Dal sindacalismo collaborazionista ad un sindacalismo di classe
Alcune riflessioni
di Eros Barone
Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo…L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, di piccola e media borghesia...Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai…a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico.
Antonio Gramsci, «L’Ordine Nuovo», 8 novembre 1919.
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Il documento della maggioranza: il gergo di un ceto privilegiato e autoreferenziale
In questo periodo la CGIL sta tenendo le assemblee di base in vista dello svolgimento del XVIII congresso nazionale, che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019. I documenti presentati sono due: quello della maggioranza, intitolato “Il lavoro È”, e quello della minoranza, intitolato “Riconquistiamo tutto!”.
Orbene, fin dalle prime pagine il documento della maggioranza si configura come un tipico prodotto di quel linguaggio ‘sindacalese’ ‘politicamente corretto’ che, come osserva Stalin in un suo acuto scritto dedicato alla linguistica, impedisce la corretta comunicazione: «Basta soltanto che la lingua si allontani da questa posizione nei confronti dell'intera nazione, basta soltanto che la lingua si metta su una posizione di predilezione e di sostegno di un qualsiasi gruppo sociale a detrimento degli altri gruppi sociali della società, perché essa perda la propria qualità, cessi di essere mezzo di comunicazione tra gli uomini in seno alla società, si trasformi in gergo di un qualsiasi gruppo sociale, degradandosì e condannando se stessa al dileguamento».
E in effetti la lettura di un simile documento conferma proprio gli aspetti di “degradazione” e di “dileguamento” del modello linguistico-comunicativo adottato, che caratterizzano il documento in parola facendone lo specchio fedele del gergo di un ceto privilegiato ed autoreferenziale, costituito dall’aristocrazia operaia e dalla burocrazia sindacale, che nella CGIL detiene il predominio, seleziona i quadri ed esercita la direzione.
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Mercato, diritti e rapporti di forza
In questo àmbito discorsivo si colloca pienamente e organicamente un tema che è da tempo al centro dell’iniziativa della CGIL: la “Carta dei diritti universali del lavoro - Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori”, un testo dal titolo altisonante con cui la CGIL intende rilanciare la propria azione sindacale. Si tratta di un elaborato piuttosto corposo che, essendo scritto con lo stesso linguaggio di una legge dello Stato borghese ed essendo perciò irto di tecnicismi, formato com’è da 97 articoli divisi in 64 pagine, è un documento il cui contenuto risulta oscuro e sostanzialmente inaccessibile alla stragrande maggioranza degli iscritti. Sennonché per avere una legge utile ai lavoratori non basta una cultura giuridica adeguata. In un regime di democrazia rappresentativa serve anche un partito in grado di sostenerla, un parlamento disposto ad approvarla e un governo deciso ad applicarla, ossia tre fattori politico-istituzionali che mancano completamente nell’attuale contesto di una crisi prolungata e perdurante dell’economia e dello Stato, in cui all’offensiva padronale si somma l’assenza di un movimento di massa minimamente capace di resistere. Non per niente Gino Giugni, che ne fu il padre, definì la legge 300 del 1970, ossia lo “Statuto dei lavoratori”, come «il frutto di una felice congiunzione tra la cultura giuridica e il movimento di massa», mentre l’attuale “Carta” sembra essere, per un verso, una goffa fuga in avanti del più classico opportunismo sindacale e, per un altro verso, una proposta che non estende i diritti ma si adegua all’attuale condizione del mercato e del diritto del lavoro senza mettere in discussione nessuna delle controriforme che hanno peggiorato la condizione dei lavoratori: dal precariato al blocco dei salari, dallo smantellamento del sistema previdenziale pubblico all’innalzamento dell'età pensionabile e alla libertà di licenziamento (in quanto alle tutele, basti pensare che la “Carta” non prevede nemmeno che l’articolo 18 venga reintegrato a pieno, ma solo parzialmente).
Sennonché, anche a volerle attribuire una qualche valenza alternativa, risulta evidente che, considerata nel suo insieme, la “Carta” non corrisponde ai rapporti di forza esistenti e, dati gli attuali livelli di mobilitazione dei lavoratori, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Ciò di cui non vi è traccia in questo documento è infatti il coraggio di affrontare, se non proprio le cause dei problemi, quanto meno i nodi centrali: ‘in primis’, quello costituito dall’esercito industriale di riserva, che rende inesigibili i diritti solennemente proclamati come “universali”. In realtà, proprio l’assenza di disposizioni cogenti in grado di trasformare i diritti dei lavoratori in obblighi per i datori di lavoro rende questi “diritti universali” uno sterile esempio delle illusioni tipiche di una cultura giuridica borghese ‘di sinistra’. Se non fosse ormai acclarato l’analfabetismo degli attuali quadri sindacali in materia di storia del movimento operaio e di teoria marxista, per demistificare e dissolvere, sia dal punto di vista dottrinale che da quello pratico, questo genere di illusioni sarebbe bastato, in tempi più propizi che non quelli odierni all’analisi di classe, raccomandare la lettura di un testo chiave come il saggio intitolato “Il socialismo giuridico”, scritto da Friedrich Engels e da Karl Kautsky nel 1887 e recentemente tradotto in italiano. Fatta quindi la tara della debolezza intellettuale che affligge da alcuni decenni il movimento operaio, privo sia di un pensiero forte sia di idee-forza, resta da considerare il divario che intercorre tra le pretese normative della “Carta” e la realtà attuale: divario che si può riassumere in tre punti, il primo dei quali è l’assenza di un movimento di massa organizzato che si batta nei territori e nei luoghi di lavoro per modificare le condizioni normative determinate dalla micidiale sequenza “legge Treu - legge Biagi - legge Fornero - ‘Jobs Act’” in un senso meno sfavorevole ai lavoratori; il secondo è l’assenza di una borghesia industriale egemonizzata da frazioni interessate a bloccare e invertire la deriva sempre più periferica che sta subendo l’Italia all’interno della divisione internazionale del lavoro; il terzo è una ripresa dell’accumulazione in grado di coprire i maggiori costi derivanti dalle maggiori tutele offerte ai lavoratori licenziati e ai lavoratori con contratti precari.
