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A proposito del proletariato esterno
Meriti e limiti del pensiero di Zitara
di Carlo Formenti
Nei miei lavori ho più volte citato le idee “eretiche” del marxista calabrese Nicola Zitara (1), pur senza approfondire nei dettagli il suo contributo teorico e limitandomi a evidenziarne le convergenze con gli autori della scuola della dipendenza, come Samir Amin e gli altri membri di quella che Alessandro Visalli definisce “la banda dei quattro" (2). La lettura di un recente libro di Angelo Calemme (La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea. Contributo alla teoria del socialismo di mercato, Guida editori), mi stimola a riprendere la riflessione sul pensiero di Zitara (3) per discutere le sfide teoriche che questo autore ci ha lasciato in eredità e che ora Calemme rilancia, da un lato mettendone in luce i meriti, dall’altro esasperandone, a mio avviso, i limiti. Nelle pagine che seguono seguirò un percorso in quattro tappe: nella prima esaminerò gli argomenti con cui Zitara e Calemme difendono la tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie era, al momento dell’unificazione nazionale, più avanzato di tutti gli altri stati preunitari sulla strada della modernizzazione economica; nella seconda analizzerò il loro punto di vista sull’unificazione come processo di asservimento coloniale del Meridione da parte della monarchia sabauda; nella terza riprenderò le loro analisi sulla composizione di classe della società meridionale; nell’ultima discuterò la proposta di una rivoluzione nazional popolare finalizzata alla autonomizzazione del Meridione e alla sua conversione in una formazione socialista di mercato.
I.
Ripartendo dalla tesi di Zitara, il quale, confrontando i dati economici relativi ai vari staterelli italiani preunitari, ne estrae l’evidenza di un indiscutibile primato del Regno borbonico, Calemme mette tale primato in relazione con l’influenza politico culturale esercitata dai maggiori esponenti della scuola illuminista napoletana (Galiani, Intieri e Genovesi su tutti).
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A 75 anni, l’Alleanza Atlantica si fonda su una narrazione fittizia
di Roberto Iannuzzi
La NATO è un anziano boss, costretto a mentire a se stesso pur di prolungare il proprio declinante potere, perpetuando una scia di divisioni e conflitti nel vecchio continente e nel mondo
L’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico è stata definita dai suoi sostenitori l’alleanza più “duratura” e “di maggior successo” della storia. Quest’anno, la NATO celebra i 75 anni di vita. Per festeggiare la ricorrenza, il consueto vertice annuale dell’Alleanza si terrà a Washington, dove i ministri degli esteri degli originari 12 paesi membri firmarono il trattato il 4 aprile 1949.
La data è stata ricordata, la scorsa settimana, da una frettolosa celebrazione a Bruxelles, sede del quartier generale dell’organizzazione, ormai estesa a ben 32 paesi.
L’atmosfera è stata tuttavia guastata dalle preoccupazioni su come rafforzare le difese ucraine, tenuto conto che l’atteso pacchetto di aiuti statunitensi da 60 miliardi di dollari è tuttora bloccato al Congresso, e che un’eventuale elezione di Donald Trump alla Casa Bianca creerebbe ulteriori problemi alla coalizione che sostiene Kiev.
Una NATO “a prova di Trump”
“Trump-proofing” è l’espressione all’ordine del giorno nei corridoi di Bruxelles – rendere la NATO “a prova di Trump”. Nel quartier generale dell’Alleanza serpeggia il timore reale che, se il comportamento degli USA nei confronti dell’organizzazione dovesse cambiare a seguito di una nuova presidenza Trump (essenzialmente all’insegna di un crescente disimpegno americano), la NATO stessa potrebbe addirittura cessare di esistere.
Da qui l’esigenza di discutere i possibili modi per “isolare” il ruolo della NATO in Ucraina dalle incertezze della politica americana.
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Pensiero debole o debolezza del pensiero?
Considerazioni sul “comunismo ermeneutico” di Gianni Vattimo
di Salvatore Muscolino
Il 19 settembre 2023 è morto il filosofo italiano Gianni Vattimo che con la sua proposta di un “pensiero debole” è riuscito a guadagnarsi una notorietà anche all’estero al pari di filosofi come Emanuele Severino o Giorgio Agamben.
In questo breve contributo non intendo certamente ripercorrere tutto l’itinerario del suo pensiero quanto piuttosto riflettere su alcuni aspetti, a mio avviso, problematici del cosiddetto “pensiero debole”, in particolare nel suo legame con il “comunismo”. In un libello pubblicato nel 2007 intitolato ECCE COMU. Come si ridiventa ciò che si era, Vattimo sostiene infatti il legame profondo tra il “pensiero debole” e l’istanza ideale del comunismo. Considerato il fatto che egli è consapevole dell’apparente contraddizione tra il “pensiero debole”, che si inscrive all’interno della svolta postmoderna, e un “pensiero forte” come quello di Marx che rappresenta a tutti gli effetti una di quelle grandi narrazioni criticate da Lyotard, l’operazione da lui tentata va nella stessa direzione di altre proposte avanzate negli ultimi anni: individuare un presunto ideale del marxismo irriducibile alle deformazioni scientiste e positiviste (di cui sarebbero responsabili i successori di Marx) e che potrebbe rappresentare lo strumento per “resistere” al modello neoliberista oggi dominante.
