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Note su solitudine e politica in Spinoza

Paolo Godani

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1.  Gli studi spinoziani non hanno mancato di rilevare la funzione che la paura della solitudine svolge, dall’Etica al Trattato politico, nella formazione dello stato. Sostituendo il metus solitudinis al metus mortis hobbesiano, Spinoza non si limita soltanto a prendere le distanze dall’idea, formulata in De cive I, 2, secondo cui «hominem ad societatem aptum natum non esse», ripristinando invece l’immagine aristotelico-scolastica dell’uomo come animale sociale (cfr. E IV, 35 sch.; e TP II, 15), ma si libera soprattutto della finzione di un’età precedente alla società, nella quale gli individui avrebbero vissuto nell’isolamento. «Barbari o civilizzati – si spiega in TP I, 7 – dappertutto gli uomini intrecciano relazioni reciproche e danno forma ad una qualche forma civile», dato che essi «per natura desiderano la condizione civile» (TP VI, 1). Per Spinoza, la civitas non si configura come il frutto di un patto tra individui che vivano dapprima isolati in uno stato di natura, bensì come la condizione originaria dell’umanità. Lo stato civile non sopravviene allo stato di natura negandolo, dato che segue invece le medesime leggi di quello; così che la civitas non può essere intesa come uno stato nel quale, con l’istituirsi del potere sovrano, sia abolito l’isolamento degli individui, dato che quell’isolamento, come la potenza e il diritto che gli individui soli portano con sé, non è altro che una finzione: il diritto naturale (jus humanum naturale), quando sia «definito dalla potenza di un singolo» e «proprio di un solo individuo», è infatti «inesistente e frutto di sola e irreale opinione (nullum esse, sed magis opinione quam re constare», così che, «in conclusione, il diritto di natura, proprio del genere umano, si può difficilmente concepire senza leggi comuni che rendano uniti gli uomini (jus naturae, quod humani generis proprium est, vix posse concipi, nisi ubi homines jura habent communia)» (TP II, 15).

Meno valorizzato dagli studiosi è il fatto che la solitudo compaia nel pensiero di Spinoza non solo come l’isolamento temibile (per quanto fittizio) che è scongiurato dalla vita comune, ma soprattutto come l’effetto del dissolversi della civitas. In questo senso, sembrerebbe che l’isolamento dell’individuo non sia più mera opinione oppure finzione atta a mostrare il carattere originario della società politica, ma realtà effettiva. In un passo del Trattato politico si legge, infatti, che

Una società civile i cui sudditi, atterriti dalla paura (metu territi), non prendono le armi, si deve dire senza guerra piuttosto che in pace. La pace infatti non è assenza di guerra, ma virtù che sgorga dalla fortezza dell’animo […]. In modo più pertinente si può chiamare deserto, non società civile, quella società la cui pace dipende dall’inerzia dei sudditi, condotti al modo di un gregge, affinché imparino solo a servire (TP V, 4).[1]

Spinoza, qui, non sta dicendo soltanto che una società governata tirannicamente dalla paura riduce i sudditi ad un insieme inerte e indifferenziato, ma sembra voler suggerire che un governo fondato sulla paura realizza una separazione tale nel genere umano, da produrre, attorno ad ognuno, un isolamento simile ad un deserto. Come spiega Matheron, qui il termine solitudine va inteso letteralmente, dato che descrive una condizione nella quale «chacun est replié sur soi et désocialisé par la terreur» (Matheron 1969: 419).

 

2.  In uno scolio celebre dell’Etica, Spinoza spiega che, secondo il suo modo di vedere, si può dire che un corpo sia morto «quando le sue parti sono disposte in modo che si stabilisca tra di esse un rapporto diverso di moto e quiete» (E IV, 39 sc.). Un corpo, dunque, può dirsi morto non soltanto quando «si muta in cadavere», ma tutte le volte che «si muta in un’altra natura del tutto diversa dalla sua», pur conservando «la circolazione del sangue e altri caratteri per i quali è stimato vivo» (E IV, 39 sc.). A testimonianza di questa concezione, Spinoza porta due esempi connessi tra loro: dapprima quello dell’amnesia del poeta spagnolo (che se avesse dimenticato anche la lingua materna sarebbe una sorta di infante adulto), secondariamente quello della crescita dell’uomo dall’età infantile all’età adulta. In entrambi i casi si tratta appunto di una mutazione, di un cambiamento di natura, dunque di una morte senza mutamento in cadavere.

