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Il nodo Israele fa scomparire l'Ucraina dai radar
di Paolo Arigotti
La notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile 2024 l’Iran ha lanciato contro Israele un attacco con centinaia di droni e missili: si calcola che siano stati utilizzati circa 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici.
Leggere in questo episodio un atto terroristico e/o un nuovo capitolo della conflittualità tra la Repubblica Islamica e lo stato ebraico sarebbe a dir poco riduttivo. Teheran, appellandosi all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, che contempla il diritto all’autotutela in attesa delle eventuali misure assunte dal Consiglio di sicurezza, ha motivato l’azione come ritorsione rispetto all’attacco del primo aprile scorso, contro la propria sede diplomatica di Damasco, che provocò la morte di tredici persone (sei delle quali cittadini siriani), tra cui il generale Mohammad Reza Zahed, ufficiale delle Guardie Rivoluzionarie e altri sei membri dello stesso corpo.
Il raid israeliano era stato criticato in termini piuttosto blandi da diversi leader occidentali, pur ricevendo la condanna del segretario dell’ONU Antonio Guterres, per la violazione della Convenzione di Vienna del 1961 (quella che sancisce l’inviolabilità delle sedi diplomatiche ); gli stessi leader occidentali, però, si sono affrettati a chiedere la condanna iraniana per le azioni del 13 e 14 aprile.
In una recente intervista, la professoressa Hanieh Tarkian, docente di studi islamici, ha parlato di superiorità morale dell’Iran, che ha attuato una rappresaglia in conformità al diritto internazionale, prendendo di mira obiettivi militari e senza provocare vittime, oltretutto agendo in piena autonomia e senza il supporto degli alleati regionali; Hezbollah si è limitata ai consueti attacchi dal territorio del Libano.
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Engels oggi: genere, riproduzione sociale e rivoluzione
di Marnie Holborow
È sorprendente quanto spesso nei resoconti marxisti sull'oppressione delle donne si trascuri Friedrich Engels. Lo si liquida come un determinista, eccessivamente economicista e addirittura non marxista. Heather Brown, nel suo importante lavoro su Karl Marx e la questione di genere, considera Engels un "meccanicista grossolano" rispetto a Marx.[1] Un più recente giudizio sostiene che quanto scritto da Engels sulle donne rappresenti «una revisione di Marx».[2] Lise Vogel, una scrittrice di riferimento su Marx e la questione di genere, ritiene Engels responsabile delle successive, errate spiegazioni dualistiche capitalismo-e-patriarcato circa l’oppressione delle donne.[3]
Per altri teorici marxisti della riproduzione sociale, Engels semplicemente non figura nella discussione. In una raccolta del 2017 sulla teoria della riproduzione sociale e basata sull'economia politica marxista, Engels non viene menzionato nemmeno una volta a pieno titolo, ma solo come co-autore con Marx.[4]
Eppure Engels, a differenza di Marx, ha dedicato un intero libro alle origini dell'oppressione femminile: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, che metteva in discussione la visione accettata della famiglia nucleare come naturale e universale. È rimasto il testo di riferimento per molte donne socialiste del passato, come Eleanor Marx, Clara Zetkin, Rosa Luxemburg e Alexandra Kollontai, così come per quelle delle generazioni successive, come Claudia Jones e Angela Davis. In occasione del centenario della pubblicazione di L'origine della famiglia, femministe di diverso orientamento hanno ritenuto Engels talmente importante da dedicare un volume alla rivalutazione della sua eredità.[5] Se si include anche il libro di Engels sulla vita operaia del XIX secolo a Manchester, descritto da Eric Hobsbawm come pionieristico e che conteneva intuizioni anticipatrici sul cambiamento dei ruoli di genere, la tesi che Engels abbia poco da offrire riguardo all'oppressione di genere semplicemente non regge.
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Per una teoria minimale del capitale
Invito alla lettura e alla collaborazione
di Autori Vari
Riprendendone l’indice e la concisa presentazione segnaliamo ai lettori un lavoro, ancora in evoluzione ma già abbastanza maturo, prodotto da un gruppo di persone di varia provenienza tra le quali naturalmente alcune legate alla nostra rivista. Tratta di questioni, diciamolo francamente, intellettualmente complesse e tendenzialmente demoralizzanti: è noto l’aforisma nietzschiano che spiega come gli abissi non si possano guardare a lungo, ma qui vogliamo invece ricordare quello che — forse rendendosi conto di come stava raccontando sempre la storia di cose, belle e umane, andate perdute — ripeteva Ivan Illich: «Non dimentichiamo mai che tutto il tempo è benedetto, anche questo nostro tempo in cui ci è capitato di vivere». Come i curiosi vedranno si tratta di un’antologia in quattro lingue, c’è ancora molto lavoro da fare sia per le traduzioni sia per un controllo che vorremmo meticoloso. Altri apporti sarebbero benvenuti. (red)
Scopo e autori
È ormai disponibile una vasta letteratura che implicitamente contiene e fertilmente sviluppa un nucleo teorico veritativo (cioè pienamente confermato dal processo storico) che trova origine in una serie di intuizioni di Marx. Va tuttavia riconosciuto che, nella mole dei manoscritti e opere dello studioso, i testi seminali di quel nucleo sono dispersi e in netta minoranza rispetto a quelli che propongono tesi diverse e anche contrapposte (queste peraltro in gran parte confutate dalla critica dei fatti).
