatorio per tutti. (…)

È, davvero, l’esempio di un Paese che grazie ad un sistema e a dirigenti straordinari, come è il maresciallo Kim-il Sung, ha saputo uscire dalle disgrazie più grandi per essere oggi un Paese industrializzato.

La Corea del Nord potrebbe essere per qualsiasi persona di Cuba il simbolo di uno dei tanti Paesi asiatici arretrati. Comunque noi gli vendiamo uno zucchero semilavorato come lo zucchero crudo, ed altri prodotti ancora grezzi come l’agave tessile, e loro ci vendono torni, macchine di ogni tipo, macchine per miniere, vale a dire prodotti che richiedono una elevata capacità tecnica per essere fabbricati. Per questo è uno dei Paesi che più ci entusiasma.»

A distanza di più di mezzo secolo, superato l’arduo frangente costituito dalla grande carestia degli anni novanta del secolo scorso, il giudizio del Che trova la sua conferma negli straordinari successi conseguiti dal regime socialista della Corea del Nord nei più diversi campi. Successi che comprendono la completa abolizione delle tasse, la medicina popolare gratuita e preventiva, l’istruzione obbligatoria fino ai 16 anni, un articolato sistema universitario, la modernizzazione dell’agricoltura e l’espansione dell’industria meccanica, elettrica e siderurgica, senza trascurare la lotta all’inquinamento, la salvaguardia del meraviglioso patrimonio naturale che caratterizza il territorio di questo Paese asiatico e la costruzione di poderose infrastrutture (in Corea del Nord esiste la più grande diga del mondo, lunga 8 chilometri e denominata, con un’espressione che pone in risalto l’importanza del ruolo svolto dalle forze armate non solo nella difesa dell’indipendenza nazionale e nell’economia ma anche negli altri aspetti della vita quotidiana, “Fuoco di Sbarramento del Mare Occidentale”). Queste conquiste sostanziano lo sviluppo di quelle che i dirigenti nord-coreani chiamano le “tre rivoluzioni” (ideologica, tecnica e culturale), e rappresentano la forma concreta in cui si realizza l’idea filosofica del ‘Juché’, sintesi di umanesimo, nazionalismo e comunismo, nonché principio cardine che orienta l’azione del Partito del Lavoro e ne legittima la funzione di guida del regime socialista.

Solo dopo aver fatto questa premessa sulla natura e sul carattere del regime della Corea del Nord, e tenendo ben presente il principio marxista secondo il quale la politica estera è una proiezione della politica interna e dei rapporti di produzione che la condizionano, è possibile rispondere al quesito, che gli ultimi eventi di questi mesi hanno posto al centro della situazione mondiale, circa il motivo per cui le amministrazioni degli Stati Uniti che si sono susseguite a partire dalla guerra di Corea fino ad oggi hanno sempre condotto nei confronti di questo Paese, senza apprezzabili distinzioni tra democratici e repubblicani, una politica aggressiva e tendenzialmente bellicista. Orbene, la risposta a tale quesito va cercata nella tattica del ‘divide et impera’, poiché non vi è dubbio che il processo di riunificazione della Corea rappresenterebbe una svolta storica non solo in Asia, ma nel mondo intero. Le stesse difficoltà incontrate dai due Stati negli anni novanta del secolo scorso (difficoltà, peraltro, aggravate dal peso crescente della spesa militare sui rispettivi bilanci), la prolungata carestia nel Nord e il crac economico-finanziario nel Sud, hanno messo all’ordine del giorno, da un lato, la necessità della riunificazione e, dall’altro, la sua impossibilità dovuta alla pervicace opposizione degli USA nei confronti di questa prospettiva e alla loro scelta di usare la Corea del Sud come avamposto politico e militare in funzione della loro strategia di contenimento e di attacco alla espansione della Cina e della Russia.