Questo scolio si trova tra due proposizioni dedicate a stabilire che cosa sia buono o cattivo per l’uomo. In particolare, E IV, 39 stabilisce che buono è «ciò che fa sì che si conservi il rapporto del moto e della quiete che le parti del corpo umano hanno tra di loro», e cattivo invece «ciò che fa sì che le parti del corpo umano abbiano tra loro un rapporto diverso di moto e di quiete». Relativamente a questa proposizione, dunque, lo scolio è perfettamente conseguente, dato che in esso si precisa come vada intesa la conservazione del rapporto di moto e quiete e in che senso la distruzione di questo rapporto sia da definirsi come un cambiamento di natura che implica la morte, pur senza essere accompagnato dal decesso organico. La proposizione successiva, tuttavia, pur continuando a considerare ciò che è buono o cattivo per l’uomo, sembra aprire una direzione nuova rispetto a ciò che la precede. Vi si dice infatti: «Ciò che contribuisce alla società comune degli uomini, ossia ciò che fa sì che gli uomini vivano concordi, è utile; al contrario, è cattivo ciò che introduce discordia nello stato» (E IV, 40). Nella dimostrazione, oltretutto, non si fa alcun cenno né al rapporto di moto e quiete, né alla sua conservazione o distruzione, né dunque al mutamento di natura. La considerazione riguardante la società comune degli uomini sembra dunque irrompere nel corso del testo senza alcun rapporto con ciò che la precede immediatamente.

Si potrebbe dire, certo, che sin dalla proposizione 29 Spinoza è impegnato a stabilire che per gli uomini una cosa può essere buona o cattiva solo in quanto abbiamo qualcosa in comune con essa, e che, essendo «utilissimo all’uomo ciò che si accorda al massimo con la sua natura, cioè l’uomo stesso» (E IV 35, cor. 1), conseguentemente, agli uomini derivano assai più vantaggi che danni dall’istituzione di una società comune (cfr. E IV, 35 sc). Inoltre, si potrebbe considerare che anche il secondo scolio alla proposizione 37 parla dello stato civile e delle regole comuni di vita che gli uomini devono darsi per vivere in concordia. Nondimeno, la relazione tra lo scolio sul poeta spagnolo e la proposizione successiva sembra rimanere piuttosto labile, almeno sino a che non si considerano alcuni riferimenti impliciti nel testo. Si tratta di riferimenti che non soltanto rendono ragione del concatenarsi di queste proposizioni, ma possono gettare luce sul loro stesso senso e, in particolare, sul nesso intrinseco che lega la concordia alla vita comune e la discordia, cioè la causa della dissoluzione della società, ad una sorta di morte, ovvero di cambiamento di natura senza mutamento in cadavere. Vediamo più da vicino questi nessi.

Innanzitutto, possiamo riferirci ai Cogitata Metaphysica, cioè all’Appendice ai Principi della filosofia di Cartesio, là dove Spinoza spiega che con il termine mutatio si può intendere non solo ogni genere di variazione che si dà in un soggetto, mentre resta integra la sua essenza, ma anche la rerum corruptionem, non certo nel senso assoluto (e assolutamente contraddittorio) dell’annichilimento, del finire di qualcosa nel nulla, bensì nel senso della trasformazione di qualcosa in qualcosa d’altro, «come quando diciamo che la legna si muta in cenere e gli uomini in bestie (homines mutari in bestias)» (CM II, IV). Ora, nello scolio alla proposizione 39 della quarta parte dell’Etica, Spinoza sembra appunto riferirsi ad una trasformazione di questo genere, quando parla di un mutari in aliam naturam che pure non implica la mutazione in cadavere.

In secondo luogo, possiamo riferirci a un passo del Trattato politico, nel quale Spinoza, parlando dello stato in cui gli uomini vivono in concordia, spiega che, parlando di vita, egli si riferisce qui alla «vita dell’uomo, la quale è definita non tanto dalla circolazione del sangue e da altre cose comuni a tutti gli animali, quanto soprattutto dalla ragione, e dalla vera virtù e vita della mente (TP V, 5)».[2]

Si può allora supporre con qualche legittimità che la considerazione, presente in E IV, 39 sc., di un mutamento di natura che si realizzi «pur conservandosi la circolazione del sangue e gli altri caratteri per i quali [il corpo umano] è stimato vivo (retenta sanguinis circulatione et aliis, propter quae corpus vivere existimatur)», sia dettata dal riferimento implicito alla possibilità di un regime politico nel quale agli uomini non sia consentito coltivare la vita della mente e nel quale, anzi, la loro vita sia ridotta alla mera sussistenza della circolazione del sangue.

