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Chi vuole la guerra
di Carlo Lucchesi
Il completo asservimento alla causa degli USA della quasi totalità dei media del nostro paese e, per quanto si può conoscere, dell’intero Occidente, pone questioni delle quali chi non intende soggiacere insieme a loro dovrebbe discutere a fondo e tentare di risolverle. Parto da quella apparentemente meno importante, vale a dire le forme della manipolazione informativa. Queste si sono fatte sempre più sporche. Nella carta stampata, sapendo che il lettore scorre rapidamente i titoli e seleziona così i pochissimi pezzi da leggere, è proprio al titolo che è affidato il compito di veicolare il messaggio truffaldino tanto che il testo sottostante può anche dire cose diverse o non parlare affatto di quello che il titolo aveva annunciato. I “secondo voci raccolte…” (di chi? e chi le ha raccolte?), oppure “come racconta…” (e si cita un presunto testimone sconosciuto al mondo), o ancora le interviste a persone che hanno palesemente in odio la Russia e non vedono l’ora di attribuirle tutti i mali del mondo, presenti e futuri, le inchieste come collage di pezzi di agenzia ritagliati a misura per rendere credibile il palesemente falso, la classificazione di “buono” per chi sta con l’Occidente, qualunque misfatto compia, e di “cattivo” per chi non sta con l’Occidente, ed è cattivo sempre e comunque e nutre le peggiori intenzioni immaginabili anche se non ha mai profferito parola che possa renderle minimamente verosimili: tutto questo è stato ed è il pane quotidiano del nostro giornalismo accanto alla sistematica denigrazione di chiunque abbia l’ardire di provare a ragionare su ciò che sta accadendo. Ovviamente, una volta che i fatti dimostrino via via la falsità della narrazione (dalla malattia di Putin allo sfascio della Russia fino alla trionfale controffensiva ucraina passando attraverso decine di anticipazioni fasulle), non seguono né smentite, né correzioni di rotta. Anzi, per ogni bolla che scoppia se ne soffia un’altra magari più grande.
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Andare oltre l’inferno planetario
di Gennaro Avallone
In questi giorni esce in libreria per Ombre Corte Oltre la giustizia climatica. Verso un’ecologia della rivoluzione, di Jason Moore e a cura di Gennaro Avallone. Siamo felici di condividere l’Introduzione al testo di Gennaro Avallone, per cui ringraziamo la casa editrice e l’autore
L’inferno planetario
“Non è l’Uomo, ma è il Capitale il responsabile dell’inferno planetario”. È questa una delle affermazioni al centro di questo libro. La frase contiene tre concetti fondamentali per comprendere il mondo in cui viviamo e le sfide che dobbiamo affrontare. Il primo si riferisce a quello di Uomo, un’astrazione che ha accompagnato l’intera modernità in contrapposizione all’altra, quella di Natura, legittimando, in base a tale polarità, la superiorità degli esseri umani definiti civili (l’Uomo) su tutte le altre forme di vita, umane comprese, identificate come selvagge (la Natura). Il secondo concetto è quello di capitale, il rapporto socio-ecologico che ha plasmato il mondo dalla fine del 1400, costruendolo come un enorme magazzino di forme di vita di cui disporre e forme di vita da annullare, fino alla loro estinzione, se inutili o di ostacolo alla sua riproduzione. Il terzo concetto è quello di inferno planetario. Con esso, si individuano due processi. Il primo si riferisce agli effetti del riscaldamento globale e del cambiamento climatico in corso, che stanno trasformando parti del pianeta in luoghi totalmente ostili alla vita umana e ad altre forme di vita a causa delle alte temperature, della riduzione della fertilità dei suoli e della siccità, fino alla mancanza di accesso all’acqua potabile. Il secondo processo riguarda il fatto che per una parte dell’umanità, costituita da alcuni miliardi di persone, e per una molteplicità di vite animali, la vita sul pianeta è strutturalmente una sofferenza, dovuta ai processi di devastazione ambientale e svalorizzazione economica e culturale e alle profonde disuguaglianze socioecologiche che caratterizzano il globo.
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Gaza. Il carattere performativo della violenza israeliana
Patrizia Cecconi intervista il prof. Angelo Stefanini
Il prof. Angelo Stefanini[i] medico, accademico, fondatore del CSI (Centro di Salute Internazionale) e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati, lo scorso 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta di cessare il fuoco! Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del prof. Stefanini, inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione mediatica.
La relazione del prof. Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili, utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di meno”.
Col prof. Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.