A rendere altresì interessante la sua posizione è la circostanza per la quale Vattimo dichiara che la sua rielaborazione del “comunismo” si muove all’interno della cornice cattocomunista che da sempre lo avrebbe influenzato per cui marxismo, cristianesimo/cattolicesimo e “pensiero debole” si intreccerebbero tra loro in un mix particolare che rende questa operazione certamente originale e complessa in quanto si muove a un livello di discussione molto elevato che riguarda questioni delicate come il rapporto religione/metafisica/violenza, la secolarizzazione, il fondamento dei sistemi politici democratici…
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La prospettiva di una guerra regionale
di Andrea Zhok
Ieri è giunta l'attesa risposta iraniana al bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco, che aveva ucciso tra gli altri il generale Haj Zahedi.
L'Iran ha effettuato un attacco simultaneo con droni e missili in modo da saturare la poderosa difesa antiaerea israeliana. Missili hanno colpito due basi militari israeliane (monte Hermon e Novatim). Oggi l'autorità iraniana rivendica quei due obiettivi come primari, ma è abbastanza ovvio come questa rivendicazione abbia semplicemente la funzione di far coincidere gli obiettivi raggiunti di fatto con le intenzioni effettive (che non conosciamo), per poter dire che il successo è stato completo.
Al di là di queste schermaglie, gli obiettivi sono stati scelti intenzionalmente tra le basi militari israeliane, tralasciando i civili, in modo da poter considerare con questa risposta chiuso l'incidente aperto con l'attacco a Damasco, nel nome della proporzionalità.
Gli USA, sotto elezioni, non hanno nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto diretto con l'Iran, che li esporrebbe sull'ennesimo fronte simultaneo in termini di un sempre più complicato sostegno militare (Ucraina, Taiwan, Siria, ecc.). Biden ha già fatto sapere che, pur sostenendo come sempre Israele, non desidera un'ulteriore escalation.
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Palestina-Israele: vittoria strategica e vittoria sul campo
di Paolo De Prai*
Per capire cosa succede a Gaza è necessario guardare cosa accade in Ucraina.
Per quanto i politici italiani “autorevoli” ripetano i loro “atti di fede”, e ugualmente gli altri leader “nani” europei e i giornalisti a loro legati (ed entrambi proni esecutori dei loro padroni yankee), le loro dichiarazioni stizzite e altisonanti sono solo il riflesso della vittoria strategica del governo russo nel confronto con la NATO.
Ancora non c’è la vittoria palese sul campo della Russia, ma quella strategica è già stata ottenuta, perché da più di venti anni i governi USA operavano per accerchiare la Russia e con la guerra in Ucraina in corso da dieci anni (due per i venditori di fumo nostrani) speravano di distruggere economicamente, socialmente e psicologicamente l’avversario, di cui ambivano impossessarsi delle ricchezze minerarie frammentandolo in decine di mini stati (come già dicevano oltre trenta anni fa).
Questa analisi vale anche per la guerra in corso tra lo Stato israeliano contro i palestinesi.
Discutere se l’azione militare di Hamas del 7 ottobre scorso era prevista o voluta dal governo zelota oppure ideata autonomamente dai palestinesi ha poco senso, perché è da molti decenni che a ogni azione della resistenza palestinese la risposta israeliana è stata sempre una maggiore potenza di fuoco, sempre più devastante e con sempre più vittime civili palestinesi.
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Neoliberismi precoci
di Pierluigi Fagan
B. Stiegler, filosofa politica francese, conduce in questa ricerca una genealogia del neoliberismo americano, sincronico all’ordoliberismo tedesco e quello poi più idealista di Hayek, versione americana meno conosciuto ma forse anche più influente. L’eroe negativo della storia è il mitico Walter Lippmann. Solo un “giornalista” come alcuni lo ritennero, in realtà politologo pieno e poi politico dietro le quinte, stratega di pratiche e pensiero, inventore di una versione americana della propaganda più sofisticata, delle pubbliche relazioni, dello sterminio sistematico dell’intelligenza collettiva.
Lippmann, come altri liberali oligarchici, rimase sconvolto dal registrare i ripetuti fallimenti del mercato che culminarono nel 1929. Non un ideologo o un economista ma uno dei più grandi storici dell’economia, Paul Bairoch, ha più volte significato quanto brevi e disastrose furono le fasi storiche ed economiche in cui s’impose la dittatura del libero mercato ritenuto ente autoregolato che spande benefici secondo logica. Lippmann allora reagì come i più prudenti tedeschi di quell’ordoliberismo che inaspettatamente scovò M. Foucault nelle lezioni in cui pure s’era ripromesso la fondazione teorica del suo concetto di biopolitica. Strano a notarsi ma era il 1978-9, pochi si sono meravigliati di questa prematura lucidità del filosofo ricercatore francese.