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L'attacco a Israele in un Medio oriente cambiato
di Piccole Note
L'attacco dimostrativo dell'Iran ha cambiato il Medio oriente. Israele dovrà adattarsi alla nuova realtà o sarà la catastrofe
Mentre Israele informa il mondo che risponderà all’attacco iraniano, anche se sembra in maniera tale da evitare la grande guerra (cosa tutta da vedere dal momento che l’Iran ha detto che, nel caso, risponderà), proponiamo l’analisi di Peter Akopov pubblicata su Ria Novosti che ci appare alquanto lucida, anche se forse un po’ troppo deterministica. C’è un imponderabile, dato anche dalla follia di cui hanno dato dimostrazione negli ultimi tempi i falchi Usa e israeliani, che andrebbe comunque tenuto presente.
“Situazione sorprendente – scrive Akopov – quasi tutto il mondo chiede a Israele di non rispondere all’attacco iraniano, perché si trattava di una risposta all’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco, e allo stesso tempo tutti si interrogano sui probabili scenari di una risposta israeliana”.
Israele e il dilemma di Netanyahu
“Israele colpirà il territorio iraniano nei prossimi giorni o preferirà vendicarsi contro gli alleati dell’Iran in Libano? La domanda non è futile. In caso di attacco all’Iran, seguirà un attacco di ritorsione che, come promesso da Teheran, sarà molto più potente dell’attacco del 14 aprile.
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Il Niger ingiunge agli Usa di andarsene e si avvicina alla Russia
di Giacomo Gabellini
Lo scorso 16 marzo, il colonnello Amadou Abdramane, portavoce della giunta militare nigerina che nel luglio del 2023 aveva deposto il presidente Mohamed Bazoum, ha annunciato la revoca immediata dell’accordo che autorizzava lo stazionamento di personale statunitense sia civile che militare nel Paese. Conformemente all’intesa, siglata nel 2012, gli Stati Uniti avevano schierato nelle basi 101 (contigua all’aeroporto di Niamey) e 201 (situata nel centro del Paese e soggetta a una recente opera di ristrutturazione costata al Pentagono circa 100 milioni di dollari) circa 1.100 miliari oltre ad aerei da trasporto C-130J e droni Mq-9 Reaper in funzione di intelligence e contrasto al terrorismo, perpetrato nell’area del Sahel dai gruppi jihadisti connessi allo Stato Islamico e ad al-Qaeda.
Significativamente, la decisione del governo di Niamey fa seguito a una serie di incontri diplomatici con una delegazione statunitense composta dall’alto funzionario del Dipartimento di Stato preposto agli affari africani Molly Phee, dall’assistente del segretario alla Difesa per gli affari di sicurezza internazionale Celeste Wallander e dal generale Michael Langley, a capo dell’African Command (Africom) del Pentagono.
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La promessa di Teheran
di Enrico Tomaselli
Atteniamoci ai fatti. La ritorsione iraniana per l’attacco israeliano all’ambasciata di Damasco è stata calibrata ed equilibrata. L’Iran non voleva la guerra con Israele (non la guerra aperta, e non ora), diversamente dal governo di Tel Aviv, che nel prosieguo della guerra – nella sua possibile espansione – vede l’unica chance di sfuggire al redde rationem interno, e magari persino un’opportunità di espandersi ancora. Pertanto Teheran si è mossa con calma, appellandosi al diritto internazionale (art.51 delle Nazioni Unite), e avendo cura di colpire esclusivamente obiettivi militari: due aeroporti strategici e un comando nel Golan occupato. Inutile rimarcare la differenza con Israele. Lo scopo è evidentemente quello di tracciare – come si usa dire – una linea rossa: non saranno più tollerati gli attacchi israeliani, e a ogni azione corrisponderà una reazione. L’attacco di rappresaglia, quindi, doveva essere tale da marcare con forza questa red line, doveva essere inequivocabile, e non doveva offrire il pretesto per innescare un allargamento del conflitto. Gli obiettivi, pertanto, erano eminentemente strategici, non tattici; non misurabili, quindi, in termini quantitativi (quanti e quali danni), se non secondariamente.
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Pezzo dopo pezzo nell’economia di guerra
La Ue contro il welfare
di Emiliano Brancaccio
Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono.
Due caratteristiche sono tipiche di un’economia che tende verso la guerra: l’aumento del deficit pubblico per finanziare il riarmo e la spinta inflazionistica a danno dei salari.
