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Democrazia o barbarie (2/3): La democrazia radicale
di Pierluigi Fagan
Ma cosa significa autonomia?
Autos, sé stesso¸ nomos, legge.
È autonomo chi dà a sé stesso le proprie leggi.
C. Castoriadis, La rivoluzione democratica, Eleuthera, 2022
In Occidente, da tempo vige un sistema politico-giuridico detto “democrazia”. Riconosciuto ormai in crisi nel senso comune non meno che in quello esperto, terminale o meno non si sa, si presume esso abbia invece avuto una fondazione corretta e giusta rispetto al concetto. In Italia, ci si appella a spirito e lettera della Costituzione, ad esempio e se ne rimpiange la vigenza ormai corrotta.
Un democratico radicale, purtroppo, non riconosce neanche a quel tempo e forma piena di buona intenzione il crisma di “democrazia”, si trattava di repubblicanesimo e tra le due forme c’è differenza. Ecco allora che il democratico è radicale, semplicemente nel senso che intende la democrazia come significato alla radice “Essere radicale significa cogliere la cosa alla radice (Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione)”. Si tratta quindi di un problema di nome e cosa dove la cosa è la radice che dà crisma al nome. Qual è allora quella radice?
Semplicemente il sistema che in atto storico aveva quel nome anzi quel nome ha battezzato. Si tratta della democrazia dell’Antica Atene. Cornelius Castoriadis, più di ogni altro[i], può dirsi teorico della democrazia radicale ed ha più volte specificato che -ovviamente- nessuno si sogna di intendere quella esperienza politica come un “modello” da copia-incollare senza riguardo ai diversi contesti e tempi assai diversi.
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Toni Negri: un’autoanalisi della sinistra italiana
Sul marxismo atipico del teorico e militante
di Mario Farina*
Ci sono due citazioni che mi ronzano in testa da quando, lo scorso 16 dicembre, è mancato Toni Negri:
La posizione di Negri è quella di chi dice “ah, come sono perseguitato! Mi si accusa di essere il capo e il mandante ideologico di tutto quello che è avvenuto in Italia negli anni Settanta: che tremenda ingiustizia!” e, mentre dice questo, in qualche maniera vuol far capire che è proprio così, che è vero. Mentre non è vero. Mi sembra che, nel bene e nel male, ci sia una sopravvalutazione. Negri è, secondo me, più innocente di quel che lui stesso pensa.
L’Autonomia è “un movimento di matrice cattolica (…), la Solidarność italiana, strumento contro la pretesa egemonia dei comunisti sul movimento operaio”.
Nello spazio che separa queste due citazioni si definisce, io credo, la tensione all’interno della quale si colloca la figura di Toni Negri. La seconda è di Negri stesso. La prima, rilasciata sullo sfondo di quel nero totale con cui Zavoli incorniciava i suoi interlocutori, è di Enrico Fenzi: italianista, petrarchista, brigatista rosso. Da queste due citazioni si possono raccogliere le coordinate più generali entro le quali si è mosso forse non Negri stesso, ma senza dubbio la rappresentazione di Negri che la società italiana si è fatta. C’è il carcere, quello di Palmi, dove Fenzi e Negri si sono conosciuti dopo il processo del 7 Aprile, c’è la violenza, da sempre associata alla sua figura, c’è l’ambiguità di chi è stato etichettato come cattivo maestro par excellence. C’è poi il grande tema della collocazione politica nel quadro italiano di quegli anni: “né con la destra, ma nemmeno col Pci” direbbe Bersani (Samuele), e “nella Chiesa, anche un prete che ha peccato potrebbe dare il messaggio giusto”, chioserebbe sempre Bersani (Pier Luigi).
Toni Negri è due cose: un teorico marxista delle scienza politiche e un militante.
Toni Negri sta qui dentro: nel difficile posizionamento della sinistra italiana del dopoguerra, che incrocia la Russia e la dottrina sociale della Chiesa, i fucili murati dai partigiani in Toscana e la svolta di Salerno, il Pci e il Psi, Pajetta e Amendola, Lombardi e Craxi, i movimenti del lunghissimo Sessantotto italiano e il completo marrone di Occhetto.
Toni Negri è due cose. O meglio, è tante cose, ma senza dubbio è anche queste due: un teorico, un importante teorico, marxista delle scienze politiche e un militante. Chi voglia scantonare dalla prevedibile reazione della stampa nazionale alla sua morte (Toni Negri est mort, vive Toni Negri!), deve provare a rendere conto di questi due aspetti. La militanza politica: l’influenza sui movimenti, l’inserimento di Negri nella storia di cui ha fatto parte, e la teoria: la rilettura del marxismo a cui ha contribuito, la concezione della società, il pensiero dell’intellettuale. Vaste programme, visto che siamo in scia di locuzioni francesi.
Ancora un citazione e ancora un aneddoto: Pisa, 2004. Un gruppo piuttosto nutrito di studenti ascolta Toni Negri parlare. Da tre anni c’è stato il trauma di Genova, lo spaesamento è forte, così come la voglia di radicalismo. E Negri è l’oratore perfetto. Fine della conferenza, tutti escono. Al tavolo dei relatori si avvicina uno studente del primo anno: “esiste ancora un dominio buono?”, domanda. Negri ci pensa: “quello della mamma”. Come nella scena del Faust, lo studente ha ottenuto da Mefistofele qualcosa, anche se forse non proprio quello che cercava. Perché la generazione dei nati negli anni Ottanta, della quale faccio parte, cercava qualcosa da Toni Negri. Sicuramente la radicalità, la lotta, l’odore dei lacrimogeni, il passamontagna, ma forse inconsapevolmente anche una battuta acida capace di ridare la giusta dimensione alle cose, il dominio della mamma, appunto.
Toni Negri è stato un interprete del marxismo e un militante: un militante che ha intrapreso la militanza proprio alla luce della propria interpretazione, forte e decisamente in controtendenza, del marxismo. Un marxista, senza dubbio, che però non è nato tale e che forse si è portato dietro qualcosa di questa sua nascita esterna all’alveo del sacrosanto marxismo ortodosso. Negri viene infatti dal mondo dell’Azione cattolica, vicino al clima che sarà del Concilio vaticano II, per iscriversi poi a metà anni Cinquanta al Partito socialista.
Toni Negri è stato un militante che ha intrapreso la militanza proprio alla luce della propria interpretazione, forte e decisamente in controtendenza, del marxismo.
Il suo primo lavoro teorico di un certo rilievo, tutt’ora presente nelle bibliografie di diritto comparato, è dedicato a problemi che poco hanno a che fare con temi marxiani: uno studio sul formalismo giuridico di ispirazione kantiana a cavallo tra Sette e Ottocento. E nonostante possa sembrare controintuitivo, proprio questo studio fornisce a Negri gli elementi che stanno alla base della sua successiva lettura della lotta politica. Il problema del formalismo giuridico è quello di elaborare una struttura logica capace di sussumere al proprio interno il materiale empirico, traducendo il vivo linguaggio del mondo nell’algido lessico della legge. Si tratta di un problema analogo a quello con cui polemizza Carl Schmitt nel saggio sul Concetto di ‘politico’, vale a dire l’espulsione dalla dottrina del diritto di ciò che non è formalizzabile.
Per Kant e per i giuristi che a lui si richiamavano, il problema era quello di offrire una cornice legale al repubblicanesimo che nasceva in quegli anni dal tumulto rivoluzionario. Da questo procedimento Negri estrae uno degli elementi chiave della sua teoria politica: l’idea che la costituzione statale non sia altro che la risoluzione formale dei conflitti, una risoluzione che reprime la massa riottosa e che anzi è tanto più urgente proprio per riordinare i conflitti. Questo è l’ordine problematico e questi gli strumenti di risoluzione con i quali Negri si avvicina alla prima della grandi esperienze politiche che ne caratterizzeranno la biografia, un’esperienza politica tutta italiana, la cui influenza sotterranea è avvertibile ancora oggi: l’operaismo.
