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Scie per il marxismo del XXI secolo

di Franco Soldani

soldaniPremessa

Il lettore troverà nei paragrafi che seguono alcune ipotesi teoriche, aventi in parte lo status di concetti definiti, in parte la forma d'un programma di ricerca, relative a una rilettura del pensiero di Marx. Esse costituiscono in pari tempo una critica di quella galassia concettuale universalmente conosciuta col nome di marxismo storicamente costituito, marxismo il più delle volte codificato in scuole di vario tipo, spesso reso accademico e persino identificato con singoli intellettuali. Tali eventi lo hanno ormai reso definitivamente sterile dal punto di vista cognitivo.

Questo variegato arcipelago teorico, la cui formazione d'altro canto è durata più d'un secolo (cosa che ne spiega la natura coriacea e l'attuale sopravvivenza qua e là in Europa e altrove), viene qui considerato morto e sepolto. Detta tradizione ha avuto nel passato una nobile e tragica storia e ha svolto una funzione determinante nel dare la sua forma odierna al mondo contemporaneo. Oggi però essa è irrimediabilmente superata e deve essere sostituita con una differente interpretazione della realtà sociale.

Per fuoriuscire non solo cronologicamente ma soprattutto in maniera originale e concettualmente innovativa dal Novecento e dalla sua interminabile epoca, è necessario ripensare in maniera radicale l'intera impalcatura teorica di Marx. Abbiamo bisogno, oggi, di un altro paradigma societario, di un distinto e altamente specifico sistema di pensiero per poter spiegare struttura e dinamica della formazione sociale che continuiamo a definire capitalismo. Senza quest'opera di profonda revisione epistemologica, nessun nuovo approdo è più possibile.

La parte più complessa e concettualmente sottile della concezione marxiana, a lungo ignorata dai vari marxismi, è a questo proposito ancora adesso fondamentale per il buon fine dell'impresa. Il lettore vedrà con i suoi occhi, se avrà la pazienza di seguirci lungo le strade incognite intraprese e se si predisporrà mentalmente a entrare in un nuovo universo di discorso, quale sofisticata miniera d'idee rappresenti il nucleo più interno (e perciò meno noto) dell'opera di Marx. In effetti, lo scopo principe delle tesi qui esposte è quello d'abbozzare una distinta teoria sociale d'insieme inferita da quest'ultimo e nel contempo essenzialmente diversa da quella del marxismo novecentesco, e capace contestualmente di demarcarsi in maniera significativa dalla cultura dominante. Vedremo se il nostro progetto riuscirà a realizzare i suoi intenti. Confutare Hegel, in definitiva, non è cosa da poco. Contrariamente a quello che egli credeva, siamo infatti convinti che si possa uscire definitivamente dal proprio tempo, così come a certe specie è concesso uscire dalla propria pelle (a costo di scorticarsi, magari), con un sobrio atto d'immaginazione scientifica. Come diceva Leopardi, tutto o quasi è concesso alla mente che conosce i propri limiti.

1. Il pensiero di Marx come unico sistema di conoscenza alternativo al dominio della cultura liberal-democratica

Il sistema concettuale di Marx, benché non sia né una linea retta né un monolite teorico, è la migliore spiegazione possibile del modo di produzione capitalistico. La parte più sofisticata della sua concezione resta ancor oggi un indispensabile ed essenziale punto di riferimento per ogni analisi critica della società attuale e del mondo contemporaneo. Nonostante vi sia stato, negli anni passati, un massiccio e ben orchestrato tentativo di fare tabula rasa del suo pensiero - sia da parte di certo ceto intellettuale paradossalmente già di formazione marxista, sia da parte dei mass media e dei "grandi tenori" della cultura dominante - consegnandolo al massimo alla storia delle idee (un capitolo, magari minore, di una ben più illustre genealogia), è invece del tutto evidente che la sua interpretazione più sottile del capitalismo contemporaneo resta comunque di grandissima attualità.

Si può anzi dire che il pensiero più complesso di Marx resta l'unico paradigma d'impronta globale, la sola teoria della società insomma, in grado di competere da pari a pari e persino da posizioni privilegiate con i grandi modelli di pensiero dell'universo culturale della civiltà capitalistica. Di contro a quello che è stato definito "pensiero unico" (non perché sia senza fessure o omogeneo, ma perché è il solo a imperare in questa fase storica), il discorso di Marx rappresenta l'unica alternativa concettuale in grado di poter far fronte al suo apparente strapotere culturale. Di fatto, la parte più sofisticata e meno conosciuta della sua concezione risulta essere la sola impostazione razionalistica capace di demarcarsi in maniera significativa da tutti i paradigmi rivali, interni ed esterni.

Per poter capire fino in fondo l'importanza della posta in gioco, bisogna tener conto del fatto che il capitalismo ha elaborato delle complesse spiegazioni teoriche, delle grandiose interpretazioni trasformate ben presto in un Sistema Onniabbracciante - felicemente scoperto e definitivo, divenuto Mondo Eterno: Giusto, Razionale, Reale, Naturale, Universale: in una parola, Oggettivo e Invalicabile -, in cui ha trovato una sua adeguata rappresentazione la cultura dell'Occidente. La Teoria Democratica del Diritto e dello Stato, il Pensiero Economico, la Logica Politica/del Politico, l'Universo del Simbolico (il Mito, il Divino, il Sacro: oggi il Catodico o Circo Mediatico, ecc.), ed infine la Ragione Scientifica che corona l'intero edificio, costituiscono tutti delle "fortezze della mente" che rendono praticamente o virtualmente impossibile qualunque messa in discussione dell'attuale società. Di fronte a questi multiformi e riccamente articolati sistemi di pensiero e ai loro apparati, le vecchie concezioni marxiste sono ormai desolatamente inadeguate e non sono minimamente in grado di arginare il loro predominio culturale né tanto meno di contrastare la loro capillare presa egemonica sull'intero (all'interno dello stesso) intelletto dei soggetti. È dunque necessario battere altre e diverse - altamente specifiche e distinte - vie della conoscenza se si vuole davvero ripensare in maniera radicale la realtà presente e renderci finalmente intelligibile la nostra epoca.

In primo luogo, tramite un certo Marx è possibile prendere definitivamente le distanze da tutto il marxismo storicamente costituito e odierno, dando finalmente un addio risoluto a tutte le categorie fondamentali di questa inossidabile formazione ideologica, sopravvissuta pressoché intatta a tutte le sue crisi e persino alle sue numerose morti annunciate. Il fatto è che detto marxismo, anche nelle sue migliori e più nobili varianti, del passato e attuali, è sempre stato teoricamente subalterno ai grandi sistemi di pensiero dell'intellighenzia dominante, ai quali ha sempre dovuto riferirsi per trovare i dati concettuali per le proprie analisi e dal quale non è mai riuscito a differenziarsi in maniera significativa. Si può anzi dire, probabilmente, che tutte le categorie intorno alle quali ha edificato il proprio modello interpretativo -comunque grandioso se si pensa al respiro intellettuale della Seconda e Terza Internazionale e alla statura teorica dei suoi migliori esponenti, ivi compresi quelli del secondo dopoguerra - hanno ricevuto la loro impronta dalla cultura allora imperante e si sono così a essa subordinati molto spesso senza saperlo. Nelle condizioni odierne, occorre dirlo in modo chiaro e fermo, il marxismo e il comunismo del Novecento rappresentano universi teorici e ideali definitivamente tramontati, morti e sepolti. D'altro canto, come diceva Spinoza, non si piange sulla propria storia, si cambia rotta.

Se il marxismo tradizionale, compreso quello esistente, ha rivelato una sorprendente versatilità adattiva al variare dei tempi e delle circostanze storiche più diverse ciò è dovuto proprio all'innato carattere nomade e aspecifico dei suoi concetti basilari, che gli hanno ogni volta permesso di ritagliarsi nicchie concettuali ad hoc e di sottrarsi così all'estinzione del proprio ambiente originario. Tutte le idee che l'hanno messo in grado di conseguire questa sorta di "successo evolutivo" - da quella, classica, dello sviluppo progressivo della "contraddizione" tra forze produttive e rapporti di produzione alle attuali interpretazioni dei rapporti di produzione in termini di rapporti di potere (dentro e fuori la produzione: l'impresa transnazionale) - debbono oggi essere abbandonate e sostituite da altre e più pregnanti interpretazioni della realtà. Senza quest'opera di profonda revisione teorica e drastica potatura concettuale non v'è speranza di poter concepire una rinnovata e più incisiva analisi della società contemporanea ispirata al pensiero più originale di Marx.

In secondo luogo, detto pensiero rivela tutta la sua novità teorica e la sua innovativa carica critica non appena esso ci mette in grado di portare alla luce del sole le antinomie concettuali basilari dell'intero intelletto grande-borghese, sia svelando la loro fonte originaria più essenziale, sia dando delle istituzioni fondamentali di questa società una differente spiegazione ed esplicazione, la cui complessità cognitiva intrinseca non ha pari nell'universo rivale. Un certo Marx, in altri termini, ci permette di conseguire due obiettivi fondamentali: 1. rendere conto delle contraddizioni logiche che affliggono la multiforme e ormai secolare rappresentazione borghese della realtà sociale; 2. portare alla luce i meccanismi sociali più intrinseci, e per questo meglio nascosti, responsabili di quelle aporie e inconseguenze logiche. La prima via apre la strada alla confutazione dei paradigmi dominanti; la seconda spiega da quali processi più profondi derivi il loro carattere dualistico e che cosa quest'ultimo ci riveli dell'interna natura del modo di produzione capitalistico.

Il Marx che più c'interessa, insomma, risulta essere essenziale per spiegare almeno due cose: a) il carattere contraddittorio e in definitiva falso (duplice-ambiguo) dei grandi paradigmi (economici e politico-ideologici) con cui l'elite intellettuale del capitale ha sempre presentato, e così legittimato, di fronte agli attori sociali il loro contesto comunitario o cornice sociale; b) i processi reali più sotterranei che hanno permesso al capitale di dotarsi di un meccanismo riproduttivo formidabile, in cui l'assoggettamento degli individui alle sue leggi riproduttive segue naturalmente da ciò che essi fanno e pensano (ma è la stessa cosa) nel corso della loro vita associata, della loro esistenza qua soggetti intenzionali e dotati di volontà politico-finalistica.

Mentre le "grandi narrazioni" capitalistiche prendono come loro essenziale repère l'esistenza indiscussa di alcuni ultimi presupposti per così dire ontologici - siano essi di natura ideale (l'autoreferenza dell'intelletto politico ad esempio) o apparentemente materiale (il mercato ad esempio) - ai quali la condotta dei singoli si deve conformare, Marx al contrario ce ne mostra la natura derivata e per niente indipendente spiegando da par suo l'intero loro processo di formazione e derivazione dalla logica più intrinseca del capitale. Ciò che nella rappresentazione dominante appare o si presenta quale una premessa infondata e invalicabile, da sempre già data e oggettiva, dell'agire razionale degli individui sociali diventa invece in Marx l'effetto complesso di un processo istitutivo che ne predetermina natura e divenire, forma interna e sviluppo discontinuo nel corso del tempo. Tutto ciò che di fondamentale e indiscusso esisteva nel pensiero avverso - l'intera costellazione concettuale dei soggetti, insomma, l'impalcatura che regge e ordina la loro variegata prassi complessiva, in primis cognitiva -, viene mutata da Marx in un risultato di specifici processi d'espressione più profondi dipendenti a loro volta da una causa altamente specifica e inedita che trasforma il debutto del capitale sulla scena sociale contemporanea, per la prima volta, in una vera e propria «epoca storica» determinata, senza equivalenti in tutto il passato delle società umane. Per la piena comprensione di questa formazione sociale specifica v'è bisogno in effetti d'un sofisticato sistema teorico quanto meno pari alla complessità intrinseca dei suoi meccanismi riproduttivi. Solo un certo Marx, sosteniamo, può mettere nelle nostre mani gli strumenti concettuali per costruirlo.

2. Il materialismo storico e il materialismo dialettico non rappresentano più quadri concettuali atti a interpretare la realtà sociale contemporanea

A fronte della complessità e relativa sofisticata modalità di formazione e sviluppo delle proprie leggi riproduttive interne, la logica intrinseca del modo di produzione capitalistico e del suo sistema sociale non può più essere rappresentata dal materialismo storico e dal materialismo dialettico. Qui alcuni distinguo s'impongono. Tanto perché le due categorie in oggetto sono state forgiate soprattutto dal marxismo storicamente costituito e così sono state tramandate, subendo continue manipolazioni e metamorfosi nel corso del tempo; quanto perché si assume che le idee soprattutto di Marx in merito a questi due oggetti di pensiero siano enormemente più complesse di quanto sino a oggi si sia creduto.

Il materialismo storico, nella visione di Marx, ha sempre avuto la funzione di spiegare fondamentalmente due cose. Prima di tutto, la complessa natura specifica del modo di produzione capitalistico e la sottile articolazione interna della sua struttura d'insieme (processo di lavoro e rapporti di produzione, scienza-macchine e soggetti sociali). In secondo luogo, in che modo, attraverso quali sofisticati meccanismi poco visibili, la storia delle società contemporanee venga istituita dal modo di produzione capitalistico, e quale status concettuale particolare essa si trovi ad assumere in conseguenza di questa sua genesi. Nella versione che è giunta sino a noi, il materialismo storico ha invece messo capo a un fraintendimento sia del "nocciolo" più profondo del primo sia dell'effettivo carattere della seconda, fuorviando così intere schiere di studiosi. La stessa cosa del resto può essere detta, mutatis mutandis, anche del materialismo dialettico, a maggior ragione quando lo si intenda, come ancora attualmente si tende a fare, quale teoria della conoscenza tipica di Marx e Engels. Fatta salva l'essenziale differenza tra il pensiero di questi due classici e il modello che ci è stato trasmesso dalla tradizione (distinzione che non esclude tuttavia certe parentele concettuali tra le due sponde, soprattutto con Engels), è comunque evidente che anche questa categoria, nella stessa multiforme accezione che è venuta assumendo entro il Novecento, è stata superata dagli eventi e consegnata al passato. D'altro canto, persino l'originale e per certi versi ancora ignota formulazione di Marx, come si cercherà di dimostrare più avanti, necessita di un'indispensabile revisione critica nello stile della razionalità scientifica: uno stile capace cioè sia di svelare risvolti cruciali della concezione sotto esame (rimasti a lungo sepolti sotto la coltre del noto) sia di andare oltre i limiti della vecchia impostazione, delineando un'alternativa radicale rispetto a quest'ultima. Per il momento tuttavia è più urgente soffermarsi sui significati concettuali che in sostanza il marxismo tradizionale ha assegnato alla storia e alla teoria, alla realtà che prende forma nell'ambito della formazione sociale odierna e ai processi di pensiero che dovrebbero renderne conto. L'analisi della più sofisticata struttura interna del modo di produzione capitalistico, la fonte da cui derivano entrambi gli oggetti che stiamo discutendo, viene riservata al prossimo paragrafo.

Se si tiene conto di quello che si è detto fin qui, dovrebbe risultare più chiaro perché quei concetti originari e all'inizio innovativi (derivati comunque dalla lunga azione modellatrice che su di essi ha esercitato il marxismo storico) non siano più oggi in grado di spiegare l'effettivo status dell'oggetto reale (o società) e del processo conoscitivo che per lunghi decenni han sembrato interpretare in maniera originale. È ormai sotto gli occhi di tutti il fatto che né la storia sociale né la conoscenza posseggono più quei caratteri che erano stati loro attribuiti da quelle due grandi concezioni del mondo.

È ormai divenuto evidente che il vecchio principio di materialità del materialismo storico, sempre rimasto in auge nell'ambito della cultura marxista e addirittura elevato da Althusser al rango e allo status privilegiato di primo inizio del pensare, tanto non può più reggere il confronto con le forme di razionalità scientifiche emergenti, quanto risulta essere fuorviarne e logicamente contraddittorio se adottato quale criterio d'analisi della realtà sociale. Quel principio, infatti, presuppone un primato dell'essere (naturale, sociale) e della realtà empirica (detta anche realtà oggettiva) rispetto al pensiero che oggi, se mai lo ha avuto, non ha più senso. In primo luogo, le odierne tendenze epistemologiche del pensiero scientifico, nonostante la complessità delle alternative e la loro diversificata interpretazione dei fondamenti della conoscenza, tutto fanno meno che prendere le mosse da presunti dati d'esperienza o da fenomeni già dati per i quali elaborare un'adeguata spiegazione delle loro cause. Al contrario, nelle sue formulazioni costruttiviste più recenti la logica della scienza procede casomai in modo inverso, cercando nell'accertamento sperimentale la convalida o meno delle proprie congetture e spiegazioni delle cose. La natura, in questo modello di ragione, serve soltanto quale cartina di tornasole delle nostre teorizzazioni e paradigmi, e al massimo può corroborarli o confutarli. Nelle sue punte più radicali, poi, la razionalità scientifica ha elaborato dei discorsi in cui il processo di conoscenza, pur presupponendo la presenza di un contorno sensoriale, nasce, cresce e si sviluppa esclusivamente all'interno della mente, generando dalla sua intrinseca e chiusa attività cognitiva l'intero mondo intersoggettivo dei singoli. In questi paradigmi epistemologici, si riesce persino a presumere l'esistenza di una cornice biofisica, senza tuttavia farle svolgere alcuna funzione nella formazione della conoscenza e nella trasformazione del nostro sapere. Qui l'autoreferenza della mente implica perfino la presenza di quel contesto sensorio o ambiente circostante che nelle altre impostazioni veniva concepito quale limite esterno della nostra riflessione, cosa che lo metamorfosa di conseguenza in un effetto dei propri processi cognitivi.

In secondo luogo, oltre a non poter far fronte al carattere estremamente sofisticato e pressoché dominante delle alternative scientifiche, il principio d'esistenza in causa genera, dal proprio interno, due altre conseguenze letali per l'interpretazione razionale della società. Da una parte, infatti, esso rende impossibile ogni distinzione tra realtà naturale e mondo sociale (distinzione che invece già Francis Bacon faceva). Li tratta in effetti in maniera intercambiabile e alla pari, come se fossero la stessa cosa, attribuendo in questo modo al secondo gli stessi caratteri della natura: oggettività, anteriorità nei confronti del soggetto e suo carattere esterno rispetto alla mente. Questa identità fallace è così alla base della mancata comprensione dei mutamenti epistemologici che entro il Novecento hanno profondamente trasformato la natura della razionalità scientifica. Poiché anche il migliore marxismo storico - persino quando ha sposato un approccio apparentemente costruttivista al suo oggetto e ammesso la formulazione di ipotesi da confrontare poi con i dati empirici per invalidarle o confermarle, passando gradualmente dal rispecchiamento al riflesso attivo e infine al convenzionalismo aperto -, non ha mai modificato quella identificazione, di fatto esso sia si è precluso da solo la comprensione dell'effettiva vìa imboccata dai processi scientifici di conoscenza in via di formazione tra Otto e Novecento, le profonde novità che essi introducevano nel pensare, sia non ha mai potuto capire quali specifici e peculiari tratti storicamente determinati demarcassero il sistema sociale del capitale dallo specifico oggetto della scienza, rendendolo un sistema storicamente determinato, con una propria struttura e dinamica riproduttiva interne.