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Il sindacato collaborazionista dell’aristocrazia operaia
La “Carta” risulta dunque, esaminata dal lato riguardante la condizione dei lavoratori salariati, una variante utopistica della tecnica del barone di Münchausen, che, come è noto, consisteva nel cercare di sollevarsi dallo stagno in cui questi era caduto tirandosi su per i capelli. Ma vi è di più e di peggio, poiché, esaminata dal lato concernente gli interessi della borghesia, la “Carta” offre un considerevole sussidio a tali interessi con il tentativo di dare attuazione all’articolo 39 della Costituzione attraverso il tanto agognato riconoscimento giuridico dei sindacati, che a sua volta ha il suo fulcro nel cosiddetto “Testo unico sulla rappresentanza” siglato nel gennaio 2014 tra i sindacati confederali e la Confindustria. Questo aspetto, unito ad una proposta quanto mai discutibile di regolamentazione dell’orario di lavoro e alla richiesta di attuazione dell’articolo 46 della Costituzione riguardante il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, è una rappresentazione emblematica della deriva neocorporativa e collaborazionista del maggior sindacato italiano. Infine, ultime ma non in ordine di importanza, vi sono le disposizioni per garantire l’effettività della tutela dei diritti, riguardo alle quali la Cgil, in coerenza con la sua natura di sindacato neocorporativo, incentra tutta la sua azione sulla tutela giurisdizionale.
Ma proseguiamo nella lettura del documento della maggioranza, in modo da riassumerne, sia da un punto di vista marxista e comunista che sociolinguistico, gli aspetti salienti. La redistribuzione della ricchezza, sintagma riconducibile alla fraseologia piccolo-borghese, è il motivo conduttore di tutto il documento, il cui contenuto però prescinde dal riconoscimento storico-materiale che il ‘reddito nazionale’ è un campo in cui si manifesta quella lotta di classi contrapposte che gli estensori del documento si sforzano in ogni modo e con ogni mezzo di esorcizzare. Di conseguenza, l’apologia delle istituzioni e delle organizzazioni capital-imperialiste, ossia la Confederazione Europea dei Sindacati e la Confederazione Sindacale Internazionale, è il biglietto di ingresso che serve all’aristocrazia operaia della CGIL, più che mai impregnata della ideologia social-sciovinista e collaborazionista, per dimostrare di meritare la propria diretta partecipazione a tale ‘establishment’. Sotto questo profilo, è altamente significativo il fatto che tale aristocrazia, convinta non a torto di rappresentare un ingranaggio importante nel meccanismo economico-sociale capitalistico, piatisca dalla borghesia una legge in difesa delle sue prerogative e si prefigga di trarre il massimo beneficio, in accordo con i capitalisti, dagli enti bilaterali, dalla previdenza integrativa e dalle polizze sanitarie, senza peritarsi di esporre il salario dei lavoratori al rischio delle speculazioni che, con l’estensione di queste forme di asservimento alla rendita finanziaria, non tarderanno a manifestarsi.
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Il documento della minoranza: massimalismo, impotenza e subalternità
Dal canto suo, l’altro documento, intitolato “Riconquistiamo tutto!”, si presenta come la tipica superfetazione letteraria di una sinistra tanto verbosa quanto politicamente innocua: una sinistra del tutto interna ai ‘giochi’ sindacali e quindi subalterna alla maggioranza della CGIL e alla “passività” incarnata da quest’ultima. Del resto, stante la logica (non alternativa ma) emendativa che caratterizza le sue battaglie, questo tipo di sinistra si guarda bene dal denunciare che la “passività” della CGIL dipende dalle scelte della sua direzione, la quale, a tutti i livelli, è controllata strettamente dall’aristocrazia operaia: un’omissione quanto mai rivelatrice, perché dimostra che questa corrente, essendo compartecipe della burocrazia sindacale e quindi compromessa, a sua volta, nel carrierismo e nell’opportunismo, non ha alcuna intenzione di condurre una lotta conseguente contro i privilegi e gli interessi dell’aristocrazia operaia del nostro paese. Così, il referendum diventa per gli estensori del documento di minoranza l’arma per eccellenza della democrazia sindacale, come se la proposta di eventuali referendum, oltretutto solo parzialmente abrogativi del ‘Jobs Act’, potesse sostituire la lotta di classe e la mobilitazione organizzata dei lavoratori. In definitiva, come si può constatare da questi rapidi cenni, è innegabile che il massimalismo inconcludente, unito all’impotenza e alla subalternità, del sindacalismo di sinistra, oltre a costituire un diversivo utile per la maggioranza, abbiano rappresentato un fattore importante della mancata costituzione di una frazione comunista all’interno del sindacato confederale.
