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 clarissa

Palestina e Israele: la pace è impossibile

di ALFATAU

Quanto sta avvenendo in Palestina non è certo una novità. La Striscia di Gaza è una delle aree che residuano dal lungo conflitto tra Palestinesi e Stato di Israele, a partire dalla costituzione di quest’ultimo (1948): qui è infatti concentrata una parte numericamente assai consistente dei discendenti dei Palestinesi che la creazione dello Stato ebraico ha espulso dalla Palestina storica.

La Scuola Grande e1696780910605.jpgÈ una delle aree più densamente popolate al mondo, 10 km di larghezza per 41 di lunghezza, dove vivono 2,3 milioni di Palestinesi, in 365 km quadrati: una superficie equivalente a quella della provincia di Prato, una delle più piccole dell’Italia, che conta però meno di 260mila abitanti (707 abitanti per kmq) contro gli oltre 4.000 per kmq a Gaza.

 

Israele in Palestina

Nel 2008-2009 le forze armate israeliane furono impiegate per 23 giorni in un attacco contro la Striscia di Gaza. Nel 2012 vi fu un’altra operazione israeliana, della durata di 8 giorni. Lo stesso avvenne nel 2014, per 50 giorni. Nel 2021, per altri 11 giorni.

Complessivamente, il costo umano dei ripetuti interventi delle forze armate israeliane, sia nella Striscia che nelle altre aree della Palestina (Cisgiordania, Gerusalemme Est), è stato di 6.407 caduti Palestinesi, tra civili e combattenti, a fronte di 308 Israeliani; i feriti sono stati rispettivamente 152.560 Palestinesi e 6.307 Israeliani. Sottolineiamo per chiarezza che questo bilancio è relativo ai soli anni dopo il 2008, vale a dire dopo che il movimento islamista Hamas ha acquisito nel 2007 il controllo politico e militare della Striscia di Gaza.

Aggiungiamo che dal settembre 2000, data della cosiddetta seconda Intifada (“rivolta”, in arabo), provocata dalla celebre “passeggiata” dell’allora capo del partito Likud israeliano, illustre comandante militare e più volte primo ministro, Ariel Sharon, nella spianata della Moschee, luogo sacro dell’Islam, poi estesasi a tutta la Palestina – Israele ha fatto passare nei suoi vari luoghi di detenzione oltre 135mila Palestinesi.

Al settembre 2023, sono ancora 5.200 i prigionieri Palestinesi nelle carceri e nei luoghi di detenzione israeliani, di cui 38 donne, circa 170 bambini, 700 malati. Fanno parte di queste persone private della loro libertà anche 1.250 Palestinesi in stato di cosiddetta “detenzione amministrativa”: persone arrestate per periodi prolungati, senza essere mai processati, senza essere informati delle accuse a loro carico, senza possibilità per i loro legali di esaminare le motivazioni della loro detenzione.

È il caso di aggiungere che, in spregio agli Accordi di Oslo, oramai lettera morta, nei Territori palestinesi, si sono nel corso degli anni ampliati a dismisura gli insediamenti dei “coloni” israeliani: al gennaio 2023, esistevano 144 insediamenti di coloni israeliani nella Cisgiordania, dei quali 12 a Gerusalemme Est. A essi se ne aggiungevano oltre altri 100 “illegali”, vale a dire edificati senza la teoricamente prescritta autorizzazione del governo di Tel Aviv. In totale, oltre 450mila coloni israeliani risiedono in Cisgiordania, nelle aree assegnate dal trattato di Oslo ai Palestinesi, altri 220mila a Gerusalemme Est, e 25mila nelle alture del Golan, formalmente territorio siriano, occupato da Israele dal 1973.

Questo fenomeno, che ha spesso suscitato giudizi negativi a livello internazionale, ha avuto un determinante ampliamento nell’estate 2023: infatti, fra il 15 giugno e il 19 settembre 2023, secondo dati del Coordinatore Speciale del Processo di Pace in Medio Oriente, Tor Wennesland, a seguito dei piani del governo israeliano, saranno costruite 6.300 nuove unità abitative nell’Area C (assegnata ai Palestinesi dai Trattati di Oslo) e altre 3.580 a Gerusalemme Est.