Dall'altra, stando così le cose, esso finisce necessariamente col generare la logica della fatticità, vale a dire una sorta di feticismo ontologico consistente nel credere che non vi sia nient'altro oltre all'empiria presupposta - ultimo e saldo suolo di tutto il mondo tangibile - da cui si deve partire nell'analisi della società. Poiché tale logica identifica l'esistente, ciò che è, i dati e i fatti empirici, all'occorrenza la storia, con l'unica realtà vigente, ecco che non è più possibile pensare alcun altro fondamento differente da quel sistema fattuale a tutto anteposto. Una simile premessa, cioè, fa divieto ad ogni altra supposizione diversa e implica perciò l'impensabilità di principio della causa da cui pure proviene. Il fattuale, poiché viene posto quale origine incausata del pensare, vieta così la messa in discussione di se stesso, né ammette nient'altro oltre la sua abbagliante presenza. Per dirla con Wittgenstein, il filosofo che meglio incarna la natura di questa logica, «non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è». Il divieto di poter mai capire l'effettiva natura interna della realtà infondata viene paradossalmente statuito una volta per sempre da quella stessa ragione che avrebbe voluto comprenderne l'intima struttura. Cosa può esservi di meglio, per il capitale, di un intelletto che per spiegare e rendersi intelligibile il proprio mondo ontologico da solo imprime nel proprio codice genetico la proscrizione della sua intelligibilità?

All'opposto di quel che il marxismo tradizionale ha sempre ritenuto, il sistema sociale attuale, la società contemporanea, la realtà storica, non possono essere concepiti, in analogia con quello che si credeva essere la rappresentazione scientifica della natura, come un contesto già dato e oggettivo al quale il nostro pensiero dovrebbe rapportarsi per controllare - tramite la concordanza o meno, la corroborazione o la confutazione empirica - le proprie interpretazioni dei fenomeni. A ciò fa infatti divieto sia il fatto che la stessa scienza non si raffigura nel modo erroneamente immaginato la spiegazione del mondo fisico, sia, a maggior ragione, il fatto che la storia concreta, l'empiria sociale e le stesse istituzioni fondamentali (economiche, politico-ideologiche, simboliche, ecc.) del sistema complessivo costituiscono delle istanze derivate e dipendenti dall'agire razionale e finalistico dei molteplici soggetti in interazione reciproca (conflittuale o meno), sono comunque un risultato, indiretto e complesso quanto si vuole, delle loro volizioni individuali e non possono dunque rappresentare alcun contorno differente - né distinto né oggettivo - rispetto alle loro variegate e multiformi intenzioni progettuali. Da questo punto di vista, non può esservi alcuna distinzione di natura tra le variegate pratiche sociali dei diversi soggetti e la cornice societaria a cui esse finiscono col mettere capo. Volerle differenziare mediante il principio di materialità, sarebbe come pretendere di poter attribuire all'immagine dello specchio una vita distinta dalla persona riflessa e un'esistenza incarnata a un'icona.

Come già sapeva benissimo il grande studioso inglese Edward Carr, il punto di vista dell'osservatore «enters into every fact of history», e dunque risulta impossibile poter interpretare la realtà sociale come se fosse semplicemente un sostrato di eventi o di dati soltanto da ordinare e spiegare attraverso la nostra attività concettuale. In effetti, si può dire che in società non c'è alcun dato empirico preesistente il nostro intelletto e che ogni fatto, come aveva sottilmente capito Goethe sin dal Settecento, è già teoria, è normalmente un fatto di carta. Quando si parla dunque di storia e di sistemi sociali, quando si comparano diverse interpretazioni di dati fenomeni societari e si mettono delle alternative a confronto, non si ha mai da una parte un mondo oggettivo e dall'altra dei sistemi di conoscenza: ciò che si ha è solo una disputa tra differenti paradigmi, una controversia concettuale tra punti di vista differenti. In questo contesto, la confutazione o la corroborazione dei diversi modelli hanno solo carattere conoscitivo, rappresentano degli accertamenti cognitivi aventi propri criteri interni di convalida. Vedremo più avanti quali sconcertanti novità queste constatazioni introducano nell'universo teorico del marxismo storicamente costituitosi, e quale distanza esse segnino rispetto ai suoi postulati basilari. Se per conoscere altri mondi, come sosteneva Marcel Proust, è sufficiente guardare le cose con nuovi occhi, allora niente meglio della strada intrapresa può schiudercene davvero d'inattesi.

3. Il concetto di modo di produzione rappresenta l'idea più sofisticata dell'intera concezione teorica di Marx

Il modo di produzione è l'idea basilare di Marx, la categoria fondamentale da cui ha origine la sua complessa interpretazione e spiegazione del capitale in quanto fondamento dell'intero mondo societario e cognitivo dei soggetti contemporanei. A differenza di come il marxismo storico se lo è sempre rappresentato - di norma come semplice unità di rapporti di produzione e sistemi di macchine, un rapporto che è stato poi variamente declinato dalle diverse varianti, portando l'enfasi dell'interpretazione ora sull'uno ora sull'altro lato della coppia, ora alternando il primato dell'uno rispetto all'altro -, questo oggetto di pensiero costituisce la sintesi di un lungo e discontinuo processo storico che ne ha preparato le precondizioni, e i cui esiti differiscono radicalmente dalla vulgata summenzionata. In effetti, ne sono la confutazione più completa. In primo luogo, la genesi del modo di produzione capitalistico stabilisce una demarcazione molto netta tra storia passata e storia contemporanea del capitale. Tutti gli elementi che hanno preparato la nascita del rapporto di produzione capitalistico, a cominciare dalla dissoluzione delle società originarie per terminare con la formazione del mercato e della forza lavoro, appartengono infatti, spiega Marx, a processi storici antecedenti, alla storia pregressa della sua formazione, e come tali perciò non rientrano nella sua storia contemporanea. Tutti gli avvenimenti sociali che ne hanno messo in incubatrice per così dire la gestazione, non svolgono più alcuna funzione determinante - né possiedono d'altra parte lo stesso loro significato originario - all'interno del suo corpo già formato, nell'ambito del nuovo sistema complessivo nato dal loro sviluppo, sistema in cui il capitale ora si riproduce seguendo le proprie leggi interne. Invece di dipendere da condizioni e istituzioni sociali a esso anteriori ed estranee alla sua logica propria, il capitale una volta nato produce da sé, attraverso i propri originali meccanismi intrinseci, le condizioni basilari della propria riproduzione. Le condizioni sociali complessive da cui il capitale comincia (circolazione, denaro, scambi, lavoro salariato, processi di lavoro) e le categorie più tipiche a cui esso mette capo una volta diventato capace di camminare sulle proprie gambe rappresentano così due epoche storiche differenti caratterizzate da due distinte e specifiche dinamiche di funzionamento. Ciò significa che le formazioni sociali corrispondenti ai due periodi, pur nascendo l'una dall'altra, sono separate da una cesura che rende impossibile far derivare la seconda, in qualsivoglia maniera, da una semplice evoluzione o estensione e prolungamento quantitativi (cumulativi, additivi) della prima, come se l'affiorare del modo di produzione capitalistico dal suo passato fosse concepibile, in analogia col comportamento di dati sistemi fisici, in termini lineari. Gli elementi che preparano la nascita del capitale, pur apparendo a prima vista gli stessi del capitale già bello e formato, hanno dunque un contenuto interno e un significato intrinseco essenzialmente diverso dalle forme d'espressione del capitalismo contemporaneo.

Il fattore decisivo che le demarca e le connota come due sistemi sociali diversi, è precisamente la natura estremamente specifica dei processi messi in moto dal capitale agli inizi della sua genesi. Questo complesso processo di formazione è scandito da due epoche storiche cruciali denominate da Marx stesso sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale (due concetti che il marxismo storico o non ha capito - cosa confermata dal fatto che si continua a tradurre erroneamente, ancora adesso!, l'originario termine marxiano Subsumtion con "sottomissione", "subordinazione" e simili - oppure non ha mai preso in considerazione, come prova il fatto che essi siano assenti anche, a tutt'oggi, dai famosi Dizionari marxisti europei).

Le due categorie in oggetto sono talmente importanti che è assolutamente indispensabile precisarne il contenuto in maniera dettagliata, per quanto almeno è possibile in questa sede. Solo così si potrà capire quali conseguenze nefaste, per la piena comprensione del carattere storicamente specifico della società attuale, ha prodotto la loro mancata analisi e la conseguente mancata messa a fuoco del loro sofisticato contenuto concettuale. Per chiarire la cosa nel modo migliore possibile, è bene precisare subito il fatto che la sussunzione formale è caratterizzata da almeno quattro fasi: a) la compravendita di forza lavoro sul mercato; b) la cooperazione semplice; e) la cooperazione capitalistica e d) la formazione della manifattura. Se si tiene poi presente il fatto che ciascuna di esse rappresenta un oggetto pluriverso, con proprie diverse caratteristiche interne, si avrà un'idea più chiara della complessità sociale e concettuale insita in questo primo passaggio.

Il modo di produzione specificamente capitalistico, spiega Marx, «ha inizio soltanto là dove il capitale si è impadronito direttamente della produzione». Esso lo può fare facilmente perché quando inizia ha di fronte a sé degli individui privi di ogni condizione lavorativa, ridotti a mera forza lavoro scambiabile sul mercato delle merci come qualsiasi altro bene. La precondizione indispensabile della stessa esistenza del capitale è infatti la disponibilità preventiva di una massa di produttori o lavoratori disposti a entrare nel processo di lavoro di cui si è impadronito il nuovo soggetto.

Ora è bene precisare che lo scambio iniziale, nella compravendita, tra forza lavoro e denaro, a differenza di quanto hanno sempre pensato, e pensano a tutt'oggi, i marxisti ancora attivi, non ha niente di strettamente economico, se con ciò ovviamente s'intende un carattere tipico di questo sottosistema della società complessiva. Questo atto, agli inizi, non appartiene ancora alla sfera economica: né trasferisce nell'ambito dei processi di lavoro più antiche relazioni di dominio e subordinazione, conficcandole per la prima volta nel modo di produzione (caratteristica che, secondo questo punto di vista, connoterebbe la "differenza specifica" del capitalismo rispetto al passato), né esso, tanto meno, rappresenta una sorta di "accumulazione di potere", come sostengono alcuni (di solito presunti docteurs ès pensée italiani e statunitensi), che avrebbe poi generato conseguenti relazioni di proprietà conflittuali e permesso l'estrazione di plusvalore dalla classe operaia. Prendendo le mosse da antecedenti e precostituiti rapporti d'assoggettamento - nati entro le botteghe artigiane urbane oppure dalla "diretta applicazione della forza" sul mondo agrario -, le due prospettive si disinteressano completamente tanto del tratto atipico della forza lavoro che entra nella produzione, quanto del complesso processo a più piani e a più fasi che si sviluppa a partire da quell'inizio. In particolare, poi, entrambe ignorano la funzione determinante svolta dal pensiero scientifico tramite i sistemi di macchine, nella nascita di un modo di produzione definitivamente e autenticamente capitalistico, essenzialmente differente e distinto dai suoi esordi. Ambedue, in sostanza, non sanno niente della demarcazione storica che lo stesso capitale istituisce tra le premesse da cui comincia e gli esiti a cui finirà per mettere capo. Se si rendono identiche le due epoche storiche, facendo coincidere i presupposti da cui il capitale parte con il suo sistema già bello e formato, si fa sparire precisamente la loro differenza essenziale, e ci si vieta così da soli l'esatta comprensione della vera natura delle cose. Si dovrà allora necessariamente scambiare e confondere gli effetti di una storia pregressa, provenienti da altre e distinte formazioni sociali, con le effettive inedite condizioni istituite per la prima volta soltanto dal capitale. Proprio quello che le due concezioni in causa hanno fatto. Come spiega invece Marx, ogni elemento che «appartiene alle condizioni antidiluviane del capitale» - dall'accumulo di denaro nelle mani dei mercanti alla circolazione delle merci, dal tramonto della produzione artigianale nelle città fino alla genesi del lavoro libero - appartiene di fatto «ai suoi presupposti storici, che appunto come tali, ossia come presupposti storici, fanno parte del passato e perciò della storia della sua formazione, ma non certo della sua storia contemporanea, vale a dire non rientrano nel sistema reale del modo di produzione da esso dominato». Di queste sottili distinzioni quei due modelli sanno ben poco, cosa che finisce col renderli dunque del tutto inattendibili.

L'aspetto solidale delle due interpretazioni, anzi, a dispetto della loro apparente diversità, le accomuna nella stessa fallacia. Entrambe le spiegazioni che esse forniscono sono sostanzialmente false o, peggio ancora, mondanti. E questo, sin dal principio, per almeno due motivi. In primo luogo, perché gli individui che entrano nel rapporto di lavoro salariato hanno origine dai processi storico-politici dell'accumulazione originaria. Gli antichi produttori, sciolti dai loro vincoli comunitari, sono stati gettati sul mercato dal tramonto della società feudale e dall'azione corrosiva esercitata sui loro anteriori legami sociali (rapporti di signoria e dipendenza personale compresi) dalle "leve violente" del potere di stato e dal sistema di leggi imposto dalle classi dominanti dell'epoca. Da questo punto di vista, le effettive radici sociali della compravendita sono tutto meno che economiche: esse s'identificano piuttosto coi processi politico-ideologici e coattivi posti in essere dall'autorità del momento. D'altro canto, in secondo luogo, il contratto che questi soggetti stipulano col capitale ha natura pressoché volontaria, si basa principalmente sulla loro libera decisione di entrare in quella transazione, giacché il lavoratore emerso dal suo lontano passato, come ci spiega nuovamente Marx, rappresenta un "essere liberamente autodeterminato" in grado di scegliere attraverso una sua autonoma capacità decisionale le relazioni societarie entro cui eventualmente entrare.

Se si considerano le cose da questa duplice prospettiva, è chiaro che tanto le origini quanto la natura della forza lavoro costituiscono due presupposti del capitale il cui primo carattere da tutto deriva meno che da una "costrizione di tipo economico" o, peggio ancora, "oggettiva", come ha sempre sostenuto il marxismo storico. È certamente vero che i molteplici processi dell'accumulazione originaria hanno determinato la scomparsa delle vecchie incrostazioni patriarcali, politiche e religiose, del passato, dissolvendo tutti gli «ornamenti ideali» che prima «abbellivano», dice Marx, il rapporto di signoria e servitù. Tuttavia, anche se il tramonto delle vecchie legittimazioni del potere genera l'aspetto apparentemente avalutativo e indifferente al dominio della compravendita - che si presenta nella forma di un puro contratto legale-convenzionale di tipo esclusivamente monetario tra soggetti consenzienti, del tutto indipendente da preesistenti rapporti d'assoggettamento -, è ovvio che questo carattere della cosa non fa altro che corroborare la rappresentazione che gli stessi soggetti si fanno della loro condizione. Se esso crea comunque le premesse per la formazione di nuovi rapporti di subordinazione entro l'attività produttiva, niente toglie al fatto che il negozio iniziale tra forza lavoro e capitale ha comunque a suo fondamento l'autodeterminazione dei singoli, la natura sostanzialmente volontaria della loro decisione (cosa che tra l'altro li differenzia da ogni forma di sudditanza imposta dall'esterno e consente loro «un'azione storica ben diversa», come tiene subito a precisare Marx). A questo punto, si può persino dire che la successiva formazione di relazioni politico-ideologiche all'interno della produzione, di complesse gerarchie decisionali nell'ambito dei processi produttivi, discende in linea retta da quell'inizio. Il carattere apparentemente economico o neutro della compravendita genera così il proprio contrario, e in tal modo confuta anche la presupposizione tipica di tutta la tradizione marxista (comprendendo in questa rubrica anche le sue varianti odierne), secondo la quale il capitale cominciava con, e aveva a suo fondamento un, "extra-economic power" oppure una "coercizione economica" (formulazione, questa, in cui si concentra invece una vera e propria antinomia concettuale, di cui tra l'altro non si è mai avuto consapevolezza).

Comunque sia, una volta che i lavoratori vengono conglomerati sotto il comando dell'imprenditore non si ha a prima vista un'effettiva o immediata trasformazione del processo di lavoro, delle singole modalità di svolgere la propria attività e della struttura tecnologica dell'atelier. Si ha solo, dice Marx, un ingrandimento della bottega artigiana. Se si guarda più da vicino, invece, si nota subito che qualche cosa ben presto cambia nell'attività lavorativa delle molte forze lavoro. Il fatto è che il lavoro combinato, secondo un piano, di una molteplicità di produttori mette in moto un'economia di tempo e un aumento della forza produttiva sociale del lavoro che deriva direttamente dalla cooperazione stessa. Siccome tale forza produttiva non esiste o non viene sviluppata dal lavoratore prima del suo ingresso nella produzione capitalistica, essa tende a presentarsi, dice Marx, «come forza produttiva posseduta dal capitale per natura, come sua forza produttiva immanente».

D'altro canto, il lavoro in comune di una pluralità di operai, oltre a esigere una coordinazione pianificata delle varie attività, necessita anche di una direzione d'insieme capace d'imporre l'integrazione la più funzionale possibile (funzionale ai fini della valorizzazione) delle diverse forze lavoro individuali. In ogni caso, visto che tale funzione di controllo e coordinamento è nello stesso tempo un processo di sfruttamento di lavoro altrui specializzato o comunque di formazione professionale, l'imprenditore capitalista deve comunque dare al suo potere una forma dispotica se vuole assicurarsi un controllo effettivo dell'intera attività cooperativa (che ha ormai assunto dimensioni di massa). Ecco come spiega la cosa Marx: «agli operai salariati la connessione fra i loro lavori si contrappone, idealmente come piano, praticamente come autorità del capitalista, come potenza d'una volontà estranea che assoggetta al proprio fine la loro attività».