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Da Tel Aviv a Roma... Il fascismo non li salverà
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-Mondocane 3/21: In onda domenica ore 21.30, repliche, salvo imprevisti, lunedì 09.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 09.00
Qual’è il rimedio delle classi dirigenti, politiche ed economiche (nel capitalismo liberista, tutt’uno) quando la crisi gli morde i calcagni? Il fugone nel fascismo, in qualsiasi nuova forma ritenuta adatta ai tempi. Oggi si presenta in veste psicomanipolatoria-tecnologica, ma senza mai rinunciare alla violenza fisica, a seconda dei casi pestaggi o mattanze.
Ecco cosa hanno in comune i massacri dei nostri fratelli in lotta a Gaza e in Cisgiordania e le teste spaccate dai gendarmi agli studenti delle università italiane – vera eccellenza del paese - che rifiutano gli accordi voluti da Tajani e Crosetto tra ricercatori italiani (leggi Leonardo) e assassini di massa israeliani.
A questo proposito c’è da augurarsi una congiunzione tra generazioni: quella dei maturotti, più ansiosi per la propria sopravvivenza, e i giovanotti, dotati di lunga vita e, dunque, di sguardo più lungo e ampio. Gli stagionati in prima linea nel fronte contro l’assalto farmaceutico-disciplinare, capaci dii riconoscere e contrastare la nuova arma della guerra di classe dall’alto; gli imberbi, assenti o assonnati in quell’istanza, attenti allo sconquasso planetario delle trombe di guerra suonate tra Gaza e Donbass.
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Lenin a Wall Street: imperialismo e centralizzazione nel XXI secolo (I)
di Andrea Pannone
A 100 anni dalla morte di Lenin (21 gennaio 1924) e nel pieno di una fase storica nuovamente caratterizzata dalla contrapposizione diretta tra superpotenze mondiali, una riflessione critica sul concetto di imperialismo formulato dal leader bolscevico nel 1917 assume una specifica rilevanza. Partendo da qui, questo scritto si focalizza sul nesso tra eccesso di capacità produttiva e centralizzazione internazionale dei capitali alla luce del processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale che sta caratterizzando il XXI secolo. La nostra tesi, infatti, è che i connotati assunti da questi tre fenomeni negli ultimi quindici anni concorrano in modo decisivo a interpretare la natura delle recenti tensioni belliche tra alcune nazioni.
Il lavoro è organizzato come segue. Nel primo paragrafo si esamina la categoria centrale della teoria dell’imperialismo di Lenin ossia il concetto di esportazione di capitale in eccesso. Nel secondo paragrafo si cerca di evidenziare l’attuale rilevanza di questa categoria concettuale alla luce di quella che può essere considerata una sua proxy: gli investimenti diretti esteri. Nel terzo paragrafo si esamina il nesso tra eccesso di capacità e centralizzazione del capitale nella sua evoluzione storica, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il quarto paragrafo analizza la crescente influenza delle oligarchie economico-finanziarie sulle politiche degli Stati e sulle relazioni internazionali. Il quinto paragrafo conclude evidenziando il ruolo dei conflitti bellici nell’equilibrio instabile tra gruppi di potere che perseguono logiche di accumulazione diverse.
Pubblichiamo oggi la prima parte dello scritto (A.P.)
* * * *
I. L’esportazione di capitali in eccesso e la teoria dell’imperialismo di Lenin
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I missili di aprile
di Scott Ritter
L'attacco di rappresaglia dell'Iran contro Israele passerà alla storia come una delle più grandi vittorie di questo secolo
Scrivo sull’Iran da più di due decenni. Nel 2005 ho compiuto un viaggio in Iran per accertare la “verità di fondo” su quella nazione, verità che ho poi incorporato in un libro, “Target Iran”, che illustrava la collaborazione tra Stati Uniti e Israele per creare una giustificazione per un attacco militare all’Iran volto a far cadere il suo governo teocratico. A questo libro ha fatto seguito un altro, “Dealbreaker”, nel 2018, che ha aggiornato questo sforzo USA-Israele.
Nel novembre 2006, in un discorso alla School of International Relations della Columbia University, ho sottolineato che gli Stati Uniti non avrebbero mai abbandonato il nostro “buon amico” Israele fino a quando, ovviamente, non lo avremmo fatto. Cosa potrebbe far precipitare un’azione del genere, chiesi? Feci notare che Israele era una nazione ubriaca di arroganza e di potere e che, a meno che gli Stati Uniti non avessero trovato un modo per togliere le chiavi dall’accensione dell’autobus che Israele stava guidando verso l’abisso, non ci saremmo uniti a Israele nel suo viaggio suicida da lemming.
L’anno successivo, nel 2007, durante un discorso all’American Jewish Committee, ho sottolineato che le mie critiche a Israele (da cui molti tra il pubblico si sentirono fortemente offesi) provenivano da una preoccupazione per il futuro di Israele. Sottolineai la realtà che ho trascorso la maggior parte del decennio cercando di proteggere Israele dai missili iracheni, sia durante il mio servizio in Desert Storm, dove ho avuto un ruolo nella campagna contro i missili SCUD, sia come ispettore delle Nazioni Unite, dove ho lavorato con l’intelligence israeliana per assicurarmi che i missili SCUD dell’Iraq fossero eliminati.