Se ciò fosse plausibile, contribuirebbe anche a comprendere la ragione dello strano esempio di trasformazione riportato da Spinoza in CM II, IV: «homines mutari in bestias». Spinoza, certo, non si riferisce qui alle chimeriche trasformazioni che gli uomini talvolta fingono a causa della loro scarsa conoscenza della natura, come quando immaginano «che gli alberi parlino, gli uomini si trasformino improvvisamente in pietre e in fonti, che appaiano fantasmi negli specchi, che il nulla diventi qualcosa, persino che gli dei si trasformino in bestie e in uomini, e infinite cose dello stesso genere (TIE, 58)».[3]

Non vi si riferisce perché l’altro esempio che accompagna quello del mutamento degli uomini in bestie, la legna che diventa cenere, non ha niente di chimerico. L’esempio, dunque, non serve ad illustrare una trasformazione impossibile, bensì una mutazione che sembra sia constatabile nell’esperienza: quella di una vita definita dalla sola circolazione del sangue e da altre cose comuni a tutti gli animali (come si dice in TP V, 5). Ma in quali casi reali ed effettivi si può affermare che gli uomini si mutino in bestie, come in una natura completamente diversa dalla loro? Ovviamente, nel caso di una patologia analoga a quella che ha colpito il poeta spagnolo dello scolio alla proposizione 39, ma forse anche in un altro caso (che rende anche ragione, come si diceva, della continuità tra lo scolio e la proposizione 40): quello di un regime politico che trasformi gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi [«homines ex rationalibus bestias, vel automata facere» (TTP XX, 6)].

Lo stato degli uomini sottomessi alla tirannide sembrerebbe proprio quello di una vita ridotta alla mera circolazione del sangue, ovvero ad una vita che conserva le funzioni per le quali parliamo ancora di vita, laddove in realtà dovremmo dire morte. Letteralmente, il corpo sociale della moltitudine sottomessa alla tirannide sembra essere un corpo morto, un corpo cioè che è morto in quanto la sua natura, originariamente umana, si è mutata in una natura completamente differente, nel quale la multitudo si è trasformata in solitudo. Questo mutamento radicale di natura, tale per cui il corpo sociale si può dire morto pur conservando un’apparenza di vita, sembra coincidere perfettamente con il mutamento che fa del corpo sociale un deserto, ovvero con il mutamento che trasforma la natura umana in modo tale da produrre l’esistenza di individui isolati.

La vita umana, in quanto vita comune, sembra possa mutarsi in una vita isolata che non ha più quasi niente della vita propriamente umana. Del resto, è già implicito nella definizione di una vita umana inseparabile dalla pace e dalla concordia [«pax, ut jam diximus, non in belli privatione, sed in animorum unione sive concordia consistit» (TP VI, 4)] che essa sia, essenzialmente, una vita comune. In questo senso, si potrebbe rilevare come Spinoza consenta di leggere da una prospettiva non scontata l’affermazione che Marx rivolge contro le robinsonate degli economisti classici: è solo nella società che l’uomo può isolarsi. La vera solitudine, l’effettivo isolamento degli individui non si dà prima della nascita della comunità politica, ma solo in seno alla società stessa e, più precisamente, in conseguenza della sua degenerazione tirannica; la vera solitudine è l’effetto di un dispositivo sociale che annichila la vita comune, lasciando sussistere solo la nuda vita del corpo sociale e amputando in ogni singolo la sua natura comune in modo tale da ridurlo ad uno stato idiosincratico in cui permangono solo la circolazione del sangue e la paura della morte.

Torneremo su questo punto, per vedere come, nonostante tutto, la decisione ultima di Spinoza sia quella di negare non solo che la solitudine possa essere un presupposto della condizione civile, ma anche che essa possa darsi come effetto della dissoluzione tirannica della convivenza sociale.