Alla luce di questa sintetica ricognizione della piattaforma congressuale della CGIL si ripropone perciò al movimento di classe dei lavoratori salariati l’interrogativo cruciale sul “che fare?”. Se partiamo dalle esperienze storiche, è possibile constatare che non esiste una via unica per la costruzione di nuovi sindacati. Bisogna sempre condurre un’analisi concreta della situazione concreta. Tale analisi ci mostra che non bisogna avere feticismi di alcun genere sia dal punto di vista politico che da quello organizzativo. È vero che, se ci richiamiamo ai testi classici e in primo luogo a Lenin, se ne ricava la conferma della obbligatorietà del lavoro politico-sindacale nei grandi sindacati di massa collaborazionisti. I bolscevichi, ad esempio, fino alla rivoluzione d’ottobre sostennero i comitati di fabbrica, in cui detenevano la maggioranza, contro i sindacati che erano influenzati dai menscevichi; anche in Germania e in Ungheria nel 1918-1919 i comunisti non controllavano i sindacati. D’altronde, è vero che i sindacati registrarono un forte aumento degli iscritti durante le situazioni rivoluzionarie, come accadde nella Germania e nell’Italia del primo dopoguerra (il “biennio rosso”) o durante la radicalizzazione della lotta di classe che vi fu nei paesi capitalisti a partire dal 1968.
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L’Internazionale Comunista e la questione sindacale
La Terza Internazionale, dal canto suo, nei momenti più acuti della lotta di classe non eludeva il problema della scissione: «Poiché per i comunisti gli scopi e l’essenza dell’organizzazione sindacale sono più importanti della sua forma, essi non debbono arretrare neppure dinnanzi ad una scissione delle organizzazioni all’interno del movimento sindacale, qualora il rinunziare alla scissione equivalesse a rinunziare al proprio lavoro rivoluzionario nei sindacati, a rinunziare al tentativo di fare di questi uno strumento di lotta rivoluzionaria, a rinunziare ad organizzare la parte più sfruttata del proletariato» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”, 3 agosto 1920). E quando le scissioni avvennero per iniziativa dei riformisti, che espellevano i comunisti dai sindacati, e si crearono così sindacati rivoluzionari come in Francia con la CGTU, l’Internazionale détte le seguenti indicazioni: «Là dove la scissione tra il movimento sindacale opportunista e quello rivoluzionario è già avvenuta, là dove, come in America, accanto ai sindacati opportunisti sussistono organizzazioni rivoluzionarie, anche se non di tendenze comuniste, i comunisti sono tenuti ad appoggiare questi sindacati rivoluzionari, ad aiutarli a liberarsi dei pregiudizi sindacalisti e a portarli sul terreno del comunismo: esso soltanto è una bussola sicura nella confusione della lotta economica. Là dove nell’ambito dei sindacati o al di là di essi, nelle fabbriche, si costruiscono organizzazioni, come gli ‘shop stewards’ e il consiglio di fabbrica, che si pongono come scopo la lotta contro le tendenze controrivoluzionarie della burocrazia sindacale e l’appoggio alle azioni spontanee e dirette del proletariato, è evidente che i comunisti debbono appoggiare con tutta la loro energia tali organizzazioni» (“Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la Terza Internazionale”).
In sostanza la Terza Internazionale subordinava la creazione di una nuova organizzazione sindacale alle seguenti condizioni: a) quando non è possibile un lavoro rivoluzionario nei sindacati; b) quando non è possibile fare dei sindacati uno strumento della lotta rivoluzionaria; c) quando nei sindacati non si riescono ad organizzare i settori più sfruttati del proletariato. Ora, la domanda a cui occorre rispondere è la seguente: è possibile in questo periodo condurre un lavoro rivoluzionario all’interno dei sindacati confederali? In effetti, abbiamo visto le espulsioni nella CGIL dei delegati non in linea. Se non è possibile fare un lavoro rivoluzionario nei sindacati confederali, è implicito che non se ne possa fare uno strumento di lotta rivoluzionaria. Per quanto riguarda il terzo quesito, si vede quanto il lavoro precario sia lasciato a se stesso, così come accade in certi settori del mondo del lavoro, dove ci sono situazioni di sfruttamento ai limiti della sopportazione umana.