La mobilitazione delle finanze pubbliche per il rilancio della spesa militare è già in corso. I dati World Bank indicano che nell’ultimo decennio l’Unione europea ha accresciuto la spesa per armamenti di quasi un quarto. L’Italia è andata oltre, con aumenti superiori al 25 percento. Se accettiamo la tesi di un recente manifesto pubblicato dall’istituto Bruegel e dagli altri think-tank europei, siamo ormai nel mezzo di una “nuova guerra fredda”. Considerato che negli anni della “vecchia guerra fredda” l’Italia e il resto d’Europa spendevano per armi oltre il doppio di oggi, c’è da temere che l’incremento della spesa militare sia solo iniziato.
Ma come finanziare una tale corsa al riarmo? Ancora più tagli e privatizzazioni nei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, sarebbe la risposta ideale degli economisti ortodossi.
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L’inquietudine di Lenin. L’attualità del suo pensiero a cento anni dalla sua morte
di Salvatore A. Bravo
L’inquietudine politica di Lenin
Una delle ultime opere di Lenin è stata pubblicata sulla Pravda il 4 marzo 1923. Il lungo articolo “Meglio meno, ma meglio” non è solo una sintesi critica del percorso tormentatissimo della Rivoluzione bolscevica, tra Prima Guerra mondiale e guerra civile, ma anche “testamento politico” nel quale Lenin si spinge a ipotizzare, su dati materiali e oggettivi, previsioni geopolitiche ed economiche che avrebbero potuto rompere l’assedio militare ed economico di cui l’Unione Sovietica era oggetto.
“Meglio meno, ma meglio”(in russo Лучше меньше, да лучше, Lučše men’še, da lučše) è da allora diventato un detto della lingua russa che invita alla qualità dell’azione da preferire alla quantità.
Lenin scorge nella Russia sovietica la sindrome del fare senza la qualità, perché presa dalla trappola dell’accerchiamento. Il prevalere della quantità sulla qualità non è casuale, dato che la lunga guerra non poteva che condurre a una notevole quantità di provvedimenti e il “fare” era spesso deficitario della qualità. Lenin nella sua solitudine, mentre la salute declinava (sarebbe deceduto il 21 gennaio 1924) non poteva non constatare i limiti della Rivoluzione sovietica e indicare i processi per risolverli. Per poter rafforzare la Rivoluzione essa andava sottoposta a critica radicale in modo da intervenire e fare tesoro degli errori. Il problema si poneva in modo stringente per l’elezione dei Commissari del popolo, i quali avevano il compito di controllare i settori produttivi e di stimolarne la crescita:
“Per poter migliorare il nostro apparato statale, l’Ispezione operaia e contadina, a parer mio, non deve correr dietro alla quantità e non deve aver fretta.
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Democrazia o barbarie
di Pierluigi Fagan
Wendy Brown: Il disfacimento del demos. La rivoluzione silenziosa del neoliberismo, Luiss University Press, 2023
Buon libro questo della Brown. In particolare, mi piace il suo linguaggio, pulito, chiaro, attinente al discorso e poco indulgente allo svolazzo.
E mi piace o meglio riscontro, la sua struttura del discorso. Purtroppo, una buona parte del testo è dedicata alla analisi ravvicinata, simpatetica ma spesso critica, della famosa lezione di M. Foucault su Biopolitica al College de France 1978-79 (un caso di prescienza), nel quale però il francese -per primo-, individuò il nucleo inquietante di ciò che poi abbiamo imparato a conoscere come neoliberismo. Invero MF, individua un neoliberismo particolare, la versione sociale tedesca, ma lasciamo perdere. Brown gli fa le pulci e spesso coglie nel segno.
In sostanza, Brown individua una lotta ordinativa fondamentale per determinare il governo della società. L’ordinatore economico in versione estremista neoliberista o l’ordinatore politico in versione naturale quindi democratica. Homo oeconomicus vs Homo politicus. Tempo speso a lavorare e consumare, tempo speso a interessarsi della gestione comune della società di cui siamo soci naturali.
Evita di entrare nei maggiori dettagli della versione democratica c.d. “diretta” o “delegata”, ma ribadisce che l’opposto del neoliberismo non è il socialismo o altra forma economica ma il ritorno del primato politico basato sulla prima persona.
Io non capisco perché nessuno mai ammetterebbe che la gestione di sé stessi sarebbe meglio affidarla ad altri, ma quando si parla si società non ha problemi invece a dirlo o sostenerlo convinto pure. Mi manda ai matti, non riesco proprio a capirne la logica.
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Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa
di Sandro Moiso
«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro
«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.
Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa.
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes ed Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.
Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.
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I lavoratori digitali (platform worker): problemi e prospettive
di Mauro De Agostini
Sul tema dei lavoratori digitali (platform worker) riportiamo questo articolo di Mauro De Agostini dal n. 6/marzo 2023 di “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe”
“Prima di internet, sarebbe stato difficile trovare qualcuno e farlo sedere per dieci minuti a lavorare per te, per poi licenziarlo passati quei dieci minuti. Ma con la tecnologia, in realtà, puoi davvero trovarlo, pagarlo una miseria e poi sbarazzartene quando non ti serve più” (1) questa frase dell’imprenditore americano Lukas Biewald descrive alla perfezione la nuova realtà creata dal capitalismo delle piattaforme.