La cooperazione semplice, in sintesi, presenta allora secondo Marx almeno tre caratteristiche specifiche, nelle quali si concentra «il primo cambiamento al quale soggiace il reale processo di lavoro per il fatto della sua sussunzione sotto il capitale». Essa infatti rappresenta un'attività lavorativa sociale: 1. di tipo tendenzialmente pianificato (la cui unità esiste al di fuori delle singole forze lavoro); 2. di forma dispotica; 3. con una propria naturale forza produttiva intrinseca. Per quanto siano solo iniziali, questi aspetti già consentono a Marx di precisare una connotazione peculiare della cooperazione semplice capitalistica. Essa infatti, a differenza di quanto si potrebbe pensare, non rappresenta affatto «una forma storica particolare della cooperazione» su larga scala, del tipo di quella dominante nel mondo classico antico e nel Medioevo. Al contrario: «è proprio la cooperazione di per sé che si presenta come una forma storica peculiare del processo di produzione capitalistico, la quale lo distingue specificamente». Il lavoro in comune pianificato e coordinato istituito, seppure embrionalmente in questa fase, dal capitale non discende dai suoi antecedenti storici né segue in maniera lineare da un loro semplice sviluppo o "estensione" entro la contemporaneità. Con le caratteristiche sopra descritte, all'inverso, esso è piuttosto una creazione o un effetto, inesistente in altre epoche storiche, del comportamento attivo della nuova classe dominante (anche se questa sfrutta per i propri scopi la tendenza «naturale e spontanea» di un processo sociale).

Nonostante tutte le novità introdotte, due limiti intrinseci inceppano tuttavia il pieno fiorire della cooperazione semplice in direzione di un modo di produzione definitivamente capitalistico. In essa infatti non esistono né divisione del lavoro né tanto meno macchine. A queste imperfezioni il capitale porrà rimedio da par suo, introducendo una serie di altre misure più consone al perseguimento dei suoi fini.

Come si ricorderà, i molteplici soggetti che il capitale conglomera sotto il suo controllo agli inizi costituiscono un insieme di forze lavoro provenienti sostanzialmente dal mondo agrario delle campagne e dalle corporazioni artigianali urbane. Gli individui che esso sussume al suo potere hanno ricevuto tutti o quasi tutti una formazione professionale, sono in possesso di date competenze tecniche e spesso di un sapere appreso durante lunghi periodi di apprendistato nei quali questi individui hanno comunque acquisito una loro maestria di mestiere. Astrazion fatta qui dal fatto che l'erogazione delle attività da parte di questi lavoratori dipende in ogni caso dalla loro personale volontà e dalla loro decisione di opporsi eventualmente al diritto d'imperio dello sfruttatore, cosa che per il capitale costituisce un'aggiuntiva difficoltà, resta il fatto che la logica del processo innescato dall'autorità direttiva deve soprattutto disarticolare le competenze professionali della forza lavoro, giacché sono principalmente queste ultime a ostacolare la valorizzazione e a costituire il potere principale di resistenza a disposizione dei diversi soggetti sottomessi. Per queste ragioni, dunque, «la rivoluzione del modo di produzione» deve prendere come suo «punto di partenza la forza lavoro».

Tre sono i mezzi che il capitale sostanzialmente mette in campo per liberarsi una volta per tutte di quei condizionamenti, intollerabili dal punto di vista dell'imprenditore e del suo intelletto quantitativo. Il più potente è senz'altro il principio analitico dominante all'interno della manifattura. La suddivisione dell'intera attività manifatturiera in una serie di atti lavorativi autonomi, particolari paralleli e giustapposti, in operazioni isolate esistenti come funzioni esclusive di singoli operai, rende l'intero processo di lavoro un meccanismo operante con la regolarità di una macchina. L'ordine e la razionalità di tale sistema, in cui il prodotto percorre fasi di sviluppo connesse tra loro, entro una successione di processi graduati e sostanzialmente simultanei, trasformano il funzionamento del complesso produttivo e la stessa attività artigianale dei singoli in un sistema integrato in cui dominano una continuità e uniformità, una serialità di azioni lavorative, profondamente estranee all'organizzazione di mestiere. Adesso, spiega Marx, la fornitura di una data quantità di prodotti entro un tempo determinato «diventa una legge tecnica dello stesso processo di produzione», e assume quindi l'aspetto di una condizione vincolante perché i fini della valorizzazione possano essere conseguiti in maniera congrua. D'altro canto, tale «legge tecnica», imposta dalla direzione ma presentata come un vincolo oggettivo, aggiunge un'ulteriore legittimazione al comando capitalistico. Sin dall'inizio, infatti, come si è visto, il dispotismo si mediava di fatto sia tramite l'autodeterminazione dei singoli sia attraverso la forza produttiva del lavoro cooperativo. Entrambe le forme, infatti, presentano il potere dell'imprenditore all'intelletto dei soggetti in maniera tendenzialmente avalutativa, come se esso seguisse naturalmente tanto dalla libera decisione degli individui di stipulare un contratto monetario che implica la diversificazione delle funzioni e la dipendenza dall'acquirente di forza lavoro, quanto dalla stessa intrinseca produttività sociale del lavoro combinato, che appare incorporata in modo naturale al capitale, come se fosse un suo connaturato attributo o nascesse esclusivamente dalle funzioni direttive. Si può ben immaginare quale scatto compiano queste due condizioni non appena si entra nell'epoca della razionalità tecnica manifatturiera.

Con la differenziazione e la specializzazione degli strumenti, infatti, i produttori si vedono sottrarre anche il controllo del loro mezzo di lavoro più diretto. I singoli lavori parziali eseguiti da ciascun operaio ricevono adesso il loro corrispondente strumento fisso usabile solo nelle mani di tali lavoratori specifici isolati. Non appena anche questa metamorfosi si realizzerà, tanto le diverse forze lavoro intercooperanti si vedranno ulteriormente ridurre drasticamente la loro azione artigiana, il maneggio a regola d'arte dei loro strumenti professionali, quanto verranno create le condizioni materiali per la loro incorporazione nelle macchine, che all'inizio consistono di una combinazione di strumenti semplici.

Tanto la divisione analitica del lavoro, con i suoi "virtuosi" operai parziali, quanto la semplificazione e specializzazione degli strumenti, con la loro riduzione a semplici attrezzi, vanno tuttavia incontro a dei limiti insuperabili nell'ambito del sistema manifatturiero. In quest'ultimo, nonostante tutte le novità introdotte, il mestiere rimane la base, giacché tutte le diverse operazioni lavorative, per quanto parziali, scomposte e isolate, sono state adattate alle differenti abilità personali dei singoli e dunque "personificate": ciascuna di esse, cioè, è divenuta funzione esclusiva di un determinato lavoratore o di un dato gruppo (un multiplo) di lavoratori.

Questo adeguamento dei lavori alle diverse capacità individuali rende impossibile poter realizzare un'effettiva unità tecnica del processo lavorativo ed esclude ogni sua analisi scientifica, giacché l'abilità dei singoli continua pur sempre a condizionare lo scorrimento continuo dell'attività complessiva, a vincolare quest'ultimo alle diverse qualità organiche (forza, destrezza, ecc.), necessariamente limitanti, dei molti operai. In queste condizioni solo l'autorità incondizionata del capitalista riesce ad assicurare un certo ordine al funzionamento dell'intero complesso, solo il «potere esterno» della direzione d'impresa è in grado di contrastare e ridurre al minimo le disfunzioni, le diseconomie e tutte le casualità derivanti dalla stessa natura della manifattura. Il comando dispotico è ancora indispensabile, a questo stadio di sviluppo del principio analitico, per imporre il sincronismo e la regolarità dell'intero processo di lavoro. Senza l'imperio politico esercitato dallo sfruttatore, in altre parole, non sarebbe possibile realizzare alcuna sintesi razionale delle differenti fasi produttive in cui è stata scomposta l'intera attività lavorativa.

Con la nascita dei sistemi di macchine, suscitata del resto dallo stesso carattere contraddittorio dell'atelier manifatturiero, la sussunzione trova infine il modo di diventare reale, disegnando nello stesso tempo una netta differenza - una vera e propria discontinuità storica -rispetto al periodo anteriore. D'altro canto, anch'essa, come quella formale, presenta al suo interno almeno due momenti o due stadi di sviluppo salienti, che qui vengono distinti per ragioni di ordine metodologico ed espositivo anche se in realtà fanno tutt'uno: 1. l'oggettivazione delle funzioni; 2. la soggettivazione o personificazione dei ruoli, due processi che a loro volta generano una cascata di ulteriori effetti. Vediamoli.

Gli apparati tecnologici distruggono infatti il fondamento professionale della manifattura instaurando un'organizzazione dell'intera attività produttiva completamente indipendente da quella «gerarchia delle abilità» dominante invece nell'altra fase. La nuova impalcatura tecnologica del processo lavorativo incorpora infatti dei principi scientifici che sia la rendono completamente indipendente dal virtuosismo del lavoratore parziale e più in generale dai limiti organici dell'analisi, sia da ogni sapere operaio e più in generale dalle conoscenze professionali, di norma d'origine empirica, possedute dai singoli. Questo è in effetti un passaggio cruciale, un vero e proprio sovvertimento.

Mentre infatti in tutte le fasi precedenti finora considerate l'analisi, la proporzionalità quantitativa delle differenti forze lavoro addette a particolari funzioni, e in genere l'intera organizzazione razionale del lavoro - in sintesi: l'intera razionalità capitalistica del processo di valorizzazione - venivano fatte discendere dall'esperienza e dalla pratica, con l'ingresso dei sistemi tecnologici nell'attività lavorativa è adesso la scienza, il pensiero sistematico e formale, a gestire e dare ordine al complesso della struttura sociale nel frattempo costituitasi. Mentre in precedenza era il sapere empirico a dettare le regole del «modello manifatturiero», adesso è piuttosto la razionalità scientifica oggettivatasi nei dispositivi macchinici a conformare con la sua potenza astratta il complesso delle funzioni espletate dai diversi soggetti. Il principio soggettivo, prima dominante, scompare di fronte a una pianificazione programmata in anticipo e a priori dell'intera cooperazione produttiva. Invece dell'esperienza, della pratica sperimentale e a posteriori tipiche della manifattura e del mestiere ivi imperante, la grande industria inaugura l'epoca dei principi scientifici che danno una forma preventiva e rigorosamente di sistema - del tutto impersonale - all'integrazione delle varie attività lavorative e ai ruoli sociali occupati dagli individui. Oltre a far derivare le nuove figure professionali dagli apparati tecnologici, e a invertire dunque il rapporto forza lavoro-funzioni prima dominante, la scienza oggettivata detta la fine anche del potere dispotico esterno alle molteplici forze lavoro intercooperanti, giacché essa dota ora il capitale di una «ossatura oggettiva» indipendente dall'agire politico-intenzionale dei soggetti. I sistemi di macchine, in altre parole, tanto emancipano il capitale dai limiti della regolazione coercitiva quanto incorporano essi stessi, nella loro conformazione a prima vista indifferente al dominio, quella complessa struttura di ruoli e funzioni che governa la produzione. I diversi individui sono ora chiamati a svolgere compiti e a occupare posizioni gerarchiche differenziate - di comando od esecuzione, dominanti o subordinate - in dipendenza della razionalità impolitica che si è affermata con i sistemi automatici di macchine.

All'iniziale potere intenzionale dell'imprenditore capitalistico, caratterizzato dalla sua intrinseca e inevitabile forma soggettiva, subentra ora un sistema di ruoli e funzioni - una complessa struttura di poteri decisionali con al vertice la direzione d'impresa - avente forma essenzialmente impersonale e scientifica, in quanto derivante naturalmente dai sistemi di macchine che hanno preso il posto del vecchio dispotismo. L'impalcatura tecnologica del processo lavorativo ottiene questi risultati perché essa incorpora adesso nella sua forma avalutativa quei rapporti di produzione che agli inizi si erano potuti imporre soltanto mediante l'impero del comando politico. Adesso, una volta che le macchine organizzano e gestiscono in prima persona l'intera attività produttiva, distribuendo gli individui in determinate funzioni e posizioni lavorative, la forma gerarchica della produzione deriva necessariamente dal loro funzionamento e integrazione esclusivamente strumentali, una razionalità insita nella stessa fonte da cui le macchine nascono in epoca capitalistica: il pensiero scientifico.

Poiché i sistemi di macchine, come sappiamo, sono secondo Marx «scienza realizzata» ovvero «sapere scientifico oggettivato», ecco che la struttura sociale piramidale discendente dal loro funzionamento non può che assumere veste impersonale, conformemente al fondamento da cui quelle macchine derivano. D'altro canto, poiché i sistemi tecnologici non possono essere usati in difformità dai principi scientifici che incorporano, ecco che essi diventano necessariamente la causa prima formale (senza tempo né alcun vero sostrato) dell'attuale conformazione gerarchica dei processi di lavoro. Affidati a questo meccanismo d'insieme, gli attori sociali non possono far altro che seguirne la logica, giacché la sua natura intrinseca appare a essi in guisa di premessa incontrovertibile della loro esistenza in quanto soggetti intenzionali, dotati di volontà e coscienza in genere predittive. Un individuo di questa specie, la cui natura coincide, si può dire, con la sua mente razionale, mai e poi mai si sognerà di poter mettere in discussione una Tecnologia la cui anima interna corrisponde così bene al suo intelletto autoreferente. Poiché sono apparentemente di identica forma, due realtà fondate esclusivamente sulla loro pura e semplice datità, il divieto di poterne mettere in dubbio l'esistenza coincide in tutto e per tutto con la loro stessa ragione unica, con la stessa loro facoltà di pensare.

Se si considera l'eccezionale durata del processo storico che ha portato a questi esiti (dal XV secolo circa al XIX), nonché ovviamente le discontinuità che si sono stagliate al suo interno, non sorprenderà che il modo di produzione capitalistico possa aver assunto la conformazione delineata in precedenza. Casomai, la genialità di Marx consiste nell'aver saputo estrarne le tendenze predominanti, nell'aver saputo riconoscere la dinamica emergente entro un processo sociale dai mille volti storici e connotato da una complessità crescente, sempre più intricata e molto spesso opaca. D'altro canto, il ruolo fondamentale svolto dai sistemi di macchine nella riproduzione del capitale non si esaurisce affatto nella oggettivazione dei rapporti di produzione che si è vista, benché certamente questa sia un attributo specifico dei processi di lavoro contemporanei. Il fatto è che se si vuole caratterizzare gli agenti sociali, come è nelle intenzioni esplicite di Marx, quali funzionari e incarnazioni delle leggi riproduttive del capitale, e nello stesso tempo e dal medesimo punto di vista quali suoi attivi interpreti, in quanto individui dotati di volontà e coscienza, capaci di prendere decisioni, d'immaginare progetti e di portarli a compimento, allora diventa indispensabile tener conto di un conclusivo aspetto della sussunzione. Senza quest'ultimo non sarebbe infatti possibile evitare quella contraddizione in termini.

Detti attori sociali, in effetti, sono a propriamente parlare dei veri e propri soggetti, individui cioè sia in grado d'esplicitare delle proprie pratiche sociali indipendenti e multiformi sia assoggettati a, e dipendenti da, una diversa causa. Quando infatti il processo di sussunzione incorpora gli individui nei sistemi di macchine esso lo fa in maniera tale da lasciarli sussistere al mondo apparentemente senza altro fondamento che il loro innato intelletto decisionale, come se tutto quello che fanno e pensano fosse unicamente l'effetto di loro deliberate scelte politico-ideologiche, il libero frutto della loro autodeterminazione, come agli inizi, quando il modo di produzione capitalistico veniva visto nascere, nell'ambito del mercato, dallo scambio consensuale e volontario forza lavoro-capitale. In effetti, tra queste origini e gli sviluppi conclusivi della mediazione non sembra sussistere nient'altro, giacché ora come prima sembrano fronteggiarsi soltanto degli attori sociali e i loro rapporti appaiono suggellati dal loro carattere interpersonale, senza alcun'altra specificazione.

Dopo quanto si è detto, invece, si capisce subito che questa condizione apparentemente fattuale e data dalle circostanze non rappresenta altro che un modo d'esistenza della dinamica riproduttiva disegnata in precedenza. Come sappiamo, infatti, nella contemporaneità - che come si è visto non è affatto un criterio cronologico di periodizzazione sociale del tempo, bensì la natura intrinseca del reale e della storia entro il dominio del capitale - i sistemi di macchine sono i primi responsabili della struttura gerarchica dell'attività lavorativa, giacché solo attraverso la loro forma razional-scientifica può essere organizzata e resa corrispondente all'economia di tempo l'intera produzione. Data la natura avalutativa degli apparati tecnologici questi ultimi non sono più problematizzabili né possono essere pensati differentemente da come la scienza li produce. La loro forma è tale che persino ogni loro uso alternativo non può avere senso alcuno. Da questo punto di vista, la differenziazione delle funzioni e dei ruoli decisionali - la distribuzione asimmetrica, in altre parole, degli individui tra compiti esecutivi e direttivi, dominanti e subordinati - entro i processi lavorativi non può che conseguire in linea retta da quella enorme «Macchina incosciente» anteposta.

D'altro canto, i soggetti inscritti in detta struttura, e in ciò sta l'astuzia più sottile del capitale, non rappresentano certo degli automi inanimati o dei meri effetti passivi della suddetta dinamica, condannati ad applicare pedissequamente le norme della razionalità strumentale conficcate nella Tecnologia, come se ne fossero unicamente l'incarnazione biologica. Al contrario. Se i sistemi di macchine rappresentano la cornice del quadro, il vincolo che fa da contorno a tutta la scena, gli agenti sociali ne costituiscono i colori e le forme, l'aspetto cromatico e quello geometrico: in una parola, ne sono i soggetti esclusivi. Sono questi ultimi a interagire in maniera attiva all'interno del campo che è stato loro e per loro disegnato in anticipo, campo che non è affatto un terreno indeformabile né recintato da confini immobili.

Se l'oggettivazione rappresenta un lato essenziale del processo di sussunzione, quella che genera l'incarnazione e la presentazione degli individui quali funzionari e creature del capitale, la soggettivazione ne costituisce un complemento altrettanto fondamentale, giacché è proprio questo che consente ai diversi agenti sociali un'ampia libertà d'azione e un variegato ventaglio di scelte. In effetti, non si dà l'uno senza l'altro, giacché essi sono un'identità trasformata in un'unità, in un rapporto reciproco e intersoggettivo tra individui - prima facie esterni ai sistemi di macchine - che co-evolvono l'uno con l'altro in stretta simbiosi (confliggendo e cooperando, in perenne alternanza). Poiché vivono entro questa dimensione derivata, o livello di realtà, come se fossero nel loro ambiente naturale (se il modo di produzione capitalistico è l'acqua, il soggetto è il suo pesce), i molteplici agenti societari, nonché vedersi vietata la problematizzazione (o messa in discussione, ovvero ogni analisi critica) del loro mondo di riferimento, nemmeno possono concepire un fondamento differente da quello su cui son cresciuti e nell'ambito del quale si sono formati. Una cosa simile, per essi, non ha alcun senso. Pensare e poter pensare solo entro il già dato e il fattuale qui fanno tutt'uno.