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Per un sindacato di classe e di massa
Bisogna allora riconoscere nella creazione dei vari sindacati di base un’esigenza della parte più avanzata dei lavoratori salariati rispetto ai continui cedimenti dei sindacati confederali. Per questo motivo è giusto considerare attualmente come prioritario l’intervento dei comunisti all’interno dei sindacati di base per dare a tali organismi un orientamento politico efficace; diversamente, se lasciati alla loro spontaneità, questi organismi possono diventare delle brutte copie dei sindacati confederali, cioè dei micro-sindacati che coltivano il proprio orticello. Questo non significa però trascurare l’intervento nella CGIL, ossia consegnare alle dirigenze collaborazioniste centinaia di migliaia di lavoratori; sennonché questo intervento va esplicato senza illusioni di sorta circa rotture di massa tra i lavoratori o circa una possibile direzione alternativa. In realtà, ogni qualvolta la lotta di classe si sviluppa, essa deve affrontare il problema di rompere politicamente ed organizzativamente con le politiche di collaborazione per tendere verso la costruzione di un sindacato di classe e di massa. Fondamentale resta infine la consapevolezza della differenza irriducibile che intercorre tra il partito comunista e il sindacato: differenza che consiste nel fatto che, per quanto conflittuale possa essere, il sindacato di classe e di massa si limita (non per cattiva volontà ma) strutturalmente a lottare contro gli effetti dello sfruttamento, laddove spetta al partito comunista condurre la lotta strategica contro le cause dello sfruttamento.
Indicazioni sito-bibliografiche
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Aa. Vv., Marxismo e sindacato, La nuova sinistra – Edizioni Samonà e Savelli, Roma 1970
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Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, Torino 1955
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Friedrich Engels e Karl Kautsky, Il socialismo giuridico (Juristen-Sozialismus), a cura di Enrico Maestri, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2015
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Giuseppe Stalin, Il marxismo e la linguistica, Prefazione di Giacomo Devoto, Feltrinelli, Milano 1968
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Tesi, manifesti e risoluzioni del II congresso dell'Internazionale Comunista, La nuova sinistra – Edizioni Samonà e Savelli, Roma 1970
Comments
Il problema della burocrazia sindacale era presente anche a Gramsci. Al trozschista Gramsci?
Sull'aggressione alla Libia, Susanna Camusso, appoggiandola pubblicamente, ha soltanto interpretato l'opportunismo colonialista dei lavoratori occidentali "decomunistizzati" o ne è stata all'avanguardia? E l'appoggio all'aggressione alla Libia è compatibile con la difesa della Costituzione?
occhi e nelle cose come al rallentatore); 2) che questa situazione, profondamente anche se non irreversibilmente controrivoluzionaria, di ‘after the fall’ ha determinato, su scala mondiale, un massiccio e durevole spostamento dell’asse dell’economia capitalistica (neoliberismo selvaggio, ipertrofia del capitale finanziario, indebolimento sociale e scomposizione strutturale del proletariato attraverso i bassi salari e l’occupazione precaria), della politica imperialistica (trasformazione reazionaria delle istituzioni, predominio schiacciante degli Usa e guerra permanente) e della ideologia borghese (‘clash of civilizations’, oscurantismo religioso, svuotamento della stessa democrazia rappresentativa e fascistizzazione), conducendo, per quanto riguarda il socialismo scientifico, alla separazione dei due
elementi - il marxismo e il movimento operaio - che lo hanno costituito e ne hanno fatto, negli ultimi decenni del XIX secolo e per buona parte del XX secolo, una potente forza motrice della storia mondiale (in altri termini,la transizione dal capitalismo al comunismo ha temporaneamente invertito la sua direzione e si svolge oggi all’inverso). Occorre aggiungere che la risposta a quelle domande resterebbe su un piano meramente accademico, se nell’analisi non si tenesse conto e non si facesse uso della categoria, ad un tempo critica ed euristica, di revisionismo (= abbandono dei princìpi teorici del socialismo scientifico + cedimento ideologico e politico all’avversario di classe), categoria che rispecchia l’esistenza di una precisa base sociale (formata dall’aristocrazia operaia, dalla burocrazia
partitico-sindacale e dai gruppi parlamentari di origine borghese e piccolo-borghese) per le politiche collaborazioniste, nonché le motivazioni economiche (alti salari finalizzati alla corruzione di alcuni strati della classe operaia e privilegi vari) da cui traggono origine l’opportunismo, il revisionismo e il riformismo. Altrimenti, come spiegare il fatto che lo scioglimento del Pci fu deciso con il consenso dei due terzi di quel partito? Inoltre, come prescindere, nel valutare gli spazi che il socialismo scientifico oggi può conquistare all’interno del movimento di classe, dall’esame delle deformazioni, delle mistificazioni e delle degenerazioni prodotte da decenni di lenta e progressiva corrosione dovuta prima al revisionismo, che aveva ridotto il marxismo a marxologia svuotandolo della sua carica politica e ideale, e poi al tentativo di una totale liquidazione non tanto della teoria marxista (sebbene la sostituzione della teoria marxista della necessità storica dell’insurrezione proletaria con l’ideologia buonista della non-violenza sia già estremamente indicativa in tal senso) quanto, soprattutto, del nesso fra questa teoria e la strategia politica: tentativo in cui, va detto, si sono segnalati, a pari merito, e le forze opportuniste di destra e le forze opportuniste di sinistra, che hanno costituito simbioticamente il ceto
politico-sindacale della sinistra italiana. La domanda allora è: che cosa resta oggi da fare per i marxisti rivoluzionari? Non è mia intenzione predicare una ‘imitatio Christi’; affermo però che il percorso di Lenin, fondato sul nesso tra teoria e prassi e, nella fattispecie, sul nesso tra scienza e strategia, strategia e tattica, tattica e organizzazione, filosofia e politica, è un percorso che conserva un significato oggettivamente esemplare. A mio giudizio, il compito dei marxisti rivoluzionari è oggi quello di lavorare, muovendo dagli apparati in cui òperano (scuola, università, ricerca, stampa, sindacati ecc.), per riconnettere il socialismo scientifico al movimento operaio e viceversa, radicandosi nelle tre grandi tendenze del processo storico individuate dai fondatori del socialismo scientifico: la riduzione del lavoro necessario (resa possibile dalla meccanizzazione e dalla informatizzazione dei processi produttivi), lo spostamento in avanti delle frontiere tra società e natura (reso possibile dalla rivoluzione scientifico-tecnica), la formazione di un’umanità integrata (resa possibile dalla costituzione di un mercato mondiale). Così, per riprendere lo stupendo paragone usato da Gramsci in una delle sue “Lettere dal carcere”, essi agiranno esattamente come agì l’esploratore norvegese Nansen allorché rimase intrappolato nei ghiacci con la sua nave e decise di resistere avanzando lentamente assieme alla banchisa polare fin quando essa non si fosse sciolta.
