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4° capitolo - Lotta di classe.

 

Politici e scienziati borghesi non amano sottolineare che viviamo in una società di classe. Lo stesso termine «classe» è piuttosto lasciato all’uso da parte della corporazione dei sociologi; i quali, per altro, preferiscono parlare di «strati sociali» o di società «livellata sul ceto medio». Questa resistenza ad usare perfino un concetto classico della scienza sociale, ovviamente, non è casuale e non è da escludere che si tratti di un’allegia terminologica, che segnala un problema sociale. Forse i politici usano come alibi il fatto che i sociologi abbiamo messo in cantina la dottrina della lotta di classe?

Senonché, spesso, proprio in cantina si rinvengono dimenticati capolavori, che la corporazione si ostina a non valutare. Ma appunto questa perseveranza nell’ evitare ilconcetto di classe diviene, per il critico attento, segno che la società di classe continua ad esistere.

Naturalmente, ciò che conta è un uso scientificamente corretto del concetto di classe: è facile, infatti, abbattere uno spauracchio, che sia stato precedentemente costruito proprio in vista dell’abbatterlo; ed è questo, d’altronde, il modo in cui oggi procedono molti critici, che vogliono dimostrare l’insignificanza storica, ormai, del marxismo.

«Classe» -nel senso di classe sociale, -dacché esiste ovviamente anche il concetto logico di classe o quello che serve a classificare le automobili-, in primo luogo, è un concetto economico.

Il 3° volume del Capitale doveva terminare con una esposizione della struttura di classe della società capitalistica, dunque, con la definizione della sua essenza di classe; Marx però non ha potuto portare a termine questa parte conclusiva della sua opera, che ci resta, solo, sotto forma di frammento dell’ultima sezione; tuttavia, ne risulta un’introduzione assai ricca, che mostra come il concetto di classe si rapporti alla formazione sociale ed economica.

“I proprietari della semplice forza-lavoro, i proprietari del capitale e i proprietari fondiari, le cui rispettive fonti di reddito sono salario, profitto e rendita fondiaria, in altre parole, gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, costituiscono le tre grandi classi della società moderna, fondata sul modo di produzione capitalistico.” [38]

Proseguendo, tuttavia, Marx chiarisce che le classi non si giustappongono l’una all’altra in modo netto, in quanto esistono tra l’una e l’altra forme equivoche e di passaggio; inoltre Marx mostra come gli appartenenti alla classe dominante leghino a sé le classi dominate, al fine di consolidare la propria condizione. [39]: in altre parole, chi appartiene obiettivamente alla classe dei lavoratori salariati può, tuttavia, sentirsi soggettivamente solidale con la classe capitalistica. Si tratta di un problema, che si lega a quello dell’analisi della «falsa coscienza».

Il concetto di classe ha una dimensione politica, immediatamente connessa al suo contenuto economico. Le classi in senso economico legandosi necessariamente l’una all’altra in una stessa comunità, per quanto contraddittoria, ed agendo l’una sull’altra, ecco che mostrano, anche, una dimensione politica. Collocandosi le classi nella dimensione politica, la lotta di classe risulta uno scontro che si gioca, anch’esso, sul terreno politico. Poiché la struttura di classe non sta solo a indicare una differenziazione funzionale e di proprietà ma rimanda anche ai rapporti di proprietà, ecco che diviene rivelatrice di un sistema di potere. Una gran parte dei comportamenti, condizionati dal punto di vista di classe, della classe dominante servono a edificare e mantenere il sistema di dominio, che le garantisce il potere. La concentrazione del potere nell’articolazione delle istituzioni democratiche, il mantenimento dei privilegi culturali, la garanzia di una giustizia conforme agli interessi di classe, la manipolazione dell’opinione pubblica mediante il controllo dei media: questi sono alcuni degli strumenti di cui si serve il potere, per mantenere il sistema dato.