L’operaismo, termine affascinante e a suo modo enigmatico, è una corrente interna al marxismo italiano nata sul principio degli anni Sessanta dal laboratorio politico della rivista Quaderni Rossi e animata da alcuni studiosi provenienti grossomodo dalla sinistra del Partito socialista: Raniero Panzieri, Mario Tronti e Romano Alquati. Non è questo il luogo per tentare un’improbabile ricostruzione della storia dell’operaismo italiano, ma giova senz’altro isolare alcuni nodi storici e alcuni elementi teorici che ne hanno caratterizzato lo sviluppo.
Dal punto di vista storico, si può dire che l’operaismo nasca in chiave critica rispetto alla gestione del conflitto sociale egemonizzata in quegli anni dal Partito comunista e dai sindacati confederali, rispetto al quale l’area dei Quaderni Rossi riconosceva una crescente insofferenza da parte del mondo operaio. Evento eclatante sono i disordini di piazza Statuto a Torino nel luglio del ’62, quando alcune migliaia di operai danno vita a tre giorni di scontri violenti con la polizia, mostrando di rifiutare la mediazione sindacale e politica. Pajetta, mandato dal Partito a placare gli animi, viene allontanato, producendo la prima frattura tra Pci e operai che i Quaderni Rossi salutano come momento emancipativo. L’operaismo collabora a dare vita a quell’area di opposizione al Pci che trova ascolto nella sinistra del Partito Socialista e che avrà un ruolo fondamentale nei tentativi di dialogo del decennio successivo tra istituzioni e aree extraparlamentari. Si tratta di qualcosa che oggi è difficilmente immaginabile, una linea di faglia dai margini estremamente sfilacciati che ha permesso una certa permeabilità tra l’area della lotta armata e quello del mondo istituzionale che tentava la via del dialogo.
L’operaismo nasce in chiave critica rispetto alla gestione del conflitto sociale egemonizzata in quegli anni dal Partito comunista e dai sindacati confederali.
Dal punto di vista della teoria politica, dell’operaismo va segnalato senza dubbio un punto: ha rappresentato un’alternativa credibile e praticabile rispetto all’opposizione secca tra l’ortodossia del materialismo dialettico di ispirazione orientale e l’umanesimo del cosiddetto marxismo occidentale. A quella che veniva percepita come l’insostenibilità dell’opzione sovietica non rispondeva con l’appello alla libertà umana, come accadeva nell’ambito della Scuola di Francoforte o in Sartre, bensì in termini strettamente economici: i comunisti tradizionali sbagliano perché restano inchiodati alle posizioni produttiviste della Terza internazionale, perché pensano che il lavoro vada difeso come strumento di emancipazione e perché, di riflesso, difendono sindacalmente la funzione della competenza operaia all’interno del processo produttivo.
Questo modo di produzione, questo mondo moderno e modernista potremmo dire, è tramontato, siamo all’alba di una riorganizzazione dei cicli produttivi, siamo nell’ambito di un capitalismo postfordista che non ha più bisogno della competenza operaia e che anzi ha nella competenza una nicchia di privilegio a cui le sigle sindacali confederali (“la triplice”, come si diceva con disprezzo) si ancorano per mantenere la loro influenza. Abbiamo di fronte una nuova figura operaia: l’operaio massa, risultato del mutato assetto della produzione. In questo discorso si profila uno dei problemi fondamentali, forse il problema centrale, che la sinistra ha affrontato a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso e cioè l’incapacità di parlare ad ampi strati delle masse che cadevano e che cadono al di fuori della protezione sindacale e ai quali si rivolgeva invece il discorso operaista.
L’operaio massa è un operaio dequalificato, demotivato, lontano dalla retorica produttivista della tradizione socialista. Se si vuole cercare una figura in senso lato letteraria, è la Vincenzina di Enzo Jannacci: immigrata dal sud a ingrossare l’esercito di riserva che guarda spaesata la fabbrica indossando un foulard fuori moda. Questa è la nuova (usando un’espressione che sarà un mantra operaista e post-operaista) composizione di classe, quella dell’operaio massa inadatto a essere intercettato dal sindacalismo tradizionale.
È all’interno di questa prospettiva che Toni Negri porta il proprio contributo al mondo operaista, inserendosi nella metà degli anni Sessanta nella discussione sul rapporto tra fabbrica e società. Il laboratorio teorico non è più quello dei Quaderni Rossi, da cui Tronti, Alquati e Negri sono fuoriusciti per fondare Classe Operaia, rivista che darà una fisionomia più precisa all’operaismo ponendo le basi per la nascita di Potere operaio. La fabbrica è il solo luogo all’interno del quale si produce conflitto e l’operaio è il solo soggetto capace di incarnare in modo puro la lotta di classe. Questo, detto grossolanamente, l’esito teorico più duraturo dell’operaismo, espresso con chiarezza del volume di Tronti Operai e capitale pubblicato nel 1966: la “rude razza pagana” dell’operaio massa è il soggetto capace, con le lotte che si producono spontaneamente in fabbrica, di generare conflitto.
La Vincenzina di Enzo Jannacci è l’operaio massa inadatto a essere intercettato dal sindacalismo tradizionale.
Ma la fabbrica, questo il passaggio decisivo a cui va incontro l’operaismo, non è più pensata semplicemente come l’edificio isolato nel quale si raccolgono i lavoratori. Nel modo di produzione postfordista la fabbrica tende sempre di più a espandersi e a occupare integralmente la società. La società si trasforma nel suo complesso in fabbrica, la fabbrica estende il proprio dominio alla società intera e l’organizzazione sociale corrisponde all’organizzazione della fabbrica. Questo è il punto nel quale il discorso di Negri, che derivava da una riflessione sul formalismo giuridico ottocentesco, si innesta nell’operaismo: il problema è quello dell’organizzazione, dell’omogenizzazione dei conflitti, dell’organizzazione in una chiave coerente e funzionante di un materiale riottoso e recalcitrante.
Nel discorso politico di Negri, e tramite il contatto con il mondo operaista, tende a risolversi uno dei problemi costituitivi che il marxismo ha affrontato fin dai propri esordi: quello tra sfera della produzione e sfera della politica, tra sistema dei bisogni e cornice istituzionale, tra realtà concreta e ideologica, o se si vuole tra struttura e sovrastruttura. L’organizzazione politica istituzionale, la costituzione, è espressione diretta (di più: immediata) di una certa forma di conflittualità che si costituisce nell’ambito della produzione. Non si pone più l’alternativa, tipica della sinistra, tra questioni economiche e dinamiche di potere e di oppressione prodotte dall’organizzazione politica: le seconde non sono altro che il modo con cui lo stato reagisce alle prime. È il conflitto sociale prodotto dagli operai, residuo riottoso non assorbibile dal capitale, a generare le modificazioni organizzative, le ristrutturazioni dei cicli produttivi, non viceversa.
Tende a risolversi un problema annoso del marxismo, dicevamo, ma al costo di una mossa teorica forte e non priva di problematicità: l’isolamento di un soggetto capace di incarnare in modo totale la lotta di classe, di esprimerla in modo puro, cioè un soggetto nel quale la lotta di classe si definisca come conflitto a somma zero, privo di residui e scorie. All’altezza della seconda metà degli anni Sessanta questo soggetto è identificato nell’operaio massa e quella che Maria Turchetto ha brillantemente definito come La sconcertante parabola dell’operaismo italiano può essere riassunta come la progressiva ricerca di un soggetto capace di rivestire a pieno questo ruolo.
L’esigenza di costituire un’opposizione all’ortodossia marxista del Pci intercetta una serie di dinamiche sociali che si opponevano a ogni forma di organizzazione calata dall’alto, ma che altrettanto non volevano indulgere in prospettive percepite come eccessivamente umaniste e in fin dei conti borghesi come quelle promosse dal marxismo occidentale dei francofortesi e di Sartre.
Nel discorso politico di Negri tende a risolversi uno dei problemi costituitivi del marxismo: quello del rapporto tra sfera della produzione e sfera della politica, tra struttura e sovrastruttura.