Sicuramente sarebbe sciocco pretendere che Gramsci si mettesse ad avvitare bulloni in fabbrica. Ma Gramsci conosceva benissimo il lavoro e l'organizzazione di fabbrica ed era in sintonia con gli operai. Era d'origine piccolo borghese, povera per vicissitudini familiari, e si era posto il problema della formazione di intellettuali organici dal seno della stessa classe operaia e non mutuati dalla piccola borghesia (sempre pronti a tornare all'ovile quando i rapporti di forza tornano sfavorevoli ai lavoratori). Non c'era in lui alcun plebeismo e rifiuto degli intellettuali. E non disegnava un modello di operaio-intellettuale a tempo parziale, del prete operaio, come esemplificato da Paolo Selmi. Ma il problema dell'origine, dell'estrazione sociale bisogna porselo, senza pensare che sia risolutivo in se stesso.
Gli stessi Marx e Lenin erano di estrazione piccolo borghese e sono stati i rivoluzionari più conseguenti. Stalin era di estrazione popolare e credo sia questo un motivo decisivo dell'odio viscerale di cui è fatto segno.
Ovvero, il ruolo di militante in un’organizzazione operaia sia sindacale che politica.
Banalizzo, ma occorre farlo ogni tanto, magari impegnandosi a sviluppare concetti in un lavoro più approfondito, e questo argomento MERITA un lavoro più approfondito. Due modelli, presi a prestito da altre tradizione:
1. Il prete cattolico tradizionale, il “curato”; non lavora, così come non lavora lo sciamano nel villaggio siberiano o africano, il monaco buddhista nel tempio. E’ mantenuto dalla comunità per il ruolo che svolge.
Tale riconoscimento sociale è attribuito anche al “rivoluzionario di professione”, che convenzionalmente nella storiografia è visto come apporto del leninismo. Non credo, nel senso che, se mai fosse, si tratterebbe di una “formalizzazione” di un ruolo comunque sviluppatosi in tutto il secolo precedente. E più che giustificato, direi anche. Per fare bene una cosa, occorre farla a tempo pieno, e non fra un biberon e un turno di fabbrica. Quindi cosa facciamo? Lasciamo l’iniziativa ai borghesi che, tanto, di staccarsi dal lavoro possono permetterselo? O facciamo fare al nostro rivoluzionario la fine di Marx che vide i suoi figli morire davanti ai suoi occhi dalle malattie e dalla miseria in cui versava? Chi rappresenta la classe operaia, deve essere dalla classe operaia stessa mantenuto.
E se, come notava Eros giustamente, con parole sacrosante, si crea una “aristocrazia operaia”? Capi che campano, prosperano su rendite di posizione? Bel problema… anzi, brutto, bruttissimo problema. Occorre muoversi in maniera assolutamente disincantata, realistica, creare dispositivi atti a evitare proprio questo. Ma veniamo al secondo “proto-tipo”, anch’esso mutuato dalla religione.
2. Il pastore protestante, o il prete operaio (qualcuno se li ricorda?); non rinuncio alla mia “missione”, al mio compito rivoluzionario, ma scelgo di non uscire dall’ambito lavorativo da cui provengo, mi divido tra casa, lavoro e sezione o gazebo. Faccio politica al lavoro ma non lavoro di politica. Ho il polso della situazione immediata sicuramente MOLTO di più del “rivoluzionario di professione”, ma rischio di perdere la visione d’insieme. Difficilmente perdo la fiducia dei compagni, ma più di un tot, anche riducendo la moglie a fare la perpetua e i figli a fare i figli di un padre che non c’è mai, non riesco a produrre in termini di sviluppo del movimento.