Una situazione tutt’altro che marginale visto che (secondo stime ufficiali) attualmente risultano attive nella sola Unione europea circa 500 piattaforme digitali che nel 2022 impiegavano almeno 28 milioni di lavoratrici/ori, destinate a diventare 43 milioni entro il 2025, un nuovo proletariato digitale privo di ogni tutela. (2)
Piattaforme “web-based” e “location-based”
Alcune piattaforme, dette “web-based”, operano esclusivamente online arruolando persone (magari in un altro continente) per ottenere prestazioni come traduzioni, lezioni, consulenze, servizi di call center o di chat, oppure per svolgere microlavori come trascrivere una registrazione audio, riconoscere una immagine, risolvere un captcha, leggere uno scontrino. In questi casi ogni singola prestazione fa storia a sé ed è pagata separatamente, non esiste alcuna continuità nel rapporto di lavoro, dirigenti, lavoratori e clienti non si incontrano mai fisicamente tra loro. In tutti questi casi si parla di “crowdwork”, letteralmente “lavoro nella folla”, perché si offre il proprio lavoro in rete a una massa potenzialmente infinita di clienti che poi ti “scelgono”, magari per quell’unica micro-prestazione.
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Keynes, Shaw, Stalin, Wells e il socialismo nel lungo periodo
di Luigi Cavallaro*
Nel luglio 1934, H. G. Wells si recò a Mosca per intervistare Stalin. Il colloquio tra lo scrittore inglese e il leader bolscevico durò circa tre ore, alla presenza di un interprete, e il 27 ottobre successivo ne fu pubblicata la trascrizione integrale sul settimanale britannico The New Statesman and Nation.
Il periodico aveva cominciato le pubblicazioni sotto questo nome tre anni prima, a seguito della fusione di due riviste appartenenti all’area della sinistra socialista e liberale inglese: The New Statesman, che era stata fondata nel 1913 dai coniugi Sydney e Beatrice Webb e da George Bernard Shaw, e The Nation and the Athenaeum, che era invece di proprietà di John Maynard Keynes, che l’aveva acquistata e così ribattezzata nel 1923. La prima era un organo ufficiale della influente Fabian Society, alla quale appartenevano molti esponenti del partito laburista, mentre la seconda, pur guardando con simpatia ai laburisti, aveva mostrato più d’una preferenza per il partito liberale. L’esito delle elezioni del 1929 aveva però convinto Keynes a mettersi al lavoro per realizzare una fusione tra le due riviste; e sebbene il progetto fosse culminato, nei primi mesi del 1931, con l’acquisizione di The Nation and the Athenaeum da parte di The New Statesman, lo stesso Keynes, divenuto presidente del nuovo consiglio di amministrazione, aveva chiesto e ottenuto sia di cambiare il nome della testata (che divenne appunto The New Statesman and Nation), sia soprattutto che direttore responsabile fosse nominato Kingsley Martin, con il quale l’anno prima aveva partecipato al comitato promotore di un altro periodico politicamente molto connotato a sinistra, il trimestrale Political Quarterly, di cui lo stesso Martin era diventato condirettore.
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Israele e l’equazione iraniana
di Michele Paris
L’attacco iraniano sul territorio di Israele è stato un evento di portata storica e potenzialmente in grado di cambiare gli equilibri mediorientali nonostante le autorità dello stato ebraico e i governi occidentali stiano facendo di tutto per minimizzarne conseguenze e implicazioni. I danni materiali provocati da missili e droni della Repubblica Islamica sembrano essere stati trascurabili, anche se tutti ancora da verificare in maniera indipendente, ma il successo dell’operazione è senza dubbio da ricercare altrove.
La premessa necessaria a qualsiasi commento della vicenda è la legittimità dell’iniziativa di Teheran. Come hanno sostenuto i leader iraniani, la ritorsione è giustificata in base all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, relativo alla legittima difesa, in quanto avvenuto dopo un attacco a tutti gli effetti contro il territorio dell’Iran, cioè il bombardamento della rappresentanza diplomatica di quest’ultimo paese a Damasco il primo aprile scorso.
Il primo fattore da considerare è poi l’obiettivo iraniano, che in nessun modo era di causare danni su ampia scala né di favorire un allargamento del conflitto in Medio Oriente. Gli avvertimenti da parte di Israele e alleati che avevano preceduto l’attacco e i proclami registrati subito dopo circa il fallimento dell’operazione iraniana lasciavano intendere che Teheran puntava poco meno che a distruggere lo stato ebraico.