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La sinistra sedotta dalla guerra*
di Lelio Demichelis
Dei tre secoli di guerra mondiale alla biosfera, all’uomo e alla libertà è complice anche ciò che oggi resta delle sinistre e del marxismo, adeguatosi alle esigenze del capitale e della tecnologia
È utile rileggere Rosa Luxemburg e la sua Crisi della socialdemocrazia, scritta in carcere nel 1915 e pubblicata agli inizi del 1916, opera famosa per la frase “socialismo o barbarie” e dove tutto è contenuto in quella “o”disgiuntiva che le sinistre hanno sempre più dimenticato. Testo nato dopo che la socialdemocrazia tedesca, rinnegando se stessa, la sua storia e gli ideali dell’internazionalismo in nome del nazionalismo e della difesa della patria, aveva approvato i crediti di guerra e legittimato l’entrata nella prima guerra mondiale della Germania contro – la storia sembra ripetersi – la Russia zarista. Ma con la differenza non da poco che allora la sinistra aveva rinnegato se stessa e la lotta di classe davanti al nazionalismo e alla guerra militare, mentre oggi (in realtà da troppo tempo) ha rinnegato se stessa e la lotta di classe (analogamente ha fatto la sinistra illuministica per quanto riguarda ragione e libertà e autonomia individuale) davanti al neoliberalismo ma soprattutto davanti alla tecnica, perché anche i marxismi sono sempre stati positivisti e industrialisti e per lo sviluppo crescente delle forze produttive. La fabbrica era il modello (Marx e Gramsci) per la società socialista ma senza il capitalismo. Senza capire, il marxismo, che la causa vera dell’oppressione sociale (ancora Simone Weil) era proprio la fabbrica con la sua divisione tra chi comanda (oggi, un algoritmo/piattaforma) e chi deve eseguire (noi tutti forza-lavoro digitalizzata nella società-fabbrica), non la proprietà dei mezzi di produzione. E non vedendo, il marxismo, che anche la tecnica – parte della razionalità strumentale/calcolante-industriale – è totalitaria, antiumanistica ed ecocida di per sé.
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Il “piùEuropa” e il male della banalità
di Eugenio Pavarani
Gabriele Guzzi, attraverso le pagine di LIMES, ha lanciato l’invito a sviluppare una discussione franca sugli effetti della moneta unica per la nostra economia. Credo che abbia voluto individuare un target specifico e che si sia rivolto, in particolare, a chi ancora non ha capito che l’euro non è soltanto una moneta ma è anche un potente strumento a supporto di un’ideologia che sta profondamente modificando la costituzione materiale del nostro Paese e sta fortemente penalizzando la nostra economia. È lodevole l’intento di comunicare con coloro che non hanno ancora maturato la consapevolezza dello “iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale che si fa ogni anno più insostenibile”. Comunicare e stimolare il dibattito, d’accordo; ma che cosa comunicare? e, soprattutto, come comunicare?
Credo che tutti coloro che conoscono le argomentazioni proposte da Guzzi nel suo articolo, e le condividono, si siano anche domandati, prima o poi, come si possa impostare, sul piano del metodo, una comunicazione mirata sul target individuato. L’articolo di taglio scientifico è il medium adeguato? (gli esperti della comunicazione insegnano che “il medium è il messaggio”). Sul piano del metodo, c’è un enorme problema di fine tuning, di adeguatezza della comunicazione in relazione al target se si tiene conto, soprattutto, delle barriere da superare che sono costituite, da un lato, dalla complessità del tema (sotto questo aspetto è molto apprezzabile l’evidente sforzo di chiarezza espositiva che permea l’intero articolo), complessità che richiede, da parte dell’interlocutore, una preliminare base di conoscenza del lessico e degli strumenti concettuali dell’economia.
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Un mondo nelle mani dei “cani pazzi”
di Dante Barontini
Nell’analizzare gli ultimi sviluppi del conflitto mediorientale sono molti i rischi, o le tentazioni, che possono portare fuori bersaglio.
Anche l’analisi di classe mostra qualche limite, se si fa attenzione al concreto della struttura sociale israeliana – quanto meno – dove ai “cittadini a pieno titolo dello Stato ebraico” (la definizione è stata assunta nella “legge fondamentale”, para-costituzionale) sono riservati tutta una serie di diritti e privilegi, anche in termini di posizioni lavorative, mentre il “lavoro bruto” o lo sfruttamento senza mediazioni è riservato ai palestinesi (il 20% della popolazione) o agli immigrati (thailandesi, cingalesi, ecc).
E’ insomma la struttura tipica delle società coloniali o schiavistiche (tipo l’Atene antica) che riduce la dialettica politica, anche fortemente conflittuale, alla sola “frazione affluente”. Dove si può contestare – e lo si è fatto anche duramente, negli ultimi anni – la torsione autoritaria implicita in alcune riforme istituzionali volute dal governo Netanyahu, ma non certo la sostanza dei rapporti interni e con i paesi vicini, né riguardo ai palestinesi che vivono al di là del Muro di separazione.
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La fine dell'impunità di Israele
di Clara Statello
Il mondo intero è di nuovo con il fiato sospeso, per il terrore di una grande guerra che infiammi il Medio Oriente. L’attacco di ritorsione lanciato dall’Iran, nella lunga notte tra sabato e domenica, ha lasciato senza sonno Israele. Per cinque ore oltre 300 munizioni sono state scagliate contro il territorio israeliano.