E qui veniamo al dunque: entrambe le figure occorrono. Occorre però anche distinguere ruoli e mansioni, così come occorre distinguere fra generale e particolare, fra visione immediata e visione prospettica, eccetera. Un partito, un sindacato, un movimento strutturato non può prescindere da entrambe le figure.
Spero di avere interpretato il senso della tua questione, Massimo.
Ciao!
paolo
- La CGIL non è l'unico sindacato italiano, esistono numerosi sindacati di base assai più radicalizzati e certamente meno collusi e compromessi con il potere e l'ideologia liberista e borghese. La loro combattività è indiscutibile (numerosi scioperi generali e di categoria).
Come mai non si verifica uno spostamento in massa del lavoro dipendente dai sindacati complici a questo sindacalismo "rivoluzionario"? Come mai nei posti di lavoro non si sono ancora creati i soviet? Dove sta l'errore?
- In Italia esistono parecchi partiti comunisti di vario indirizzo e con diversi riferimenti storico-ideologici, ma tutti ugualmente convinti della totale inadeguatezza delle forze della sinistra storica e istituzionale nel perseguire un disegno rivoluzionario di liberazione. Come mai da sempre sono condannati ad una totale irrilevanza? Dove sta l'errore?
Post-scriptum
Marx, Engels, Lenin, Mao, Gramsci non avranno mai indossato maglioni di cachemire, ma non mi risulta abbiano mai lavorato nel senso inteso da alcuni interventi.
concordo anch'io sulla polemica ad hominem, e anche sui maglioni di cachemire, anch'io provo sempre una simpatia istintiva per chi non li ha. A questo proposito, e a proposito di Di Vittorio, un giorno di primavera di diversi anni fa, ormai, camminavo per le strade di campagna del paese di origine di mia moglie, quando mi imbattei in un vecchietto seduto sul suo piccolo podere, che passava il tempo dopo aver fatto i suoi lavoretti. Buongiorno, buongiorno, si accorge subito che ero forestiero, ovvero irriconducibile ad alcuna “razza” (ceppo clanistico nei piccoli paesi di campagna, non solo del Sud, dove il cognome è inutile e la prima domanda è: “Di ci razza sinti?”). Giusto per passare il tempo, iniziamo a chiacchierare. Scopro quindi di essere davanti a “lu Minu cumpagnu”, al secolo Cosimo Ingrosso, capopopolo delle occupazioni di terra nella contrada salentina dell’Arneo. E allora colgo l’occasione al volo e comincio a farlo parlare, e mi racconta di quando occupava le terre, dei corsi di formazione a Bologna, del suo giro in Germania dell’Est, eccetera. Alla fine, alla terza telefonata di mia moglie perché la pasta era ormai fredda, rientro nei ranghi e, nel congedarmi, mi regala un libro che parla di lui, della sua storia “in versi”… una omaggio di un suo allievo. Oggi Mino non c’è più e rimangono questi versi, semplici se vogliamo, “barocchi” di quel tipico barocco leccese che dopo un po’ stanca, ma molto efficaci in questo brano che riporto (avendoli copiati anni fa per un altro blog li ho beccati al volo):
“Udite, genti, udite la bella storia di Cosimino Bandiera Rossa
Che la Guagnano proletaria un dì condusse alla riscossa!
Nel ’50 si mise a capo d’un popolo affamato e furibondo
Deciso di riscattare dell’Arneo il già promesso latifondo;
Braccianti Nord-Salento in marcia a piedi e in biciclette
Li accolse la polizia di Scelba munita di fucili e camionette.
Era capo degli sbirri Michele Magrone, uomo assai arrogante,
Ma vincere non seppe la collera rivolta al feudatario furfante.
Un popolo disperato ma inerme che la riforma agraria difende,
S’avvia scalzo fra le macchie e di notte veglia sotto le tende.
Canta allegro Bandiera Rossa per darsi quasi respiro unitario,
Mentre un clero servo del padrone lo scongiurava col rosario.
Non mancarono feriti e morti, e poveri cristi messi in galera,
La lotta ormai s’era fatta dura, perché altra scelta non c’era.
Seguirono altri scioperi per uva e tabacco mentre i poliziotti
Cercavano di dissuaderli armati di manganelli e di candelotti.
E se oggi l’Arneo brilla di casette che è tutto un bel giardino,
Piccolo uomo rammentati: là sono fioriti i sogni di Cosimino!”