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ISIS, l'alibi (troppo) perfetto dell'occidente
di Clara Statello
L’Isis K ha mostrato quella che dovrebbe essere la definitiva conferma della matrice islamista dell’attentato terroristico di Mosca. Nella tarda serata di sabato, Amaq News, l’agenzia stampa affiliata allo Stato Islamico, ha pubblicato un video registrato dagli stessi terroristi degli attimi terribili del massacro alla Crocus City Hall. Il filmato, nella sua versione integrale, è stato rilanciato sul canale Telegram del blogger ucraino dissidente Anatoly Shary, ma se ne sconsiglia la visione per la sua mostruosità.
Il commando irrompe in una sala, sparando deliberatamente sui civili. Sgozza un uomo per terra, assicurandosi di non lasciare sopravvissuti. Dopo di che, uno dei terroristi si mostra alla camera gridando “inshallah” e “allahu akbar”. E’ la firma indiscutibile dell’Isis, la conferma della versione Occidentale, che scagiona Kiev da ogni sospetto di coinvolgimento.
In un’intervista rilasciata al Tempo, il politologo statunitense Edward Luttwak ( lo stesso che poche settimane fa affermava in TV che non esistono civili a Gaza, legittimando così lo sterminio di massa di bambini palestinesi) spiega che l’Occidente non sta assolutamente in nessun modo attaccando Mosca.
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Armiamoci e partite!
di Gianandrea Gaiani
La Russia si rafforza, l’Ucraina si dissangua al momento senza prospettive e gli Stati Uniti appaiono sempre più lanciati verso il disimpegno dalla guerra indipendentemente dall’esito delle elezioni di novembre. In questo contesto il Consiglio Europeo del 22 e 23 marzo non ha fornito segnali di discontinuità rispetto all’impegno a sostenere Kiev fino alla riconquista dei territori perduti.
Le concrete difficoltà a produrre con costi e tempi ragionevoli le armi e munizioni necessarie all’Ucraina ma anche a un’Europa sempre più debole e con le forze armate in continuo e progressivo calo di effettivi, sono state esorcizzate dalla determinazione, da tempo in discussione, a utilizzare alcuni miliardi di euro prelevati dai rendimenti degli assetti finanziari russi congelati in Europa dopo l’inizio della guerra.
Per il cancelliere tedesco Olaf Scholz, ”usare i profitti straordinari” derivanti dal congelamento degli asset della Banca Centrale Russa, circa 3 miliardi di euro l’anno, per ”armi e munizioni” da inviare all’Ucraina sarebbe ”un grande passo avanti”. Del resto, ha aggiunto, si tratta di ”profitti inattesi” che finora sono stati incamerati dalle società di clearing, e che lo Stato belga, dove ha sede Euroclear, tassava, ”quindi l’Ue li può usare” per fornire armi a Kiev.
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Mentre
di Giorgio Agamben
Per liberare il nostro pensiero dalle panie che gli impediscono di spiccare il volo è bene innanzitutto abituarlo a non pensare più in sostantivi (che, come il nome stesso inequivocabilmente tradisce, lo imprigionano in quella «sostanza», con la quale una tradizione millenaria ha creduto di poter afferrare l’essere), ma piuttosto (come William James ha suggerito una volta di fare) in preposizioni e magari in avverbi. Che il pensiero, che la mente stessa abbia per così dire carattere non sostanziale, ma avverbiale, è quanto ci ricorda il fatto singolare che nella nostra lingua per formare un avverbio basta unire a un aggettivo il termine «mente»: amorosamente, crudelmente, meravigliosamente. Il nome – il sostanziale – è quantitativo e imponente, l’avverbio qualitativo e leggero; e, se ti trovi in difficoltà, a trarti d’impaccio non sarà certo un «che cosa», ma un «come», un avverbio e non un sostantivo. «Che fare?» paralizza e t’inchioda, solo «come fare?» ti apre una via d’uscita.
Così per pensare il tempo, che da sempre ha messo a dura prova la mente dei filosofi, nulla è più utile che affidarsi – come fanno i poeti – a degli avverbi: «sempre», «mai», «già», «subito», «ancora» - e, forse – di tutti più misterioso – «mentre».
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Comunisti e stato
di Pierluigi Fagan
(Qualcuno si domanderà dell'attualità e senso di questo post rispetto ai discorsi che qui sviluppiamo da tempo. Va letto, purtroppo, per scoprirlo)
Il rapporto teorico e pratico tra comunisti e Stato è assai problematico.
La concezione dello Stato nello sviluppo del lavoro teorico di Marx ed Engels è di lenta e mai ultimata precisazione. Ma la linea principale vedeva l’idea di impossessarsi dello Stato con la forza per poi far deperire lo Stato per lenta autodemolizione nella fase della “dittatura del proletariato”, in favore di un modello finale che Marx idealizza nella Comune di Parigi (1871).