Confinati ab ovo nel suolo ontologico della datità, di quel saldo terreno tangibile infondato nel quale affondano le loro radici cognitive, ai diversi soggetti è proprio per questo consentito di modificare, trasformare, rimodellare in continuazione il loro sistema societario, giacché i confini entro i quali possono esplicare le loro multiformi pratiche comunitarie sono praticamente sia di fatto deformabili e adattabili, elastici e flessibili, in costante divenire altro, sia in linea di principio paradossalmente immodificabili, infrangibili e inalterabili, e ciò sulla base stessa della loro innata plasticità e versatilità. Una volta stabilitisi, detti confini - sia entro l'attivazione dei processi di lavoro, nella scelta della migliore tecnologia data più funzionale alle esigenze contingenti della direzione, sia al suo esterno, nel mondo politico-ideologico dello stato, degli apparati del consenso e del simbolico - non pongono più alcun limite prestabilito al dispiegarsi dell'agire intenzionale dei molteplici soggetti. Se si vuole, si parva licet, sono un po' come l'universo einsteiniano: finiti ma illimitati.

Il capitale naturalmente ottiene questi risultati a prima vista stupefacenti, e per tutta la logica intrinseca del vecchio marxismo storico comprensibilmente scioccanti e inconcepibili, attraverso la duplice mediazione che si è vista.

Da una parte, infatti, la scienza materializzatasi nei dispositivi tecnologici rende questi ultimi dei sistemi semplicemente avalutativi e impersonali, retti dalla razionalità intemporale del pensiero scientifico. A meno di non riuscire a svelare la natura preformata della conoscenza scientifica, i sistemi di macchine costituiscono per gli individui dei complessi tecnologici da cui dover necessariamente prendere le mosse, tanto più quando si presume di poterne selezionare l'impiego tra alternative diverse. Comunque sia, la ragione scientifica deve stare sullo sfondo quale premessa oggettiva di ogni ulteriore scelta, che non potrà che avvenire a posteriori, a giochi già fatti.

Dall'altra parte, poi, poiché l'oggettivazione discendente da questi presupposti li ha messi al mondo quali soggetti in possesso di un'innata autodeterminazione (distinta d'altro canto da quella, storica, da cui sono emersi con la dissoluzione delle comunità originarie: questa poteva infatti ancora pensarsi come derivata dal suo passato, in quella moderna invece qualsiasi legame con la sua formazione è del tutto sparito), per gli individui può aver senso solo il loro intelletto autonomo esplicantesi in una ragione politico-ideologica che rappresenta per essi tutto quanto c'è da vedere o capire nel dominio delle forme, nell'impero assoluto di quella realtà sociale che a essi si presenta quale ultimo fondamento del loro esserci. Per questi soggetti, l'unica cosa che conta sono i loro legami interpersonali, il loro contesto storico-sociale e le variegate pratiche sociali che essi mettono in atto per appropriarsi della maggior quota parte possibile del potere decisionale esistente (economico, parlamentare, sindacale, ecc.). Ecco perché a detti agenti è fatto divieto di poter mai diventare consapevoli della loro natura derivata e posta. Il potere del capitale sparisce mentre si pone, e in tal modo, per mezzo di questa mediazione altamente specifica e sofisticata, si riproduce tendenzialmente all'infinito (nella misura almeno in cui questo circolo virtuoso non viene spezzato).

L'incorporazione dei rapporti di produzione nei sistemi di macchine fino alla loro identificazione, lungi dal postulare una nuova forma di determinismo tecnologico (che è solo un altro polveroso mito marxista), è invece proprio il processo che ha permesso al capitale di assicurarsi un'eterna giovinezza, giacché è proprio questo che ha generato quel secondo livello di realtà - nato dalla differenza tra l'interno e l'esterno, tra le leggi intrinseche determinanti e il mondo di superficie dominante in cui tutto sembra accadere - in cui i soggetti si trovano inchiodati (molto più di Efesto alla roccia del suo destino) come alla loro condizione naturale bella e pronta.

Per riassumere tutte le sofisticate caratteristiche del concetto di Marx e del processo storico connotato dalla sussunzione formale e reale, conviene sottolineare a questo punto alcune cose. Come si è visto, benché rappresentino due momenti distinti («le leggi che corrispondono alla grande industria non sono identiche a quelle che corrispondono alla manifattura», dice Marx), esse debbono tuttavia essere considerate in maniera unitaria come un'unica complessa epoca storica del processo di formazione del modo di produzione capitalistico. Analizzata dal punto di vista delle trasformazioni che prendono forma al suo interno, la sussunzione inaugura una società completamente inedita, che tanto si separa drasticamente dal suo passato quanto si dota di meccanismi riproduttivi interni estremamente specifici. Oltre a demarcarsi in maniera netta da tutte le forme di potere antecedenti, e segnatamente dalle gerarchie imperanti nella bottega artigiana delle origini («il comando del capitalista sul lavoratore non ha nulla in comune con il rapporto che esercita il mastro sui garzoni e sugli apprendisti nell'industria corporativa medievale», annota Marx), il «principio determinante» del capitale ha istituito anche, lo si è visto, la logica del fattuale o dell'autodeterminazione attraverso cui i diversi soggetti, nel mentre pensano e prendono decisioni in maniera apparentemente autonoma, riproducono il loro assoggettamento a detto principio. In effetti, la sussunzione cambia completamente le carte in tavola rispetto agli inizi di tutto il processo considerato. Persino il lavoro libero da cui comincia, riguardato retrospettivamente, non era ancora effettivamente forza lavoro salariata, giacché esso emergeva dal tramonto del vecchio sistema feudale con tutti gli attributi della formazione di mestiere e in ogni caso rappresentava un soggetto poco propenso a sottomettersi da subito agli imperativi della produzione di plusvalore. Proveniva da un altro modo di produzione ed esisteva al di fuori del capitale vero e proprio. La forza lavoro che emerge alla fine della transizione è completamente differente da quella che ha innescato tutta la dinamica sopra considerata. Così spiega la cosa Marx: «Il rapporto iniziale appare adesso come momento immanente di quel dominio del lavoro oggettivato sul lavoro vivo che si è creato nel corso della produzione capitalistica». D'altro canto, anche nell'ambito della sussunzione, all'interno cioè del suo stesso intenso sviluppo, hanno luogo dei mutamenti significativi, se si osservano le cose dal punto di vista degli esiti finali. Del resto, spiega Marx, alle due categorie «corrispondono due forme distinte di produzione capitalistica», giacché la seconda ingloba sempre «la prima, mentre la prima non implica necessariamente la seconda».

Le potenze intellettuali della produzione, le competenze e le conoscenze acquisite, l'intelligenza e il savoir faire dei lavoratori, infatti, non si concentrano affatto dalla parte della direzione d'impresa (come se questa li "succhiasse" dai produttori); né essi, tanto meno, danno poi origine alla struttura tecnologica del processo di lavoro riversandosi per così dire nei sistemi di macchine. Al contrario. Tutto il sapere e le cognizioni tecniche degli operai manifatturieri, se dapprima sembrano effettivamente trasferirsi negli «apparecchi meccanici» dell'atelier o officina del tempo, in seguito, con l'ingresso della scienza nell'organizzazione della produzione, vengono letteralmente eliminati. Al posto delle conoscenze inferite dall'esperienza, dalla pratica empirica e dalle attitudini sperimentali, subentra infatti una ragione scientifica che progetta, pianifica e organizza in anticipo - con l'impeto e la razionalità di un intelletto rigoroso e soprattutto avalutativo - l'intera struttura tecnologica dell'attività lavorativa, distribuendo i differenti soggetti entro un ampio ventaglio di funzioni piramidali, in cui alcuni comandano e altri eseguono, in cui un'elite svolge funzioni direttive e strategiche e altri compiti semplicemente subordinati (ora più intellettuali ora meramente esecutivi). Da questo punto in poi, il sovvertimento del precedente stato delle cose diventa evidente persino nel fatto che le stesse qualifiche operaie, dapprima preesistenti e che per questo motivo dovevano essere distrutte, vengono adesso create e continuamente diversificate dalla stessa ossatura tecnologica. La macchina, spiega Marx, «realizza sulla base di se stessa una nuova specializzazione della forza lavoro». La nuova divisione del lavoro che compare adesso, il famoso principio analitico degli esordi, è «in primo luogo distribuzione degli operai fra le macchine specializzate», e nell'ambito del processo produttivo specificamente capitalistico «si tratta piuttosto di una distribuzione tra macchine specializzate, che di una divisione del lavoro tra operai specializzati». Inutile insistere oltre sulla funzione fondamentale svolta dal pensiero scientifico oggettivato in tutto questo processo. In effetti, il complesso contenuto del concetto di sussunzione riceve tutto il suo significato o raggiunge il suo culmine, permettendoci di spiegare le sofisticate metamorfosi che prendono forma al suo interno e lungo il suo discontinuo processo di sviluppo, solo dal momento in cui la scienza, tramite i sistemi di macchine, diventa l'elemento determinante del modo di produzione capitalistico. È per questo motivo che la comprensione della ragione scientifica, della sua intrinseca natura e delle sue connaturate tendenze, è divenuta un presupposto basilare per potersi rendere intelligibile il mondo contemporaneo e la logica più interna del capitale. In sintesi: la sussunzione disegna quattro tappe fondamentali nel corso della sua affermazione storica, le prime tre entro il suo alveo formale, l'ultima in quello reale. Essa ha inizio con un atto preliminare: con la formazione del lavoro libero a opera delle classi dominanti del tempo. Questo viene agglomerato sotto il controllo dell'imprenditore a partire da un contratto giuridico che assegna il comando all'acquirente della forza lavoro, mentre per quest'ultima implica l'obbligo di prestazioni subordinate, la dipendenza dal possessore del denaro. A partire da qui si sviluppano tuttavia almeno tre conseguenze estremamente rilevanti:

a) in primo luogo nasce la cooperazione semplice capitalistica, con le sue caratteristiche intrinseche: 1. dispotismo; 2. piano; 3. forma naturale della forza produttiva del lavoro sociale, che appare come proprietà inerente al capitale;

b)  in secondo luogo si sviluppa la cooperazione manifatturiera, anch'essa con i suoi tratti tipici: 1. analisi del processo di lavoro; 2. specializzazione e differenziazione degli strumenti. Anche qui sono presenti alcune caratteristiche peculiari e nel contempo limitanti: I) adattamento delle funzioni agli organi corporei della forza lavoro; II) dispotismo politico esterno; III) assenza di una vera e propria «unità tecnica» del processo di lavoro; IV) la cristallizzazione ovvero ossificazione delle funzioni operaie. In compenso predominano: V) l'espropriazione crescente delle conoscenze soggettive acquisite; VI) l'operaio parziale e il suo virtuosismo unilaterale; VII) la crescente intensità del lavoro;

c) in terzo luogo nascono i sistemi di macchine, un apparato tecnologico di tipo scientifico che tanto porta a compimento il processo di sussunzione, rendendo specificamente capitalistico l'intero modo di produzione, quanto sovverte completamente tutte le caratteristiche delle tre fasi precedenti, vale a dire: 1. compravendita; 2. cooperazione semplice e infine 3. cooperazione manifatturiera (ognuna, lo si ricordi, con la propria stratificata articolazione interna).

In modo particolare, la mediazione tecnologica, se la si considera il punto culminante dell'intero processo di formazione del modo di produzione capitalistico, trasforma da cima a fondo tutte le caratteristiche accumulatesi per così dire nelle fasi anteriori. Mentre dapprima l'autodeterminazione dei soggetti si presentava come una precondizione del contratto di compravendita, così come del resto entrambi si presentavano come due presupposti del processo produttivo, adesso ambedue appaiono sul davanti della scena come due effetti specifici del capitale stesso. Nell'ambito delle nuove condizioni istituite da quest'ultimo, essi sia non sono più antecedenti al suo dominio né possiedono più un'esistenza esterna rispetto a esso. Sono invece divenuti istanze derivate di una dinamica specifica che li produce dal proprio interno come sue altrettante forme determinate d'espressione.

D'altro canto, rispetto alla cooperazione manifatturiera, che si può considerare qui una forma perfezionata e più elaborata di quella semplice da cui il capitale comincia, il macchinismo ha introdotto delle differenze sostanziali d'assoluta rilevanza. Il complesso dispositivo tecnologico che dà la sua struttura d'insieme al processo di lavoro infatti: 1. elimina il «potere disciplinare» delle origini; 2. genera esso stesso le funzioni operaie, dando nel contempo vita alla loro ciclica ridefinizione e al costante mutamento delle figure professionali loro connesse (cosa che dissolve sia la cristallizzazione di dette funzioni, mettendo in scena, al contrario, la maggiore versatilità possibile della forza lavoro, sia il loro iniziale adeguamento agli «organi corporei» degli individui); 3. istituisce per la prima volta quella «unità tecnica» dell'attività lavorativa assente nei periodi precedenti; 4. porta al parossismo l'intensità del lavoro conficcandola nell'operare automatico delle macchine; infine 5. conferisce all'iniziale espropriazione del «lavoro intellettuale» degli operai, alle «potenze mentali» della produzione, un significato totalmente differente e specifico al massimo grado.

Dette «potenze intellettuali» non sono più adesso le cognizioni pregresse, l'intelligenza e la volontà dei singoli, le competenze tecniche o la maestria professionale d'origine empirica e derivante dall'esperienza pratica dei contadini o degli artigiani espropriati a suo tempo. Tutte queste capacità personali, con l'avvento dei sistemi tecnologici integrati, sono ormai state letteralmente eliminate e sostituite con qualcos'altro. Così spiega la cosa Marx: «L'abilità parziale dell'operaio meccanico individuale svuotato scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle immani forze naturali e al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine».

È anche logico, in fin dei conti, che il processo di concentrazione delle conoscenze pertinenti all'esecuzione dell'attività lavorativa, a partire dalla cooperazione semplice, non sia rappresentabile in maniera cumulativa, come se fosse stato possibile al capitale estendere gradualmente il suo monopolio del sapere attraverso tutte le diverse fasi della sua formazione. Dette conoscenze avevano infatti natura sostanzialmente empirica e limitata, si formavano in genere nel corso dell'apprendistato e possedevano un profilo praticamente non sistematico, basato principalmente sulla routine e l'apprendimento dei singoli. La stessa analisi imperante nell'organizzazione manifatturiera del lavoro, precisa Marx, era una «suddivisione casuale», dipendente dalle esperienze che via via venivano fatte in merito: essa di fatto «lascia al caso la combinazione degli operai parziali nella stessa officina», e anche per questo dunque escludeva «una analisi realmente scientifica del processo di produzione».

Solo la scienza, mediante i sistemi automatici di macchine, risolverà le impasse della manifattura istituendo nel contempo una vera e propria demarcazione tra le due epoche. Con la nascita di apparati tecnologici che incorporano specifici principi scientifici, oltre a prendere forma una netta cesura rispetto agli esordi, si forma contestualmente una struttura oggettiva di ruoli e funzioni che troverà poi un suo più che conseguente finish nella loro soggettivazione o personificazione inten-zional-politica. Quest'ultima, infatti, come si è visto, impone ai diversi agenti della riproduzione sociale il divieto di potersi rendere intelligibili i propri fondamenti. Giacché per essi la scienza rappresenta una razionalità avalutativa, giacché inoltre per l'intelletto soggettivo esiste solo l'autodeterminazione dei singoli, ecco che per tali individui mai sarà possibile mettere a fuoco i sofisticati processi genetici da cui hanno avuto origine le caratteristiche apparentemente naturali dei due istituti. Se mai vi fossero stati dei dubbi in merito all'importanza teorica - enorme - del concetto di sussunzione per la piena comprensione della più intrinseca natura del modo di produzione capitalistico, essi dovrebbero ormai essersi dissolti come neve al sole.

In conclusione, per rimarcare un'ultima volta l'estrema originalità dei fenomeni discussi, la sussunzione reale ha dato luogo ad almeno due transizioni socio-economiche salienti. Una tra due epoche della formazione economica della società, nel passaggio dai modi di produzione antico e feudale a quello contemporaneo. L'altra, non meno rilevante, tra due epoche afferenti allo stesso capitale in via di formazione. Essa, per un verso distingue radicalmente la società del capitale dal suo passato, dalla storia della sua origine e da tutte le formazioni sociali antecedenti. Per l'altro, disegna una sua propria evoluzione interna discontinua, scandita da numerosi e complessi stadi di sviluppo che portano alla luce le sue intrinseche novità specifiche solo mediante l'osservazione dell'intero processo dall'alto dell'ultimo scatto: la strutturazione da parte della razionalità scientifica, attraverso i sistemi tecnologici, di tutta l'attività lavorativa e del complesso universo (ovvero multiverso) interpersonale, cognitivo in primo luogo, degli individui societari. Aveva torto Marx quando definiva la Macchina la «forma più adeguata» del modo di produzione capitalistico?

4. La società contemporanea non è un sistema e il dominio sociale del capitale non ha forma politico-ideologica

Il concetto di sussunzione rappresenta dunque il fondamento specifico della società del capitale. Tutte le forme storiche del processo di lavoro posteriori a quella data di nascita - dal taylorismo al fordismo, dall'automazione robotica al toyotismo, per finire con lo sfruttamento cognitivo della forza lavoro - costituiscono delle configurazioni discrete e continuamente cangianti di quei lontani e complessi inizi.

Dette forme non s'identificano affatto col capitale in quanto tale, né questo ha origine da quelle. Sembra incredibile, ma a tutt'oggi (quasi due secoli dopo l'edizione del primo libro del Capitale!) numerosi studiosi marxisti contemporanei - seguendo una tradizione che in Europa molto probabilmente comincia col Sindacalismo rivoluzionario, si sviluppa col giovane Gramsci, viene ripresa dall'operaismo italiano, prosegue poi con Benjamin Coriat e arriva sino a noi attraverso l'opera di Claudio Napoleoni e dei suoi epigoni più intelligenti - sostengono ancora questa filiazione. In realtà, con le loro tesi essi non fanno altro che misurare l'abissale distanza che li separa dal pensiero più sofisticato di Marx. Al contrario di quello che si crede, anche le odierne forme di organizzazione dell'attività lavorativa, così come del resto le forme attuali della circolazione mercantile e finanziaria, rappresentano in definitiva dei sistemi derivati - complessi e dinamici, in ciclico mutamento - e dipendenti dai meccanismi riproduttivi più intrinseci del capitale come tale.