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Il mondo che non vogliamo diventare
di Monica Di Sisto
Israele ha utilizzato i Territori occupati come la migliore vetrina del potenziale offensivo e di controllo dei sistemi d’arma e d’intelligence sviluppati dalle sue aziende di settore. È la tesi di Laboratorio Palestina, ultimo lavoro di Antony Loewenstein nel quale emerge il sostegno israeliano ad alcuni dei regimi più spietati degli ultimi settant’anni, e si denuncia come, paradossalmente, proprio questa capacità bellica e di controllo sono fattori determinanti nel ruolo centrale guadagnato dal Paese nella governance globale tanto da renderlo, nei fatti, inarrestabile
“La lezione che Israele dovrebbe imparare dall’Ucraina (…) è che la forza militare non è sufficiente, è impossibile sopravvivere da soli, abbiamo bisogno di un vero sostegno internazionale, che non può essere comprato semplicemente sviluppando droni che sganciano bombe”. Così all’inizio del 2022 il giornalista e opinionista Gideon Levy, nelle settimane dopo l’invasione della russa, aprì uno squarcio nella prospettiva che oggi, dopo anni di guerra in Ucraina e mesi di massacro in Palestina, appare chiara a chi non sia ottenebrato da fumi ideologici o furie partigiane.
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Dall’ipocrisia alla follia: disamina del suprematismo occidentale in Ucraina
di Francesco Cori
La sconfitta momentanea della Nato in Ucraina è la conseguenza della follia ideologica di usare un intero popolo come strumento per una guerra imperialista contro la Russia. Cosa faranno gli Stati Europei?
Dall’ipocrisia alla follia: disamina del suprematismo occidentale in Ucraina con la narrazione aggredito-aggressore imposta dalla maggioranza dei mezzi di comunicazione occidentali, quindi, senza affatto avere alcuna partecipazione ideale al putinismo, proverò a dimostrare, attraverso le dinamiche stesse della guerra, perché l’imperialismo occidentale è destinato a perderla e, prima questa sconfitta viene riconosciuta, minori saranno i danni per l’umanità.
Il tratto fondamentale della strategia Nato in Ucraina è quello di utilizzare la maggior parte di un popolo– in parte ideologizzato e in misura maggiore costretto da una dittatura fascistoide – come carne da macello per un conflitto geopolitico nei confronti delle popolazioni del Donbass e per l’indebolimento e la frammentazione della Federazione Russa come Stato.
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Per un nuovo ordine multipolare, contro unipolarismo USA e dominio del capitale finanziario
di Alessandro Valentini
Per un soggetto politico rivoluzionario all’altezza del XXI secolo, non si può prescindere dalla lezione teorica e pratica marxista che ci viene oggi dall’Oriente, rispetto a un marxismo occidentale ingessato o mal interpretato, in una parola agonizzante
Un nuovo tornante della storia
Con l’inizio dell’operazione militare speciale della Russia in Ucraina siamo a un nuovo tornante della storia, una di quelle situazioni nuove che si presentano dopo tantissimi anni, un tornante paragonabile alla Rivoluzione francese o a quella dell’Ottobre del 1917.
Per questa ragione è da respingere la tesi, cara anche a una certa sinistra, che la guerra in Ucraina sia una guerra imperialistica tra gli USA e la NATO da una parte e la Russia e i suoi alleati dall’altra, simile al grande conflitto mondiale del 1914/18. Il confronto storico è più simile alla grande coalizione che fu costituita in Europa per soffocare la Rivoluzione francese o alla guerra civile nella giovane Repubblica dei soviet tra i bianchi, sostenuti attivamente da una coalizione occidentale, e i bolscevichi, dopo la presa del potere nel 1917, allo scopo di restaurare il regime zarista. È evidente che in Francia il fine era quello di riportare al potere la monarchia assolutista e in Unione Sovietica di impedire che le idee rivoluzionarie socialiste potessero diffondersi in tutto l’Occidente.
Dal capitalismo al dominio del capitale finanziario
Alla base dello scontro, politico e militare, vi è la volontà da parte dell’Occidente collettivo di contrastare, anche con la guerra, la costruzione di un ordine mondiale multipolare. La cosiddetta “guerra mondiale a pezzi” ha questo segno chiaro, netto, e si è potuta scatenare solo dopo che gli accordi di Bretton Woods, che nel 1944 avevo stabilito la convertibilità del dollaro in oro, furono messi in discussione da Nixon nel 1971.
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A proposito del proletariato esterno
Meriti e limiti del pensiero di Zitara
di Carlo Formenti
Nei miei lavori ho più volte citato le idee “eretiche” del marxista calabrese Nicola Zitara (1), pur senza approfondire nei dettagli il suo contributo teorico e limitandomi a evidenziarne le convergenze con gli autori della scuola della dipendenza, come Samir Amin e gli altri membri di quella che Alessandro Visalli definisce “la banda dei quattro" (2). La lettura di un recente libro di Angelo Calemme (La Questione meridionale dall’Unità d’Italia alla disintegrazione europea. Contributo alla teoria del socialismo di mercato, Guida editori), mi stimola a riprendere la riflessione sul pensiero di Zitara (3) per discutere le sfide teoriche che questo autore ci ha lasciato in eredità e che ora Calemme rilancia, da un lato mettendone in luce i meriti, dall’altro esasperandone, a mio avviso, i limiti. Nelle pagine che seguono seguirò un percorso in quattro tappe: nella prima esaminerò gli argomenti con cui Zitara e Calemme difendono la tesi secondo cui il Regno delle Due Sicilie era, al momento dell’unificazione nazionale, più avanzato di tutti gli altri stati preunitari sulla strada della modernizzazione economica; nella seconda analizzerò il loro punto di vista sull’unificazione come processo di asservimento coloniale del Meridione da parte della monarchia sabauda; nella terza riprenderò le loro analisi sulla composizione di classe della società meridionale; nell’ultima discuterò la proposta di una rivoluzione nazional popolare finalizzata alla autonomizzazione del Meridione e alla sua conversione in una formazione socialista di mercato.