Ma la Comune durò scarsi due mesi, era una città non uno Stato come dimensioni e complessità di funzioni. Lenin rimarrà strettamente ortodosso nel perseguimento della strategia marxiana, ma la prematura morte portò poi a Stalin dove si realizza l’esatto contrario, la creazione di uno Stato totalitario, burocratico e poliziesco.
E tuttavia, va osservato, Marx idealizzava su una comunità di 1,8 milioni di parigini neanche alle prese con responsabilità di governo di un ente nazionale esteso, invisi certo ai poteri di mezza Europa, che per due mesi fecero baldoria producendo mito e speranza, ma Stalin guidava una nazione assediata non solo dagli europei (tra cui poi i nazifascisti) ma dagli anglosassoni con americani sempre più rilevanti, ma anche famelici giapponesi, per più di trenta anni, con una estensione territoriale immensa e con tra 150 e 200 milioni di abitanti.
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Lettere dal Sahel XIII
di Mauro Armanino
Impostori di sabbia
Niamey, 21 gennaio 2024. Eppure il cambiamento era dietro l’angolo. Il mondo vecchio stava scomparendo e bastava una spallata per buttarlo giù. Erano gli anni operai delle assemblee, delle 150 ore retribuite in fabbrica per la licenza media e il testo faro di don Milani ‘Lettera a una professoressa’. Il terrorismo e le manipolazioni della sedicente rivoluzione proletaria. Il sospetto, col tempo, che tutto fosse giocato d’avanzo e che l’italico Paese, colonia degli Stati Uniti Vaticani, divenne preda scelta di manovre eversive delle stragi che avrebbero insanguinato banche, piazze, treni e stazioni. Credevamo che il cambiamento fosse una questione di stagioni.
Lo stesso accade da questa parte del mondo che si suole chiamare Sahel. Una spallata al mondo antico, nato, nutrito e perpetuato dal neocolonialismo, espressione della globalizzazione del mondo come mercato unico. I militari, non casualmente, hanno preso il potere con colpi di stato in vari Paesi dell’Africa Occidentale, Centrale e altrove, spesso. Alcuni si sono camuffati da civili per perpetuarsi. Promettono pure loro un mondo nuovo, liberato da corrotti, faccendieri, venduti agli stranieri e dunque traditori della patria.
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Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes
di Carlo Formenti
L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l'11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l'ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall'Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.
Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l'ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l'autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l'impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l'inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni "estremiste", alimentate dall'illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle "leggi" dell'economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un "ragionevole" minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.
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Bisogna essere contro la guerra o anche contro le sue radici?
di Alessandra Ciattini e Federico Giusti
Nonostante la censura, molti analisti e soggetti politici stanno da tempo prendendo posizione contro gli attuali conflitti, che potrebbero sfociare nell’“ultima guerra mondiale”. Purtroppo, essi non si pongono spesso il problema del perché questo sistema economico e sociale inevitabilmente genera guerre e conflitti, finendo col sostenere un astratto e inefficace pacifismo.
Nel panorama politico e mediatico internazionale appaiono, ormai da tempo insieme ai propagandisti di regime, molti soggetti che prendono posizione contro la guerra in Ucraina, contro il genocidio di Gaza, contro lo smisurato incremento delle spese per le armi, sempre più sofisticate. Pur apprezzando, con qualche distinguo, questa posizione politica, vorremmo qualcosa di più. In particolare urge comprendere perché, sempre più, le questioni internazionali si risolvano con la violenza, demonizzando nella forma più semplicistica e grottesca gli avversari, e adoperandosi per persuadere le masse, ormai inerti e quasi rassegnate, alla necessità della guerra, magari non più diretta dagli Stati Uniti ma portata avanti da un “finalmente autonomo” esercito europeo. A questo scopo l’Ue dovrà dotarsi di forze di intervento rapide, dei migliori armamenti disponibili sui mercati, di strumenti informatici e tecnologici avanzatissimi, ricorrere all’intelligenza artificiale e ai sistemi tecnologici guidati a distanza. E probabilmente la guerra diventerà ancora più spietata.
Questi aspetti sono documentati dagli ultimi dati, forniti dal Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), i quali attestano una riduzione della spesa sociale nei paesi Ue e, allo stesso tempo, il potenziamento della ricerca a fini di guerra e della spesa militare nel suo complesso.
