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Brexit, prendere tempo per non perdere spazio?

Giuseppe Molinari intervista Marco Veronese Passarella

 104177355 brexit nodeal illustrationDagli scorsi mesi stiamo prestando particolare attenzione ai processi che stanno determinando un sostanziale cambiamento del quadro politico, economico e sociale internazionale. Sono sempre più evidenti quelle espressioni di rifiuto dello status quo all’interno della composizione sociale che, connesse ad una crisi che sembra infinita e a conflitti intercapitalistici più o meno diretti, ridefiniscono l’ordine mondiale: la globalizzazione è messa in discussione, così come il predominio secolare degli Stati Uniti, mentre l’Unione Europea vive al suo interno sempre maggiori contraddizioni, a partire da quanto sta succedendo in Gran Bretagna.

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Ne parliamo con Marco Veronese Passarella, a cui chiediamo, alla luce delle trattative tra governo britannico e Commissione europea, com’è orientato, ad oggi, il dibattito interno in Gran Bretagna? L’attesa prolungata e la mancata determinazione di una soluzione definitiva ha portato ad un rafforzamento delle posizioni moderate – nelle scorse settimane, per esempio, ci sono state alcune manifestazioni di piazza a favore dell'indizione di un nuovo referendum - o il sentimento pro-Brexit continua ad essere preponderante?

Nelle scorse settimane sono scesi in piazza i cosiddetti “ceti medi riflessivi”, ovvero coloro che vivono la Brexit con un certo senso di colpa e che sono ancora ottimisti sul possibile risultato di un secondo referendum. Va ricordato, innanzitutto, che il referendum del giugno 2016 fu una scelta fatta dai Tories per cercare di arginare e annullare l’Ukip e riportare quella massa di elettori nel recinto conservatore; da questo punto di vista l’operazione è riuscita, anche se, come abbiamo visto, ha determinato un esito diverso, incontrollabile per gli stessi conservatori.

I “Remainers“ sono abbastanza ottimisti, ma non contano che dei 500 mila in piazza la scorsa settimana non tutti sono elettori, altri non hanno nemmeno la cittadinanza britannica; considerando, poi, che in Gran Bretagna vivono più di 60 milioni di abitanti, è palese che essi non siano in maggioranza. Anche perché se perdono questo secondo referendum...

Il resto del paese, secondo me, ha espresso un giudizio contro l’attuale conformazione dell’Unione Europea, esito simile per principio e risultato ad altrevotazioni tenutesi in tutta Europa. E’ un voto contro il sistema, contro le èlite, contro il fatto che le decisioni per il tuo paese vengano prese da qualcuno così distante dal tuo sentire. E’, perciò, non solo un voto contro l’immigrazione, ma matura in seguito ad una doppia crisi: quella finanziaria e quella dei debiti sovrani, che ha spinto migliaia di giovani italiani, greci, spagnoli a spostarsi in massa in Gran Bretagna, anche se, in realtà i “Brexiters” hanno votato contro l’approdo dei lavoratori dell’est, che spesso fanno lavori meno qualificati.

 

Puoi ricostruirci lo stato dell’arte delle trattative? Al momento, al di là delle varie soluzioni tecniche discusse e proposte, ci sembra che un accordo non sia in via di definizione ma che, anzi, entrambe le parti stiano cercando di guadagnare tempo.

Al momento circolano varie ipotesi, ma mi sembra che ciò che sta intralciando le trattative più di ogni altra cosa, è la divisione all’interno dei Tories. Non è escluso che un accordo, alla fine, ci sia: se io fossi Theresa May, se sapessi che all’interno del mio partito sono presenti una serie di falchi che non aspettano altro che mandare tutto all’aria, aspetterei l’ultimo momento disponibile per comunicare al Parlamento inglese di avere raggiunto un accordo con l’UE, in modo tale da imporgli una scelta: accettare tale accordo o lasciare. Perciò, anche se May avesse realmente uno stralcio di intesa, non lo sapremmo perché non è conveniente per lei presentarlo pubblicamente.

Il vero nodo, sembra paradossale – utilizzo questo termine perché durante la campagna elettorale per il referendum si è discusso di tutto fuorché di questo –, è l’Irlanda, perché si rischia di minare l’integrità territoriale del Regno Unito. UE e governo britannico concordano su una cosa: evitare di porre un confine tra Sud e Nord per non frenare il processo di pace costruito in questi decenni. Ma, in ogni caso, un confine deve esserci: in questo modo lo si sta implicitamente ponendo nel Mar d’Irlanda. Allo stesso tempo, il rischio è quello di avvicinare troppo Irlanda del Nord e Sud, trattamento privilegiato che gli scozzesi immediatamente impugnerebbero.