I.
Ripartendo dalla tesi di Zitara, il quale, confrontando i dati economici relativi ai vari staterelli italiani preunitari, ne estrae l’evidenza di un indiscutibile primato del Regno borbonico, Calemme mette tale primato in relazione con l’influenza politico culturale esercitata dai maggiori esponenti della scuola illuminista napoletana (Galiani, Intieri e Genovesi su tutti).
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A 75 anni, l’Alleanza Atlantica si fonda su una narrazione fittizia
di Roberto Iannuzzi
La NATO è un anziano boss, costretto a mentire a se stesso pur di prolungare il proprio declinante potere, perpetuando una scia di divisioni e conflitti nel vecchio continente e nel mondo
L’Organizzazione del Trattato Nord-Atlantico è stata definita dai suoi sostenitori l’alleanza più “duratura” e “di maggior successo” della storia. Quest’anno, la NATO celebra i 75 anni di vita. Per festeggiare la ricorrenza, il consueto vertice annuale dell’Alleanza si terrà a Washington, dove i ministri degli esteri degli originari 12 paesi membri firmarono il trattato il 4 aprile 1949.
La data è stata ricordata, la scorsa settimana, da una frettolosa celebrazione a Bruxelles, sede del quartier generale dell’organizzazione, ormai estesa a ben 32 paesi.
L’atmosfera è stata tuttavia guastata dalle preoccupazioni su come rafforzare le difese ucraine, tenuto conto che l’atteso pacchetto di aiuti statunitensi da 60 miliardi di dollari è tuttora bloccato al Congresso, e che un’eventuale elezione di Donald Trump alla Casa Bianca creerebbe ulteriori problemi alla coalizione che sostiene Kiev.
Una NATO “a prova di Trump”
“Trump-proofing” è l’espressione all’ordine del giorno nei corridoi di Bruxelles – rendere la NATO “a prova di Trump”. Nel quartier generale dell’Alleanza serpeggia il timore reale che, se il comportamento degli USA nei confronti dell’organizzazione dovesse cambiare a seguito di una nuova presidenza Trump (essenzialmente all’insegna di un crescente disimpegno americano), la NATO stessa potrebbe addirittura cessare di esistere.
Da qui l’esigenza di discutere i possibili modi per “isolare” il ruolo della NATO in Ucraina dalle incertezze della politica americana.
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Pensiero debole o debolezza del pensiero?
Considerazioni sul “comunismo ermeneutico” di Gianni Vattimo
di Salvatore Muscolino
Il 19 settembre 2023 è morto il filosofo italiano Gianni Vattimo che con la sua proposta di un “pensiero debole” è riuscito a guadagnarsi una notorietà anche all’estero al pari di filosofi come Emanuele Severino o Giorgio Agamben.
In questo breve contributo non intendo certamente ripercorrere tutto l’itinerario del suo pensiero quanto piuttosto riflettere su alcuni aspetti, a mio avviso, problematici del cosiddetto “pensiero debole”, in particolare nel suo legame con il “comunismo”. In un libello pubblicato nel 2007 intitolato ECCE COMU. Come si ridiventa ciò che si era, Vattimo sostiene infatti il legame profondo tra il “pensiero debole” e l’istanza ideale del comunismo. Considerato il fatto che egli è consapevole dell’apparente contraddizione tra il “pensiero debole”, che si inscrive all’interno della svolta postmoderna, e un “pensiero forte” come quello di Marx che rappresenta a tutti gli effetti una di quelle grandi narrazioni criticate da Lyotard, l’operazione da lui tentata va nella stessa direzione di altre proposte avanzate negli ultimi anni: individuare un presunto ideale del marxismo irriducibile alle deformazioni scientiste e positiviste (di cui sarebbero responsabili i successori di Marx) e che potrebbe rappresentare lo strumento per “resistere” al modello neoliberista oggi dominante.