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Merito e diseguaglianza nelle riflessioni sulla scuola di Antonio Gramsci
di Salvatore Cingari*
Abstract. Il saggio ricostruisce l’utilizzo da parte di Gramsci del tema del “merito” nel suo discorso sulla scuola e l’educazione. Negli scritti pre-carcerari la critica ai privilegi delle classi più abbienti viene svolta sulla base di una rivendicazione dei meriti dei tanti soggetti di famiglie proletarie impossibilitati a coltivarli e farli valere. Nei Quaderni dal carcere tale posizione viene inserita nel quadro di uno Stato Nuovo, in cui la classe dirigente viene selezionata su un corpo sociale interamente messo in grado di partecipare cognitivamente all’autogoverno del lavoro. Vengono anche segnalati significativi parallelismi con i concetti bourdesiani di habitus e riproduzione.
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1. Premessa: il problema del merito oggi e nella storia del pensiero politico
La scuola come fondamentale leva per sollevare i ceti popolari oltre la subalternità è un tema già più volte trattato in passato dalla letteratura su Gramsci1. Qui però si vuole affrontare la questione da una specifica angolatura: il leader comunista come considerava il problema del «merito» e come lo inseriva nella sua più generale visione dell’eguaglianza (o perlomeno in ciò che di essa traspare dietro il suo marxismo per lo più non normativo)? Per quanto riguarda la meritocrazia, mi limito a ricordare come questa sia diventata negli ultimi anni una parola chiave per comprendere l’egemonia neoliberale2. Thomas Piketty, in Capital et ideologie, ha sottolineato come tale lemma sia sempre più utilizzato perché nei sistemi politico-sociali che dichiarano formalmente l’uguaglianza dei diritti, si va aprendo in modo crescente una grande diseguaglianza sostanziale, con la conseguente necessità di doverla giustificare3. Nancy Fraser, in un saggio dal titolo esplicitamente gramsciano, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere, sostiene che il liberalismo ha sostituito il concetto di giustizia sociale con quello di meritocrazia4.
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La censura annunciata è iniziata
di Fabrizio Marchi
Oggi Facebook ha censurato un nostro articolo che ricordava la ricorrenza dell’attacco della NATO contro la Jugoslavia avvenuto il 24 marzo del 1999, con la solita banale scusa in base alla quale l’articolo non è conforme agli standard della comunità.
In realtà si tratta della ben nota censura che Meta, che controlla Facebook, Instagram e Threads, ha deciso di applicare ai contenuti politici con una nota ufficiale del 9 febbraio scorso. Riporto di seguito il pregevole articolo de La Fionda che spiega quanto sta avvenendo e che sta passando (o meglio, è già passato) sotto silenzio: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/27691-laurent-ferrante-bavaglio-social-perche-nessuno-muove-un-dito-e-cosa-si-potrebbe-fare-invece.html
Come spiega l’articolo, verranno sistematicamente oscurati tutti «i contenuti politici, potenzialmente legati a temi quali le leggi, le elezioni o argomenti di natura sociale». Interrogati da utenti e giornalisti sulla vaghezza preoccupante di una tale definizione, i portavoce di Meta hanno balbettato risposte ancora più fumose, spiegando che la lista nera degli argomenti riguarderà le «hard news (politica, esteri, salute economia, ndr)» e la «critica sociale» inquadrata come «contenuti che identificano un problema che influenza le persone ed è causato dall’azione o inazione degli altri, il che può includere questioni come le relazioni internazionali o il crimine». In pratica, tutto.
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Ucraina. Come l'Ue, isolata, rischia di danneggiare l'euro
di Pasquale Cicalese
Non commento l'attentato in Russia. Vi do invece un estratto dell'editoriale di Milano Finanza di oggi di Guido Salerno Aletta. Per inciso, andando sul sito, ho scoperto che gli abbonati sono triplicati e che il bilancio è buono. Segno che in termini di informazione economica, i commenti di alcuni editorialisti non seguono il mainstream. Guido Salerno Aletta e Marcello Bussi sono tra questi, entrambi miei amici. Ma ritorniamo a Guido Salerno Aletta e al Consiglio Europeo di questi giorni. Titolo dell'articolo: "Ucraina, l’Ue accelera sugli aiuti ma lo fa da sola. E rischia così di danneggiare l’euro".
Estratti: "E invece, in ordine all’utilizzo dei citati proventi derivanti dagli asset sovrani della Russia, titoli e fondi per circa 260 miliardi di euro che nel complesso sono stati bloccati nelle giurisdizioni dei Paesi partner del G7, dell'UE e dell'Australia, di cui oltre due terzi nell'Unione europea e per la gran parte depositati presso l’Euroclear, ci si trova di fronte a un’accelerazione sostanzialmente solitaria da parte di Bruxelles, che in quanto tale era stata fortemente sconsigliata anche dal Vice Presidente della Bce Luis de Guindos, in una intervista dello scorso 23 novembre.