Oltre a non comprendere la sottile logica interna del discorso di Marx, le ultime varianti del marxismo costituito (e sovente istituzionalizzato) ne capovolgono persino le conclusioni, mettendo così sottosopra, in senso letterale, l'intera sua spiegazione delle cose. Ciò facendo, tanto ne sovvertono completamente l'interpretazione più sofisticata, quanto rendono inintelligibile la complessa natura dell'oggetto in causa. Dal che segue poi il divieto di poter mai capire o problematizzare l'intrinseca struttura a più piani (non tutti visibili, d'altra parte) del mondo reale. Non aveva profondamente ragione Marx ad autodefinirsi, con fine intuito davvero in anticipo sui tempi, «kein Marxist»?

Riassumiamo in rapida sintesi la geniale spiegazione dell'estrema specificità del modo di produzione capitalistico che ci è stata presentata da Marx. Quando il capitale nasce e si afferma attraverso la sussunzione reale del lavoro, tutti gli elementi storici che ne hanno preparato la genesi - ripetiamolo: dalla circolazione delle merci ai preesistenti rapporti d'assoggettamento, dal valore di scambio, passando per le gerarchie sociali d'origine urbana o signorile, al denaro - vengono da esso ingoiati, assimilati e trasformati in determinazioni sociali specifiche del nuovo potere nel frattempo costituitosi. Quando alla fine essi si ripresentano sulla scena, spesso hanno lo stesso nome, ma non più l'originario contenuto. Ciò vuol dire tanto che tutte queste categorie hanno assunto adesso un nuovo significato, inesistente nelle altre epoche in cui sono nate, quanto che l'intero dominio economico (produzione immediata, circolazione, scambio, consumo) viene a dipendere ora da (e rappresenta una forma d'espressione di) quel particolarissimo meccanismo riproduttivo - del tutto inedito e originale - che è infine emerso dall'interno del suo processo di formazione. E del resto si è visto quanto sia complessa la natura di quest'ultimo.

D'altro canto, la sofisticata logica intrinseca della mediazione che ha strutturato l'economico, invade in pari tempo la società nel suo complesso, dandole un'impronta conforme al nuovo principio determinante. Attraverso l'autodeterminazione dei soggetti, il capitale genera infatti anche le molteplici razionalità dominanti nei diversi apparati sociali, che così sia vengono a dipendere da una causa invisibile e per esse persino inconcepibile, sia vengono unificate dalla loro comune appartenenza alla sfera del pensiero infondato, o avente come suo unico fondamento la propria autoreferenza. Questi effetti, si badi bene, valgono tanto per le razionalità di vertice dell'intero societario (dalla grande impresa fino allo stato), quanto per l'intelletto dei singoli, cosa che permette al capitale di creare (e ciclicamente divorare) in un certo senso, in maniera molecolare, persino l'intero mondo relazionale (emotivo, simbolico, comunitario, ecc.) degli individui.

Si dovrebbe capire meglio adesso quali risultati infausti abbia indotto - e continui ancor oggi a indurre, incessantemente - l'inveterata abitudine dei marxisti attuali a prendere le mosse ora dalla produzione (persino dalla singola Giant Firm) ora dal mercato, ora dai rapporti interindividuali di potere (prima nella fabbrica, adesso, più modernamente, entro l'impresa globale) ora dall'apparente predominio delle istituzioni circolatorie (finanziarie, in particolare), per tentare di spiegare le dinamiche odierne del capitalismo contemporaneo. Come i cavalieri dell'Ariosto, i diversi marxismi s'aggirano nel loro «castello d'Atlante» teorico, sovente senza accorgersi l'uno dell'altro né poter percepire «l'invisibil signor» del loro palazzo, condannati a non poter mai trovare ciò che cercano. Sia chiaro, non è che un simile modo di procedere non sia capace di svelare date forme d'organizzazione, le più recenti magari, dei processi di lavoro o dei circuiti monetari tramite cui il capitale riconfigura in continuazione il proprio ambiente interno. Il problema è che, come spiegava Hegel, molto spesso queste descrizioni sono esatte senza mai poter esser vere, giacché la loro intrinseca natura fa loro divieto di poter mai accedere al nucleo più profondo del modo di produzione capitalistico. Lo stesso motivo che le rende interessanti e spesso innovative, le confina però entro una sfera di realtà a partire dalla quale non v'è accesso al motore interno del nostro mondo sociale. Come ha spiegato a suo tempo lo stesso Marx, «penetrare dalla superficie in profondità non è permesso».

Da quanto si è sostenuto finora, dovrebbe risultare chiaro anche perché non sia possibile concepire l'attuale società come un sistema sociale composto o costituito di parti. Se effettivamente i diversi sottosistemi specializzati - la politica, l'economia, il politico-ideologico, insomma dai molteplici apparati dello stato (i "grandi mezzi" del potere costituito) alle più molecolari istituzioni della cosiddetta società civile - dell'intero dovessero costituire la loro cornice complessiva, non sarebbe più possibile distinguere in alcun modo i singoli istituti dal loro complesso. Avrebbero la stessa natura, e quindi la loro demarcazione potrebbe solo rappresentare, eventualmente, un décalage o quantitativo oppure solo fattuale, cosa che comunque non potrebbe mai portare a una effettiva differenziazione tra le due entità.

Benché la sociologia contemporanea, con Max Weber prima, poi con Talcott Parsons e in tempi più vicini a noi con Niklas Luhmann, abbia cercato di argomentare la loro distinzione per spiegare in che modo, attraverso quali processi sociali nascesse il tutto dall'interazione reticolare e molteplice delle diverse parti - ora mediante la logica della razionalità strumentale, ora con il funzionalismo selettivo e le sue "tecniche di soluzione dei problemi" -, v'è da dire che il suo modello non è riuscito e non poteva riuscire a risolvere quell'antinomia o a spiegare in maniera convincente il suo oggetto. 0 il tutto è qualcosa in linea di principio diverso dalle sue parti, oppure è identico a esse, e allora qualsiasi loro presunta differenza - essenziale presupposto per poter parlare di un contorno debordante, la cui complessità eccedente deve essere ridotta, addomesticata e resa compatibile (tramite il denaro, la politica, ecc.) con i vincoli interni del sistema d'insieme - si basa sul nulla e non può essere sostenuta. Se, come dichiarava apertamente Luhmann, senza rendersi conto degli insolubili rompicapo in cui s'infilava il suo discorso, «il tutto consiste di parti», diventa impossibile poter dimostrare la loro ipotetica diversità, che rimane di fatto inspiegata e ignota, cosa che a sua volta genera un "buco" teorico che trascina con sé anche tutta la credibilità e la coerenza logica del castello di categorie eretto su tali volatili basi.

Il problema irrisolto del pensiero grande-borghese - le cui intenzioni erano quelle d'edificare un grandioso paradigma societario onnicomprensivo e definitivo (la pietra filosofale dei pensatori classici del capitale!), una teoria globale della società insomma, ovviamente contrapposta al progetto di Marx- non è costituito soltanto, come dovrebbe esser chiaro, da quella contraddizione logica, che pure di per sé rappresenta un ostacolo formidabile sulla via di una comprensione razionale del mondo sociale. Sarebbe davvero paradossale e persino comico che dei sistemi di conoscenza nati con l'intento d'illuminare con la ragione i meccanismi riproduttivi delle società contemporanee fondassero la loro argomentazione sull'intrinseca fallacia delle premesse. Non si insisterà mai abbastanza perciò sull'importanza concettuale del principio di non contraddizione. Di fatto, nessun nuovo marxismo può farne a meno, tanto meno ovviamente quello del XXI secolo. Vedremo più avanti del resto la funzione cruciale svolta oggi dalla confutazione logica nella controversia teorica tra impostazioni alternative.

Detto questo, la questione in oggetto - vale a dire il divieto, per i modelli criticati, di poter demarcare il sistema d'insieme dalle sue parti - risulta essere d'estremo rilievo anche per un altro fondamentale motivo. Esso segnala infatti un problema eminente al quale finora il pensiero dominante non ha saputo elaborare una risposta esauriente, ovvero ne ha dato una spiegazione insoddisfacente, sia perché logicamente viziata sia perché unilaterale o comunque basata su presupposti assunti come tali e non più problematizzati. Infatti, o si riesce a dare una spiegazione convincente della differenza e del clivage che separa e distingue la totalità dai suoi singoli sottosistemi (una crux tra l'altro che Marx ha affrontato sin dai Grundrisse [Lineamenti fondamentali per la critica dell'economia politica] discutendo la logica dell'economia politica classica), oppure non resta altro che identificare le due istanze e definirle volta a volta, in genere alternando il loro ruolo con termini diversi. Allora, una volta la cornice globale sarà la storia, un'altra saranno le condizioni di fatto che emergono alla fine dei processi selettivi, un'altra ancora saranno dati contorni d'insieme istituiti da dati soggetti (la Legge, la Tecnica, il Mercato, all'occorrenza il Male oppure dio e le Chiese) e metamorfosati in contesti oggettivi delimitanti e condizionanti l'agire degli individui.

Non v'è chi non veda l'esigenza e l'urgenza d'uscire da questa sorta di trappola concettuale, in cui si è continuamente rinviati da Ponzio a Pilato senza poter mai veramente venire a capo del dilemma. In effetti, fin quando si rimane entro questa logica non se ne può uscire e neanche sospettare che possa esservi una qualche via d'uscita (da che, ci si potrebbe del resto chiedere, se quello che non esiste neanche può essere pensato!), o che qualcuno ne necessiti davvero una.

Se si ripensa alla spiegazione di Marx a cui si è fatto ricorso nelle altre pagine è invece possibile illustrare in che modo, attraverso quali processi specifici prenda forma la distinzione tra il tutto e le sue variegate parti. Se si ammette che il mondo sociale reale istituito dal capitale sia stato articolato su due livelli fondamentali - quello delle legalità più intrinseche e quello di superficie dove dominano gli eventi, il divenire e lo sviluppo temporale delle cose (una sfera questa, del resto, a sua volta plurivoca e a più piani) - allora dovrebbe essere più agevole comprendere quale sia l'elemento che li differenzia e nello stesso tempo li correla in maniera sottile tramite la loro simbiosi (o se si vuole, per usare gli stessi pregnanti concetti di Marx, le forme e i modi d'espressione del meccanismo interno). Come si è visto infatti l'oggettivazione è nello stesso tempo, e in maniera indistinguibile da se stessa, personificazione delle tendenze più tipiche del modo di produzione capitalistico, è la metamorfosi del capitale da sostanza in soggetto, e la sua riproduzione impersonale viene realizzata proprio da questa funzione di primo piano affidata all'apparente autodeterminazione politica degli individui. Mentre in tutte le interpretazioni marxiste del passato e nella logica ancor oggi imperante (e che è storiografica, economica, ecc.) gli attori sociali vengono visti come i soli agenti delle trasformazioni sociali, delle decisioni politiche, delle strategie di lungo periodo delle classi dominanti - visione in cui, si parli dei singoli stati, delle diverse frazioni dei partiti al potere, delle Giant Firms o delle grandi imprese transnazionali, tutto viene ricondotto alle volizioni politico-intenzionali di dati soggetti (siano questi ultimi lo strato manageriale, il ceto proprietario, l'élite finanziaria del capitalismo mondializzato, o qualunque altra entità similare) -, nell'interpretazione inferita da Marx tutte queste dramatis personae non fanno altro che dare coscienza e volontà al «principio determinante» che le ha poste in essere al momento delle sue origini (andate ormai perdute nel passato remoto della sua genesi).

Tutte queste diverse soggettività, anche quando mettono capo a istituzioni o istanze apparentemente spersonalizzate (ad esempio il mercato, la tecnica), in effetti rappresentano degli attori sociali che ragionano in maniera privilegiata attraverso la loro ragione infondata, il loro intelletto a prima vista e realmente per essi incausato. Ogni individuo di questo secondo mondo, anche quando è una collettività, pensa e agisce sua sponte, in dipendenza prima di tutto di quella razionalità innata che a ognuno sembra concresciuta con la propria esistenza. Per questo non possono riconoscerne la natura derivata e dipendente. Per questo stesso motivo, d'altra parte, essi costituiscono per il capitale e la sua logica immanente la migliore e più estrema rappresentazione possibile delle sue legalità intrinseche, giacché dei soggetti attivi, che costruiscono in prima persona e direttamente il loro contesto di vita, mai e poi mai potranno nemmeno lontanamente immaginare di essere eterodiretti nel corso delle loro pratiche sociali. Cosa può esserci di meglio di un individuo che, tramite il proprio agire razionale, si consegna da solo alla logica riproduttiva del capitale? Il suo assoggettamento consegue naturalmente dalla piena esplicazione della sua libertà personale. Oltre a non poter vedere la propria dipendenza, a questo agente è persino vietato poterla pensare (divieto che Paul Valéry, con fine sensibilità di poeta, aveva compreso meglio e ben prima di molti altri: «Ce qui n'est pas - est le profond de ce qui est»). Se si volesse a questo punto fare un paragone con l'informatica, si potrebbe forse dire che la logica più interna del capitale rappresenta l'hardware del modo di produzione attuale, mentre i soggetti ne costituiscono il software, il sistema operativo più consono. Se questi ultimi consentono a quello di "girare", per converso l'altro rappresenta la precondizione materiale delle loro funzioni. Le due cose a un tempo.

Come dovrebbe esser chiaro da quanto sostenuto, quello che pensano e fanno tali personaggi risulta essere di fondamentale importanza per capire la realtà dei fatti, persino la cronaca quotidiana (politica e no) del mondo odierno, l'evoluzione dell'economia mondiale e delle relazioni internazionali. Infatti tutta la storia del sistema sociale attuale emerge comunque, spesso in modo drammatico, dalle loro azioni, dai loro progetti (spesso criminali) e dalle alleanze che detti soggetti stabiliscono tra loro (sovente con la mediazione dei loro servizi segreti e dei loro stati nazionali) per realizzare la loro agenda tesa all'egemonia e al dominio su scala locale (a livello cioè di singoli stati, di date regioni del globo e specifiche aree geografiche, non ultimo anche per il controllo più stretto possibile delle risorse finanziarie - leggi: Imf, Wb, ecc. -, dei traffici commerciali, ecc.) e planetaria (che è oggi, a quanto sembra di capire, il caso più frequente: si veda ad esempio il documento - non a caso proveniente da un think-thank della destra statunitense molto vicino a Bush - intitolato Rebuilting American's Defenses).

Tutto ciò è di somma importanza per comprendere l'eventuale andamento delle cose, per impostare un'analisi ragionata degli eventi, per decifrare le tendenze dei processi in corso, i possibili esiti dei conflitti e delle loro poste in gioco, le mosse dei protagonisti e i probabili sviluppi futuri della situazione. Se ad esempio si vuol veramente capire cosa sia successo l'undici settembre a New York è inutile scomodare Marx (e come sarebbe possibile?): verosimilmente bisognerà far riferimento ad altre fonti per scoprire gli scenari nascosti, le sorde lotte (delle quali, tra l'altro, sappiamo ben poco) in corso tra i vari paesi, dominanti e no, del capitalismo internazionale, e così via. E probabilmente niente meglio dei materiali (studi, documenti, testimonianze, ecc.) provenienti dagli ambienti bene informati dell'establishment culturale dominante sembra metterci in grado di poterlo fare. Solo che detti materiali, per poter acquisire tutto il loro rilievo documentale e svelare così, oltre i dettagli del singolo caso, anche lo sfondo all'interno del quale si stagliano, debbono essere ricompresi entro una teoria che ne spieghi le ragioni di fondo che ne hanno generato la nascita (in un determinato modo, e non altrimenti). I fatti ricostruiti e spiegati secondo la loro logica (politico-economica, nella fattispecie) sono in questo caso precisamente i colori e le forme geometriche del quadro la cui essenza è rappresentata dalla cornice.

Certamente, si potrebbe anche ipotizzare una spiegazione degli eventi esclusivamente basata sui dati esistenti, così come ad esempio è stato fatto in maniera eccellente in Italia per il "caso Moro" da Sergio Flamigni. Naturalmente, per poter far questo non è necessario essere marxisti. Sarebbe sufficiente interpretare le relazioni intersoggettive, e i legami sociali più in generale, come rapporti di dominio, in cui il potere dei dominanti usa qualunque mezzo - dal diritto alla forza pura e semplice, diretta o covered, dall'egemonia politica alla repressione legale - per garantirsi la propria riproduzione nel contesto della accanita competizione tra le diverse formazioni economico-sociali odierne e le loro aree d'influenza. Per condurre in porto una simile impresa, è indispensabile soltanto essere persone intelligenti e disporre di buone fonti informative (due requisiti che, pur essendo obbligatori, molto spesso non camminano insieme). Se vi si riuscisse, la cosa sarebbe già degna d'encomio. D'altro canto, una simile impresa, poiché dovrebbe centrare il proprio fondamentale criterio d'analisi sui rapporti di potere e i loro mille volti (criteri che implicano una preventiva interpretazione della storia umana come una successione d'imperi o di grandi potenze), si troverebbe ben presto di fronte agli stessi paradossi che hanno a lungo afflitto l'interpretazione marxista tradizionale. Questi ultimi sono troppo noti per insistervi oltre (pessimismo antropologico, inevitabilità del dominio, filosofie della storia di vario tipo, divieto di poter distinguere il tutto dalle sue parti, e così via: tutte versioni diverse, a ben vedere, di una forma tautologica di pensiero). Per andare oltre le impasse insite nell'impostazione fondata sulle finalità di dominio e sull'agire politico dei soggetti in conflitto - o in cooperazione occasionale, oppure opportunistica (esigenze tattiche, convenienze del momento, ecc.) -è allora indispensabile ripensare a Marx e alle categorie più sofisticate ch'egli ci ha consegnato.

L'impero del capitale tramite l'agire politico-razionale degli individui s'impone infatti in maniera sottile, instaurando insieme alla sua realizzazione anche una sua schermatura originale e potente, avente lo scopo d'impedire ogni irruzione della ragione critica degli individui nel suo motore riproduttivo più profondo. Si è visto infatti che il capitale, nella sua veste di «principio determinante» della società, fa nascere dei soggetti contemporanei che, oltre a generare la storia interna dei loro sistemi sociali (e dunque la complessità événementielle del loro contorno societario), ragionano tramite un intelletto infondato che li inchioda alla loro apparente (e anche abbagliante, in questo caso) autodeterminazione politica. La mediazione che genera questo meccanismo di rappresentazione della soggettività, e la cui resilienza e impenetrabilità concettuale è pari a quella della razionalità scientifica materializzatasi nei sistemi di macchine e nella loro oggettività tecnologica, è la fonte prima si può dire che spiega tanto il modo in cui il capitale si protegge da ogni ingerenza della consapevolezza dei singoli, da ogni virtuale o reale comprensione da parte degli individui, quanto perché non sia possibile ridurre tutto all'agire politico delle classi sociali e ai loro intenti di dominio.