 

3.  Vediamo, intanto, come l’accostamento tra bestie e automi contribuisca a chiarire il senso della trasformazione a cui un regime politico tirannico sembra poter sottoporre gli uomini. Per Spinoza un automa non è altro che un corpo privo di mente (cfr. TIE, 48, e TTP XIII, 6); di conseguenza, trasformare un uomo da essere razionale in automa significa privarlo, letteralmente, della vita della mente, pur conservando ciò che fa di esso un corpo vivente (la circolazione del sangue etc.). Per questo la differenza, che pure va tenuta presente, tra bestie e automi (il fatto cioè che le prime abbiano una mente e una sensibilità, pur differenti in natura da quelle umane, mentre i secondi non posseggono né l’una né l’altra) è qui del tutto irrilevante, dato che si tratta di illustrare una trasformazione tale da privare gli uomini di ciò che fa della loro vita una vita propriamente umana.

Se proviamo ora a domandarci attraverso quali dispositivi il potere tirannico sembra riuscire a ottenere il risultato di trasformare gli uomini in bestie o automi, ci rendiamo conto che questa stessa trasformazione può realizzarsi in forme anche radicalmente differenti. Per lo più – ci dice Spinoza – la tirannide, ovvero il potere di uno solo, governa instillando la paura. In questo senso, potremmo dire che per Spinoza anche la paura della morte non è tanto l’origine della civitas, quanto piuttosto l’effetto ultimo della sua degenerazione tirannica. Ma governare i sudditi in modo tale che essi, metu territi, rimangano inerti rinunciando alla ribellione, non è l’unico modo con cui si possa conservare il dominio sui sudditi.

In TP II, 10 si precisa che esistono almeno quattro modi diversi con cui qualcuno può tenere qualcun altro in proprio potere: 1) tenendolo legato, 2) sottraendogli le armi o più in generale i mezzi con cui egli possa difendersi o fuggire, 3) instillandogli la paura oppure, infine, 4) tenendolo avvinto attraverso il beneficio e dunque la speranza (di modo che il dominato desidera assecondare il proprio padrone più di se stesso e vivere come piace a costui piuttosto che a lui stesso). Chi ha in suo potere un altro nel primo e nel secondo modo ha il dominio solo sul corpo dell’altro, ma non sulla sua mente, mentre chi domina nel terzo e quarto modo domina insieme il corpo e la mente dell’altro, ma – precisa Spinoza per suggerire che non si tratta di un fenomeno irreversibile (cfr. anche TTP XVII, 1) – solo finché la paura e la speranza sussistono (sed non nisi durante metu vel spe).

Si può notare come qui Spinoza tenga a tenere separato il dispositivo della paura da quelli, meramente materiali, che sono propri della guerra. La paura maneggiata dal tiranno implica un potere tanto fisico e corporeo, quanto mentale e spirituale, così come accade nel caso del beneficio e della speranza che porta con sé. È per questo che l’uso della paura e della speranza può andare di pari passo con l’uso tirannico della religione e della superstizione. Come si dice in un passo celebre del Trattato teologico-politico:

L’arcano più grande del regime monarchico e il suo più grande interesse è quello di ingannare gli uomini e mascherare, con lo specioso nome di religione, la paura con la quale tenere a freno i sudditi perché combattano per la propria servitù come se fosse la propria salvezza e non ritengano una vergogna, ma il massimo onore, perdere sangue e anima per il trionfo di un uomo solo (TTP, Pref., 7).

E non si tratta di dire semplicemente che la religione è una sorta di maschera della paura con cui si governa in regime monarchico, bensì, come mostrano chiaramente diversi altri passi della stessa Prefazione al Trattato teologico-politico, che non c’è uso politico della religione senza uso politico della paura e che l’uso monarchico della religione ha come suo risultato tendenziale il medesimo che si ottiene attraverso la paura: trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o automi.