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Davvero non si trovano i lavoratori? Il mito alla prova dei numeri
di coniarerivolta
Sin dalla nascita della scrittura, ben 3500 anni fa e forse ancora prima, l’essere umano ha fatto ricorso al mito per darsi una spiegazione della realtà, per tramandare il sistema di valori e i principi di una società. Spesso, i miti servivano ad ammonire gli esseri umani a non compiere atti contro natura. Uno dei motivi ricorrenti del mito greco è la hybris, termine che sta a indicare appunto la tracotanza dell’essere umano, l’arroganza. Hanno peccato di hybris, ad esempio, Icaro, Sisifo o Prometeo. Tutti, a loro modo, arroganti verso gli Dei, ma archetipi della lotta dell’uomo per il raggiungimento della conoscenza.
Purtroppo, i nostri tempi amari e reazionari ci stanno consegnando un nuovo mito i cui personaggi, pur peccando di hybris e tracotanza, sono più interessati alla diffusione della menzogna – anche a costo di apparire ridicoli – che a squarciare i veli dell’ignoranza. Si tratta di un mito ben noto ai nostri lettori dato che ne abbiamo spesso smascherato le falsità e la pretestuosità ma che, tuttavia, è di recente tornato all’onore delle cronache. Si tratta del mito del “lavoro che, in Italia, c’è ma mancano i lavoratori”. Basta fare una piccola ricerca su Google per essere praticamente sommersi da risultati recenti.
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Stop dell’ateneo di Torino al bando con Israele: la successiva levata di scudi è degradante
di Paolo Ferrero
Voglio esprimere la mia piena solidarietà al Senato Accademico dell’Università di Torino che martedì scorso ha deciso di non partecipare a un bando del ministero degli Esteri italiano relativo al finanziamento di progetti di ricerca tra Italia e Israele. La decisione, assunta “visto il protrarsi della situazione di guerra a Gaza”, è stata in questi giorni attaccata in modo forsennato e domani vi sarà addirittura una manifestazione di protesta convocata sotto la sede del rettorato.
Di fronte alla scelta dell’Università di Torino di dare un segnale di dissenso riguardo al massacro in corso a Gaza, abbiamo assistito a una levata di scudi che la dice lunga sul degrado della nostra società.
In primo luogo, a Gaza cosa sta succedendo? In 5 mesi di bombardamenti indiscriminati e di attacchi militari continui, nella striscia di Gaza sono morti più di trentamila civili di cui quasi la metà bambini. In questa situazione catastrofica che nulla ha a che vedere con una guerra tra eserciti, la Corte internazionale di giustizia dell’Aia, il 26 gennaio ha stabilito che le azioni d’Israele nella Striscia di Gaza sono plausibilmente genocidarie e ha emesso una ordinanza che impone a Israele di adottare immediate misure per consentire la fornitura di servizi di base e assistenza umanitaria in favore dei palestinesi.
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Figli non riconosciuti. Chi è mia madre?
di Alba Vastano
Fino a un decennio fa i figli non riconosciuti, restavano esclusi dalla possibilità di conoscere la madre biologica, vita natural durante. ‘La legge dei cento anni’ creava un ulteriore discrimine e un disagio sia psicologico che sociale nella vita dei figli di madre ignota. Accadeva negli anni passati, fino al 2013, quando è intervenuta in merito la Corte Costituzionale, con la sentenza 278, dichiarando l’incostituzionalità, sia pur parziale, del comma 7 della legge 184/83 art.28
In Italia, da inchieste recenti, sembra siano oltre 400mila i figli di madre ignota. Una collettività che un tempo era segnata con l’odioso marchio N.n (Nomen nescio) a sminuire l’identità, come fossero figli di un dio minore. Accadeva quando la madre biologica non riconosceva il figlio e chiedeva alle autorità competenti il diritto all’anonimato. La legge protegge a vita l’anonimato della madre. Di contro, però, la legge attuale non riconosce, né può risolvere automaticamente, così come è automatico per legge il diritto all’anonimato della madre, il desiderio legittimo del figlio, non riconosciuto alla nascita, di sapere chi è la madre biologica.