Ciao!
paolo
E' chiaro che, come sottolinea Eros Barone, di personale in quell'azione non c'era nulla, tuttavia l'atteggiamento dimostrato squalifica la persona, nonostante la sua storia.
piccolo-borghese di una parte della burocrazia sindacale (constatazione sociologica ineccepibile: ah, quei maglioni di cachemire abbinati alla pipa o al sigaro da personalità come Trentin o da personaggi come Bertinotti!). Ed è vero che io, in quanto comunista, ho una forte preferenza per i quadri politici e sindacali di estrazione proletaria, sicché, se rispetto un Lama o un Trentin, ammiro invece ‘toto corde’ Giuseppe Di Vittorio, di cui resta memorabile la risposta che dètte ai proprietari terrieri che lo avevano definito un ‘povero cafone’: “Sono un cafone e me ne vando”, laddove il grande sindacalista della Cgil scrisse in-tenzionalmente tale verbo con la ‘di’. Ma è anche vero che ho riconosciuto che quella “burocrazia sindacale e politica di origine piccolo-borghese, lontana dalle condizioni di lavoro e di vita della classe dei salariati”, ne ha “pure rappresentato, in qualche misura e per un certo periodo, gli interessi materiali e morali” (e qui si apre un ampio discorso, che in questa sede non è possibile affrontare, sul ruolo ancìpite del PCI). Non si può infatti ignorare che un’importante conquista delle lotte studentesche e operaie della fine degli anni ’60 e dell’inizio degli anni ’70 fu costituita dalle 150 ore, ossia dall’attuazione del diritto allo studio e alla formazione culturale per la classe operaia, diritto poi esteso a tutti gli strati subalterni fino ad allora esclusi dalla scuola o privi della licenza media. Né si può dimenticare che tale conquista fu il frutto del confronto politico e dello scambio culturale che si sviluppò tra il movimento operaio, rappresentato da dirigenti come Trentin, e il movimento studentesco, che aveva trovato i suoi portavoce in ‘leader’ come Oreste Scalzone e Franco Piperno: gli stessi che si incontrarono nel 1968, attraverso la mediazione del settimanale “L’Espresso”, con Luigi Longo, segretario del Pci, il quale, con felice intuizione politica e teorica, arrivò a definire il movimento degli studenti come “una delle forze motrici della rivoluzione socialista in Italia”.
Naturalmente, questo non significa che io ritenga Trentin un ‘mostro sacro’, e mi riservo perciò il diritto di criticarlo per il ruolo che svolse e per le responsabilità che assunse rispetto al progressivo slittamento su posizioni sempre più lontane dagli interessi materiali e morali della classe dei salariati, che avvenne all’inizio degli anni Novanta quando egli era segretario generale della Cgil: uno slittamento le cui tappe furono il protocollo del 10 dicembre 1991 sul “costo del lavoro” e il successivo “patto sociale” neocorporativo del 31 luglio 1992, sottoscritto dalle tre confederazioni con il governo Amato sulla “riforma” del salario e della contrattazione, che portò alla cancellazione della scala mobile e al blocco dei salari, nonché alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti. Sennonché questo diritto di critica che io rivendico nasce da un presupposto teorico e, pur configurandosi come una polemica ‘ad hominem’, si fonda sulla consapevolezza che la crescente influenza di classi e di frazioni non proletarie, cioè borghesi e piccolo-borghesi, e la stessa esistenza di un’aristocrazia operaia sono un portato oggettivo degli sviluppi imperialistici del capitalismo; sono, per dirla con Lenin, “economicamente motivate” dalla distribuzione dei sovrapprofitti, che quegli sviluppi rendono possibili, e trovano la loro espressione politico-ideologica nelle tendenze opportunistiche sia di tipo revisionista che di tipo riformista. Da qui nasce la necessità della lotta, che ha un preciso significato strategico, per il sindacato di classe e di massa, le cui differenti modalità ho cercato di indicare nel mio articolo.
Io il sindacato l'ho vissuto molto più "da fuori", in quegli anni (seconda metà dei Novanta) leggevo da una parte quello che diceva Trentin e dall'altra prendevo un libro che avevo in casa "Da sfruttati a produttori", sempre del buon Bruno, lo sfogliavo e mi chiedevo se si trattasse della stessa persona.
Quando avevo lo sportello cinesi in corso di porta vittoria a Milano, un compagno un giorno mi vide con in mano "Intervista sul sindacato" di Lama e mi disse: "Anch'io l'avevo letto a suo tempo"... (e io tra me e me pensavo, "si, l'hai letto ma te lo sei anche bellamente dimenticato!!!").
Altro aneddoto: due anni più tardi quell'episodio, abbandonata ogni speranza di lavorare in quel settore sociale dove avevo investito tre anni di lavoro sottopagato, ero responsabile di una cosa strana che si chiamava, all'epoca, ISO 9001:2000 , in una fabbrica di gommaplastica della zona. Pur non essendo a tempo indeterminato, decido di andare in CdL a Gallarate per fare la tessera, prendo l'appuntamento e un sabato mattina sono a colloquio col responsabile provinciale di categoria... il quale mi vede, non sente neanche quali sono le condizioni di lavoro della mia fabbrica (eccellenti, peraltro, rispetto alla media locale) e mi chiede: "avremmo bisogno di un rappresentante nella fabbrica x della provincia di varese... ti andrebbe di andarci? Ci penseremo noi a farti assumere..." e lì ho capito tante cose. Oggi, oltre tre lustri dopo, con la crisi galoppante che c'è, probabilmente questo ragionamento non gli sarebbe neppure passato per l'anticamera del cervello. Ma allora era indicativo, di un certo modo di fare, "concertativo"...
In buona fede, penso, perché realmente quei compagni erano convinti di "contare qualcosa" così facendo... ma ormai completamente fuori di traiettoria.