L’impressione è quella di trovarsi all’alba di una nuova era per la quale non valgono più le regole con cui si è fino a quel momento giocato. Il Partito comunista aveva una visione lineare del tempo e della storia che pensava la produzione e la produttività come veicolo di emancipazione storica. Ora la storia sembrava prodursi seguendo la ciclicità della produzione postfordista che si espande orizzontalmente alla società. L’operaio tradizionale cercava nel lavoro la propria emancipazione, mentre l’operaio che si prefigurava in quegli anni vedeva il lavoro come un noioso e vieppiù scantonabile intermezzo tra il sonno e l’intrattenimento e lo rifiuta.
E il parallelo può proseguire: il soldato tradizionale incarnava suo malgrado la difesa della patria assaltando alla baionetta l’esercito dei nemici, mentre il soldato del Vietnam era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, domandandosi come sia possibile che Charlie non faccia il surf. È un altro modo, se si vuole, per descrivere quel passaggio che Lyotard ha identificato come fine della modernità e apertura della post-modernità e che Negri legge come estensione delle dinamiche di fabbrica alla società nel suo complesso.
Il capitale, questa la visione generale, proseguirebbe indisturbato nella propria attività di valorizzazione e accumulazione, se non fosse che così facendo produce un soggetto che si pone come antagonista rispetto alla sua attività. Questo soggetto, con la conflittualità di cui è portatore, costringe il capitale a riorganizzarsi per appianare i conflitti, ridefinendo il proprio ciclo produttivo e producendo così un nuovo soggetto oppositivo.
Questa è la dinamica che viene identificata. E il discorso di Negri si sviluppa tramite una serie di opposizioni che ridescrivono ogni volta questo processo. Lo stato moderno, espressione della risoluzione dei conflitti generati dalla rivoluzione industriale, si trasforma nello stato-piano, vale a dire nel progetto keynesiano di programmatico intervento statale per rimediare alle conflittualità generate dal modello produttivo. A sua volta, lo stato-piano si dimostra inefficace di fronte al ciclo di lotte degli anni Sessanta a Settanta e si trasforma in stato-crisi, cioè di quella forma stato che si pone direttamente al servizio del capitale internazionale. Lo stato diventa così espressione delle organizzazioni capitalistiche e il suo compito è sostanzialmente quello di facilitarne l’azione facendosi “organizzatore complessivo dello sfruttamento”.
L’operaio tradizionale cercava nel lavoro la propria emancipazione, mentre l’operaio che si prefigurava in quegli anni lo rifiuta.
Su queste basi, si verifica l’ancoraggio del lessico e della prospettiva di Negri con i movimenti politici che negli anni Settanta si muovevano esternamente rispetto all’Arco costituzionale, ai quali Negri contribuisce con la seconda grande esperienza politica dopo quella dell’operaismo. Potere operaio brucia in pochi anni le proprie energie organizzative e dalle sue ceneri nasce il variegato ambito dell’Autonomia operaia. Lo stato è ormai apertamente nemico e Negri si divide tra il ruolo professore universitario, allievo dell’ex rettore dell’Università di Padova Enrico Opocher, frequentatore di salotti parigini, e quello di leader dell’Autonomia operaia, grande accusatore dello stato quale veicolo privilegiato dell’attività di sfruttamento feroce operata dalle grandi corporazioni capitalistiche. Lo stato-crisi è, nei fatti, uno stato il cui unico scopo è favorire l’attività imperialista del capitale internazionale, è Stato Imperialista delle Multinazionali: S.I.M., per come la sigla comparirà nei comunicati redatti in quel decennio dalle Brigate rosse.
È questo il periodo nel quale Antonio Negri sale ai ranghi delle cronache nazionali. Non più militante e semplice intellettuale delle idee radicali, ma cattivo maestro. E cattivo maestro per eccellenza: traviatore di giovani, mente contorta e affascinante, affabulatore di masse. Persino capo delle Brigate Rosse e anzi brigatista telefonista, voce che raggiunge la casa di Aldo Moro durante il sequestro. Sono gli anni del 7 Aprile, il grande processo istruito dal giudice Pietro Calogero a Padova che costò a Negri la detenzione e successivamente l’esilio in Francia, risolto con un ritorno in patria a scontare il residuo di pena. Su questa vicenda oltremodo nota e discussa preferisco non soffermarmi: tanto si è scritto, meglio di quanto io non possa fare e a quel tanto rimando volentieri.
Interessante notare una variazione teorica di non poco conto che interessa il marxismo negriano successivo agli anni Settanta. Il Marx di Negri cambia repentinamente il proprio nume tutelare: anziché nel togliattiano “vecchio Hegel”, le radici di Marx vengono ricercate nel negletto Spinoza. Non si può proprio dire che si tratti di una svolta. Il discorso di Negri è sempre stato poco incline alla dialettica: eccessive le mediazioni che impone, troppo lineare il processo a cui dà luogo. Nell’orizzontalità del pensiero di Spinoza Negri trova conferma di quell’immediatezza del rapporto tra organizzazione formale e conflitto reale sulla quale insisteva fin dai primi scritti. È un pensiero adeguato alle nuove figure conflittuali, che ormai sono incarnate dall’Operaio sociale, la cui valorizzazione non avviene in fabbrica, ma in ogni ambito dell’agire sociale. Un pensiero capace di rendere conto del rizoma produttivo della società contemporanea, sciolta in una liquidità amorfa.
In questo punto, che tocca nel vivo i problemi costituivi della variegata galassia operaista e post-operaista, il pensiero di Negri va incontro a una apparente svolta, che a conti fatti si dimostra straordinariamente coerente con gli inizi. Gli anni Ottanta italiani iniziano nell’estate del 1982: sei mesi prima, gli italiani avevano paura a prendere il treno, e d’improvviso un ragazzo con lo stesso cognome di un morto in piazza del Settantasette prende a sberle Maradona, Zico, Boniek e Rummenigge. Pertini gioca a scopone con Bearzot a fianco alla coppa del mondo e il tricolore si trasforma da pesante vessillo istituzionale a icona pop. Fa una certa impressione, ma tra la strage di Bologna e la mascotte Ciao di Italia ’90 passa un lasso di tempo minore a quello che separa il Governo Meloni dalla “non vittoria” di Bersani nel 2013.
Il Marx di Negri cambia repentinamente il proprio nume tutelare: anziché nel togliattiano “vecchio Hegel”, le radici di Marx vengono ricercate nel negletto Spinoza.
La società amorfa e rizomatica che caratterizza il periodo a cavallo della cauta del muro di Berlino ha una certa difficoltà a rientrare nelle maglie concettuali della lettura negriana. Sparisce la conflittualità, cessano le lotte operaie, si svuotano le piazze e di conseguenza viene meno l’esigenza di una formalizzazione delle opposizioni: linfa vitale delle ristrutturazioni capitalistiche. Per spiegare questo passaggio, Negri elabora altri due concetti, che rappresentano l’ideale prosecuzione della vicenda post-operaista: quelli di impero e di moltitudine. All’imperialismo tipico degli stati nazionali moderni si sostituisce la costituzione generalizzata di un impero globale in perenne mutamento ed espansione che si modella sulle esigenze del capitale. E alla classe sociale si sostituisce la moltitudine indifferenziata che di volta in volta si disgrega e riaggrega offrendo forme di resistenza al capitale e all’impero. In questo modo, tramite una paradossale forma di pacificazione belligerante tra moltitudine e impero Negri tenta di riordinare il problema del conflitto, o della sua apparente assenza, nel contesto di una società in cui la repressione e la formalizzazione delle opposizioni si pone giocoforza in modo mutato.
Non sta a me fare un bilancio della figura di Toni Negri, pezzo senza dubbio importante della storia del marxismo novecentesco. Quel che mi interessava mettere in luce era appunto la specificità di questo marxismo. C’è in Negri una critica di ogni forma di organizzazione formale del conflitto: di quella poliziesca che lo ha colpito direttamente, di quella keynesiana in cui riordina le falle prodotte del capitalismo e di quella emersa nel socialismo reale, incarnazione suprema di un capitalismo razionale e razionalizzato. L’organizzazione sociale è repressione del conflitto generata dalla lotta di classe, che è già di per sé momento della liberazione. E in questo, si esprime come ricerca incessante di un nuovo soggetto capace di esprimere in modo limpido e puro la lotta di classe, come conflitto a somma zero e privo di residui: dall’operaio massa all’operaio sociale, spingendosi fino al proletariato cognitivo e alla moltitudine.