A rendere altresì interessante la sua posizione è la circostanza per la quale Vattimo dichiara che la sua rielaborazione del “comunismo” si muove all’interno della cornice cattocomunista che da sempre lo avrebbe influenzato per cui marxismo, cristianesimo/cattolicesimo e “pensiero debole” si intreccerebbero tra loro in un mix particolare che rende questa operazione certamente originale e complessa in quanto si muove a un livello di discussione molto elevato che riguarda questioni delicate come il rapporto religione/metafisica/violenza, la secolarizzazione, il fondamento dei sistemi politici democratici…
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La prospettiva di una guerra regionale
di Andrea Zhok
Ieri è giunta l'attesa risposta iraniana al bombardamento israeliano del consolato iraniano di Damasco, che aveva ucciso tra gli altri il generale Haj Zahedi.
L'Iran ha effettuato un attacco simultaneo con droni e missili in modo da saturare la poderosa difesa antiaerea israeliana. Missili hanno colpito due basi militari israeliane (monte Hermon e Novatim). Oggi l'autorità iraniana rivendica quei due obiettivi come primari, ma è abbastanza ovvio come questa rivendicazione abbia semplicemente la funzione di far coincidere gli obiettivi raggiunti di fatto con le intenzioni effettive (che non conosciamo), per poter dire che il successo è stato completo.
Al di là di queste schermaglie, gli obiettivi sono stati scelti intenzionalmente tra le basi militari israeliane, tralasciando i civili, in modo da poter considerare con questa risposta chiuso l'incidente aperto con l'attacco a Damasco, nel nome della proporzionalità.
Gli USA, sotto elezioni, non hanno nessuna intenzione di lasciarsi coinvolgere in un conflitto diretto con l'Iran, che li esporrebbe sull'ennesimo fronte simultaneo in termini di un sempre più complicato sostegno militare (Ucraina, Taiwan, Siria, ecc.). Biden ha già fatto sapere che, pur sostenendo come sempre Israele, non desidera un'ulteriore escalation.
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Palestina-Israele: vittoria strategica e vittoria sul campo
di Paolo De Prai*
Per capire cosa succede a Gaza è necessario guardare cosa accade in Ucraina.
Per quanto i politici italiani “autorevoli” ripetano i loro “atti di fede”, e ugualmente gli altri leader “nani” europei e i giornalisti a loro legati (ed entrambi proni esecutori dei loro padroni yankee), le loro dichiarazioni stizzite e altisonanti sono solo il riflesso della vittoria strategica del governo russo nel confronto con la NATO.
Ancora non c’è la vittoria palese sul campo della Russia, ma quella strategica è già stata ottenuta, perché da più di venti anni i governi USA operavano per accerchiare la Russia e con la guerra in Ucraina in corso da dieci anni (due per i venditori di fumo nostrani) speravano di distruggere economicamente, socialmente e psicologicamente l’avversario, di cui ambivano impossessarsi delle ricchezze minerarie frammentandolo in decine di mini stati (come già dicevano oltre trenta anni fa).
Questa analisi vale anche per la guerra in corso tra lo Stato israeliano contro i palestinesi.
Discutere se l’azione militare di Hamas del 7 ottobre scorso era prevista o voluta dal governo zelota oppure ideata autonomamente dai palestinesi ha poco senso, perché è da molti decenni che a ogni azione della resistenza palestinese la risposta israeliana è stata sempre una maggiore potenza di fuoco, sempre più devastante e con sempre più vittime civili palestinesi.
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Neoliberismi precoci
di Pierluigi Fagan
B. Stiegler, filosofa politica francese, conduce in questa ricerca una genealogia del neoliberismo americano, sincronico all’ordoliberismo tedesco e quello poi più idealista di Hayek, versione americana meno conosciuto ma forse anche più influente. L’eroe negativo della storia è il mitico Walter Lippmann. Solo un “giornalista” come alcuni lo ritennero, in realtà politologo pieno e poi politico dietro le quinte, stratega di pratiche e pensiero, inventore di una versione americana della propaganda più sofisticata, delle pubbliche relazioni, dello sterminio sistematico dell’intelligenza collettiva.
Lippmann, come altri liberali oligarchici, rimase sconvolto dal registrare i ripetuti fallimenti del mercato che culminarono nel 1929. Non un ideologo o un economista ma uno dei più grandi storici dell’economia, Paul Bairoch, ha più volte significato quanto brevi e disastrose furono le fasi storiche ed economiche in cui s’impose la dittatura del libero mercato ritenuto ente autoregolato che spande benefici secondo logica. Lippmann allora reagì come i più prudenti tedeschi di quell’ordoliberismo che inaspettatamente scovò M. Foucault nelle lezioni in cui pure s’era ripromesso la fondazione teorica del suo concetto di biopolitica. Strano a notarsi ma era il 1978-9, pochi si sono meravigliati di questa prematura lucidità del filosofo ricercatore francese.
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Da Tel Aviv a Roma... Il fascismo non li salverà
di Fulvio Grimaldi
Byoblu-Mondocane 3/21: In onda domenica ore 21.30, repliche, salvo imprevisti, lunedì 09.30, martedì 11.00, mercoledì 22.30, giovedì 10.00, sabato 16.30, domenica 09.00
Qual’è il rimedio delle classi dirigenti, politiche ed economiche (nel capitalismo liberista, tutt’uno) quando la crisi gli morde i calcagni? Il fugone nel fascismo, in qualsiasi nuova forma ritenuta adatta ai tempi. Oggi si presenta in veste psicomanipolatoria-tecnologica, ma senza mai rinunciare alla violenza fisica, a seconda dei casi pestaggi o mattanze.