Ti lascio con questa chicca, letta su colonelcassad, un blog russo:
https://colonelcassad.livejournal.com/4545132.html
I ragazzini che vedi in foto sono Komsomol'cy, giovani comunisti di oggi, che aprono la capsula scritta dai loro "antenati" nel 1968, in occasione del cinquantennale della fondazione del Kom.So.Mol. (l'Unione comunista dei giovani, lett.): erano quelle capsule del tempo sigillate e con sopra scritto "aprire dopo 50 anni", ecc. Risparmio la lettera, che come potrai intuire potrebbe provocare infarti ai deboli di cuore e ai facili alla commozione come me. Ti riporto invece uno dei cinici, laconici, commenti sotto: "quei komsomol'cy erano gli stessi che vent'anni più tardi avrebbero plaudito a Chubais" (un economista liberista, ala destra di quel gruppo di Gorbaciov che smantellò l'URSS dal di dentro facendola passare come "ristrutturazione" - perestrojka). Mutatis mutandis...
Ciao!
Paolo
Bene, racconta Piperno, a quell’incontro romano ebbe a partecipare, del tutto per caso, anche un giovane sindacalista, un operaio metalmeccanico di una fabbrica di Belfast, nell’Irlanda del Nord, “turista sovversivo attirato a Roma da Valle Giulia più che dalla messa in San Pietro”. Henry, che conosceva male l’italiano, prestava un’attenzione particolare, fra gli interventi dei partecipanti, alle parole di Bruno Trentin, che alcuni militanti del movimento romano cercavano di tradurre, o almeno di riassumere. L’irlandese era rimasto colpito dalla personalità del sindacalista italiano e più volte nel corso di quella serata aveva chiesto: “Ma Trentin, quale mestiere fa?”. Piperno e i suoi compagni, sulle prime, avevano evitato di rispondere all’insolita domanda; poi, messi alle strette da quel suo insistere, gli avevano detto che era il segretario nazionale della Fiom. Al che Henry aveva replicato che questo lo aveva capito, ma desiderava sapere quale lavoro facesse Trentin ‘prima’ di svolgere la sua funzione di segretario generale, e Piperno e i suoi compagni avevano risposto che prima Trentin era stato il vice-segretario di quella organizzazione. Sennonché l’irlandese, implacabile, insisteva nel chiedere quale fosse stata l’occupazione del sindacalista italiano ‘prima’ di divenire vice-segretario. I suoi interlocutori italiani avevano risposto che era stato membro della segreteria nazionale, ed Henry aveva reiterato la sua domanda: “Ma ‘prima’?”. Al che Piperno e i suoi compagni avevano replicato che Trentin stava nel comitato centrale della Fiom. A quel punto, conclude Piperno, il giovane operaio irlandese aveva cessato di riproporre la sua domanda: guardando a lungo il maglione di cachemire beige che indossava Trentin, s’era reso conto che in Italia il capo di un sindacato operaio può essere tale pur senza mai aver vissuto la condizione di fabbrica.
mi hai fatto venire in mente una parola che è da anni, tanti anni, che nessuno pronuncia più, e ne ha di ben donde: "modello concertativo". Ero lì che mentre leggevo pensavo tra me e me, cos'è che diceva la maggioranza della CGIL, più il resto della triplice, ogni qual volta si parlava di lotta di classe negli anni Novanta? "Modello concertativo". E' questo il futuro ragazzi. Passiamo dal retributivo e contribuitvo (1995)? Non vi preoccupate, tutto sotto controllo. Oggi so che vado in pensione con il 50% di quello che prendo adesso, e tra parentesi mi chiedo cosa vado ancora a lavorare a fare visto che la miseria che mi spetterà sarà inferiore alla minima che ci sarà tra vent'anni. Concertavano tutto, quello schifo di referendum con cui ci condannarono ad andare in pensione con niente, CCNL, turni e orari di lavoro sempre più peggiorativi, salari calcolati in base all' "inflazione programmata"... cedevano su tutti i fronti... e ciò nonostante erano ancora in grado di portare un milione di persone in piazza contro Berlusconi, mi ricordo ancora.
Quando poi il padronato pensò bene di fare a meno di loro, che era giunto il momento di scaricare la loro "concertazione", gli diede il benservito. E da anni sono lì a cantarsela e suonarsela da soli, e il milione di persone lo vedono col lanternino. E nessuno di loro da anni pronuncia più la parola "concertazione", è sparita dal vocabolario (ma non dalle pratiche): probabilmente perché, al solo sentire l'associazione di lettere, per uno strano effetto pavloviano retroattivo, qualche operaio potrebbe ricordarsi di avere in tasca una chiave inglese (o un lettore di codice a barre da fabbrica, che pesa anche di più) e lanciargliela contro.
Cofferati e la concertazione... e io che ogni mattina per andare a lezione passavo davanti Campo San Barnaba dove c'era una sede del PDS con ancora sopra in grande il simbolo del PCI e mi incazzavo il doppio, come se da un momento all'altro avesse dovuto aprirsi quella porticciuola e uscire Cofferati o d'Alema, pronti per un bagno nelle acque putride del canale antistante... sembrano passati secoli.
Un caro saluto.
Paolo