Benché il soggetto sia soltanto la personificazione attiva delle tendenze riproduttive più interne del capitale, questa sua condizione per converso è proprio ciò che, da una parte, gli permette, lo si è visto, di originare la complessità storica crescente del proprio contesto societario, dall'altra, gli proibisce - e deve proibirgli, giacché è questo divieto che rappresenta per il capitale una legittimazione formidabile - di poter comprendere la natura derivata e di secondo livello della sua imperante autodeterminazione (che finisce col godere così di una protezione e di uno status specifico e privilegiato).

La superiorità esplicativa del punto di vista inferito da Marx ha così tre grossi punti di vantaggio rispetto ai paradigmi rivali, marxisti e no. In primo luogo, è in grado di spiegare l'interdipendenza e la complessità crescenti delle società contemporanee, la loro dinamica evolutiva (con connesse mutazioni genetiche di tipo sociale) e la proliferazione di novità (inattese e pianificate) che avviene al loro interno. Insomma, possiede un suo criterio specifico tramite cui rendersi intelligibile il divenire del sistema. In secondo luogo, non ha alcun bisogno d'identificare i legami sociali o le relazioni interpersonali con rapporti di dominio, cosa che ha sempre finito col ridurre tutta la storia contemporanea alla costitutiva variabilità e imprevedibilità di questi mutevoli sistemi di potere, tra l'altro supponendo sia che essi esaurissero tutta la realtà storica empirica o fossero l'unica cosa da osservare nel mondo sociale, sia che essi fossero portatori d'un destino delle società umane al quale era inutile tentare di sottrarsi, ma che al più si poteva provare ad addomesticare (col diritto, la politica, la religione, ecc.). Al contrario, si è provato che tali multiformi rapporti intersoggettivi - con tutto il loro variegato corredo d'istituzioni simboliche e politico-ideologiche: dai "grandi mezzi" dello stato al potere a prima vista onnideterminante della logica strumentale e giuridica -, hanno la loro causa in un differente fondamento, che in essi si esprime e si rappresenta come nel proprio migliore milieu. Infine, l'interpretazione in causa ha portato alla luce anche il potente processo di mediazione che avvolge detto mondo interpersonale entro una legittimazione invalicabile, spiegando in tal modo anche perché ai soggetti che lo abitano sia impossibile uscirne fuori. Marx, cioè, ci mette in grado sia di rivelare il carattere dipendente dell'apparente autodeterminazione dei singoli, sia di comprendere quale tipo di schermatura altamente sofisticata protegga tale coriacea autoreferenza. Le due cose in una. A guardia dei suoi confini, si può ben dire, stanno custodi ben più inflessibili di quelli del castello kafkiano. Quelli del capitale infatti non sono visibili, e in ultima analisi nemmeno pensabili da parte degli individui.

Il potere del capitale, a ben vedere, s'incorpora nell'autodeterminazione dei soggetti e con ciò vi sparisce, vi si dissolve, realizzando al massimo grado - cioè nella maniera più sofisticata possibile - il loro assoggettamento a una specifica causa. Detti soggetti, a loro volta, rendono ulteriormente più stratificato e complicato questo primo livello di realtà (fatto di dipendenza e relativa autonomia insieme) non appena danno forma alla società civile e alle sue più tipiche istituzioni. È infatti in quest'ambito, contestualmente all'insorgere dei grandi miti del capitalismo contemporaneo (la tecnica, il determinismo tecnologico classico, la razionalità strumentale, e quant'altro), che economia, egemonia, politica, diritto, stato (con i suoi servizi segreti, gli arcana imperii e in genere tutto il vasto armamentario dello spionaggio illegale, crimine politico compreso) fanno nascere i complessi e interdipendenti sottosistemi di quel mondo d'insieme in cui vivono e pensano gli attori sociali. Ed è questo loro multiforme intelletto, preformato in origine dal capitale stesso, a generare dal proprio seno quella selva di contesti e di azioni intenzionali in cui così spesso i soggetti possono a giusto titolo dire che "la retta via era smarrita".

Senza la distinzione di Marx non sarebbe in alcun modo possibile portare un po' di ordine in questo labirinto. Tutto vi sembra infatti l'effetto, diretto o indiretto, del loro agire secondo ragione, seguendo intenti e piani finalizzati al conseguimento di dati scopi. Nessun altro fondamento appare essere alla base del loro mondo interpersonale. Allo stesso modo, però, non esiste alcun altro sostrato capace di legittimare o di rendere logicamente difendibile, argomentativamente coerente, il loro presupposto carattere fattuale: il potere si basa su se stesso (Schmitt), la razionalità coincide con la logica strumentale (Weber), il diritto si giustifica con la Grundnorm (Kelsen), il mercato s'identifica con la sua razionalità ex post (la "mano invisibile" di Smith), la legittimità rispecchia "principi universali" (Bobbio), il mondo combacia con se stesso (Wittgenstein). Infine, dice Marx, completando quella ideale galleria di ritratti concettuali, "il fondamento della politica è la volontà [der Grund der Politik ist der Wille]".

In effetti, tra tutti i paradigmi elaborati dal pensiero grande borghese moderno, nel Novecento in particolare, non v'è nemmeno uno che riesca a sottrarsi alla logica circolare, vero virtuosismo tautologico d'alta scuola, insita in tutte quelle premesse. I dati e i fatti dell'empirico, qui anche nelle vesti di principi teorici (giacché è un fatto che tutte quelle categorie esistano), saranno pure dei presupposti del pensare, le condizioni "oggettive" della conoscenza, ma non v'è modo di risolvere i rompicapo a cui essi danno luogo una volta che si tratti di spiegare la loro fonte. Ognuno di essi s'infila infatti ogni volta in un'assunzione analitica, in un postulato della mente, prendendo poi le mosse da queste premesse, abilmente ipostatizzate in un dato di fatto, per sviluppare le proprie interpretazioni, pretendendo di poter dedurre da un'idea regolati-va di natura convenzionale l'intero corso delle cose (della società e del sapere, il quale ultimo, si noti il paradosso, viene inferito o costruito a partire da un oggetto ignoto). E così il principio di non contraddizione, il supremo criterio di significanza di ogni discorso, viene violato per primo proprio da quel pensiero occidentale che l'aveva eletto a pietra di paragone del carattere eccellente del suo logos (o della propria innata vocazione razionale).

5. Le tendenze del pensiero scientifico contemporaneo e la riproduzione del capitale: una relazione d'immanenza

La doppia struttura della realtà sociale, istituitasi per la prima volta col capitale, deve la sua nascita, lo si è visto, ai sistemi di macchine con i quali si è concluso il processo di sussunzione. Gli apparati tecnologici che reggono adesso l'erogazione dell'attività lavorativa - la sua organizzazione, la sua gerarchia - d'altro canto non sono altro che scienza oggettivata, materializzatasi in un complesso dispositivo macchinico.

Una volta incorporato nella produzione, il pensiero scientifico vi svolge una duplice mediazione. Da una parte, dà origine ai sistemi di macchine che forniscono al processo produttivo una «ossatura oggettiva». Si rende responsabile così della famosa oggettivazione. Dall'altra, genera allo stesso tempo quella personificazione delle funzioni che attribuisce coscienza e volontà a ciascun soggetto, dettandogli i suoi compiti, cosa che è l'atto di nascita dell'autodeterminazione. È all'interno di questo contesto derivato e preformato che in un secondo tempo la direzione d'impresa seleziona tra quei dati sistemi tecnologici al momento disponibili quelli più adatti ai suoi scopi e che meglio convengono coi suoi fini (che sono in genere due: disciplinamento della forza lavoro finalizzato alla maggiore estrazione possibile di plusvalore, competizione con le altre imprese nell'ambito delle migliori condizioni possibili - che sono finanziarie, produttive, di mercato, ecc. - di partenza, condizioni che sono del resto in ciclico riequilibrio e ridefinizione).

L'elemento fondamentale di tutto il processo, come si è più volte sottolineato, è ovviamente la ragione scientifica, giacché è proprio questa che conferisce alla tecnologia quella avalutatività con cui essa si è sempre rappresentata la propria attività conoscitiva. La scienza che entra nei processi di lavoro attraverso i sistemi di macchine riversa in questi ultimi lo stesso tratto atemporale o indifferente ai valori del proprio intrinseco pensiero formale, e così facendo trasforma la realizzazione della produzione in un mero fatto di natura, in una indistinzione di processo lavorativo e processo di valorizzazione. A questo punto, spiega Marx, il capitale «è quindi una cosa determinata tecnologicamente. Con ciò è cancellato proprio quello che lo rende capitale».

La razionalità scientifica, in ultima analisi, per un verso, rende conto dell'intrinseca metamorfosi della valorizzazione in una semplice attività produttiva in cui si trasformano soltanto valori d'uso o manufatti (cognitivi oltre che materiali). Per l'altro verso, si rende responsabile tanto della struttura gerarchica imperante nell'ambito dei processi di lavoro e discendente dalla natura scientifica della produzione, quanto della nascita dell'intelletto infondato degli individui, che a sua volta è all'origine delle mutevoli relazioni di potere intercorrenti tra detti soggetti. Da questo punto di vista, l'ordine gerarchico delle funzioni e dei ruoli occupati da questi ultimi è duplice. Il primo, quello derivante dalla natura tecnologica dei sistemi di macchine, si presenta con tutti i crismi della scientificità e della razionalità e possiede dunque un profilo impersonale e bello e pronto. Dati sistemi di macchine possono funzionare soltanto in maniera conforme ai principi scientifici che incorporano. Non è ammesso alcun altro loro uso razionale. Finora non si è mai visto fare di un computer un forno a microonde. Questo primo ordine definisce dunque il ventaglio dei vincoli all'interno del quale l'altro può affondare le sue radici. Il secondo, infatti, prende la forma delle relazioni intersoggettive rette da una logica politico-ideologica o intenzional-volontaria che permette una più ampia deformabilità del loro reticolo, con conseguenti periodiche variazioni dei rapporti di forza (contrattuali, sindacali, monetari, ecc.) tra i diversi contendenti: le classi sociali specifiche di questo modo di produzione determinato.

Naturalmente, v'è comunque un limite prefissato alla elasticità e alla tolleranza intrinseca di detto reticolo, giacché esso deve tener conto dei vincoli fissati dalla natura scientifica della tecnologia di volta a volta data. Inoltre, mentre quello conflittuale e dell'affrontamento interpersonale rappresenta un campo d'azione e un'organizzazione di potere relativa, condizionata dalla cornice in cui si trova inscritta, la gerarchia discendente dalla sua fonte scientifica, dal personale che incarna il sapere concentrato nei sistemi di macchine, gode di una sorta di primato concettuale rispetto al suo correlativo. Benché siano interdipendenti, i due ordini non sono alla pari né posseggono identica natura. L'uno è politico e conflittuale, dunque occasionale e variabile, l'altro è scientifico e oggettivo, connaturato alla stessa identità impersonale del pensiero da cui deriva.

Se le cose stanno così, se veramente la razionalità scientifica, nel lungo e complesso processo di transizione che tramite la sussunzione ha portato alla nascita del modo di produzione capitalistico, si rende responsabile dei fenomeni descritti, è possibile spiegarne e dimostrarne l'implicazione nella riproduzione capitalistica? Ammesso che la scienza, attraverso i sistemi di macchine, con quel che ne consegue, costituisca il fondamento della valorizzazione del capitale, dell'attuale forma gerarchica complessa dell'attività lavorativa, è poi ipotizzabile poter dimostrare mediante quali attributi specifici vi si trovi implicata?

Si potrebbe persino porsi una domanda ancor più radicale: è criticabile la sofisticata oggettività del pensiero scientifico? È possibile dimostrare che esso non rappresenta una ragione atemporale, bensì un sistema di conoscenza la cui interna forma logica alberga tratti caratteristici di questa formazione sociale?

È nostra convinzione che ciò sia possibile, e benché possa sembrare un'impresa disperata, visto l'immenso e ponderoso stock di sapere accumulato dalla scienza moderna nel corso della sua formazione storica, vale la pena provare. La posta in gioco giustifica quest'atto insano. Con un'unica restrizione. Un solo oggetto occuperà la nostra discussione, e precisamente il rapporto mente-mondo nei modelli epistemologici elaborati dagli stessi scienziati.

Poiché una dimostrazione analitica e testi alla mano di questi intenti ci porterebbe troppo lontano, è preferibile delineare una sintesi ideale, un modello schematico ma crediamo non semplicistico, del complesso processo di formazione del paradigma scientifico in questione. In effetti, sin dai primi decenni dell'Ottocento, in piena epoca induttiva e positivistica, venivano emergendo con nuovo slancio e impeto delle tendenze epistemologiche insite nello stesso modello newtoniano di ragione. Benché l'insistenza sui fatti e i dati d'esperienza quali unici oggetti della ricerca scientifica - «solo i fenomeni interessano lo scienziato», aveva dichiarato Newton - sembrasse dettare le regole di ogni retto pensare, diventa ben presto chiaro che il realismo implicito in tali posizioni non era poi così basilare. La credenza e persino la fede nell'esistenza di un mondo fisico oggettivo, indipendente dall'osservatore ed esterno alla sua mente, comincia a vacillare - o almeno in tal modo ci appaiono oggi le cose - non appena si è costretti ad assumere, come nel caso di Newton, la creazione da parte di Dio dell'ordine legiforme della natura. La forma stipulativa di questa razionalità legisimile, che più tardi Planck chiamerà il «dogma» basilare della scienza moderna, trasformerà ben presto la prima caratteristica che era stata tradizionalmente attribuita alla realtà. Se infatti è l'osservatore a presupporre l'esistenza di quell'ordine intrinseco delle cose, non si potrà più dire che il mondo fisico esista anteriormente alla mente che pensa o indipendentemente da questa. Di fatto, non appena ci si è resi conto del profilo convenzionale di quell'assunto, si è dovuto per forza di cose dedurne la codipendenza dei due termini. Soggetto e oggetto sono così divenuti termini correlativi e in coevoluzione. La natura esiste in parallelo alla mente che la pensa. D'altro canto, non appena si è divenuti consapevoli, già con William Whewell, del fatto che ogni nostra percezione implica un atto cognitivo, è caduta anche la presupposizione che il mondo reale fosse esterno alla mente. La natura diventava così un contesto sensorio semplicemente distinto dal nostro intelletto: né veniva ridotta a una creazione del pensiero umano né s'identificava con questo.

Questi due mutamenti epistemologici, il cui processo di realizzazione non è tuttavia descrivibile come una linea retta, hanno naturalmente indotto una revisione profonda del vecchio realismo. Se il mondo fisico non è più esterno alla mente né a questa preesistente, esso viene ancora tuttavia pensato in maniera oggettiva, come se fosse un fondamento empirico comunque diverso dalla nostra attività cognitiva. Se tale substrato non rappresenta più quel saldo suolo dell'esperienza dal quale poter inferire, tramite le osservazioni, ipotesi esplicative e mediante cui poter verificare le teorie, esso viene tuttavia pensato come la cartina di tornasole delle nostre spiegazioni dei fenomeni, la pietra di paragone attraverso cui poter controllare la loro efficacia predittiva.

Anche da queste prime annotazioni, è evidente il cambiamento di prospettiva, e persino l'inversione del precedente rapporto. Mentre prima si presumeva che il lavoro degli scienziati avesse come proprio fine la scoperta di leggi e regolarità naturali, adesso la conoscenza scientifica prima di tutto controlla se stessa - vale a dire, accerta la propria validità o meno - usando il mondo fisico come termine di paragone per poter valutare la propria esattezza. Mentre in precedenza la natura era la fonte del sapere e la base empirica che lo verificava, nel nuovo paradigma essa può solo corroborare o eventualmente confutare un dato sistema di concetti nato all'interno del nostro pensiero. In ogni caso, ciò che eventualmente cambia e si trasforma, si rettifica e cresce sono soltanto i processi di conoscenza elaborati e attivati dall'osservatore, inventati dall'attività congetturale della mente e poi, in un momento successivo, sottoposti ad accertamento. Anche se si continua ad attribuire alla materia un certo qual ruolo di giudice ultimo delle nostre teorizzazioni, è comunque evidente che la sua originaria funzione è stata ormai in gran parte modificata. Il realismo delle origini è ormai divenuto qualcos'altro.

D'altro canto, non appena un'altra soglia verrà varcata, il mutamento diverrà ancor più esplicito. Non appena si sosterrà infatti che prima del confronto con il reale le teorie mutano in presenza di spiegazioni avverse, nella controversia e nella disputa con punti di vista differenti o alternativi, il ridimensionamento della vecchia impostazione potrà dirsi pressoché completo. Dopo questo ulteriore passo in avanti, o fuori della ragione classica, infatti, il primato concettuale dei paradigmi, la loro validità (compresi i loro criteri di controllo) e persino la loro dinamica verranno a dipendere dalla, o finiranno col coincidere di fatto colla sola attività cognitiva dell'osservatore. Il convenzionalismo della conoscenza, in cui tutto - nascita, crescita, trasformazione ed eventuale tramonto di un dato sapere - avviene all'interno della mente (concezione in cui ai fenomeni empirici viene demandata soltanto una funzione notarile, per così dire), anche se a prima vista non cancella la rilevanza diciamo ontologica del mondo fisico, ne ridimensiona comunque drasticamente funzione e peso iniziali. D'altro canto, questi mutamenti hanno innescato delle tendenze difficilmente controllabili da parte della comunità scientifica. Se persino un fisico della caratura di Erwin Schrodinger arriverà a sostenere la natura ipotetica della materia, si può bene immaginare quali ulteriori scatti fossero in agguato nell'ambito della mutazione epistemologica qui riassunta. L'irruzione dell'osservatore nel mondo apparentemente impersonale della conoscenza oggettiva conteneva in nuce, in effetti, tutti quanti gli sviluppi successivi del pensiero scientifico attuale. Dagli esiti descritti a quelli odierni il passo era davvero breve. Ed è stato compiuto.

Mentre nel paradigma convenzionalista emergente il mondo fisico, benché non più esterno né indipendente dal soggetto, rimaneva bene o male distinto come non pensiero dal nostro intelletto, nelle ultime e più estreme versioni della conoscenza costruttivista la natura non svolge più alcuna funzione - nemmeno passiva - nella genesi, definizione, convalida e continua trasformazione del nostro sapere. Il modello autopoietico della cognizione fa infatti riferimento a un processo conoscitivo che descrive una parabola circolare e ricorsiva avente la forma di una spirale con le sue uniche radici nella mente. L'aspetto paradossale di questa concezione sta tutto nel fatto che essa, pur presupponendo l'esistenza di un substrato o fondamento biofisico del nostro pensiero, non gli fa svolgere alcuna funzione nella genesi della conoscenza. Tale ambiente può tutt'al più innescare in un dato organismo delle "perturbazioni" o percezioni sensoriali che verranno comunque esperite, portate alla coscienza e ordinate razionalmente - vale a dire, tenute sotto controllo e dominate, integrate e tradotte in prassi - esclusivamente dall'attività cognitiva dell'osservatore. Da questo punto di vista, come spiega Marturana, «nulla esiste al di fuori delle sue descrizioni» concettuali. Il mondo, la natura, le molecole, gli atomi, l'universo intero e persino la società sono solo oggetti costruiti dalle nostre spiegazioni. E così "tutte le cose sono entità cognitive": «tutto è cognitivo».