Poi c’è la questione del cosiddetto backstop, una sorta di accordo paracadute: Londra ha rilanciato affermando di voler rimanere nel mercato comune e nell’unione doganale. Le istituzione europee sono scettiche, si chiedono cosa può succedere, cosa fare nel caso in cui negoziati si prolungassero. May è più che disponibile a prolungarli – in ambienti europei si dice che andranno avanti fino al 2025 - mentre i falchi dei Tories si oppongono ad un periodo più lungo; ma, se si dovesse trovare una soluzione nel breve periodo, rimarrebbe viva la questione Irlanda, che dovrebbe stare da una parte o dall’altra del confine. Alla fine, perciò, il vero problema sono le divisioni interne ai Tories.

Un’altra questione problematica che si pone per l’UE: permetterebbe ad Irlanda e Scozia di aderire al progetto europeo se il fallimento delle trattative dovesse portare allo sfaldamento del Regno Unito? E’ un discorso problematico per i governanti europei, dal momento che al suo stesso interno sono presenti delle forti tendenze centripete – Catalogna docet.

Quindi questo possibile o mancato accordo rischia di avere ripercussioni sulle trattative con gli altri paesi. Nessuno vuole svelare le sue carte.

Dal punto di vista economico non sarebbe difficile trovare un accordo: basterebbe fare un copia-incolla di gran parte delle regolamentazioni esistenti e rivederli su base bilaterale.

Esiste un altro paradosso: il governo britannico è interessato soprattutto alle esportazioni di servizi finanziari e vorrebbero rinegoziare queste norme, con meno vincoli per la City. Cosa conviene, invece, all’ Unione Europea? Tutti gli stati europei si appoggiano a Londra per molti servizi finanziari, perché è impossibile spostare, dall’oggi al domani, a Parigi o Francoforte un polo così all’avanguardia. C’è, dunque, una forte convenienza a ricontrattare.

Stessa cosa vale per i prodotti manifatturieri, seppur a parti invertite: qualsiasi città dell’Inghilterra è colma di auto tedesche. Hanno un sistema industriale a pezzi, importano tutto dall’estero. Anche se, secondo alcune ipotesi, dietro i Tories che spingono per l’Hard Brexit, c’è quel residuo di industria manifatturiera che vede nel troncamento dei rapporti con l’UE la possibilità di espandere il proprio commercio, conquistando tutto il mercato interno.

Tutti hanno interesse a ratificare un accordo di libero scambio, UE compresa, perché la Gran Bretagna è importatore di merci e, in un contesto internazionale in cui la domanda langue, non possono privarsi di un mercato di sbocco così importante...

Le frizioni sono quindi tutte politiche, non economiche.

 

Che impatto ha avuto e avrà la Brexit sul mercato del lavoro? Soprattutto per quanto riguarda la mobilità intra-europea della forza-lavoro.

Una parte campagna referendaria dei Remainerssi è giocata sull’impatto che la Brexit avrebbe avuto sul mercato del lavoro britannico: il livello di deregolamentazione in Gran Bretagna è molto alto, l’Unione europea, in un certo senso, rappresenta una sorta di baluardo per i diritti dei lavoratori! Ciò può sembrare strano per greci o italiani, è più comprensibile se consideriamo le politiche sul lavoro dei governi Thatcher e Blair.

Non credo che alla fine cambierà molto da questo punto di vista: la disoccupazione è ai minimi storici – ovviamente è un pieno impiego in termini statistici, che nasconde sottoimpiego e redditi bassi. Sui lavoratori non nativi: l’economia britannica necessita di lavoratori stranieri, perché chi arriva a Londra o nelle altre città, ha un titolo di studio mediamente più alto della stessa popolazione nativa, nonostante il considerevole livello di istruzione presente in Gran Bretagna. L’unico vero cambiamento, se non consideriamo l’inevitabile caos iniziale che si determinerà, è la possibile richiesta di un visto d’ingresso, che naturalmente è una scocciatura, ma per certi versi non è dissimile a quanto accade nei paesi extra-Ue. Tra l’altro, secondo me, verrà richiesto solo ai nuovi arrivati.

 

Indubbiamente, però, questo scenario che hai descritto apre al possibile aumento dei lavoratori “illegali” sul territorio, ovvero tutti quei soggetti che si trasferiscono in Inghilterra, magari per periodi brevi,per svolgere un lavoro non qualificato e che non hanno le carte in regola per avere i documenti ufficiali. Non si corre il rischio di una contrazione dei salari?

Questo rischio esiste, soprattutto a Londra. C’è indubbiamente una pressione al ribasso dei salari, in particolare in alcune fasce basse, soprattutto per quanto riguarda i lavori meno qualificati. E’ anche vero che in Gran Bretagna il controllo è molto più stringente rispetto all’Italia, basti pensare alla presenza delle frontiere in entrata.