Nell’ultima osservazione emerge un tratto che Negri si porta dietro fin dagli anni della formazione e che è comune a una certa parte di chi ha partecipato alla politica radicale degli anni Settanta. Nel 1999 esce per Einaudi il romanzo Q del collettivo letterario Luther Blissett, trasformato poi in Wu Ming. Tra i registri del libro, c’è quello di una lettura piuttosto precisa della lotta armata: solo un afflato religioso è capace di scatenare e sorreggere quel genere di scelta. Si tratta di un afflato che, senza sconti, esige la purezza. Esige una condizione di partenza integra che deve essere ripristinata nella sua completezza. Nel soggetto negriano che incarna senza sconti la lotta di classe, che rifiuta il lavoro e che si oppone radicalmente, si sente proprio questo ed è forse da qui che discende quel carattere che lui stesso riconosce all’Autonomia, essere “strumento contro la pretesa egemonia dei comunisti sul movimento operaio”.
Che Negri abbia fatto parte della sinistra italiana è qualcosa di innegabile. Ma il modo in cui ne ha fatto parte non è definibile in modo altrettanto semplice. In questo resoconto ho voluto mettere in primo piano una funzione specifica. In apertura, usavo l’esempio faustiano di Mefistofele a cui i giovani studenti implorano di dire chi loro siano. Per la sinistra nel suo complesso Negri ha invece vestito i panni di uno psicoanalista piuttosto antipatico che controvoglia ne ha ascoltato le confessioni. Credo però che questa gigantesca seduta collettiva sia servita a entrambi: all’analista per giustificare il proprio posto nel mondo e al paziente per rendersi conto che solo accettando il fallimento si può riprendere a pensare il mondo.
* Mario Farina insegna estatica all'Università IUAV di Venezia. Ha studiato nelle università di Pavia, Heidelberg, Piemonte Orientale, Colonia e Bochum. Si occupa di teoria critica, filosofia classica tedesca, filosofia dell'arte e della letteratura. Tra le sue pubblicazioni: "Critica, simbolo e storia. La determinazione hegeliana dell'estetica" (2015), "La dissoluzione dell'estetico. Adorno e la teoria letteraria dell'arte" (2018).
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Intelligenza artificiale e lavoro umano
di Emiliano Gentili e Federico Giusti
Definizione e nascita dell’Intelligenza Artificiale
L’Intelligenza Artificiale è una sottospecie particolare, evoluta e costosa delle tecnologie digitali. Queste vengono dette Information and Communication Technologies (ICT) e sono ad esempio computer, programmi, apparecchi elettronici vari. Rispetto a questo tipo di tecnologia più tradizionale, l’IA si distingue per la capacità di “apprendere da sola”, di sviluppare nuovi dati tramite l’interazione con l’ambiente esterno.
Si basa perciò su due elementi: oltre a una base di conoscenza (dati) fornita all’apparecchio in fase di programmazione, come avviene per altro con ogni altra tecnologia digitale, vi è un motore inferenziale1 che si occupa di interpretare, classificare e applicare i dati. La capacità di acquisire nuovi dati e nuova conoscenza deriva proprio dall’interazione fra le due componenti della macchina.
Infine, per essere tale l’IA dev’essere capace di dimostrare almeno una delle seguenti capacità: percezione (es. riconoscimento vocale); comprensione (es. Natural Language Processing); azione (es. chatbot); apprendimento (es. Machine Learning).
Il primo programma di IA nasce nel 1956 e viene battezzato Logic Theorist. Serviva a imitare le capacità di problem solving degli esseri umani. Lo sviluppo dell’IA si arena fra il 1970 e il 1980, a causa delle grosse difficoltà tecniche e di ricerca. Si riparte sul finire del nuovo decennio, grazie alle applicazioni dell’IA nei processi industriali (seppur non tanto connessi con l’organizzazione del lavoro quanto piuttosto con l’organizzazione aziendale2).
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Il 25 aprile della discordia
di Salvatore A. Bravo
Mentre si consuma un altro 25 aprile non si può non constatare il servile provincialismo con cui la festa della liberazione è utilizzata per tacitare ancora una volta il paese reale. La nazione reale è oppressa da precariato, da tempi disumani per il pensionamento e dal taglio sanguinoso dei diritti sociali. Si è sempre giovani, per cui si può lavorare a “tempo indeterminato”, quando il lavoro c’è. La schiavitù salariata è per sempre. L’età avanzata e le misure di sicurezze sempre più competitive provocano morti sul lavoro e un senso di infelice reificazione generale. Nell’Italia che discute di antifascismo si muore per vivere e si resta sempre più soli, se poi l’esistenza diviene insopportabile per il dolore fisico e psichico si fa strada il diritto alla morte, ma è una libera scelta. I diritti sociali sono avversati e combattuti, mentre la cultura della morte avanza, essa è un ottimo espediente per evitare spese sociali improduttive. Il totalitarismo liberale con i suoi paradigmi crematistici e individualistici può continuare a operare e a rendere la nazione un’azienda, in cui è il censo a determinare la posizione che si occupa nell’azienda Italia, la quale non è una patria o una casa comune, è solo un luogo anonimo dove il profitto impera.
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Economia di guerra e keynesismo militare in salsa UE
di Gigi Sartorelli
L’ultimo rapporto del Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma) ha certificato l’ennesimo aumento delle spese militari a livello mondiale. I 2.440 miliardi raggiunti infrangono ogni record, con gli USA a rappresentare, ovviamente, la fetta più grande di questa somma.
In realtà, il riarmo è una dinamica che procede da anni, anche se in maniera strisciante e meno visibile, ma sicuramente un’accelerazione si è avuta con l’operazione russa in Ucraina, dal 2022. La UE è stata sin da subito in prima fila nello sdoganare l’importanza della transizione a un’economia di guerra.
In uno scenario di maggiore tensione internazionale, in cui Washington non è più in grado di fare il bello e il cattivo tempo, le classi dirigenti europee hanno sentito la necessità di rafforzare le proprie forze armate. Ma non è solo una questione di proiezione di potenza.
Con la crisi dell’unipolarismo euroatlantico e la frammentazione sempre più netta del mercato mondiale, si sono aperte enormi crepe nel modello europeo export-oriented che ha il suo fulcro nella Germania. Dazi, sanzioni, distruzione del North Stream e apparente contrasto tra profitti e strategie politiche ne hanno scoperto tutte le debolezze.
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Tempesta Eolica in Sardegna: un assedio speculativo al patrimonio dell’Isola
di Pino Cabras
La Sardegna è in pericolo. È sotto attacco, non ci sono più dubbi. Ed è la vittima della degenerazione più estrema e paradossale di un tema nato sano, ossia l’ambiente e la sostenibilità, ormai trasformato in una minaccia devastante.
Sorretto dall’ideologia “green” combinata con la dismisura delle locuste finanziarie, sta prendendo forma un assalto speculativo volto a deturpare per sempre l’intero paesaggio della Sardegna.
Navi cariche di mastodontiche turbine eoliche stanno approdando con la stessa minacciosa imponenza metallica dei carichi di missili e blindati che vediamo nei porti polacchi con destinazione Ucraina. Non è un caso: la logistica di chi vuole controllare un territorio in modo integrale tende ad assomigliarsi, e gli strateghi che la comandano hanno lo stesso set di pensiero, spesso gli stessi conti correnti. Passano per le stesse porte girevoli di Davos. Perciò i lunghi carichi di eliche e di torri d’acciaio appaiono con lo stesso lugubre impilaggio di una batteria missilistica da portare al fronte. Ma qui il fronte siamo noi. È una guerra al nostro paesaggio e al nostro respiro.
Sbarchi segreti e strategie occulte
Le acque del porto di Oristano in questi giorni hanno visto l’arrivo della “Uhl Frontier”, una nave che, nonostante tentasse un arrivo di soppiatto, non ha potuto nascondere la verità del suo carico: gigantesche pale eoliche, preludio di un’invasione programmata.