La rappresaglia per l’attacco dell’1 aprile a Damasco è arrivata dopo quasi due settimane, ampiamente annunciata, lenta ma imponente.
Secondo le stime ufficiali riportate dal New York Times, l’Iran ha utilizzato 185 droni kamikaze Shahed, 36 missili da crociera e 110 missili terra-superficie. Inoltre è stato accertato l’utilizzo di missili balistici. La maggior parte dei lanci proveniva dall'Iran, anche se una piccola parte proveniva dall'Iraq e dallo Yemen.
E’ il primo confronto diretto tra i due Paesi e una dimostrazione militare dell’asse della resistenza.
Non ci sono vittime, meno di una decina di feriti, tra cui purtroppo una bambina di 7 anni in terapia intensiva per una grave ferita alla testa, riporta il Times of Israel. Le forze israeliane (IDF) affermano che il 99% dei lanci è stato intercettato dall’Iron Dome. USA, Gran Bretagna, Francia e Giordania hanno contribuito a intercettare la massiccia raffica di missili e droni.
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Decidere in contesti complessi
di Pierluigi Fagan
Molti neuroscienziati notano come il nostro cervello-mente si sia lungamente evoluto, quindi formato, alle prese con problemi vicini (fame, sete, sicurezza), immediati (giorno per giorno, ogni giorno) relativamente semplici (amico/nemico, sesso, utile/inutile), in gruppi piccoli tendenzialmente egalitari, relativamente isolati tra loro, in cui ognuno conosceva ogni altro.
Oggi ci troviamo associati in gruppi enormi, di una certa densità territoriale che si estende ormai alla dimensione planetaria, in cui i più ci sono sconosciuti, dentro formali e informali gerarchie multilivello, con un gran numero di problemi complessi e con decisioni che avranno effetti e conseguenze decennali, che spesso vanno anticipati perché “dopo è tardi”. Si tratta di problemi spesso percettivamente invisibili eppure decisivi come la questione ecologica, climatica, geopolitica, economo -finanziaria, le nuove tecnologie. I gruppi umani molto antichi erano per lo più natura, i gruppi contemporanei sono per lo più cultura.
C’è chi da tutto ciò, trae motivo per promuovere lo sviluppo di protesi cibernetiche e info-tecniche, dagli impianti di chip agli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale, che dovrebbero potenziare e correggere il nostro strumento decisionale.
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Ucraina, per il New York Times la matematica la condanna
di Piccole Note
L'unica possibilità, per l'Ucraina, è aprire negoziati su una base realistica e abbandonare i miraggi neocon
Nonostante sia palese che la guerra ucraina è persa, l’Occidente resta aggrappato ai dogmi neocon, incapace non solo di trovare, ma anche solo di pensare una exit strategy da una guerra disastrosa per Kiev e per l’Europa, che il conflitto sta degradando sia a livello economico che politico.
Quest’ultimo aspetto inquieta e interpella sia perché denota un asservimento della Politica europea ai circoli neocon, dipendenza mai registrata in tale misura in precedenza, sia perché evidenzia il degrado delle dinamiche democratiche, dal momento che l’opposizione alle linee guida neocon non ha alcuno spazio di legittimità.
Ironico che tale processo involutivo della democrazia, sempre più accentuato, sia alimentato dagli ambiti che sostengono che è in corso una lotta tra democrazia e autoritarismo…
Niente senza l’Ucraina?
Tra i dogmi irrevocabili della narrativa di guerra, quello che vuole che l’Occidente non debba prendere iniziative sui negoziati senza il placet ucraino, conferendo a Zelensky un ruolo di dominus assoluto, ruolo ovviamente solo di facciata essendo egli una marionetta dei neocon.
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Non bisogna mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa
di Sandro Moiso
City Lights e Collettivo Adespota (a cura di), Quando muoiono le insurrezioni. Italia 1922 – Germania 1933 – Spagna 1936-1939, Edizioni Colibrì, Milano 2024, pp. 400, 25 euro
Per battere Franco, occorreva prima battere Companys e Caballero.
Per sconfiggere il fascismo, bisognava prima schiacciare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognava distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio che sorgesse dai comitati di base dei lavoratori […]. L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia. (Manifesto dell’Union Communiste, Barcellona, giugno 1937)
Il titolo di questa recensione, ripreso da Andrea Pazienza, serve a rendere bene l’idea del contenuto del testo appena pubblicato dalle Edizioni Colibrì e della necessaria e irrinunciabile radicalità dell’opposizione di classe al capitalismo, alle sue guerre e ai suoi sgherri fascisti, in divisa o meno che questi siano. Ma anche a ricordare, a un mese dalla sua scomparsa, Stefano Milanesi, militante NoTav e rivoluzionario, al quale questo libro sarebbe probabilmente piaciuto.
In un’epoca di ritornante e ammorbante dibattito politico e mediatico sul pericolo rappresentato dal fascismo per l’ordine democratico e il buon vivere civile, in entrambi i casi “borghesi”, la lettura dei testi contenuti nella raccolta curata dalla Calusca City Lights e dal Collettivo Adespota si rivela assolutamente necessaria, se non indispensabile ed essenziale.