Ecco cosa hanno in comune i massacri dei nostri fratelli in lotta a Gaza e in Cisgiordania e le teste spaccate dai gendarmi agli studenti delle università italiane – vera eccellenza del paese - che rifiutano gli accordi voluti da Tajani e Crosetto tra ricercatori italiani (leggi Leonardo) e assassini di massa israeliani.
A questo proposito c’è da augurarsi una congiunzione tra generazioni: quella dei maturotti, più ansiosi per la propria sopravvivenza, e i giovanotti, dotati di lunga vita e, dunque, di sguardo più lungo e ampio. Gli stagionati in prima linea nel fronte contro l’assalto farmaceutico-disciplinare, capaci dii riconoscere e contrastare la nuova arma della guerra di classe dall’alto; gli imberbi, assenti o assonnati in quell’istanza, attenti allo sconquasso planetario delle trombe di guerra suonate tra Gaza e Donbass.
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Lenin a Wall Street: imperialismo e centralizzazione nel XXI secolo (I)
di Andrea Pannone
A 100 anni dalla morte di Lenin (21 gennaio 1924) e nel pieno di una fase storica nuovamente caratterizzata dalla contrapposizione diretta tra superpotenze mondiali, una riflessione critica sul concetto di imperialismo formulato dal leader bolscevico nel 1917 assume una specifica rilevanza. Partendo da qui, questo scritto si focalizza sul nesso tra eccesso di capacità produttiva e centralizzazione internazionale dei capitali alla luce del processo di finanziarizzazione dell’economia mondiale che sta caratterizzando il XXI secolo. La nostra tesi, infatti, è che i connotati assunti da questi tre fenomeni negli ultimi quindici anni concorrano in modo decisivo a interpretare la natura delle recenti tensioni belliche tra alcune nazioni.
Il lavoro è organizzato come segue. Nel primo paragrafo si esamina la categoria centrale della teoria dell’imperialismo di Lenin ossia il concetto di esportazione di capitale in eccesso. Nel secondo paragrafo si cerca di evidenziare l’attuale rilevanza di questa categoria concettuale alla luce di quella che può essere considerata una sua proxy: gli investimenti diretti esteri. Nel terzo paragrafo si esamina il nesso tra eccesso di capacità e centralizzazione del capitale nella sua evoluzione storica, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. Il quarto paragrafo analizza la crescente influenza delle oligarchie economico-finanziarie sulle politiche degli Stati e sulle relazioni internazionali. Il quinto paragrafo conclude evidenziando il ruolo dei conflitti bellici nell’equilibrio instabile tra gruppi di potere che perseguono logiche di accumulazione diverse.
Pubblichiamo oggi la prima parte dello scritto (A.P.)
* * * *
I. L’esportazione di capitali in eccesso e la teoria dell’imperialismo di Lenin
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I missili di aprile
di Scott Ritter
L'attacco di rappresaglia dell'Iran contro Israele passerà alla storia come una delle più grandi vittorie di questo secolo
Scrivo sull’Iran da più di due decenni. Nel 2005 ho compiuto un viaggio in Iran per accertare la “verità di fondo” su quella nazione, verità che ho poi incorporato in un libro, “Target Iran”, che illustrava la collaborazione tra Stati Uniti e Israele per creare una giustificazione per un attacco militare all’Iran volto a far cadere il suo governo teocratico. A questo libro ha fatto seguito un altro, “Dealbreaker”, nel 2018, che ha aggiornato questo sforzo USA-Israele.
Nel novembre 2006, in un discorso alla School of International Relations della Columbia University, ho sottolineato che gli Stati Uniti non avrebbero mai abbandonato il nostro “buon amico” Israele fino a quando, ovviamente, non lo avremmo fatto. Cosa potrebbe far precipitare un’azione del genere, chiesi? Feci notare che Israele era una nazione ubriaca di arroganza e di potere e che, a meno che gli Stati Uniti non avessero trovato un modo per togliere le chiavi dall’accensione dell’autobus che Israele stava guidando verso l’abisso, non ci saremmo uniti a Israele nel suo viaggio suicida da lemming.
L’anno successivo, nel 2007, durante un discorso all’American Jewish Committee, ho sottolineato che le mie critiche a Israele (da cui molti tra il pubblico si sentirono fortemente offesi) provenivano da una preoccupazione per il futuro di Israele. Sottolineai la realtà che ho trascorso la maggior parte del decennio cercando di proteggere Israele dai missili iracheni, sia durante il mio servizio in Desert Storm, dove ho avuto un ruolo nella campagna contro i missili SCUD, sia come ispettore delle Nazioni Unite, dove ho lavorato con l’intelligence israeliana per assicurarmi che i missili SCUD dell’Iraq fossero eliminati.
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