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Javier Milei e l’incubo di un passato che ritorna
di Giusi Di Cristina
Una frenata brusca, porte buttate giù a colpi di calci, fucili spianati. Giovani portati via, intere famiglie sequestrate nelle proprie case per giorni affinché non denunciassero. E poi la tragedia: le lunghe file alla polizia per chiedere notizie dei propri figli. Ma i nomi dei figli non si riscontravano in alcun documento, erano semplicemente scomparsi, desaparecidos.
La tecnica del far sparire la gente senza lasciare alcuna traccia iniziò negli anni Sessanta, durante la “ditatura blanda” guidata dall’esercito brasiliano, ma in Argentina e in Cile assunse numeri e modalità degne del peggior film horror. La gente sapeva? Certamente qualcuno sapeva e qualcuno era anche contento che si ponesse fine ai movimenti di estrema sinistra i cui componenti finirono nelle maglie dei campi di concentramento sparsi territorialmente in questi due Paesi. Ma chiunque poteva diventare una vittima, anche solo per un sospetto, per un errore, per uno sfizio dei militari.
Nel 1977, solo un anno dopo l’inizio del Processo di Riorganizzazione Nazionale – come autodefinirono la dittatura argentina – alcune madri, stanche di non ricevere risposte, iniziarono a marciare in cerchio intorno a Plaza de Mayo: ogni giovedì, puntualmente, sfidavano il potere con le loro teste coperte da un fazzoletto bianco e le foto dei loro figli tra le mani.
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La locomotiva cinese rallenta?
di Vincenzo Comito
Secondo alcune stime l’economia cinese è in fase di rallentamento. In realtà per il momento il Pil è in crescita di oltre il 5%. C’è senz’altro un cambio di strategia in atto e si presentano alcuni problemi, soprattutto sociali, che la dirigenza cinese è chiamata ad affrontare
Premessa
Da qualche tempo i media occidentali pubblicano articoli molto critici sull’attuale situazione economica cinese, prevedendo prospettive molto negative per il Paese asiatico. Bisogna a questo proposito ricordare che ormai da decenni la pubblicistica del Nord del mondo ci ha abituati a vedere sfornare in grande abbondanza previsioni catastrofiche sul Dragone, previsioni poi regolarmente smentite dai fatti.
In realtà nel 2023 il Pil cinese è cresciuto del 5,2% e le stime per il 2024 parlano di un 5,0%. I dati a consuntivo del primo trimestre sembrano confermare la plausibilità di tale valutazione; in effetti il Pil è cresciuto del 5,3%. Certo tali cifre appaiono inferiori a quelle cui Pechino ci aveva abituati in passato, ma, oltre a ricordare che questi dati sono inferiori soltanto a quelli dell’India, va anche considerato che, vista la dimensione cui è ormai giunta l’economia cinese, ottenere tassi di crescita superiori appare un’impresa assai ardua. Certamente, per altro verso, la Cina si trova oggi di fronte ad alcuni problemi di peso mentre sta cercando di cambiare alcuni aspetti del suo modello di sviluppo.
Nel testo che segue cercheremo di fare il punto sulla situazione attuale, avvalendoci anche di molte informazioni tratte da diversi media internazionali, con particolare riferimento ad alcuni articoli apparsi di recente su The Economist.
Le nuove forze produttive
L’economia cinese sta cercando di cambiare, almeno in parte, le sue strategie di crescita. Di fronte a problemi interni (si veda meglio al paragrafo successivo), al rallentamento degli scambi internazionali e all’ostilità crescente dei Paesi occidentali, di fronte anche allo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie, il gruppo dirigente cinese ha messo a punto linee di sviluppo abbastanza nuove.
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Sei mesi di crimini di guerra a Gaza
di Lee Mordechai*
In questi sei mesi Israele ha ucciso i civili di Gaza, distrutto infrastrutture e ospedali, limitato l'accesso a beni di prima necessità e compiuto una progressiva pulizia etnica. Ecco le prove che documentano questa operazione
Negli ultimi sei mesi, Israele ha ripetutamente massacrato i palestinesi di Gaza, causando la morte di ben oltre trentamila palestinesi, di cui circa il 70% sono donne e bambini. Altre decine di migliaia di persone sono rimaste ferite. Queste stime sono probabilmente per difetto, considerando la deliberata distruzione da parte di Israele del sistema sanitario di Gaza, che è l’unica fonte indipendente di questi dati (che sono utilizzati anche da Israele, compreso il suo primo ministro e l’esercito).
Israele ha cercato attivamente di provocare la morte della popolazione civile di Gaza. Lo ha fatto attraverso la distruzione di istituzioni civili o umanitarie – come ospedali o agenzie di supporto–- e chiudendo la Striscia di Gaza alle sue necessità: cibo, acqua e medicine. Di conseguenza, la popolazione di Gaza (soprattutto bambini) ha già iniziato a morire di fame e disidratazione.
A causa della mancanza di medicine, procedure mediche difficili come amputazioni e cesarei sono condotte senza anestesia. Israele si è spinto oltre nel tentativo di distruggere il tessuto della società palestinese prendendo deliberatamente di mira istituzioni culturali come università, biblioteche, archivi, edifici religiosi e siti storici.
Disumanizzazione
Il discorso israeliano ha disumanizzato i palestinesi a tal punto che la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani sostiene le misure sopra citate. Innumerevoli video dalla Striscia di Gaza difffusi da soldati dell’esercito israeliano attestano ampi abusi nei confronti dei palestinesi (tra cui violenze crudeli e disumanizzazione), saccheggi continui, ormai la norma, e la distruzione selvaggia di ogni tipo di proprietà senza che vi siano state conseguenze.
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Le complesse relazioni tra Israele e Iran
di Thierry Meyssan
Benché la retorica dei mullah sia chiaramente anti-israeliana, le relazioni tra i due Paesi sono molto più complesse di quanto appare. In Iran ci sono due opposti schieramenti: uno che vuole fare affari con il resto del mondo e con ogni mezzo; l’altro che aspira a liberare i popoli dalla colonizzazione. Il primo ha continuato a fare affari con Israele, il secondo invece lo combatte, in nome degli stessi principi per cui si oppone all’imperialismo del Regno Unito e degli Stati Uniti
Il conflitto tra Israele e Iran è distinto dal conflitto tra la popolazione araba di Palestina e gl’immigrati ebrei.
Diversamente da una convinzione diffusa, i persiani non sono mai stati nemici degli ebrei. Nell’Antichità fu Ciro il Grande a consentire agli ebrei di fuggire da Babilonia, dove erano stati ridotti in schiavitù.
Dopo la seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti s’impadronirono dei resti dell’impero britannico, il presidente statunitense Dwight Eisenhower riorganizzò il Medio Oriente. Per dominarlo, designò propri rappresentanti due potenze regionali: Iran e Israele, Paesi che furono al tempo stesso amici e rivali.
Eisenhower inviò in Siria il segretario di Stato, John Foster Dulles (fratello del direttore della Cia, Alan Dulles), per organizzare un’alleanza tra Iran e Siria al fine di contenere le ambizioni israeliane. Il 24 maggio 1953 Damasco e Teheran firmarono un trattato di difesa reciproca. All’epoca il presidente siriano, generale Adil Chicakli, era filo-britannico e anti-francese. Questo trattato è ancora in vigore [1].
Nel frattempo il Regno Unito entrava in conflitto con il primo ministro dello scià Reza Pahlavi, Mohammad Mossadeq, che voleva nazionalizzare lo sfruttamento del petrolio. Con l’aiuto degli Stati Uniti, Londra organizzò una “rivoluzione colorata” (Operazione Ajax [2]). MI6 e Cia pagarono migliaia di persone per manifestare contro Mossadeq e ottenerne la destituzione. Accogliendo la “richiesta” del popolo, il sovrano sostituì il primo ministro con il generale nazista Fazlollah Zahedi [3].