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Capitalismo o neofeudalesimo? Un’introduzione
di Jodi Dean
Come pensare insieme la crisi della riproduzione sociale, l’intensificarsi delle disuguaglianze economiche e la riduzione dell’orizzonte politico? In Capitalismo o neofeudalesimo? Jodi Dean delinea le coordinate per reinterpretare i mutamenti globali del modo di produzione capitalistico e proporre una nuova ipotesi finalizzata a comprendere la fase attuale dello sviluppo del capitalismo stesso. Su Scenari proponiamo un estratto del libro.
1. Panoramica
Che cosa definisce il capitalismo contemporaneo? Come lo descriviamo? Quali sono i suoi tratti salienti? È addirittura corretto descrivere il nostro presente come capitalista? La mia ipotesi è che il capitalismo stia diventando qualcosa d’altro, qualcosa che possiamo proficuamente descrivere come neofeudale. Le dinamiche proprie del capitalismo si stanno avviluppando su se stesse in una sorta di sussunzione assoluta, con nuovi signori e nuovi servi, con una micro-élite di miliardari delle piattaforme e un massiccio settore di servizi, ovvero di servitori. Nel chiederci se l’ipotesi neofeudale abbia senso, se il capitalismo stia veramente diventando qualcosa di diverso, dobbiamo tenere a mente che il capitalismo si è sempre sovrapposto ad altri modi di produzione, su cui ha fatto leva e che ha sfruttato a suo vantaggio. Il capitalismo li deteriora, smantellando le condizioni a cui essi si erano adattati e assoggettandoli a leggi a loro estranee.
Da alcuni anni ormai sono alle prese con la questio ne posta da McKenzie Wark: “e se non fossimo più nel capitalismo, ma in qualcosa di peggiore?” [1]. Sulle prime pensavo che tale questione fosse assurda: certo che siamo nel capitalismo, in un capitalismo veramente orribile, estremo e neoliberale; in un capitalismo che ha abbandonato il compromesso a esso imposto dai movimenti operai nel XX secolo e procede a briglia sciolta nella sua corsa al profitto. Ma più esaminavo la questione, meno l’idea di un capitalismo eterno e sempre in grado di adattarsi diventava convincente. Harry Harootunian, ad esempio, critica l’immagine di un “capitalismo compiuto in occidente”.
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Attraversando il PNRR. Parte II (III)
di Emiliano Gentili, Federico Giusti, Stefano Macera
Pubblichiamo la terza puntata della seconda parte dello studio sul PNRR condotto da Emiliano Gentili, Stefano Macera e Federico Giusti. Dopo aver analizzato, nella prima parte, il contesto economico italiano e la strategia perseguita dall’Unione Europea nella programmazione del Piano, nel nuovo articolo, gli autori analizzano l’idea di politica energetica dell’Ue e dell’Italia ed esaminano alcuni investimenti previsti dal PNRR particolarmente significativi per lo sviluppo dell’economia italiana, con particolare riferimento alla filiera dei semiconduttori, dell’idrogeno e della logistica, ai processi di digitalizzazione industriale.
Qui la prima puntata, qui la seconda.
* * * *
IV. La digitalizzazione industriale
La Missione 1, Componente 2 del Pnrr italiano vuol dare impulso a processi di digitalizzazione e innovazione industriali, nonché a «un’infrastruttura di reti fisse e mobili ad altissima capacità (Very High Capacity Network)»[1]. Investire per rendere le imprese più tecnologiche sarebbe un inutile sperpero di risorse nel caso in cui il territorio nazionale non offrisse una capacità di connettività sufficiente all’utilizzo ottimale delle nuove tecnologie.
Se da un lato, dunque, questa Componente elargisce soldi pubblici per gli investimenti in tecnologia e in ricerca e sviluppo, supportando poi in maniera più corposa alcuni settori strategici dal punto di vista comunitario[2], dall’altro «include importanti investimenti per garantire la copertura di tutto il territorio con reti a banda ultra-larga (fibra FTTH, FWA e 5G), condizione necessaria per consentire alle imprese di catturare i benefici della digitalizzazione e più in generale per realizzare pienamente l’obiettivo di gigabit society»[3].
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Nichilismo adattivo e capitalismo
di Salvatore Bravo
Il capitalismo nell’attuale fase logora ogni memoria identitaria al fine di rendere i soggetti funzioni del sistema, perché vi sia l’esodo dal capitale è fondamentale domandarsi che cosa il capitalismo: violenza e dominio mediante l’adorazione idolatra del plusvalore.
Vi è la violenza percettiva e la violenza psichica, entrambe nella loro azione coordinata producono e disseminano in ogni punto della comunità saccheggiata tensione e privazione. L’abbondanza materiale è consustanziale alla privazione ontologica del bene e dei fini oggettivi.