Il lato più sorprendente di tale costruttivismo radicale è duplice. Da una parte, infatti, l'eliminazione dell'oggettività scientifica da parte dell'integrale forma soggettiva della conoscenza non costituisce per questa impostazione motivo di particolare cruccio. Mentre per la ragione classica l'ingombrante presenza e incombenza dell'osservatore rappresentava una crux da evitare o esorcizzare, come ha detto Popper, ad ogni costo, il paradigma in causa ne fa il leitmotiv della sua argomentazione, deducendo dalle origini biologiche della nostra conoscenza la sola realtà che conta. Il mondo rappresentato e quello pensato sono qui la stessa cosa, e la genesi soggettiva della nostra cognizione è precisamente ciò che fa della scienza un'impresa integralmente umana.

Dall'altra parte, con logica consequenzialità, nell'ambito del modello autopoietico anche la società viene vista nascere dalla prassi cognitiva degli individui. Sono infatti i singoli osservatori a creare il loro dominio d'interazione, le relazioni comunitarie consensuali nelle quali vivere, e poiché esiste una pluralità di sistemi viventi possono nascere tanti mondi quanti sono gli esseri umani svolgenti la loro prassi, che operano delle distinzioni nell'ambito di uno sfondo e dunque costruiscono e costituiscono le loro interrelazioni comunicative. Nonché essere creato da loro stessi, il sistema sociale degli osservatori rappresenta un multiverso cognitivo, come spiega Humberto Marturana, «aperto ad ogni corso storico che noi si possa immaginare». Ecco perché, conclusivamente, «tutto è responsabilità dell'uomo». Si potrebbe dire la stessa cosa con le parole di Francisco Varela: «l'atto del comunicare non si traduce in un transfert d'informazione dal mittente al destinatario, ma piuttosto tramite il reciproco dar forma a un mondo comune per mezzo di un'azione congiunta. È la nostra realizzazione sociale, attraverso la comunicazione, che dà vita al nostro mondo».

Non vi è chi non veda la novità epistemologica di queste tesi. Di fatto, l'autopoiesi costituisce il culmine di quel lungo processo cominciato con la messa in discussione dell'induttivismo. È vero che l'appello ai fatti d'esperienza e all'osservazione diretta dei fenomeni aveva avuto inizialmente la funzione di distinguere il discorso scientifico da ogni forma di ragionamento speculativo, da qualsivoglia discorso metafisico (il sovrannaturale, le cause occulte, ecc.). E tuttavia questi intenti avevano ben presto evidenziato altre e ben più prepotenti propensioni. Infatti, sin dall'epoca della sua formazione il pensiero scientifico aveva difeso la sua indifferenza ai valori e la sua indipendenza dal potere attraverso l'oggettività del conoscere, la sua presunta natura avalutativa (che rappresentava soltanto una spiegazione razionale della forma legisimile della materia), paradigma in cui l'osservatore (vale a dire, la sua fede, la sua cultura privata, la sua passione politica, le sue idiosincrasie personali, ecc.) veniva tenuto rigorosamente al di fuori di tutto il processo di conoscenza. Con i suoi sviluppi successivi, e significativamente con la nascita del costruttivismo contemporaneo, i fini originari si sono metamorfosati nel primato cognitivo del soggetto, che non solo libera l'autoreferenza della mente da ogni impronta estranea o condizionamento societario, e in particolar modo da ogni preformazione, ma addirittura fa scaturire l'intera società e il complesso delle interazioni/interrelazioni individuali dalla libera attività creativa del pensiero.

Mentre in tutta la ragione classica dominava una conoscenza senza l'osservatore, nei modelli epistemologici più recenti, al contrario, il soggetto conoscente fa parte integrante dei processi cognitivi e costituisce nel contempo l'unica fonte di tutto il nostro sapere. Ciò che prima si era tentato di conseguire tramite quello che si potrebbe chiamare un divieto antropocentrico, ora viene ottenuto, e alla massima potenza, dall'integrale inclusione dell'osservatore nelle sue descrizioni o sistemi concettuali, fino alla completa identificazione dei due termini.

Potenzialmente questi esiti sembrerebbero rendere pressoché irrappresentabile, e probabilmente nemmeno pensabile, ogni correlazione intrinseca tra la scienza e il capitale. Il programma originario del pensiero scientifico si troverebbe così realizzato proprio da quell'approccio che a prima vista sembrava negarlo. Se infatti la razionalità scientifica si presenta alla propria autocoscienza attraverso i caratteri che si son visti, ovviamente diventa per essa impossibile poter ipotizzare qualunque natura preformata dei propri presupposti. Un'idea simile per essa semplicemente non ha senso. Lo spinto convenzionalismo costruttivista dell'autopoiesi distrugge sì ogni residuo d'oggettivismo, ma nel contempo realizza nella maniera migliore e più completa possibile l'indipendenza di principio della scienza da ogni tempo e luogo - per Marturana, ad esempio, le teorie scientifiche emergono nella nostra mente «out of nowhere» -, da qualsiasi vincolo sociale (che da questo momento in poi, al massimo, per altri punti di vista, si può far valere solo a posteriori, o al più nei fini che possono venir imposti alla ricerca).

Il paradigma scientifico in causa, come si sarà capito, rappresenta una sfida teorica fondamentale, come tutta la scienza naturalmente, per ogni marxismo critico interessato a spiegare le origini sociali del sapere. In primo luogo, perché esso, a prima vista, rende la conoscenza un processo cognitivo completamente autosufficiente, senza alcun legame - né interno né esterno - col modo di produzione capitalistico e neppure in generale con qualsivoglia cornice circostante. In secondo luogo, perché comunque l'autopoiesi fa derivare la società dall'agire cognitivo degli individui e dai contesti interpersonali che questi costruiscono e definiscono, o fanno emergere dalle loro molteplici interazioni nel corso della loro vita. Qui non v'è più posto alcuno per Marx né per qualsivoglia variante del marxismo storico, giacché tutte le categorie più importanti di entrambi - dal primato dell'essere sociale ai rapporti di potere insiti nel mondo sociale - vengono letteralmente spazzate via dalla logica ricorsiva in questione. La si può ignorare? Si può far finta che non esista e tirare dritto per la propria strada? Ovviamente no. Soprattutto perché il modello epistemologico in questione, a guardare meglio e più in profondità, come dovrebbe risultare chiaro da quanto detto in precedenza, rivela o svela un'impressionante analogia o parallelismo con la logica dell'intelletto soggettivo dominante negli affari sociali e nella forma di sistema assunta dalla società contemporanea. L'autopoiesi, in altre parole, sembra il fedele specchio scientifico del modo in cui i diversi soggetti sociali ragionano - pensano e agiscono -nell'ambito della società odierna: identificandosi totalmente con la loro mente autoreferente (e che assume poi veste politica, economica, ecc.).

Se questo è vero, e se come sappiamo la ragione infondata degli agenti sociali è la mediazione principe che il modo di produzione capitalistico ha istituito per potersi riprodurre in maniera impersonale attraverso l'agire consapevole dei diversi soggetti, allora il principio autopoietico sembra davvero costituire la cartina di tornasole - inerente questa volta al pensiero scientifico - di quella forma mentis ricorsiva (a sé stante e già data o di tipo naturale) che il capitale ha posto alla base dell'intero universo concettuale degli individui. Proprio il paradigma che aspira a rappresentare la punta più sofisticata della razionalità scientifica attuale, sembra dunque provare, nel mentre concepisce se stesso e tende a presentarsi agli altri osservatori come un sistema cognitivo essenzialmente senza tempo né causa, la natura preformata delle proprie categorie più essenziali. Invece di apparire, com'era nelle intenzioni dei suoi esponenti più intelligenti e com'è in definitiva nel codice genetico della scienza in generale, come un sapere indifferente al dominio e in grado esso stesso di produrre contorni istituzionali o societari per i molteplici soggetti cognitivi che calcano la scena etico-politica attuale, l'autopoiesi scopre piuttosto d'essere implicata nelle modalità riproduttive di una specifica, e storicamente determinata, formazione sociale di cui esprime in definitiva, certo con idee complesse e sofisticate oltremodo interessanti e di cui è indispensabile tener conto, la logica più interna e sostanzialmente invisibile. La sua concezione, in altri termini, proprio per la sua stretta parentela epistemologica con l'intelletto autoreferente dei soggetti sociali in quanto personificazioni del capitale e suoi funzionari, ci apre una strada d'accesso privilegiata alla comprensione e relativa conseguente spiegazione delle sottili e sotterranee vie attraverso cui quest'ultimo sembra aver predeterminato anche quel pensiero scientifico che ancora oggi una parte degli stessi scienziati vorrebbe rappresentarsi come pura conoscenza formale soltanto del mondo fisico.

Naturalmente, le metamorfosi della ragione scientifica di cui si è discusso non costituiscono, come già detto, una linea retta, né sono, ovviamente, prive di sfumature, molto spesso sottili. D'altra parte, i processi teorici che hanno portato agli esiti attuali son ben lungi dall'essere conclusi. Esistono ancora differenti scuole di pensiero in competizione tra loro e la disputa concettuale tra i diversi paradigmi scientifici sembra destinata a durare a lungo, con svolte, fughe in avanti, stalli e ritorni indietro che continuano ancor oggi. La storia interna del pensiero scientifico è tutto meno che il mare tranquillitatis della conoscenza disinteressata. Realismo non metafisico e convenzionalismo, autopoiesi e réel voilé, per dirla con Bernard d'Espagnat, e per citare solo alcuni esempi, rappresentano a tutt'oggi delle alternative che ancora si contendono il primato epistemologico nell'ambito della "communauté savante" odierna. La cosa importante, ci sembra, è cogliere in questa sofisticata e complessa disputa tra punti di vista differenti quelle tendenze concettuali che meglio e più di tutto ci aiutano a comprendere il radicamento della scienza in questa società e in particolare nei meccanismi riproduttivi del capitale. D'altro canto, come ha ben spiegato lo stesso d'Espagnat, se si vuol veramente capire la logica più sottile della scienza «il est nécessaire de la voir de l'intérieur».

Tuttavia, se gli aspetti della razionalità scientifica messi in luce - in sintesi: l'autoreferenza della mente, la liquidazione di ogni suo legame intrinseco col potere del capitale, e persino l'inversione di questo rapporto - mostrano i poco visibili nessi che la correlano al «principio determinante» della società contemporanea, nello stesso tempo è indubbio il fatto che molti concetti scientifici si sono riversati in maniera complessa nell'interpretazione di Marx. Praticamente, non v'è categoria del Capitale che, in un modo o nell'altro, non rechi l'impronta lasciatavi dal pensiero scientifico della sua epoca. Le complesse idee elaborate dalla scienza di allora permettono infatti a Marx di rendere intelligibili la maggior parte dei fenomeni sociali rilevanti del suo tempo, così come del resto contribuiscono a rendere estremamente sofisticato il suo paradigma teorico. Se i caratteri suesposti del pensiero scientifico rivelano il loro sottile legame con la dinamica specifica del modo di produzione capitalistico, in pari tempo tuttavia determinate categorie di tale pensiero rappresentano la fonte concettuale primaria della spiegazione che Marx ci ha dato dei meccanismi riproduttivi più complessi e interni del capitale stesso.

D'altro canto, v'è da dire che quando il marxismo storico - diciamo da Engels, via Lenin, ad Althusser e Bhaskar - si è incontrato con la storia interna e gli approdi epistemologici odierni della razionalità scientifica o li ha fraintesi oppure li ha semplicemente ignorati, andando a parare in entrambi i casi in una clamorosa incomprensione delle sue tendenze. La cosa è provata non solo dal fatto che esso sa ben poco dei mutamenti epistemologici attraversati dalla scienza nel corso del suo sviluppo almeno a partire dall'epoca newtoniana, ma anche dal fatto che esso non ha mai compreso quali effetti teorici demolitori il convenzionalismo costruttivista - quello stesso che vieta di pensare la natura preformata della scienza e in pari tempo conferma la sua implicazione nel processo riproduttivo del capitale - introducesse nella sua interpretazione della storia sociale e della conoscenza concettuale. Se infatti per la scienza non esiste più alcun mondo esterno e oggettivo, da sempre già dato e indipendente dall'osservatore, se la natura può al massimo convalidare o meno i nostri sistemi d'idee, se infine la sua esistenza non viene vista svolgere più alcuna funzione nella costruzione del sapere, fino a svanire nel regno delle cose indispensabili ma non necessarie (uno status in cui a suo tempo già l'aveva relegata Kant), è ovvio, segue logicamente da questi stessi risultati l'impossibilità di poter presupporre qualsivoglia cornice indipendente a cui poter ancorare l'agire intenzionale dei soggetti. Tutto ciò ci costringe a un altro radicale cambiamento di prospettiva nel campo dell'analisi della società.

6. Tutta la conoscenza della realtà sociale ha origini concettuali: non possiede né un fondamento storico né un contesto oggettivo di riferimento

Se le cose stanno come si è detto, allora né i singoli individui, né i loro effetti istituzionali o concrezioni materiali: i diversi sottosistemi e le logiche dominanti al loro interno, una volta tramontato ogni fondamento ontologico della realtà, possono più aspirare a rappresentarsi la loro prassi d'insieme come se essa fosse raffrontabile a un sistema impersonale di riferimento, sia questo la storia o il tutto societario. In ogni caso, l'oggetto a cui gli agenti sociali si troverebbero confrontati sarebbe soltanto la loro prassi, un contesto costruito da loro stessi e non differente dalle loro volizioni politiche.

Il dissolvimento di quelle due condizioni, in cui tradizionalmente il marxismo costituito ha sempre affondato le sue radici teoriche, discende prima di tutto dal fatto che esse erano state inferite, per analogia, dal modo in cui la scienza, così si credeva, trattava i suoi presupposti. Se il mondo fisico era considerato un sostrato esistente fuori dell'osservatore e indipendente da questi, allo stesso modo la realtà empirica sociale poteva essere pensata - tanto che la si raffigurasse come sistema d'eventi passati, solidificatisi per così dire in uno stato di cose, quanto che la si rappresentasse come contesto circostante e ambiente incombente - in guisa di seconda natura già data e sostanzialmente esterna al soggetto cosciente.

D'altro canto, non avendo mai compreso appieno il complesso processo di formazione della ragione scientifica contemporanea, e in particolare le mutazioni concettuali che ne hanno segnato l'evoluzione novecentesca, il marxismo tradizionale (incluso quello odierno) non ha mai potuto rendersi conto del paradosso in cui s'infilava presupponendo come ancora validi principi regolativi che invece la scienza aveva via via abbandonato in favore di una visione ben più sofisticata dell'attività cognitiva della mente. Mentre la razionalità scientifica ne trasformava profondamente lo status concettuale, in parte semplicemente eliminandolo e sostituendolo con altri criteri, detto marxismo ha continuato a fare come se nulla fosse, seguitando a postularli come esistenti. Così facendo, tanto si è vietato da solo la comprensione delle novità epistemologiche emergenti, quanto si è trovato a rimorchio, in posizione subalterna, di un pensiero scientifico che s'allontanava alla velocità della luce dal suo raggio teorico d'azione. Il divorzio del marxismo storico e attuale dalla sofisticata logica interna alla scienza non avrebbe potuto essere più completo.

Del resto, la sua intrinseca problematicità e debolezza o fragilità concettuali non conseguono certo, come si sarà già capito, unicamente dalla natura apertamente contraddittoria di quelle due premesse. Benché sia già esiziale trovarsi confutati da quello stesso pensiero da cui si presumeva di poter trarre la propria legittimazione, non v'è dubbio che altri fattori ancora, insiti questa volta nel suo stesso discorso, contribuiscono a smantellare l'argomentazione basilare del paradigma in questione. L'assunzione infatti della storia ed eventualmente della fatticità quali oggettive cartine di tornasole della teoria - atte a confermare o smentire, tramite la concordanza, la sua attendibilità esplicativa - rivela infatti la sua insostenibilità anche per altre vie più interne. In primo luogo, infatti, l'origine concettuale della demarcazione in causa - la decisione di assumere una data configurazione di eventi, oppure un dato sistema di vincoli, quale ultimo fondamento o repère fondamentale o criterio di giudizio delle nostre teorizzazioni - non ci consente affatto di poter considerare oggettive le istanze da essa designate. Se lo si facesse, come ha sempre fatto il marxismo storico, ci si infilerebbe infatti da soli in un'insanabile contraddizione logica, giacché si dovrebbe presupporre a un tempo la natura convenzionale e impersonale di quelle entità, cosa che non può essere. D'altro canto, se le si leggesse in guisa di contesti empirici esistenti di fatto, e in questa forma ininten-zionali o sovrapersonali, non si farebbe un passo fuori dall'impasse, giacché anche in questo caso si trasformerebbe un ente semplicemente già dato o trovato bello e pronto - in definitiva ignoto o comunque non problematizzato - in un mondo ipostatizzato e trattato come premessa. Anche per questa via non si farebbe altro che aggirarsi in un circolo vizioso, entro un vicolo cieco che diventa poi un tunnel senza fine non appena si fa mente locale alle origini di quei due presupposti.

Tanto la storia quanto il sistema globale rappresentano infatti entrambi degli effetti complessi e indiretti dell'agire secondo ragione dei soggetti, la cui variegata e multiforme prassi consapevole si traduce pure in una serie d'istituzioni concrete (dallo stato al simbolico) che delimitano le loro forme di vita, recingendole entro steccati relativamente deformabili e adattabili al variare dei tempi. D'altra parte, poiché l'azione sociale di detti individui, comunque si guardi la cosa, ha per sua radice la loro attività cognitiva, i processi di conoscenza (politici, economici, ecc.) che essi attivano per rendersi intelligibile il loro ambiente e pianificare (programmare, controllare e prevedere) così i possibili esiti delle loro diverse attività, ecco che anche da questo punto di vista, e forse a maggior ragione, quei due criteri non fanno altro che rivelare la loro effettiva natura e rendere impossibile ogni loro reale distinzione di genere dalla mente razionale degli agenti sociali. Da qualunque angolo visuale si guardi la cosa, entrambi i contesti non riescono mai a differenziarsi dalla loro fonte e non possono così rappresentare alcun privilegiato termine di paragone per le nostre interpretazioni. Di per sé non possono in alcun modo dirci niente di specifico sul contenuto conoscitivo delle nostre spiegazioni: non possono né convalidarlo né invalidarlo.