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Quarta guerra mondiale
di Salvatore Bravo
La quarta guerra mondiale è la normalità nel tempo del capitalismo assoluto, Costanzo Preve ne ha analizzato le dinamiche allo scopo di sostenere l’uscita dalla gabbia d’acciaio del sistema capitale. Essere rivoluzionari significa conservare un sano e realistico ottimismo, l’essere umano per natura è logos, pertanto nessuna notte della ragione è eterna. La quarta guerra mondiale è guerra nel senso largo del termine e, in tal senso, è un evento assolutamente nuovo nella storia dell’umanità. La guerra con le armi è solo una fase della lunga battaglia politica, economica e culturale per piegare l’umanità alla sola grammatica del capitalismo. La prima guerra mondiale (1914-1918), la seconda guerra mondiale (1939-1945), la terza guerra mondiale (1945-1989) e la quarta hanno connotati diversi. Costanzo Preve identifica le prime due con la guerra in senso stretto, le successive con la guerra in senso largo, in un crescendo di violenza economicistica e tecnocratica.
L’esito della quarta guerra mondiale non è ancora deciso, siamo dinanzi a una soglia di imprevedibilità. Essa potrebbe portare a un nuovo incipit nella storia dei popoli, a un nuovo livello di consapevolezza rivoluzionaria o al lungo congelamento di ogni prospettiva storica. Il futuro si gioca nel nostro presente. La storia non è scritta nei testi sacri degli economisti liberisti, le infinite variabili, la prima è la coscienza umana, la quale è individuale e collettiva potrebbero riservare delle sorprese. L’insostenibilità-innaturalità dell’individualismo fluido e atomistico può portare a esiti incontrollabili e reazionari. In tale cornice delicatissima è necessario intervenire per decostruire le dinamiche e le tattiche delle oligarchie in guerra contro i popoli. Il clero mediatico e accademico è parte integrante della guerra in corso. Il fine del loro intervento che in modo tentacolare raggiunge ogni cittadino mediante i media e la formazione ha l’intento di derealizzare e di impedire la comprensione radicale del periodo storico nel quale ci dibattiamo. Il pericolo è l’infrangersi tra gli scogli della menzogna pianificata.
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Cosa cresce all'ombra dell'odierno antifascismo?
di Andrea Zhok
La festa del 25 aprile, come celebrazione della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, fu istituita subito dopo la guerra, il 22 aprile del 1946 con regio decreto (l’Italia era ancora un regno e non una repubblica; il referendum si sarebbe tenuto due mesi dopo). Se si pensa alla scelta della data, il significato inizialmente inteso è piuttosto chiaro: si trattava di affermare le autorità italiane (a partire dal re) come interlocutori delle potenze occupanti, nonostante l’ovvia compromissione con il fascismo. Per farlo si richiamava la data del 25 aprile 1945, quando il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia aveva proclamato l’insurrezione generale contro le rimanenti truppe nazifasciste, pochi giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate (il suicidio di Hitler nel bunker di Berlino è di 5 giorni dopo, il 30 aprile). Con l’istituzione della festività si intendeva manifestare all’interno, ma soprattutto all’estero che l’Italia era altra cosa rispetto al fascismo.
Negli anni del dopoguerra la festività del 25 aprile venne investita di un ulteriore ruolo di compattamento del nuovo arco costituzionale che doveva prendere le distanze dalle ampie rimanenze del regime fascista all’interno delle istituzioni (a partire dalla magistratura).
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Il Wall Street Consensus sbarca in Eurolandia
di Andrea Guazzarotti
Oggi il Parlamento europeo ha approvato il nuovo Patto di stabilità (e crescita?) destinato, dopo la sospensione del vecchio Patto durante la pandemia, a vincolare i futuri piani di bilancio degli Stati dell’UE. Dopo lunghe negoziazioni – e nonostante il mea culpa della Commissione sui guasti prodotti dal vecchio – il nuovo Patto riproduce la stessa logica ispirata all’austerity e alla diffidenza di Germania e ‘frugali’ per gli investimenti pubblici a debito. In questo orizzonte, il moltiplicatore keynesiano semplicemente non esiste e tutto ciò che si può fare è risparmiare, oggi, per prepararsi al peggio di domani. Il freno all’indebitamento costringe lo Stato a lasciar inasprire le crisi prima che possano essere prese misure di indebitamento [Märtin, Mühlbach]. L’esito è sconsolante: la Germania ha registrato un gap in investimenti pubblici infrastrutturali (ma anche in investimenti privati) non degno di quell’economia. Non si può investire a debito per prevenire le calamità, lo si può fare solo per riparare i danni, dopo che quelle calamità si saranno verificate!
La confederazione dei sindacati europei prevede che con le nuove regole fiscali europee (comunque meno rigide delle previgenti) solo tre Paesi saranno in grado di finanziarie gli investimenti di cui la stessa UE, per bocca dei tanti documenti prodotti in questi anni specie dalla Commissione, si professa bisognosa.
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L’evoluzione del fascismo in politicamente corretto
di comidad
Si dice spesso che il fascismo non può tornare, ed è vero; ma non può tornare per il semplice motivo che non se n’è mai andato, si è soltanto “aggiornato”. La querela per diffamazione di Giorgia Meloni a Luciano Canfora per la frase secondo cui l’attuale Presidente del Consiglio sarebbe “neonazista nell’animo”, rappresenta appunto un caso paradigmatico e indicativo della nuova veste adottata dal fascismo riciclato. Molti giornalisti, oltre a riferire erroneamente trasformando “animo” in “anima”, hanno cercato di banalizzare la vicenda lamentando il fatto che la Meloni non abbia rinunciato alla querela una volta diventata Presidente del Consiglio, in modo da non far valere la sua posizione di potere nei confronti di un semplice cittadino. In realtà il paradosso politico e giuridico della querela e dell’attuale rinvio a giudizio sarebbe stato evidente persino se la Meloni fosse stata soltanto una deputata, o persino la segretaria di una sperduta sezione di partito. L’abbiccì del mestiere del politico è infatti utilizzare i commenti ostili come sponda dialettica per rilanciare la propria posizione e screditare quella altrui; perciò un politico che fa l’offeso palesa il suo dilettantismo e la sua inadeguatezza al ruolo.
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Fino a quando potranno impedire le elezioni in Libia?
di Leonardo Sinigaglia*
Il percorso per giungere a elezioni libere e nazionali in Libia sembra nuovamente essersi arenato per gli interessi dei vari signori della guerra e delle relative milizie. Dopo il fallimento dell’ennesimo piano promosso dall’inviato ONU Abdoulaye Bathily, la situazione è notevolmente peggiorata. Di elezioni non si può parlare, soprattutto se queste vedrebbero la candidatura di Saif al-Islam Gheddafi, una figura sempre più popolare e visto come unica figura in grado di riunire il paese e di riconquistare l’indipendenza.
Due giorni fa, nella città di Zintan, a 120 chilometri a Sud di Tripoli, decine di veicoli e di uomini armati hanno fatto da sfondo alla lettura di un’importante dichiarazione promossa dagli abitanti della zona con la quale questi prendono risolutamente posizione a favore di Saif al-Islam e della sua candidatura, chiedendo che siano al più presto indette elezioni: “Noi, le forze sociali, militari e di sicurezza di Zintan, affermiamo il nostro sostegno alla candidatura alle elezioni presidenziali di Saif al-Islam Gheddafi, perché gode di un ampio sostegno popolare, ha spiccate doti di leadership, è sinceramente impegnato per la nazione libica e ha vasta esperienza politica [...] Non permetteremo a tutti i tentativi sospetti da parte di alcuni attori nazionali e internazionali di impedire a Saif al Islam Gheddafi di esercitare il suo diritto di cittadino libico di candidarsi alle elezioni e servire il suo Paese”.