Il capitalismo deforma la natura umana, bombarda “gli stati canaglia” e saccheggia l’ambiente; a livello psichico sottrae memoria, contenuti e identità per rendere i soggetti flessibili e adattivi. La percezione del mondo è alterata dal frastuono delle immagini e dei suoni, si tutto regna la cinesi della dispersione. La velocità mito e croce della modernità divide il soggetto da se stesso e dalla comunità. Non si ascolta il corpo vissuto, le relazioni si consumano velocemente, per cui la percezione è distorta al punto da fondare il soggetto deterritorializzato, regna la scissione in ogni direzione relazionale. L’alterazione è tale che il soggetto diviene incapace di distinguere il mondo reale dall’immaginario indotto. Confusione e caos sono i mali in cui il soggetto precipita.
Per trasformare i popoli in materiale inerte il capitalismo sottrae loro la lingua e la storia. Senza lingua non vi è logos, ma solo un soggetto sempre più simile al “niente”.
Il caso italiano è emblematico: l’anglo-italiano si coniuga con l’ostracismo perenne alla tradizione culturale e filosofica italiana.
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L'oppio delle masse arabe e la cocaina di Israele
di comidad
Le parole dovrebbero essere annoverate nell’elenco delle droghe pesanti, e purtroppo a chiunque può capitare di farsi ogni tanto una “pera” eccessiva. Il quotidiano neocon “il Foglio” si è approfittato del “trip” di uno dei padri costituenti, Umberto Terracini, per fargli fare una figuraccia postuma mettendo in evidenza alcune sue frasi poco felici in sostegno di Israele. Dopo averci ammonito sul fatto che anche Terracini considerava l’antisionismo una forma di antisemitismo, ci viene proposta una citazione nella quale il vecchio comunista contestava ai governi dei paesi arabi “il rifiuto testardo al riconoscimento di Israele, vero oppio per quelle masse immiserite e incolte”. Ma, con tutta la buona volontà, riconoscere cosa? Le masse arabe saranno anche “immiserite e incolte”, però si sono accorte del fatto che Israele non ha mai chiarito quali siano i suoi confini territoriali, cioè dove intende fermarsi e neppure se intende fermarsi.
Le diatribe pretestuose su antisionismo e antisemitismo sono a loro volta nuvole di una fumeria d’oppio, mentre la domanda concreta su quelli che Israele considera i propri confini definitivi non se la fanno soltanto i palestinesi, ma soprattutto i libanesi e i siriani, visto che sono in gioco le loro fonti idriche.
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I successi del boicottaggio al regime israeliano: il caso McDonald's e l'app "No Thanks"
di Agata Iacono
Da questa parte del "mondo democratico occidentale", molti di noi si dibattono tra rabbia e la sensazione drammatica di impotenza nell'assistere allo sterminio in diretta di un intero popolo.
A volte questo senso di frustrazione si trasforma in disagio somatizzato, in depressione (parlo per me e per gli amici e compagni con cui mi confronto ogni giorno). In altri casi, invece, rischia di generare reazioni di autoconservazione fatalista, ricerca del deus ex machina, rimozione.
Eppure qualcosa si muove. Qualcosa possiamo fare. Una piccola goccia insistente sta scavando la roccia.
McDonald's è costretta a riacquistare il franchising israeliano. L'azienda si riprenderà 225 punti vendita dopo che il franchising è diventato un punto di riferimento per le proteste contro il genocidio del popolo palestinese. La catena di fast food è stata oggetto di boicottaggio, soprattutto dopo la dichiarazione di aver fornito pasti gratuiti ai militari israeliani dal 7 ottobre.
McDonald's Corporation ha dichiarato che il franchising israeliano "ha agito senza l'approvazione della sede centrale". McDonald's aveva respinto quelle che aveva definito "notizie inesatte" da parte della rete internazionale BDS (Boicottando Disinvestimento Sanzioni), sulla sua posizione nei confronti di Gaza.
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Ancora su Julian Assange, sì ancora e ancora, fino alla libertà
di Alberto Bradanini
1. Seguendo un copione creato a tavolino per ingannare la mente di chi si abbevera ai telegiornali della sera, gli Stati Uniti continuano a tirare il guinzaglio legato al collo del cagnolino d’oltremanica. Quel cagnolino era un tempo l’Impero britannico’, oggi solo un maggiordomo che esegue gli ordini dell’Impero Atlantico: tenere Julian Assange in prigione fino alla morte.
Per la più grande democrazia al mondo – da esportare, se del caso, a suon di bombe e che ormai solo i politici europei (e italiani) credono sia tale – il rischio più esecrabile è costituito dall’emergere della verità. Avendo coltivato l’impudenza di esporre al mondo i crimini commessi da americani e britannici in Iraq e Afganistan, esercitando la professione di giornalista, egli deve morire!
Quel bel tomo di H. Kissinger affermò un giorno che occorreva far rinsavire il popolo cileno che aveva osato votare per Allende, con le buone o con le cattive maniere. In analogia, secondo l’avariata narrativa a guida Usa, democrazia e verità sono valori da difendere solo se non interferiscono con le loro impudicizie e quelle dei loro compagni di merenda. Dietro tale narrativa si celano individui spietati, affetti da gravi patologie e per i quali ricchezze e potere non sono mai abbastanza. Coloro che stanno spingendo il mondo nel baratro della distruzione sono gli stessi che prosperano con il sostegno di politici/burocrati, giornalisti e accademici, tutti ben remunerati con carriere e prebende.