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Metamorfosi di Macron, crisi dell’asse franco-tedesco, e frantumazione dello spazio politico europeo
di Roberto Iannuzzi
Le bellicose dichiarazioni del presidente francese sono il sintomo di una profonda crisi delle leadership europee, non la riposta a una reale minaccia russa
Quella che a fine febbraio era apparsa a molti come una boutade del presidente francese Emmanuel Macron (“l’invio di truppe occidentali in Ucraina non può essere escluso”), si è trasformata con il passare dei giorni nel cavallo di battaglia del capo dell’Eliseo.
In un’agguerrita intervista televisiva in prima serata, lo scorso 14 marzo, Macron ha rincarato la dose. Descrivendo ancora una volta il conflitto ucraino in termini esistenziali (“Se la Russia dovesse vincere, le vite dei francesi cambierebbero”, “Non avremmo più sicurezza in Europa”), il presidente francese ha ribadito che l’Occidente non dovrebbe permettere alla Russia di vincere.
Spiegando che tutte le precedenti linee rosse sono state oltrepassate dall’Occidente in Ucraina (inviando missili e altri sistemi d’arma che inizialmente si riteneva impensabile fornire a Kiev), egli ha lasciato intendere che neanche l’invio di soldati dovrebbe essere considerato un tabù (in effetti, militari occidentali sono già in Ucraina).
Ambiguità strategica
Chiarendo che non sarà mai la Francia a prendere l’iniziativa militare attaccando i russi in territorio ucraino, il presidente francese ha mantenuto una voluta ambiguità sull’effettiva possibilità di inviare truppe e sugli eventuali obiettivi di una simile missione, definendola “ambiguità strategica”.
Egli ha sottolineato di nuovo questi concetti in un’intervista al quotidiano Le Parisien, di ritorno da una riunione del cosiddetto Triangolo di Weimar (che raggruppa Germania, Francia e Polonia) a Berlino.
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Europa nel dramma della realtà
di Pierluigi Fagan
La tesi dell’articolo (che deriva da un post su un social) sarà analizzare la condizione di progressiva alienazione di Europa dalla realtà. Europa (sua cultura, politica, mentalità media distribuita, senso comune) si trova oggi conficcata in una ragnatela di impossibilità pratiche e culturali basate su una sostanziale nevrosi da negazione del tempo e del mondo circostante. Alla fine, ci ricollegheremo a due brevi fotografie su alcuni aspetti di questa fuga dal reale su base info-digitale, sintomo del fatto che la negazione nevrotica sta procedendo in psicosi. Più il mondo è aguzzo e ispido, più tattilmente setose le superfici dei nostri smartphone.
Da tempo segnalammo la necessità di cominciare a separare il vago concetto di occidentalità, tornando alle due componenti storico-culturali forti costitutive del sistema, quella europea e quella anglosassone anche se ormai più propriamente statunitense. Europa e USA si trovano su linee divergenti di condizione, prospettiva e tradizione. Ma se USA fa o tenta di fare la realtà in molti modi, Europa è semplicemente in fuga dal reale. Cosa è successo, cosa sta succedendo, cosa del reale spaventa irrimediabilmente Europa, perché sembra che improvvisamente ci troviamo assediati da “difficoltà insormontabili”, tanto da fuggire da ogni consapevolezza in maniera tanto più patologica quanto più avanzano le contrarietà degli eventi?
1. PROSPETTIVA INTERROTTA
Una prospettiva è una proiezione nel tempo della continuità dell’esistente. L’essenza della prospettiva è la prevedibilità.
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Di ogni cosa si dovrebbe poter dubitare, ovvero Maniac di Benjamín Labatut
di Luca Alvino
La matematica nasce essenzialmente per esigenze pratiche. Le civiltà antiche svilupparono assai presto la capacità di rappresentare dei numeri in modo elementare. Anzi, probabilmente gli uomini impararono a contare ancora prima che a usare le parole, le quali evidentemente richiedevano una maggiore capacità di astrazione. Per migliaia di anni, l’aritmetica come la geometria e le altre scienze continuarono ad avere scopi molto pratici, che avevano a che fare con la vita quotidiana. Fu solo in epoca moderna che la matematica iniziò a divenire più astratta, cioè a speculare su concetti che non avevano (almeno apparentemente) più nulla a che vedere con la vita di tutti i giorni, iniziando a focalizzarsi piuttosto sulla propria forma (ovvero la sintassi) e a mettere in secondo piano la sostanza (cioè i contesti reali cui i simboli si riferiscono). In altre parole, iniziò a rappresentare una realtà simbolica (o un modello di realtà) che non era propriamente la realtà come noi la percepiamo, ma che tuttavia le consentiva di compiere delle scoperte concrete. Il suo elevato livello di astrazione le permetteva infatti di sviluppare un ragionamento che, proprio per la sua levatura, poteva avere una ricaduta molto più ampia verso il basso, ovvero proprio sulla vita concreta.