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Gli Usa e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera
di Piero Bevilacqua
Chi legge il libro di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta, La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Einaudi, 2021) ne uscirà con una visione rovesciata della storia mondiale dopo il 1945, e con l’animo sconvolto. È successo anche a me, storico dell’età contemporanea, e testimone del mio tempo, a cui tanti fatti e vicende qui raccontate erano noti. L’autore è un prestigioso giornalista americano, che è stato corrispondente del Washington Post, del Los Angeles Times, del Financial Times, ha scritto per il New York Times e tanti altri giornali americani e inglesi. Già questa appartenenza al giornalismo USA, per quel che racconta di gravissimo in danno dei governi del proprio paese, costituisce una prima garanzia di imparzialità e obiettività. D’altra parte non sarebbe la prima volta. Quello dei giornalisti americani che scavano nelle carte segrete e denunciano le malefatte dei loro governanti è un fenomeno non raro, che fa onore a quei professionisti. È sintomatico dell’onestà di fondo dell’animo e della cultura antropologica di gran parte del popolo americano, comunque ormai ampiamente manipolati. È così clamorosa la contraddizione con gli ideali democratici della loro formazione, che non pochi giornalisti, allorché scoprono azioni omicide segrete del loro Stato, sono spinti a una ribellione morale che li porta a intraprendere vaste indagini e a scrivere libri come questi.
Ma l’autorevolezza del Metodo Giacarta si fonda sullo scrupolo scientifico di Bevins, sulla vastità e rilevanza documentaria delle sue fonti, che sono carte desecretate degli archivi americani e di vari paesi del mondo, pubblicazioni di altri studiosi, registrazioni dirette di riunioni segrete, telegrammi, testimonianze rese dai protagonisti e soprattutto dai sopravvissuti ai massacri ecc.
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Il genocidio di Gaza come politica esplicita: Michael Hudson fa tutti i nomi
di Pepe Escobar – Strategic Culture Foundation
Israele, Gaza e Cisgiordania dovrebbero essere viste come l’inizio di una Nuova Guerra Fredda
In quello che può essere considerato fino a oggi il podcast più cruciale del 2024 [1], il professor Michael Hudson – autore di opere fondamentali come Super-Imperialism e il recente The Collapse of Antiquity, tra gli altri – stabilisce clinicamente il contesto essenziale per comprendere l’impensabile: un genocidio del 21° secolo trasmesso in diretta 24 ore su 24, 7 giorni su 7, in tutto il pianeta.
In uno scambio di e-mail, il Prof. Hudson ha spiegato che ora sta sostanzialmente ‘svuotando il sacco’ su come “50 anni fa, quando lavoravo all’Hudson Institute con Herman Kahn [il modello per il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick], venivano addestrati i membri del Mossad israeliano, tra cui Uzi Arad. Ho fatto due viaggi internazionali con lui e mi ha descritto più o meno quello che sta succedendo oggi. È diventato capo del Mossad e ora è il consigliere di Netanyhau”.
Il professor Hudson dimostra come “il piano di base di Gaza è lo stesso che Kahn aveva progettato con la divisione in settori della guerra del Vietnam, con canali che tagliavano ogni villaggio, come stanno facendo gli israeliani con i palestinesi. Inoltre, già all’epoca, Kahn aveva individuato il Belucistan come l’area in cui fomentare disordini in Iran e nel resto della regione”.
Non è un caso che il Belucistan sia stato per decenni un territorio “fiore all’occhiello” della CIA e, più recentemente, con l’ulteriore incentivo dell’interruzione con ogni mezzo necessario del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC) – un nodo chiave della connettività per l’Iniziativa cinese del Belt and Road (BRI).
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Essere uomini, essere in-relazione
di Luigi Alfieri
Il Tu è più difficile da pensare che l’Io, quasi che l’io per essere vero debba prescindere dall’altro. Ideologia. Il primo atto comunicativo non è lo scambio economico, ma il pianto. Il rapporto sociale primario è il bisogno inerme e il dono gratuito
Cosa ci dà certezza del nostro esistere? Per quale ragione, sebbene le profondità della nostra esistenza siano insondabili e resti sempre aperta la domanda circa il suo senso, nessuno di noi nutre alcun dubbio sulla realtà del proprio essere al mondo, pur non sapendo chiarire definitivamente né che cosa significa esistere, né che cosa è il mondo?
Solipsismi filosofici. La rimozione del Tu
La risposta classica, a tutti nota, è quella di Cartesio: in quanto soggetto pensante e cosciente del mio pensiero, non posso dubitare che il mio pensare implichi immediatamente l’essere[1]. Meno classica, ma ugualmente importante e forse nel complesso più credibile, è la risposta di Schopenhauer: prima ancora del pensiero, è la corporeità, con le sue emozioni e i suoi appetiti, a dirmi indubitabilmente che esisto[2]. Entrambe le posizioni sono tendenzialmente solipsistiche. Che io penso implica che io esisto, ma non implica la reale esistenza di altri, che a me si danno solo come possibili oggetti del mio pensiero che potrebbero non avere autonoma realtà: tanto che alla fine solo la dimostrazione della necessaria esistenza di Dio ha come conseguenza la reale esistenza del mondo e di ciò che ne fa parte, e quindi degli altri esseri umani[3]. In Schopenhauer il solipsismo è addirittura presentato come verità metafisica suprema: la pluralità degli esseri fenomenici è illusoria, c’è un unico soggetto che è oggetto a sé stesso, la mia stessa egoità empirica ricade nell’illusione, ciò che chiamo “io” è solo il riflesso nel fenomeno dell’unico essere e il più alto valore morale è la compassione non in quanto riconoscimento dell’alterità, ma in quanto consapevolezza che né l’Io né il Tu hanno realtà sostanziale e non c’è dunque dolore che non sia dolore di tutti perché dolore del Tutto[4].
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25 aprile: la vera lotta oggi è contro il nichilismo storico
di Leonardo Sinigaglia
Anche questo Venticinque Aprile, con l’assunzione di Antonio Scurati al ruolo di novello Matteotti e la “contro-sfilata” milanese della Brigata Ebraica e delle associazioni ultranazionaliste ucraine, promette di coprirsi di ridicolo per opera del cosiddetto “antifascismo istituzionale”, aiutato, da destra e “sinistra”, dalla vasta area dei disobbedienti di ogni specie.
Questo è il secondo anniversario della Liberazione con in carica il governo Meloni, e quale migliore occasione per i fieri “partigiani” del centrosinistra per rinnovare la propria caricaturale e macchiettistica identità “antifascista”! Le forze attualmente al governo sarebbero “fasciste”, l’unico ostacolo rimasto alla piena instaurazione di una nuova dittatura in Italia non sarebbero che loro, i valorosi parlamentari piddini, con la loro visione europea, la loro coscienza progressista e l’attenzione rivolta verso i problemi dei diseredati, come il maschilismo e la fluidità sessuale. Poco importa che il Partito Democratico e Fratelli d’Italia, assieme a praticamente ogni forza dell’arco parlamentare, abbiano sostenuto ottusamente e fanaticamente la guerra per procura della NATO in Ucraina, diffondendo ogni genere di menzogne sulla Russia e armando la mano di veri e propri nazisti che non fanno mistero dei propri propositi genocidi.
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L’antifascismo ridotto a marketing
di Ferdinando Pastore
Non esiste un antifascismo sconnesso da una cultura antifascista. Ma è proprio la seconda a essere stata immiserita negli anni del progresso di mercato. Prendiamo ad esempio la filosofia del merito, quella secondo cui un curriculum vitae prestigioso consentirebbe meccanicamente di esercitare le funzioni politiche o di governo. Un medico alla Sanità, un avvocato alla Giustizia, un ingegnere ai Trasporti, un economista al Bilancio; anzi un economista al vertice del Governo, perché oggi sono i mercati a dettare regole e limiti alla democrazia. Nessuna visione dunque, la tecnica è neutra e va applicato buon senso, o intelligenza studiata, perché sia raggiunta l’efficienza amministrativa. D’altronde lo Stato è un’azienda e anche l’essere umano lo è. Quindi perché logorarsi nella militanza, perché immaginare orizzonti collettivi quando l’applicazione scolastica dei vademecum d’impresa coincide con la razionalità? Chi si è formato nel patinato mondo dell’internazionalismo del business, chi ha accumulato patenti di onorabilità tra le correnti dei fiumi azionari, non ha impostazioni ideologiche; è legittimato di per sé nel porsi al comando delle truppe.
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Il "piano Draghi": ora sappiamo in cosa evolverà l'UE
di Giuseppe Masala
Io credo che le prossime elezioni europee andrebbero inquadrate nel modo più corretto possibile. Provo a dare la mia interpretazione.