Come se questi limiti già non bastassero, il paradigma in oggetto si vede messo in discussione anche per un'altra via, non meno micidiale del resto della precedente. Se infatti i soggetti sociali sono funzionari e personificazioni della riproduzione capitalistica, come è per Marx, meno che mai quello a cui mettono capo - sia questo un oggetto storico oppure l'insieme dei sottosistemi - può essere considerato in alcun modo indipendente dal loro pensiero (causa prima delle loro multiformi attività) o per natura distinto da questo. Sarebbe infatti come voler rendere completamente differente il vino dall'uva. Se lo si facesse, si trasformerebbero paradossalmente gli effetti indotti dall'attività consapevole degli individui, che di per sé sono solo un livello (e non certo il meno importante: basti pensare alla logica onnivora - vero e proprio «mondo senza spirito», secondo la pregnante definizione di Massimo Bontempelli - del nichilismo contemporaneo!) di realizzazione della dinamica più intrinseca del capitale, in un aggiuntivo e derivato contorno di secondo grado. Caso mai sarà la loro prassi complessiva e i risultati a cui essa mette capo a costituire l'effetto specifico della causa interna che attraverso essi si media. Ma allora si dovrebbe prima spiegare la differenza specifica esistente tra tali attori e il loro fondamento, cosa a sua volta resa impossibile dalla visione interpersonale dei rapporti di produzione che da sempre, si può dire, caratterizza l'impostazione del marxismo tradizionale. Proprio perché questo paradigma vieta, per sua propria essenza teorica, persino la formulazione di quella demarcazione, si è dovuti ricorrere alla finzione della storia e dell'intero circostante per introdurre surrettiziamente una qualche diversità tra i due ambiti.

Il marxismo storico, in altre parole, proprio perché non ha mai compreso la sofisticata spiegazione di Marx, ha dovuto forzatamente ricorrere a delle effimere demarcazioni, labili come il fumo, per tentare di differenziare in qualche maniera l'agire consapevole degli individui dalle modalità riproduttive del capitale. Per non ridurre tutto alla prassi soggettiva, e ricondurre ogni cosa a rapporti di dominio, si sono così trasformate quelle due cornici in impossibili cartine di tornasole della teoria, rendendo in tal modo la soluzione adottata peggiore persino del problema di partenza. Mentre infatti in Marx la storia del sistema e il tutto sociale rappresentano istanze discendenti dall'agire razionale dei soggetti, i quali sono a loro volta un effetto altamente specifico della dinamica interna del capitale, nel discorso in questione la natura derivata di dette istanze è stata paradossalmente mutata in un criterio oggettivo di verifica delle teorie, trasformando così completamente un elemento dipendente dalla sua causa nell'elemento costitutivo di una differenza reale, con un totale sovvertimento dell'effettiva relazione esistente tra i due termini. Ciò che in Marx è una categoria derivata di secondo livello, dunque un mondo doppiamente mediato, nella concezione tradizionale è stato trasformato in un fattore causale da cui sarebbe emerso un contorno oggettivo di riferimento distinto per di più dai soggetti.

Non vi è chi non veda l'assurdità di tale concezione. Non solo essa sviluppa un'argomentazione contraddittoria e illogica, ma soprattutto risulta essere distante mille miglia dalla sofisticata e complessa spiegazione data da Marx dei medesimi fenomeni, spiegazione che essa non comprende e alla quale è subalterna per tutte le ragioni presentate. Se davvero si volesse capire la sottile logica interna del modo di produzione capitalistico tramite essa, converrebbe stipulare un patto col diavolo. Solo così si potrebbe vivere tanto a lungo da poter mai sperare di venirne a capo. Poiché siamo invece convinti che non vi sia bisogno di tale negozio, proponiamo una diversa interpretazione del problema in oggetto.

Se, come si è visto, risulta impossibile poter decidere della validità di una teoria tramite il suo confronto con la realtà (fattuale o storica), che sarà sempre e soltanto, in definitiva, un rapporto col proprio specchio, l'unica strada che ci resta aperta è quella della controversia concettuale, della disputa tra punti di vista diversi.

La polemica tra interpretazioni alternative, a dispetto di quanto potrebbe sembrare a prima vista, non ha niente a che vedere con consimili impostazioni, alla Popper ad esempio, giacché esse hanno natura completamente differente: sia perseguono fini contrapposti sia possiedono oggetti d'analisi fondamentalmente distinti. Non potendo discutere qui del loro confronto, ci limitiamo ad assumere la loro netta demarcazione. In campo sociale, la controversia teorica costituisce l'unica strada percorribile per la corroborazione o la confutazione dei discorsi, giacché ai soggetti è vietato qualsiasi ricorso ad altre pietre di paragone. Non v'è niente, in società, che possa aspirare a un sicuro status ontologico (= indipendente dalla mente e a questa esterno) a cui tutti gli osservatori possano riferirsi come a un saldo fondamento. Non esiste, dal punto di vista epistemologico, alcuna pietra filosofale delle teorie. D'altro canto, ciò non vuol dire che la disputa sia arbitraria. In effetti, la coerenza e la maggiore o migliore potenzialità esplicativa rappresentano le armi di punta dei paradigmi in gioco. Basti pensare, ad esempio, alla funzione dirimente che la fisica contemporanea assegna al principio del terzo escluso e alla stessa non contraddizione nella formulazione delle teorie e nella formazione del loro potenziale conoscitivo. D'altro canto, per comprendere l'importanza della posta in gioco, sarebbe inoltre sufficiente fare mente locale alla logica moderna del pensiero matematico e al suo platonismo concettuale, al cui centro stanno precisamente le categorie succitate. Come rendere conto ad esempio, alla luce del marxismo tradizionale, dell'esistenza indipendente della realtà matematica postulata dagli scienziati, di quell'universo formale ed esclusivamente logico che viene ritenuto primordiale ed esterno - in guisa di vero e proprio «mondo ontologico» primario -rispetto alla stessa attività mentale dei matematici? Come spiegare l'atto di nascita e gli eventuali fondamenti sociali di tali paradigmi? Nessuno di questi mondi scientifici è minimamente scalfibile dal marxismo storico. A questo, anzi, è perfino vietato far fronte alla loro razionalità infondata e al loro enorme potere confutatorio, rispetto ai quali è drammaticamente muto.

Nella misura in cui una data interpretazione si mostra capace d'indicare le contraddizioni logiche in cui cade la concezione avversa, di spiegare da quali fonti determinate esse derivino e quali strade possano permetterci d'uscire fuori dalle sue impasse per accedere a una nuova spiegazione dei fenomeni considerati, ebbene questi possono essere considerati dei possibili criteri convenzionali e condivisi tramite cui poter decidere dell'attendibilità o meno di una certa descrizione concettuale delle cose, tanto più potenti quanto più essi ci mettono in grado di decifrare i sofisticati processi sociali che hanno generato la necessità di questa metodologia all'apparenza solo analitica e ricorsiva (nel cui ambito però la conoscenza descrive un cerchio a forma di spirale, per dirla con una paradossale metafora geometrica), o puramente intellettuale. Se è vero che è lo stesso modo di produzione capitalistico a rendersi responsabile della nascita del fattuale - di quel mondo apparentemente già dato e su se stesso fondato da cui per i soggetti tutto comincia: sostanzialmente, il loro agire politico, la loro attività cognitiva, e in cui affonda le sue radici il complesso delle loro istituzioni societarie -, allora la procedura di controllo delle teorie mediante la confutazione e l'invalidazione logiche finisce con l'assumere un ben diverso appeal.

Quando ci si trova all'interno della controversia, infatti, non si entra in una "contesa cordiale", alla pari, tra diverse visioni del mondo, come se ci si accomodasse in una sorta di salotto illuministico tra disinteressati cultori della verità. La posta in gioco della controversia è infatti lo svelamento o meno del sofisticato e più intrinseco meccanismo riproduttivo attraverso il quale il capitale gestisce il proprio sistema d'insieme proteggendolo da ogni incursione dei sottomessi, la specifica demarcazione del marxismo dalla cultura dominante e un antidoto alla sua ormai incombente estinzione, la potenziale apertura di nuove vie per l'eventuale fuoriuscita dal dominio. Se si vuole, tanto è una chiave d'accesso alla decifrazione o decodifica dei processi storici tramite i quali il potere del capitale si è radicato, con presa ferrea, nella realtà, quanto una guida potenziale in linea di principio capace d'indicarci cosa fare per poter eventualmente decostruire o smantellare o recidere quei legami.

Da questo punto di vista, allora, appare chiaro perché la disputa tra le alternative non sia quell'innocuo dibattito accademico che poteva sembrare a prima vista. In fin dei conti, si può considerare una forma della più classica lotta di classe, un'attualissima variante contemporanea - condotta con mezzi forse non così cruenti come nel passato, anche se di sicuro non meno micidiali per la sopravvivenza del marxismo - del conflitto tra i soggetti fondamentali di questo modo di produzione determinato.

7. Voltare pagina

La comprensione della logica interna e della intrinseca natura sofisticata di questo modo di produzione costituiscono oggi delle premesse indispensabili perché sia anche solo pensabile o immaginabile la fuoriuscita dai suoi confini. Per capire l'importanza e invero la funzione decisiva assegnata dalle circostanze attuali - vale a dire dalla nascita del modo di produzione capitalistico - alla conoscenza, si potrebbe forse fare mente locale a quanto diceva Borges: «en los lenguajes huma-nos no hay proposición que no implique el universo intero». Cosa sostiene di diverso la scienza quando afferma, con Changeux, che il soggetto umano deve il suo «pouvoir de domination [sulla natura, sugli altri uomini] à son cerveau»?

Probabilmente siamo oggi in condizioni simili a quelle dei primi cartografi europei, quando toccava loro inferire l'invisibile dal visibile. Come i loro, molti nostri strumenti sono approssimativi e incompleti, e molto spesso ci tocca sopperire con la speculazione (id est, deduzione) all'assenza del nostro oggetto, vale a dire alla mancanza di esperienze concrete ed esperimenti sociali conclusisi positivamente. D'altro canto, questa condizione consegna nelle nostre stesse mani la responsabilità del fare, dell'immaginare e dello sperimentare idee nuove. Si è mai vista qualche scoperta di novità senza l'audacia dell'ingegno?

Se vuoi prendere il largo, dice il poeta, lascia che la tua nave esca dal sicuro porto del noto per terre incognite. Forse farai naufragio oppure vagherai per quel mare senza riva vagheggiato da Kant. Concesso. Ma cosa è meglio? Una barca all'approdo è infatti il vano desiderio che non diventerà mai realtà, è una barca che anela al mare eppure lo teme. Se è vero che, come è stato detto da Jacob, «sans possible, le désirable n'est que reve», a sua volta «sans désirable, le possible n'est qu'ennui».

Uno dei modi per uscire da questa sorta di "lacerazione dell'animo" e di tentazione repressa - una «repressione cognitiva», come è stata definita dagli stessi scienziati, tipica di chi si trova tra tradizione e innovazione, tra replica del passato e svolta concettuale, nel bel mezzo di una fase di transizione in cui non sono ancora state stabilite nuove strutture cognitive -, è oggi senz'altro quello di abbandonare una volta per tutte la logica dell'identità, la razionalità ex post dei soggetti, come l'ha connotata Marx, che è precisamente quella forma di pensiero che li inchioda alla fatticità del mondo vietando loro così persino la possibilità di poter ipotizzare un altro fondamento per la loro esistenza. Non si può pensare ciò che non c'è.

Ovviamente, per poter entrare in un altro universo di conoscenza, fosse pure solo in prima approssimazione, non v'è altra strada che decidere di farlo. Nella maniera più spregiudicata possibile. Vale a dire intellettualmente onesta e ferma, lucida e razionale, ma in pari tempo totalmente innovativa. Non esiste altra possibilità: non vi sono né tendenze oggettive né condizioni in atto capaci di innescare nuovi modi di pensare o suscitare altre realtà. La sola via maestra, come sosteneva Bachelard, e ci viene ripetuto ancor oggi, è quella dell'immaginazione, intesa come una forma di sapere emergente dall'attività costruttiva della mente. L'apertura di nuovi orizzonti concettuali, ci dice ancora François Jacob, può essere il frutto solo di «un brusco salto del pensiero fuori dei sentieri abituali». Sarebbe illusorio, ad esempio, credere che la conoscenza scientifica consista nell'osservare e accumulare fatti sperimentali dai quali poi far emergere una vera teoria. Come ci vien detto: «Non è affatto così». Al contrario, spiega di nuovo il biologo francese, ogni «ricerca scientifica comincia sempre tramite l'invenzione di un mondo possibile». V'è una gerarchia di livelli entro la materia sociale. Tocca a noi scoprirne i costituenti più interni. In fin dei conti, non partiamo da zero. Sia l'esperienza e le lezioni del passato sia un significativo grappolo di categorie mutuate da Marx ci mettono in grado quanto meno d'iniziare un nuovo percorso, di considerare in maniera inedita vecchi oggetti, di vederli oggi sotto un angolo imprevisto, di osservarli con un nuovo sguardo.

Le origini storiche del capitale, il lungo e discontinuo processo di formazione che ne ha preparato la nascita - caratterizzato da quella complessa e sofisticata dialettica specifica che Marx ha sintetizzato in modo magistrale nel concetto di sussunzione, la cui interna sottigliezza e finezza teoriche non hanno pari in nessun altro paradigma societario -, ci obbligano a dare un addio definitivo e risoluto a tutte quelle idee che hanno segnato il destino del marxismo storico e ancora condizionano quello odierno. O le archiviamo una volta per tutte, oppure non sarà mai possibile avviare un nuovo discorso. Ci avviteremmo soltanto nell'eterna ripetizione dell'identico, in una sorta di terribile marxismo parmenideo da incubo.

A nostro avviso, seguendo l'esempio della scienza e della sua logica selettiva, è ormai necessario fare piazza pulita almeno delle seguenti categorie. Il loro numero è limitato, ma il loro potenziale sviluppo esponenziale è impressionante, se si pensa ai temibili effetti di trascinamento teorico di cui sono capaci. Comunque, eccole.

a)  La convinzione che i rapporti di produzione tipici del modo di produzione capitalistico siano dei rapporti intersoggettivi di potere, variamente e illusoriamente mediati dallo scambio, dalla razionalità strumentale, dalla Tecnica, o da qualsivoglia altra istanza intermediaria. Come ci è ormai noto, tanto i rapporti di produzione capitalistici si mediano da soli attraverso la dinamica intrinseca del «principio determinante» descritto da Marx, quanto sono essi stessi la fonte primaria di tutte quelle istituzioni - da quelle di forma apparentemente più strumentale (nell'ambito economico) a quelle di tipo egemonico (entro la società civile) - che avrebbero dovuto assicurarne la riproduzione impersonale. Invece di essere mediati da dette istanze, sono essi stessi a istituire la loro esistenza.

b) L'idea che possa esistere una storia oggettiva del sistema sociale capace di generare ogni cosa: la pietra di paragone delle teorie, improbabili e inverosimili tendenze verso il comunismo, l'impero della logica astratta e formale, la democratizzazione crescente della società civile, e consimili facezie. L'oggettività della storia sociale, col suo «culto dei fatti», è un mito ben noto del resto agli stessi storici di professione (molto meno, a quanto sembra, alla storiografia marxista) se Edward Carr, come si è visto, poteva scrivere sin dagli anni Cinquanta che ogni giudizio sui dati di fatto è una «questione d'interpretazione».

c) L'interpretazione avalutativa della scienza e l'ingenua rappresentazione della conoscenza derivante dal suo seno come patrimonio generale dell'umanità e disinteressata ricerca della verità. Un'unilaterale visione di questo tipo - emergente tra l'altro dall'interno stesso di quelle concezioni, marxiste e no, che avrebbero invece voluto darne una descrizione più critica, mettendola in relazione col suo contesto societario allo scopo di mostrarne i condizionamenti - rende infatti impossibile capire quale sia effettivamente la sua forma logica interna, e quali privilegiati rapporti di tipo concettuale la leghino al processo riproduttivo del capitale. Non appena la ragione scientifica vien concepita, sin dall'inizio, come sapere universale indifferente ai valori, corpus razionale di conoscenze oggettive, una simile démarche fa poi divieto pressoché assoluto ad ogni sua messa in discussione e ad ogni analisi dei suoi rapporti più sottili col modo di produzione capitalistico, giacché persino la sua storia esterna, la storia delle sue fitte interazioni col mondo sociale, dovrà per forza di cose prendere le mosse da quel presupposto epistemologico. Di qui anche la nascita di un'altra, aggiuntiva, conseguenza.

d) L'idea che sia possibile usare in maniera diversa i sistemi di macchine, di sempre nuova generazione, che il modo di produzione capitalistico secerne continuamente in maniera naturale come una tartaruga le sue uova. In realtà, sappiamo, gli apparati tecnologici - se si vuole, la Tecnologia tout court- non sono altro che pensiero scientifico materializzato, divenuto un complesso dispositivo macchinico che ne ha incorporato la natura avalutativa. Se le macchine sono questa razionalità oggettivata, di tali sistemi non è ammesso altro uso che quello implicito nei principi scientifici che essi interiorizzano e incarnano. Dal che segue l'impossibilità di poter mai contrastare la sempre incipiente predominanza del determinismo tecnologico, giacché qualsivoglia presunto controllo della tecnologia da parte dell'intelletto politico - un dato soggetto, uno stato - non potrà che assecondarne le tendenze di sviluppo, le intrinseche propensioni scientifiche di cui è l'espressione. Come al solito, a forza di credere che sia possibile governare tutto, si finisce col non poter governare alcunché.

Questo programma di drastica potatura concettuale e di rinnovamento teorico ha naturalmente senso solo nella misura in cui ci potrà permettere di andare oltre i vecchi modelli, di lasciare infine le secche della tradizione e i labirinti senza fine in cui ci aveva infilato, d'entrare insomma in mare aperto potendo seguire finalmente un piano di navigazione. Forse non è chiaro sin dall'inizio a quali terre approderemo né se ci sarà davvero possibile mettere piede sulla terraferma. Anche se è vero che il futuro ci viene incontro dalle spalle, tuttavia niente dovrebbe confortarci di più del fatto di lasciare dietro di noi un passato ormai nelle sue grandi linee più che noto. In fin dei conti, ancora oggi quando ci si congeda definitivamente da qualcosa o da qualcuno la prima cosa che si fa è non guardarsi indietro. Come potremmo andare avanti, infatti, volgendo sempre lo sguardo su una storia finita?

 

Prima parte del volume: Roberto Di Marco, Emanuele Montagna, Franco Soldani, Scrivere il domani, ed. Pendragon, 2003

 

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