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Benvenuti nella seconda guerra mondiale 2.0
di Martino Dettori
La rappresaglia dell'Iran nei confronti di Israele ha fatto salire la tensione in Medioriente e tutti parlano di rischio di WW3, ma la verità è un po' diversa
Qualcuno parla di rischio di terza guerra mondiale davanti alla rappresaglia dell’Iran verso Israele, ma cari miei, una terza guerra mondiale sarebbe solo nucleare. Perciò, definitivamente distruttiva dell’umanità. Avete presente l’anime e il manga “Ken il Guerriero”? Lì, almeno, le armi nucleari sono state relativamente innocue: hanno distrutto il mondo, ma non hanno lasciato radiazioni. Ma nella realtà, una guerra di tale portata, ridurrebbe il mondo a una landa desolata radioattiva, invivibile. E per quanto noi siamo governati dai sociopatici dell’anglosfera e dai loro viceré, è difficile credere che la loro sociopatia arrivi fino al punto da considerare l’autodistruzione un’opzione.
Perciò, oggi l’unica guerra che costoro sono disposti a combattere, è una guerra mondiale a pezzi, fatta di sanzioni economiche, terrorismo e guerre regionali, il cui scopo è mantenere alta la tensione e l’egemonia che si sono costruiti pezzo per pezzo con la fine della seconda guerra mondiale e la vittoria strategica contro l’URSS quarantacinque anni dopo.
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Il 2024: l’anno di Vladimir Putin
di Fulvio Bellini
“Dici che Hitler è morto da così tanti anni, 80 anni. Ma il suo esempio continua a vivere. Le persone che hanno sterminato ebrei, russi e polacchi sono vive. E il presidente, l’attuale presidente dell’Ucraina di oggi, lo applaude nel parlamento canadese, fa una standing ovation! Possiamo dire di aver sradicato completamente questa ideologia se ciò che vediamo accade oggi? Questo è ciò che è la denazificazione nella nostra comprensione. Dobbiamo sbarazzarci di coloro che sostengono questo concetto e sostengono questa pratica e cercano di preservarla: ecco cos’è la denazificazione. Questo è ciò che intendiamo.”
Vladimir Putin intervistato da Tucker Carlson, 9 febbraio 2024
Premessa: il ritorno della Realpolitik
La recente intervista a Vladimir Putin da parte di Tucker Carlson, da taluni qualificata come l’intervista del secolo forse esagerando, è stata però una delle più rilevanti rilasciate dal presidente russo da quando è in carica, e ormai sono passati 25 anni. I numerosi temi toccati erano formalmente indirizzati al popolo americano, ma sostanzialmente diretti ad alcune élite presenti su entrambe le sponde dell’Atlantico: sulla costa occidentale alla classe dirigente definita dei “texani” (si ricorda che le altre sono quelle dei “bostoniani” e dei “californiani”), cioè ai rappresentanti dell’America più profonda e tradizionale e che si appresta a ridare il proprio appoggio a Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali; su quella orientale alle élite che si erano recentemente riunite a Davos, per il loro tradizionale simposio, tanto formale nei summit ufficiali, quanto sostanzioso in quelli riservati.
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Il pericolo di una guerra mondiale è reale?
di Serge Marchand, Thierry Meyssan
Una guerra atomica è possibile. La pace mondiale dipende dall’abilità degli Stati Uniti, sotto ricatto dei “nazionalisti integralisti” ucraini e i “sionisti revisionisti”. Se Washington non fornirà loro le armi per massacrare i russi e i palestinesi di Gaza non esiteranno a scatenare l’Armageddon
Le guerre in Ucraina e a Gaza hanno suggerito a molti responsabili politici di primo piano il paragone tra l’attuale periodo e gli anni Trenta del secolo scorso, inducendoli a evocare la possibilità di una guerra mondiale. Sono timori fondati o semplice retorica per spaventarci?
Per rispondere alla domanda riassumeremo fatti che il pubblico ignora, ma che sono noti agli specialisti. Lo faremo con distacco, correndo il rischio di sembrare insensibili a questi orrori.
Innanzitutto distinguiamo tra il conflitto in Europa orientale e quello in Medio Oriente. Hanno solo due punti in comune:
– Non rappresentano una posta significativa in sé, ma una sconfitta dell’Occidente, già battuto in Siria, segnerebbe la fine dell’egemonia occidentale sul mondo.
– Sono entrambi alimentati da un’ideologia fascista, quella dei “nazionalisti integralisti” ucraini di Dmytro Dontsov [1] e quella dei “sionisti revisionisti” israeliani di Vladimir Ze’ev Jabotinsky [2]; due gruppi alleati dal 1917, ma entrati in clandestinità durante la guerra fredda, quindi sconosciuti al grande pubblico.
Per contro, tra i due conflitti esiste un’importante differenza:
– Sul campo di battaglia combattono con la stessa furia, ma i “nazionalisti integralisti” sacrificano i propri connazionali (in Ucraina sono rimasti pochissimi uomini validi di meno di trent’anni), i “sionisti revisionisti” sacrificano invece persone loro estranee: i civili arabi.
Queste guerre rischiano di generalizzarsi?
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