Si tratta di una strategia di “trasferimento silenzioso”, con la quale i coloni rimuovono gradualmente le popolazioni palestinesi, come è già in buona parte avvenuto nella Valle del Giordano e nella parte meridionale del Monte Hebron. Molti Palestinesi considerano questo fenomeno una “seconda Nakba”, la prima Nakba essendo l’espulsione dei Palestinesi dalle loro terre nel 1948.

La situazione non riguarda più solo la Cisgiordania, dove si costruiscono nuove strade riservate agli Ebrei per collegare gli insediamenti israeliani, escludendo e aggirando villaggi e comunità palestinesi, ma anche all’interno dello stesso territorio di Israele, dove, nel maggio 2021, ad Haifa, Gerusalemme e Lod, hanno cominciato a verificarsi esplosioni di violenza anche fra Israeliani ed gli Arabo-israeliani: un fenomeno inedito per Israele.

 

La questione demografica

La questione degli insediamenti dei coloni è una trasformazione fondamentale per Israele, che si collega strettamente alla questione demografica, che osservatori del mondo ebraico stesso hanno definito la “bomba demografica” per Israele. Alla fine del 2022, oltre sette milioni di Israeliani vivevano in Israele e in Cisgiordania, e sette milioni di Palestinesi vivevano in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Israele e a Gerusalemme Est.

Il 75% della popolazione complessiva nello Stato ebraico è rappresentata da Ebrei (6,87 milioni), il 20% da due milioni di Arabi di religione musulmana, Drusi e Arabi cristiani, il restante 5%, ovvero 465.000 persone, sono classificati come “altri”. Negli ultimi dieci anni, gli Ebrei sono aumentati del 18%, ma gli Arabi del 25%. Per lo Stato ebraico diventa quindi fondamentale compensare i tassi di fertilità arabi sostenendo attivamente la natalità ebraica: entro il 2040, si prevede così che la popolazione del Paese aumenterà di altri due milioni di persone.

Ma il fatto è che questa auspicata crescita della popolazione ebraica si verifica soprattutto grazie agli ultra-ortodossi, gli haredim, il cui tasso di fertilità nel 2020 supera quello di qualsiasi altro gruppo israeliano: una media di 6,6 figli, rispetto ai 2,1 figli per donna laica. La crescita annuale negli ultimi cinque anni è di poco più del 4% per le donne ebree laiche, del 24% invece nella comunità ultra-ortodossa.

Se sul piano demografico gli ultra-ortodossi favoriscono quindi più di chiunque altro la sopravvivenza di Israele, il triplicarsi della popolazione ultra-ortodossa mette invece a dura prova l’economia israeliana e la sua società, poiché gli haredim sono destinatari netti delle spese per l’assistenza sociale ma non contribuiscono a sostenerne il peso fiscale.

Ma l’aspetto più preoccupante è quello militare, in quanto gli haredim rifiutano di prestare servizio nelle forze armate: per questo si prevede un’ulteriore riduzione del tasso netto di arruolamenti nelle forze armate israeliane, in costante calo, attualmente al 69% per gli uomini e al 59% per le donne. Con la conseguente possibile trasformazione delle forze armate israeliane in un esercito professionale, ancor meno disponibile a restrizioni nell’uso della forza nei territori palestinesi occupati.

 

Lo Stato di Israele diventa totalitario

Ad un quadro interno sempre più complesso, i governi israeliani hanno risposto con un graduale rafforzamento dell’identità etnica del Paese, sviluppando il sionismo in tale direzione. Dopo l’inevitabile dissolvimento della prospettiva dei due Stati, cui puntavano gli accordi di Oslo, infatti, lo Stato ebraico ha puntato in primo luogo alla completa identificazione fra Stato di Israele ed Ebraismo: una prospettiva non sempre bene accetta alla diaspora ebraica, ma divenuta vera e propria legge dello Stato nel 2018, con l’enunciazione, passata inosservata in Occidente, di tre principi fondamentali, che merita citare per esteso:

«La terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, nella quale è stato stabilito lo Stato di Israele.

Lo Stato di Israele è la sede nazionale (national home) del popolo ebreo, nella quale esso porta a compimento il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione.

Il diritto a esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è riservato al popolo ebraico».