Questa premessa mi sembra importante per tentare di comprendere gli argomenti chiave trattati nel romanzo MANIAC di Benjamín Labatut, uscito in Italia per Adelphi lo scorso anno con l’illustre traduzione di Norman Gobetti. Mi pare infatti che questo libro voglia rappresentare il processo in cui la matematica, dopo essersi innalzata nelle altezze siderali dell’astrazione, nel secolo scorso inizia la sua ricaduta verso la realtà e vi si ripercuote – in certe sue applicazioni – in modo potente.
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La "Campagna d'Ucraina": le dichiarazioni (inquietanti) del capo di Stato maggiore francese
di Giuseppe Masala
Nonostante la levata di scudi arrivate da molte capitale europee sulle parole di Macron che ha ventilato l'ipotesi di un intervento di terra nel conflitto ucraino da parte della Nato, o di una coalizione di volenterosi capeggiata dalla Francia stessa, da Parigi continuano a giungere voci di preparativi per la Campagna d'Ucraina.
A tale proposito di particolare rilevanza è stato l'intervento del Capo di Stato Maggiore dell'Esercito francese (Armée de Terre) Pierre Schill sul giornale Le Monde, nel quale ha dichiarato: «L’esercito francese è pronto. Qualunque sia l’evolversi della situazione internazionale, i francesi possono essere certi che i loro soldati risponderanno con prontezza. Per proteggere dagli attacchi e per tutelare gli interessi nazionali, l’esercito francese si prepara alle battaglie più difficili».
Una vera e propria dichiarazione d'intenti quella espressa del generale peraltro sul quotidiano più prestigioso dell'intera Francia. Segno che il momento è da considerarsi solenne e il popolo va preparato; del resto le stesse dichiarazioni di Macron avevano lo stesso evidente intento. Il generale, inoltre, conclude ribadendo un altro concetto fondamentale espresso da Macron: «La sfida è garantire che la forza dimostrata dalle truppe francesi inverta la tendenza in modo da scoraggiare gli attacchi alla Francia.
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La follia dell’austerità 2011-2013
di Marco Cattaneo
Sarà che sono passati più di dieci anni e la memoria collettiva è labile, ma ogni tanto rispuntano commentatori vari a sostenere che “in realtà l’Italia non ha mai fatto austerità” oppure che “beh sì c’è stata negli anni della crisi dei debiti sovrani ma era indispensabile perché Berlusconi stava portando il paese al fallimento”.
A questi signori, è bene ricordare quanto segue.
I pacchetti di interventi fiscali restrittivi (tagli e tasse) sono stati fatti trangugiare a viva forza all’ultimo governo Berlusconi a partire dalla primavera del 2011. Ovviamente questo non ha risolto la crisi dello spread e ne è risultata la caduta del governo e (a novembre) l’insediamento di Mario Monti.
Le feroci azioni di restrizione fiscale – IMU, legge Fornero, aumento dell’IVA, tagli a sanità e investimenti pubblici – non hanno minimamente risolto il problema della finanza pubblica.
Hanno invece provocato tredici trimestri complessivi di discesa del PIL reale, con cinque punti percentuali di decrescita cumulata (nel periodo in cui invece tutto il resto del mondo recuperava), decine di migliaia di fallimenti, quattro milioni di persone in più in povertà assoluta (in pratica, ridotte a fare la fila alla Caritas, o giù di lì).
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Il confronto con la Russia: la realtà impone limiti
di Piccole Note
Beni russi congelati, c'è in ballo l'affidabilità delle banche occidentali. Gli appelli di Borrell
Gli annunci roboanti dei leader occidentali e gli asseriti successi ucraini vanno spesso a scontrarsi con la realtà. Così la proposta di usare gli interessi maturati dai beni russi congelati in Occidente per aiutare l’Ucraina – alla quale andrebbero più di tre miliardi di euro all’anno – ha creato una fibrillazione che ne ha impedito, almeno per ora, l’approvazione.
Il motivo è semplice e lo scrive la Reuters, spiegando che diverse banche hanno avvertito i leader della Ue di temere ritorsioni da parte della Russia, ma soprattutto che la decisione potrebbe portare “a una più ampia erosione della fiducia nel sistema bancario occidentale”.
Il pericolo è ovvio: i Paesi che hanno affidato i loro soldi a tali banche non possono non allarmarsi. I loro beni potrebbero condividere la stessa sorte, qualora entrassero in urto con l’Occidente. C’è il rischio che li ritirino per indirizzarli a banche più affidabili.