La riduzione in schiavitù, cioè appunto la trasformazione degli uomini in bestie o automi, può certo essere tentata attraverso la coercizione dei corpi, come avviene quando si utilizzano gli strumenti della guerra, esterna e interna, ovvero le armi della conquista e quelle, potremmo dire, dello stato d’eccezione. Ma per lo più essa viene ricercata attraverso l’utilizzo di mezzi che implicano tanto il corpo quanto la mente, tanto il sangue quanto l’anima. Se volessimo usare ancora un gergo contemporaneo, dovremmo dire che la riduzione a nuda vita avviene per lo più attraverso operazioni che pesano non tanto o non solo sulla mera vita organica quanto soprattutto sulla mente nella sua relazione con il corpo, ovvero sulla forma di vita. In termini spinoziani si dirà che sono innanzitutto i pregiudizi di una fede ridotta a credulità che da razionali rendono gli uomini bruti (cfr. TTP, Pref., 9).

 

4.  In questa trasformazione prodotta dalla schiavitù, il divenire bestie degli uomini si accompagna sempre, nelle parole di Spinoza, con il dispositivo che isola gli individui condannandoli alla solitudine. In TP V, 4, ad esempio, quando si dice che una società in cui i sudditi, atterriti dalla paura, non prendono le armi, va detta senza guerra piuttosto che in pace, dato che in essa la pace non dipende dalla concordia di una moltitudine libera e attiva, bensì dall’inerzia dei sudditi, si aggiunge (con richiamo implicito a Tacito, Agricola, 30: «ubi solitudinem faciunt, pacem appellant») che questa società senza guerra va chiamata solitudo, piuttosto che società civile. E poco dopo, in TP VI, 4, ammettendo che un potere affidato ad uno solo può effettivamente conservarsi a lungo, come accade per esempio nel sultanato dei Turchi, Spinoza commenta che una pace stabilita sul terrore può anche consentire allo stato di durare, ma, essendo quella pace null’altro che «servitù, barbarie e deserto (solitudo)», essa resta nondimeno, per gli uomini che la vivono, la situazione più miserevole possibile.

Se proviamo a cercare le ragioni per cui la riduzione politica alla bestialità si accompagni regolarmente con la riduzione in solitudine, troviamo forse anche una spiegazione ulteriore del fatto che la produzione di nuda vita avvenga, e non possa che avvenire, utilizzando strumenti di natura spirituale. Per anticipare quello che cercheremo ora di mostrare, potremmo dire che la solitudine e la riduzione a nuda vita vengono prodotte dalla paura, instillata attraverso superstizioni e pregiudizi, perché questi ultimi tendono ad occupare a tal punto la mente dell’uomo da non lasciare in essa alcun posto per l’uso della ragione e per la costruzione di una vita umana comune che di quell’uso è premessa indispensabile.

In TTP, Pref., 6, Spinoza ricorda dapprima che il rapporto dei sudditi con i loro re è estremamente mutevole (potendo passare in breve tempo dalla venerazione alla ribellione), per poi spiegare come proprio al fine di evitare questa incostanza delle masse, i sovrani abbiano profuso sforzi ingenti

Per adornare la vera religione o la vana di un culto e di un apparato che la rendessero sempre più pesante (gravior) e che inducessero tutti a praticarla sempre con la massima osservanza. Questo intento – prosegue Spinoza – è riuscito perfettamente ai Turchi i quali ritengono empio persino discutere e ottenebrano la capacità di giudizio dei singoli con tanti pregiudizi da non lasciare più posto, nella mente, alla sana ragione (nullum in mente locum sanae rationi […]reliquant) (TTP, Pref., 6).

Il riferimento ai Turchi sia come esempio di governo nel quale i pregiudizi religiosi occupano la mente, trasformando gli uomini da esseri razionali in bruti, sia come esempio di regime nel quale la pace altro non è che servitù, barbarie e solitudo, ci suggerisce sino a che punto possano essere legati tra loro, nella strategia di un potere tirannico, la fissazione dei pregiudizi nella mente (su cui vedi anche TTP, Pref., 15), l’animalizzazione e la riduzione in solitudine.

In un contesto parzialmente diverso, questi stessi elementi si ritrovano assieme anche là dove Spinoza, mentre spiega che l’uomo è un Dio per l’uomo, ovvero che l’uomo è un animale socievole, non essendo portato a trascorrere la vita in solitudine, critica coloro che, per impazienza d’animo e per un falso amore della religione, cioè perché preferiscono deridere (come fanno i satirici) o detestare (come fanno i teologi) la vita comune degli uomini, finiscono per lodare (alla maniera dei malinconici) la vita incolta e agreste, per disprezzare gli uomini e ammirare le bestie (cfr. E IV, 35 sc.).