1 Si dà troppo spazio alla candidatura di quella sciagurata di Ilaria Salis alle elezioni europee. Siamo di fronte alla solita arma di distrazione di massa utile a far distogliere lo sguardo dell'opinione pubblica dai problemi che contano (vedi punto 2). L'unico aspetto interessante della candidatura della Salis è che dimostrano come le elezioni siano solo puro teatro che non influisce sui destini né dei singoli né dei popoli europei. Puro intrattenimento orientato alla distrazione delle masse mentre le élites hanno già deciso i nostri destini nella nostra totale inconsapevolezza.
2 Le élites europee indipendentemente dalla "volontà popolare che verrà espressa nelle elezioni" hanno già deciso il da farsi. Per esporci il progetto hanno messo come front man il miglior cavallo di razza della scuderia: Mario Draghi dal quale il piano prende il nome. Di fatto il cosiddetto "Piano Draghi" non è nient'altro che la evoluzione dell'UE fino alla sua definitiva trasformazione in "Stati Uniti d'Europa".
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Una sola parola d’ordine: armarsi. Come anche le ferrovie vanno alla guerra
di Il Pungolo Rosso
Non sarà una sorpresa, ma ora è ufficiale: esiste un vero e proprio programma articolato per settori che riguarda i molti reparti dei preparativi di guerra. Uno di questi è il Piano d’Azione Military Mobility 2.0 più volte implementato e di origini non recentissime1.
L’Italia fa la sua parte in questi adempimenti richiesti da NATO e UE con sicuro ardore. e così il ministero dei trasporti ha dato immediatamente seguito al bando CEF 2 Transport dotato di 330 milioni di euro sotto forma di sovvenzioni a fondo perduto, una pacchia che convince subito gli antieuropeisti alla Salvini. Il bando era intitolato agli adattamenti delle reti di trasporto civile a scopi di “difesa” sviluppando la mobilità militare. Naturalmente partecipa – e viene ammessa a pieni voti – la Leonardo, che stipula un apposito accordo con le Ferrovie Italiane per intervenire in questo senso sui 24.000 km della rete ferroviaria nazionale. Qui è obbligatoria una pausa per denunciare che questo governo al soldo dei guerrafondai impiega per le spese militari miliardi di euro mentre non dedica neppure un centesimo alla sicurezza dei lavoratori delle ferrovie, alla sicurezza dei passeggeri e all’efficienza del servizio di trasporto ferroviario, e neanche alla riduzione dei prezzi di quel servizio.
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Dodici provocazioni per un rinnovamento del marxismo
di Carlo Formenti
Premessa. Un bilancio critico e autocritico dopo 20 anni di ricerca di una casa politica
A cavallo del cambio di secolo, di fronte all’approfondirsi della crisi globale (il crollo dei titoli tecnologici al Nasdaq preannunciava la catastrofe finanziaria del 2007/2008), al precipitare del reddito e delle condizioni di vita dei lavoratori e all’acuirsi dei conflitti geopolitici, ho avvertito l’urgenza di riprendere la militanza politica attiva, dopo essermi a lungo impegnato esclusivamente nella ricerca teorica.
Alla fine dei Sessanta, dopo avere militato in alcuni gruppi maoisti e contribuito alla nascita del Gruppo Gramsci, ho intrapreso la carriera sindacale nella federazione unitaria dei meccanici, interrotta nel 1974. Nella seconda metà dei Settanta, dopo una breve esperienza in Autonomia, mi allontanai dalla politica attiva, demotivato dal riflusso delle lotte operaie e dall’evoluzione del PCI e dei partitini della sinistra extraparlamentare, i quali, pur seguendo traiettorie diverse, convergevano verso il postmodernismo liberale. Nei decenni seguenti mi sono limitato a svolgere la professione di giornalista, saggista e ricercatore universitario (caporedattore del mensile “Alfabeta”, autore di diversi libri dagli Ottanta ai primi del Duemila, infine ricercatore all’Università di Lecce).
Il primo passo verso la ripresa di un impegno politico diretto è stato un prudente tentativo di avvicinamento a Rifondazione Comunista tramite la mediazione dell’amico Piero Manni, editore leccese nonché consigliere regionale del Partito. Il rapporto si è interrotto nel 2013, dopo il coinvolgimento di Rifondazione nel cartello elettorale Rivoluzione Civile, che proponeva il giudice Ingroia come “front runner”. Nell’occasione spiegai ai compagni (che avevano adombrato una mia possibile candidatura) che consideravo indigesta l’ammucchiata con forze genericamente “progressiste”, incompatibili con il progetto di ricostruire un partito di classe in Italia.
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Venezuela. Sanzioni e manovre USA sulle presidenziali del 28 luglio
di Geraldina Colotti
In questo anno di elezione presidenziale, fissata per il 28 luglio, il Venezuela bolivariano è di nuovo nell’occhio del ciclone. L’attualità ne dà conto, anche a livello internazionale. Intanto, perché il Dipartimento di Stato nordamericano ha deciso di non rinnovare la “General License 44” che aveva autorizzato, fino al 18 aprile, il ripristino delle transazioni commerciali nel settore del petrolio e del gas venezuelano.
Alle numerose imprese multinazionali, sia statunitensi che europee, tornate a investire nel paese, ora viene dato un lasso di 45 giorni per fare i bagagli, o per presentare specifiche richieste di deroga per restare. A loro, la Legge contro il bloqueo, varata dal parlamento venezuelano per far fronte al blocco economico-finanziario (innescato a suo tempo da Obama, incrementato da Trump e mantenuto da Biden), aveva consentito ampi margini di profitto, pur lasciando saldamente in mano dello Stato venezuelano (e della sua principale impresa petrolifera, Pdvsa), il controllo delle risorse.
I risultati della deroga alle “sanzioni” sono subito apparsi evidenti agli indicatori economici internazionali. Da quando, a dicembre del 2023, a seguito degli Accordi delle Barbados, conclusi tra governo e opposizione, per far fronte alla “sete” di petrolio dovuta al contesto internazionale Biden ha flessibilizzato le “sanzioni” a Pdvsa, l’economia petrolifera venezuelana è cresciuta del 18 per cento nel primo trimestre del 2024 rispetto allo stesso periodo del 2023.
Anche per questo, le ultime inchieste (per esempio la firma Hinterlaces) stanno dando un ampio margine di gradimento a Nicolas Maduro, candidato – dal Partito socialista unito del Venezuela (Psuv), dagli alleati del Gran Polo Patriottico e dai movimenti popolari – per un terzo mandato.
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La costruzione di un sistema di guerra nella Ue
di Alfonso Gianni
Ora se nel mondo c’è una cosa che conviene affrontare con esitazione – ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana – di sicuro è la guerra: non c’è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece – chi lo crederebbe? – oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili; e la condotta di guerra è caratterizzata da un’estrema crudeltà e barbarie.1
Erasmo da Rotterdam
Sono trascorsi cinque secoli abbondanti da quando le parole del grande intellettuale olandese, poste in esergo, uscirono a stampa dai torchi di Aldo Manuzio.2 Se può esserci ancora qualche dubbio sulla validità delle teorie sul progresso più o meno lineare della civiltà umana, la loro falsificazione trova conferma nei terribili avvenimenti di questi ultimi mesi. La guerra continua, si incancrenisce e si allarga. I vari pezzetti della guerra mondiale descritta da papa Francesco, si congiungono tra loro in un mostruoso puzzle. Da ultimo Israele conduce un attacco “mirato” contro il consolato iraniano a Damasco, uccidendo comandanti dei “guardiani della rivoluzione”; l’Iran riempie il cielo di droni e missili; aerei statunitensi, francesi e britannici, unitamente a quelli israeliani, si alzano in volo per abbatterli. Nel contempo la guerra “dimenticata” in Sudan assomma un bilancio di 12mila morti e oltre sette milioni di sfollati. Ogni appello alla moderazione, per non dire alla trattativa e alla pace, viene immediatamente travolto, per quanto sia alto lo scranno dal quale è stato rivolto.
L’anonima sentenza latina, Si vis pacem para bellum, che ingenuamente consideravamo ormai persino impensabile, esce con sempre maggiore frequenza dalla bocca dei leader europei.
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