Per quanto riguarda, invece, i successi ucraini, si sta ponendo un’altra criticità. Mentre le sue forze vengono macinate sulla linea del fronte, Kiev sta cercando di ottenere dei successi tattici da poter ostentare al mondo, e in particolare ai suoi alleati, per segnalare che è ancora in grado di ferire il nemico e che quindi la guerra non è ancora persa.
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Parabellum
di Miguel Martinez
Mi segnalano uno scritto dal titolo orwelliano-futurista, “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra“. Curiosamente, è esattamente il titolo che volevo dare al post di oggi.
L’articolo esalta la Guerra Buona (quella che dobbiamo fare perché, avete indovinato, siamo contro la guerra che vogliono fare i cattivi), non dimenticando però di ricordarci che la guerra crea anche ricchezza:
“Dobbiamo quindi essere pronti a difenderci e passare a una modalità di “economia di guerra“. È giunto il momento di assumerci la responsabilità della nostra propria sicurezza. Non possiamo più contare sugli altri o essere in balia dei cicli elettorali negli Stati Uniti o altrove.
Il nostro obiettivo dovrebbe essere di raddoppiare entro il 2030 i nostri acquisti [di prodotti militari] dall’industria europea, così da garantire una maggiore prevedibilità alle nostre imprese. Contratti pluriennali le incentiveranno inoltre ad aumentare la loro capacità di produzione. In questo modo sarà rafforzata la nostra industria della difesa, migliorata la nostra preparazione alla difesa e si creeranno inoltre posti di lavoro e crescita in tutta l’UE.”
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Dio, uomo, animale
di Giorgio Agamben
Quando Nietzsche, quasi centocinquant’anni fa, formulò la sua diagnosi sulla morte di Dio, pensava che questo evento inaudito avrebbe cambiato alla radice l’esistenza degli uomini sulla terra. «Dove ci muoviamo ora? – scriveva – Non è il nostro un continuo precipitare? […] Esistono ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla?». E Kirilov, il personaggio dei Demoni, le cui parole Nietzsche aveva attentamente meditato, pensava la morte di Dio con lo stesso pathos accorato e ne aveva tratto come necessaria conseguenza l’emancipazione di una volontà senza più limiti e, insieme, il non senso e il suicidio: «Se Dio c’è, io sono Dio… Se Dio c’è, tutta la volontà è sua e io non posso sottrarmi alla sua volontà. Se Dio non c’è, tutta la volontà è mia e sono costretto ad affermare il mio libero arbitrio… Sono obbligato a spararmi, perché l’espressione più piena del mio libero arbitrio è uccidere me stesso».
È un fatto sul quale non ci si dovrebbe stancare di riflettere che un secolo e mezzo dopo questo pathos sembra ora completamente sparito. Gli uomini sono placidamente sopravvissuti alla morte di Dio e continuano a vivere senza far storie, per così dire come se niente fosse.
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Roma, censura per chi parla di Palestina a scuola
di Redazione Monitor Roma
A pochi giorni di distanza dalle manganellate sugli studenti pisani che manifestavano contro il genocidio in corso in Palestina, vale la pena riflettere sul clima di censura presente nelle scuole nei confronti di chi critica il colonialismo israeliano. Due casi in particolare hanno fatto discutere: il licenziamento di un assistente all’educazione algerino del liceo francese Chateaubriand di Roma, impiegato da più di dieci anni e adesso sotto accusa per aver pubblicato un post Instagram sgradito, e la vicenda di un insegnante di filosofia e storia del liceo scientifico Augusto Righi di Roma, che ha subito una serie di fortissimi attacchi a mezzo stampa, fondati su notizie false, e provvedimenti disciplinari che potrebbero portare a nuove sanzioni.
Il 30 ottobre scorso un articolo del Corriere della sera, ripreso acriticamente da altri giornali, ha sostenuto che il professore del Righi avesse assegnato a una classe un tema che chiedeva di commentare le posizioni su Israele e sul massacro in atto espresse da un alunno, cittadino italo-israeliano, durante la lezione. A detta del giornale il professore avrebbe messo in imbarazzo lo studente, ma la notizia è stata subito smentita pubblicamente da un documento degli alunni e delle alunne della classe.
Sulla scia delle polemiche, il professore è stato sottoposto ad alcuni provvedimenti disciplinari: una contestazione d’addebito da parte della dirigente scolastica (che si conclude con la sanzione “censura”), una visita a scuola di tre ispettori inviati dal ministero dell’istruzione e l’avvio di un altro procedimento disciplinare da parte del ministero, di cui ancora si attende l’esito e che annuncia gravi sanzioni.
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