L’elogio della vita incolta è un elogio, al contempo, della vita solitaria e della vita brutale. Questo nesso tra solitudine e animalizzazione è lo stesso che viene prodotto dalla tirannide, e non è forse un caso se Spinoza, per criticare coloro che dicono di preferire vivere piuttosto tra le bestie che tra gli uomini, suggerisce il paragone con gli «adolescenti che, non potendo sopportare di buon animo i rimproveri dei loro genitori, si rifugiano nel servizio militare e preferiscono i disagi della guerra e il dominio di un tiranno alle comodità domestiche e alle ammonizioni paterne (E IV, App., cap. 13)».

La stessa similitudine, del resto, ritorna anche nel Trattato politico, proprio là dove si parla della pax turca come servitù, barbarie e solitudo: «tra genitori e figli – scrive Spinoza – si danno, di solito, litigi più numerosi e più aspri che tra padroni e schiavi. Ma non è certo nell’interesse dell’economia domestica mutare il diritto paterno in dominazione e tenere i figli come schiavi. È invece nell’interesse della schiavitù, non della pace, trasferire ogni potere in uno solo (TP VI, 4)».[4]

Quello che preme sottolineare qui è che la critica a satirici, teologi e malinconici fa leva sulla dichiarata impossibilità, per l’uomo, di vivere in solitudine. Per quanto i tiranni si impegnino a produrla e per quanto i malinconici si dispongano ad elogiarla, la solitudine sembra ora dell’ordine della chimera, come il diritto «proprio di un solo individuo» (TP II, 15). Allo stesso modo, è una chimera (cfr. TP VI, 5) lo stesso regime monarchico, se lo si intende nel senso letterale di regime di uno solo. L’idea è che il regime di uno solo, fondato sulla paura, si riveli talmente instabile da rischiare in ogni momento di dissolversi [secondo il principio, che Spinoza cita da Seneca, per cui «nessuno può conservare a lungo un potere violento, mentre quelli moderati durano» (TTP V, 8 e TTP XVI, 9)]. Il potere assoluto di uno solo è ora (a differenza di quanto si afferma a proposito dei Turchi) letteralmente impossibile, dato che il diritto è determinato dalla sola potenza, e dato che «la potenza di un solo individuo non basta per sorreggere il peso di tanta mole» (TP VI, 5). La conclusione di Spinoza, a questo proposito è che il regime «che tutti credono senz’altro monarchico, è nei fatti aristocratico» (TP VI, 5), poiché il re non può fare a meno di affidare la propria salvezza e quella di tutti ad amici, consiglieri e guide d’ogni genere.

 

5.  La questione della solitudine (e della sua impossibilità) ci invita a tornare, dato il suo legame con la possibilità del mutari in bestias, sul problema della riduzione alla nuda vita della circolazione sanguigna. Si diceva in precedenza che come esempio di mutamento di natura non vale soltanto il caso del poeta spagnolo, ma anche quello di un regime politico tirannico, dato che esso sembra rivelarsi appunto capace di trasformare gli uomini da esseri razionali in bestie o in automi. Ora, se è vero che questo genere di trasformazione implica anche la riduzione in uno stato di solitudo, e se è vero che la solitudo non è, in fondo, che un’illusione, lo stesso dovrà dirsi della riduzione alla bestialità.

La solitudine, come l’inumanità, non è una proprietà dell’uomo né in un presunto stato di natura, dato che sempre e dovunque gli uomini, per paura della solitudine, «desiderano per natura la condizione civile, né può accadere giammai che giungano a cancellarla del tutto» (TP VI, 1). Né all’origine della società, né come effetto ultimo della sua degenerazione tirannica, la solitudine e la bestialità saranno proprietà effettive di ciò che chiamiamo umanità. Sarà dunque solo per strategia retorica, o per suggerire un limite comunque impossibile da raggiungere, che Spinoza si riferisce a questo genere di mutamenti.

E infatti, immediatamente dopo il passo citato, dedicato al metus solitudinis, Spinoza dichiara esplicitamente che

Non accade mai (come spesso avviene nelle altre società) che, per le discordie e le sedizioni che la agitano di frequente, i cittadini dissolvano una società civile. Accade invece che facciano mutare la sua forma in una forma diversa (sed ut ejusdem formam in aliam mutent), posto che i conflitti civili non si possano sedare conservando una data configurazione sociale (TP VI, 2).