Nei decenni intercorsi a partire dalla guerra di Corea, scatenata dall’imperialismo USA sulla penisola coreana e sfociata nella divisione tra il Nord e il Sud, la Repubblica Popolare Democratica di Corea, diretta prima da Kim Il-sung e poi da Kim Jong-il, ha tenacemente perseguito l’obiettivo della riunificazione, mentre all’inizio degli anni novanta il dissolvimento dell’URSS e di altri paesi socialisti ha contribuito ad accentuare il carattere nazionale della ‘via coreana al socialismo’. Che questa, per i dirigenti nord-coreani, fosse una scelta obbligata si capisce facilmente, se si tiene conto sia della posizione geopolitica della penisola coreana, la quale si trova nel punto di intersezione di quattro grandi potenze (Cina, Russia, USA e Giappone) sia della storia, la quale ha visto ripetutamente scontrarsi tali potenze in quest’area (dalla guerra russo-giapponese del 1904-’05 al dominio giapponese che ebbe inizio nel 1910, dalla guerra degli USA contro la Cina e l’URSS fra il 1950 e il 1953 all’occupazione statunitense del Sud).

Sennonché è impossibile concepire un progetto (e avviare un processo) che sia più ragionevole, per il popolo coreano e per la causa della pace nel mondo, di quello che si pone come obiettivo la riunificazione, concepita giustamente dai dirigenti nord-coreani sulla base di un modello confederale che si può riassumere con la stessa formula (“Un Paese, due Stati”) elaborata dalla Cina per giungere alla riunificazione con Hong Kong, e che la Cina ripropone come principio per la riunificazione con Taiwan. D’altra parte, non è possibile non rilevare l’inquietudine con cui gli USA e il Giappone guardano alla prospettiva della riunificazione della Corea. Le ragioni sono molteplici, ma quella essenziale va ricercata nel fatto che tale prospettiva ha un carattere enantiodromico rispetto alla disgregazione cui sono stati sistematicamente sottoposti tutti gli Stati che hanno contrastato l’imperialismo unitario del blocco nippo-euro-statunitense. In effetti, se vi è un progetto che preoccupa una frazione di tale blocco, è proprio quello che concerne l’unificazione ferroviaria tra le due Coree e il collegamento con la ‘Transiberiana’, che unisce la Russia all’Europa. La realizzazione di un simile progetto ridurrebbe i tempi di trasporto delle merci fra Asia ed Europa dagli attuali trenta giorni ad una settimana. Questo solo dato (riduzione dei costi e dei tempi) è sufficiente, nell’epoca del ‘just in time’, a spiegare, insieme, ad esempio, con il progetto di collegamento ferroviario fra Russia, India e Iran, che avrebbe il suo terminale nel Golfo Persico, le preoccupazioni del Giappone e degli USA. In particolare, di questi ultimi che, impegnati a vari livelli e in differenti aree, in uno scontro mortale per il controllo delle materie prime e delle vie di comunicazione, sarebbero tagliati fuori da un possibile asse euro-russo-coreano.