È da questa impostazione, cui la Corte Suprema di Israele ha persino attribuito il crisma della democraticità, che sono scaturite le nuove norme sui poteri del governo israeliano che hanno suscitato durissime proteste sia in Israele che nella comunità ebraica all’estero, in quanto danno all’esecutivo un controllo effettivo sul processo di nomina dei giudici; limitano fortemente il potere della Corte Suprema di determinare la costituzionalità delle leggi; danno alla coalizione al governo il potere di annullare l’invalidazione di leggi che violino diritti. Sviluppi strutturali dello Stato di Israele, che ne mettono seriamente in discussione il carattere democratico, almeno come questo è teoricamente definito nel mondo occidentale.

Da questo quadro risultano evidenti le ragioni della nuova esplosione di violenza in Palestina. A fronte di uno Stato ebraico che assume un volto sempre più totalitario, il mondo palestinese assiste al definitivo affossamento degli accordi di Oslo, e con esso alla possibilità di una qualsiasi regolamentazione dei rapporti fra Israele e i Palestinesi rivolta a una pace giusta e duratura.

Al loro posto, risuonano, ancorché del tutto ignorate dai media occidentali, le affermazioni non equivoche di autorevoli esponenti dei governi israeliani, come quella del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich a The New Arab, lo scorso 22 marzo 2023:

«è necessaria la piena annessione della Cisgiordania per creare una realtà chiara e irreversibile sul terreno ed estinguere ogni illusione di uno Stato palestinese».

È quindi assai opinabile catalogare come terrorismo l’azione di Hamas di queste ore, almeno da parte di quanti esaltano la resistenza armata contro le occupazioni militari straniere avvenute in ben diversi contesti storici: il regime di occupazione della Palestina dura infatti oramai da 75 anni; gli accordi internazionali che dovevano porvi fine con la soluzione “a Due Stati” sono stati prima disattesi poi vanificati dallo Stato di Israele; la capacità militare dello Stato di Israele eccede largamente, per numero e tecnologia, quella dei Palestinesi, come dimostrato dal bilancio delle vittime di questo conflitto.

 

Il sostegno internazionale a Israele

Nessun altro Paese al mondo avrebbe potuto agire nel territorio da esso occupato come ha potuto fare lo Stato ebraico, se quest’ultimo non avesse potuto ininterrottamente contare, con ampiezza sempre crescente, su di un vasto sostegno internazionale.

È questo un elemento che risulta evidente dall’ascolto del martellamento del mainstream informativo cui assistiamo in queste ore: davvero profondamente diverso da una informazione giornalistica minimamente interessata alla verità.

Come dettagliato in Medio Oriente senza Pace da Gaetano Colonna, la costruzione di questa posizione di forza internazionale è uno degli indubbi meriti di Benjamin Netanyahu, che oggi potrà quindi permettersi di rispondere a un’evidente sconfitta con una durissima reazione militare.

Il premier israeliano sa infatti di potersi permettere quest’uso indiscriminato della forza, grazie al fatto che Israele è divenuto, dagli anni Ottanta del secolo scorso, il Paese guida della politica degli Stati Uniti d’America in tutto il Medio Oriente: a Israele infatti è stato di fatto delegato il mantenimento degli interessi occidentali in tutta quell’area.

Il premier israeliano sa di avere avuto, grazie a questo rapporto privilegiato, la possibilità di portare dalla sua parte, sia pure con molte perduranti titubanze, persino quei Paesi arabi sunniti un tempo più disponibili a sostenere i Palestinesi, basti ricordare per tutti l’Arabia Saudita.

Netanyahu sa che anche l’Europa, che ancora qualche decennio fa, sempre più flebilmente, invocava il rispetto dei diritti dei Palestinesi, è oramai del tutto allineata ai desiderata israeliani: Italia in primo luogo, tanto più che la destra italiana attualmente al governo deve molto del proprio sdoganamento politico al supporto israeliano.

Il popolo palestinese è quindi oggi completamente privo del sostegno di Paesi in grado di opporsi al progetto israeliano di cancellazione della questione palestinese dalle agende della diplomazia internazionale.

Il disperato ricorso all’uso della forza è tutto quello che resta a questo popolo: difronte alla storia, la responsabilità che esso ne porta è davvero minima rispetto a quella di quanti ve l’hanno costretto.

Comments

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Carmine Meoli
Friday, 13 October 2023 08:57
Per parlare del dito e non della luna , pare che a Napoli vi sia una media di 8.566 abitanti per kmq.
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