Il che significa: la disgregazione di una società non implica mai un ritorno (impossibile) allo stadio nel quale gli individui risulterebbero dispersi, chiusi ognuno nella propria solitudine, ma si verifica sempre e soltanto attraverso l’organizzazione di aggregazioni parziali, differenti da quelle statuali, che producono discordie e sedizioni. Come si dice appunto in TP III, 9, la potenza e dunque il diritto di una società civile perdono consistenza quando consente che «più individui si raccolgano in unità (ut plures in unum conspirent)». Detto altrimenti, la disgregazione di una società civile non produce mai uno stato nel quale gli individui sia effettivamente ridotti alla solitudine e alla bestialità, ma uno stato nel quale una diversa forma sociale si sta costituendo, a partire dagli elementi comuni che hanno già iniziato a legare tra loro una molteplicità di individui.

Potremmo tornare a leggere, dal punto di vista così ottenuto, anche lo scolio della proposizione 39. «Non oso negare – scriveva Spinoza – che il corpo umano, pur conservando la circolazione del sangue […], possa nondimeno mutarsi in un’altra natura del tutto diversa dalla sua» (E IV, 39 sc.). Il caso del poeta spagnolo stava lì a testimoniare la possibilità di una mutazione del genere. Un esempio dello stesso tipo – potremmo precisare ora – è quello degli uomini che mutano la forma di una società in una forma d’altra natura. Diversamente, dunque, da quanto potevamo supporre, il caso di una società ridotta alla mera circolazione del sangue, ovvero in cui la multitudo si è dissolta, lasciando spazio alla mera solitudo, e in cui l’umanità ha lasciato il campo alla mera bestialità, non è propriamente analogo a quello proposto nello scolio. Semmai, sarà simile al caso dell’infante adulto, cioè alla situazione del poeta spagnolo «se si fosse pure dimenticato della lingua materna» (E IV, 39 sc.). Solo in tal caso, infatti, ci sarebbe una qualche somiglianza con il caso di bestie e automi: assenza di vita propriamente umana o addirittura assenza di mente, pur nel perdurare della mera vita biologica. Invece, il caso del mutamento di forma subito da una società civile è quello di un mutamento nel quale la diversa forma politica non dissolve la società, ovvero la multitudo.

Lo stesso si dovrebbe dire a proposito del potere tirannico di occupare del tutto la mente dei propri sudditi con i pregiudizi e le superstizioni – o anche, come nel caso degli Ebrei, con le cerimonie (cfr. TTP V, 12). Per quanto Spinoza si diverta persino a descrivere il potere dei pregiudizi e delle superstizioni, non concede che quel potere sia senza limiti: «benché il giudizio possa essere influenzato in molti modi, alcuni quasi impensabili, cosicché, sebbene non ne subisca il dominio diretto, qualcuno pensa dalla bocca di un altro a tal punto che si possa dire propriamente in suo potere (TTP XX, 1)», nondimeno non può esistere, letteralmente, una situazione in cui «l’animo di qualcuno sia totalmente in potere di un altro» (TTP XX, 1). Persino Mosè che (sebbene «non per dolo, ma per divina virtù») ebbe un’influenza decisiva sul giudizio del suo popolo, «non poté tuttavia sfuggire alle voci e alle maldicenze popolari. E molto meno lo possono gli altri monarchi» (TTP XX, 2).


Tavola delle abbreviazioni
TIE = Spinoza, B., Tractatus de intellectus emendatione, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007.
CM = Spinoza, B., Cogitata metaphysica, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007.
TTP = Spinoza, B., Tractatus theologico-politicus, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007.
E = Spinoza, B., Ethica, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007.
TP = Spinoza, B., Tractatus politicus, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. e note di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007.

Bibliografia
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Note al testo
[1] «Illa praeterea civitas, cujus pax a subditorum inertia pendet, qui scilicet veluti pecora ducuntur ut tantum servire discant, rectius solitudo quam civitas dici potest».
[2] «Non sola sanguinis circulatione et aliis, quae omnibus animalibus sunt communia, sed quae maxime ratione, vera mentis virtute et vita, definitur».[2]
[3] Cfr. anche TIE, 62, e E I 8, sc. 2.
[4] Cfr. anche TTP XVI, 10.

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