Inoltre, esistono già alcuni meccanismi di questo tipo: per esempio, una volta finiti gli studi, il neo-laureato deve dimostrare di guadagnare un certo reddito per rimanere sull’isola. Spesso succede che alcuni datori di lavoro fanno il contratto a cifre più alte e il lavoratore deve restituirne una parte. Quindi non so se la Brexit potrà avere segni sul mercato del lavoro: potrebbe rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori nativi e diminuire quello dei nuovi arrivati. Ma la vera scommessa, mi sembra, è capire quali effetti avrà nell’economia britannica nel suo insieme.

In relazione a quanto dicevamo prima, nei dibattiti antecedenti al referendum, considerata la penuria di professori disposti ad esporsi per la Brexit, ero spesso chiamato, in quanto critico della UE, ad esprimere la mia opinione sulla fuoriuscita della Gran Bretagna. Dovendo vestire i panni del critico rispetto agli altri relatori, mettevo in guardia rispetto ai pensieri catastrofisti: se declino sarà, si avvertirà nel lungo periodo - fermo restando le ovvie instabilità nel breve. In ogni caso i problemi della Gran Bretagna stanno nella struttura della sua economia, troppo sbilanciata verso la finanza. Proveranno ad agganciarsi ai mercati emergenti, anche se l’economia mondiale è in rallentamento e nell’aria c’è una crisi con l’UE come possibile epicentro.

 

Tornando al rapporto tra i due attori di cui stiamo parlando, possiamo dire, utilizzando una metafora, che se Atene piange, Sparta non ride. I problemi interni all’UE sono talmente evidenti che sarebbe pleonastico ripeterli; gli ultimi sondaggi in Italia, inoltre, mostrano una crescente propensione negativa nei confronti del progetto europeo. Ora che persino Angela Merkel, ultimo baluardo della stabilità governativa in Europa, lascerà il proprio posto, quanto vedi probabile uno sfaldamento dell’UE?

Angela Merkel è stata brava a salvaguardare gli interessi della Germania negli ultimi anni, ma ha ceduto alla tentazione di utilizzare alcune parole in passato – per esempio le uscite sui fannulloni del Sud Europa - che rischiamo di produrre un effetto boomerang. Inoltre è segnata da lunghi anni di governo e oggi chiunque puzzi di èlite viene punito. L’elettorato oggi sembra essere molto sensibile al tema popolo vs èlite, maggioranza vs casta. Merkel paga questo, perché rappresenta un pezzo importante di questa aristocrazia.

Le spinte alla frammentazione regionale sono presenti in tutta Europa e sono figlie dello stesso processo di unificazione europea. Non serve scomodare la dialettica di Hegel: ogni volta che si produce una tendenza, c’è una controtendenza. Spingere verso l’unificazione fa, per forza di cosa, aumentare i localismi, i particolarismi, i rigurgiti identitari. Neanche l’Europa è così forte in queste trattative. Sanno che Theresa May è preoccupata per una eventuale rottura britannica, ma riconoscono che questi temi avranno ricadute anche al loro interno. L’ UE sta vivendo, perciò, un momento non meno problematico rispetto alla Gran Bretagna. Il progetto europeo è questo: una gabbia deflazionistica, un modo per convincere la Germania, inizialmente recalcitrante, all’unione. Il progetto dell’Unione Europea è morto e risorto mille volte con funzioni completamente diverse: è rinata dopo l’implosione dello SME, sotto spinta francese, per contenere i propositi della Germania, inizialmente poco convinta di entrare. In seguito ha aderito perché hanno concesso all’Ovest di inglobare Est e perché hanno garantito una Banca centrale indipendente che si fa garante di politiche deflazionistiche, necessarie alla Germania perché ha un’economia votata alle esportazioni. Questa aggressione verso i mercati esteri, talvolta persino militare, è una loro caratteristica e per questo motivo sono da sempre fissati sull’ inflazione, perché impatta sulla loro competività. L’UE rinasce su queste basi: un’area di libera circolazione di merci e capitali con la BCE indipendente, vergata su trattati, implementati successivamente con misure discutibili.

Sul piano politico non è mai esistita l’UE, non potrà mai esserci: davvero qualcuno è convinto che i generali francesi saranno mai disponibili a condividere i loro segreti con gli omologhi degli altri paesi? O che il sistema industriale tedesco – in cui è presente una forte commistione tra governo, banche e industrie – è propenso ad accettare di perdere terreno nei confronti delle industrie degli altri paesi? Quindi abbiamo questo meccanismo di deflazione interna che produce mostri, tendenze identitarie, e questo desiderio di rivalsa nei confronti della Gran Bretagna farà molto male al proprio interno.

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