Per quanto riguarda, invece, il punto di vista e l’approccio che caratterizzano la linea di condotta del Partito del Lavoro e del governo della Repubblica Popolare Democratica di Corea, fondamentale è la loro constatazione che la politica estera, per essere efficace e non velleitaria, deve basarsi sul realismo. In questo senso, è molto istruttivo rammentare il giudizio che la Corea del Nord ebbe a formulare, cinque anni fa, sull’esito della crisi libica. In esso il governo nord-coreano rilevava che l’esito di tale crisi confermava la «verità storica per cui la pace può essere preservata soltanto costruendo una propria forza, fino a quando nel mondo si presenteranno comportamenti arbitrari e prepotenti». Ecco, dunque, definito con la massima precisione, nell’ottica nord-coreana, l’errore tattico-strategico che costò a Gheddafi la sconfitta militare e una tragica morte. Un errore le cui radici risalivano alle guerre del Golfo, quando gli Stati Uniti avviarono, in séguito all’indebolimento dell’URSS di Gorbaciov, una vasta serie di interventi di carattere “umanitario”, cercando di collegare alla dinamica della globalizzazione economica le dottrine strategiche e le necessità di espansione della propria sfera d’influenza. Nella fase attuale, in cui il fronte della contrapposizione si è focalizzato, per un verso, nelle aree euro-asiatiche e, per un altro verso, in quelle afro-asiatiche, l’obiettivo perseguito dagli USA sembra essere proprio quello di appoggiarsi sui regime più reazionari dei Paesi che rientrano in quelle aree (Arabia Saudita, monarchie del Golfo, Turchia ecc.), senza trascurare l’uso diretto o indiretto del terrorismo dell’ISIS e di altri movimenti islamo-fascisti dello stesso tipo, al fine di rimescolare le carte in Africa e nel Vicino Oriente togliendo spazio sia alla Cina che alla Russia. In effetti, dei nove “Stati canaglia individuati da George W. Bush nel 2001 (Iran, Iraq, Sudan, Siria, Corea del Nord, Libia, Cuba, Pakistan, Afghanistan) soltanto tre si trovano attualmente nelle stesse condizioni politiche e territoriali esistenti in quell’epoca: Iran, Corea del Nord e Cuba. Tutti gli altri Stati sono stati eliminati o pesantemente indeboliti, ad eccezione del Pakistan, depennato dalla lista dopo aver deciso di collaborare con Washington nella guerra al “terrorismo internazionale”. Se Islamabad era da escludere, risultava chiaro che, dopo l’intervento militare in Libia, l’obiettivo principale degli USA e della NATO si sarebbe spostato verso la Siria. In questo caso, però, era quanto mai prevedibile che lo scontro militare avrebbe assunto proporzioni ben più imponenti, data l’indubbia superiorità strategica della Siria di Assad nei confronti della Libia di Gheddafi.

Dal canto suo, la Corea del Nord ha sempre ribadito che per garantire la propria sicurezza occorre destinare almeno il 30% del Pil alla spesa militare, sviluppare un forte programma di investimenti nei settori della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, integrare programmi nucleari civili e militari, non consentire a chicchessia di mettere in discussione l’integrità territoriale e la stabilità politica degli Stati emergenti sullo scenario internazionale, pretendere una relativa reciprocità nel quadro dei rapporti bilaterali in base ai principi della non-ingerenza e della coesistenza pacifica. Secondo il governo di Pyongyang, questa è la risposta da dare a chi ha affermato che «tre sono i grandi imperativi della geostrategia imperiale: impedire collusioni e mantenere tra i vassalli la dipendenza in termini di sicurezza, garantire la protezione e l’arrendevolezza dei tributari e impedire ai barbari di stringere alleanze». Ma chi ha enunciato, con una lucidità e una stringatezza che meritano di essere definite ‘cesariane’, questo programma imperiale? È Zbigniew Brzezinski, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, docente di politica estera a Washington e consigliere del presidente Obama, nonché autore del libro “La grande scacchiera” (1998), da cui è tratta la citazione.

In conclusione, occorre riconoscere che, nonostante le pesanti provocazioni militari di cui è stata, ed è, fatta segno, nonostante la sistematica campagna propagandistica, tanto furibonda quanto grottesca, scatenata a furia di mistificazioni, falsificazioni e denigrazioni contro di essa e, in ispecie, contro il suo governo e contro il suo attuale ‘leader’, Kim Jong-un, la Corea del Nord ha finora ottenuto un grande successo su tutti i fronti della politica estera: verso gli USA, poiché ha dimostrato che solo il possesso dell’arma nucleare può scoraggiare le aggressioni dell’imperialismo (come dimostrano ‘e contrario’ le vicende politico-militari dell’Iraq, della Jugoslavia e della Libia); verso la Corea del Sud, poiché ha saputo calibrare con la tattica del bambù (massima flessibilità quando soffia il vento, massima durezza quando è il momento di colpire) le sue relazioni con la propria consorella; verso la Cina, della quale, in queste ultime settimane, ha messo a nudo la linea opportunistica nel campo della politica estera. Perciò, i comunisti, gli autentici pacifisti e i sinceri democratici di tutto il mondo, nel riconoscere la funzione giusta e progressiva assolta dalla Corea socialista sia nella politica interna sia nella politica estera, hanno il dovere di schierarsi al suo fianco nella lotta contro l’imperialismo.

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