Già da quanto detto ricaviamo eclatanti segni a conferma che non è proprio il caso di parlare di “livellamento delle differenze di classe”: chi sostiene tale livellamento fa sempre riferimento alla partecipazione di singoli al benessere generale -fenomeno che, per altro, è circoscritto alle metropoli. A ciò si aggiunga che il disfacimento sociale, che caratterizza anche i Paesi ricchi, rende il discorso sul livellamento ancor meno credibile, anche se, rispetto all’abbassamento dei livelli di vita, il limite di guardia non sia stato ancora raggiunto. Ma quando si parla di classi non è di questo che esattamente si tratta.

Dal punto di vista politico, la questione è quella del diverso grado di integrazione degli uomini nel processo sociale, come conseguenza della loro diversa collocazione economica.

Chi appartiene alla classe dominante può e deve identificarsi con la società, che gli garantisce un alto livello di auto-determinazione ed auto-realizzazione: per molti aspetti, egli può dire d’esser libero quanto vuole.

Al contrario, chi appartiene alla classe dominata resta -in gradi e quantità diverse- escluso dalla possibilità di contribuire a plasmarla ed ha tanto poche occasioni di auto-determinazione ed auto-realizzazione, quante gliene concede l’ordinamento sociale esistente. In conclusione, egli è libero quanto può.

Una classe dominante che voglia mantenersi tale deve impedire che quella dominata prenda parte senza limitazioni alla vita sociale, vale a dire partecipi anche all’uso del potere.

Vi è sempre una “lotta di classe dall’alto”, ovvero condotta con strumenti che ne occultano la brutalità: di tanto ha successo una classe dirigente, di quanto riesce ad occultare questa forma “dall’alto” di lotta di ed a evitare, in tal modo, che venga provocata una lotta di classe dal basso. Il prodigioso raffinamento conosciuto nella nostra epoca dagli strumenti d’influenza ideologica, consente, come mai era avvenuto nel passato, di mascherare la realtà della lotta di classe. D’altra parte è noto come pratiche di mascheramento della lotta di classe -con l’ausilio in particolare della religione istituzionalizzata- si siano avute in ogni tempo.

 

§. 1 - Interessi e coscienza di classe.

Tuttavia, sempre vi sono - e vi sono state- continue esplosioni degli ingorghi di malcoltento per le ingiustizie, legate alle aperte contraddizioni sociali ed alle riproducentisi situazioni di emarginazione, oppressione e sfruttamento. A partire dalle ribellioni degli schiavi nell’antica Roma, dalle sollevazioni plebee nei Comuni medievali, dalle guerre contadine all’inizio dell’epoca moderna fino a giungere alla resistenza dei tessitori della Slesia, abbiamo una ricchissima e documentata serie di esempi di aspre lotte di classe. Le ideologie occultanti, di cui la classe dirigente si serve allo scopo di assicurarsi l’egemonia anche sulla coscienza delle classi sottoposte e, dunque, perché esse stesse accettino gli esistenti rapporti sociali, sempre si scontrano ad un certo punto con limiti insuperabili, che ad esse oppone l’effettiva, immediata esperienza. Anche le momentanee concessioni sociali, che alimentano, presso i dominati, l’illusione ideologica del riformismo e dell’opportunismo politico, possono ottenere solo una momentanea integrazione degli sfruttati entro l’ordine sociale esistente. Esiste sempre il momento, in cui la contraddizione sociale radicale esplode.

Tuttavia, l’esperienza dell’emarginazione e dello sfruttamento non fa -da sola- il concetto della condizione di classe.

La «coscienza ribelle» reagisce ad una situazione particolare di oppressione, senza vederne le relazioni ed interdipendenze con le forme generali di movimento e di esistenza del tipo di società e, dunque, con le altre particolari situazioni di oppressione, che ne derivano.

Di contro alla spontanea insoddisfazione e critica, che si legano alla contraddizione vissuta, all’oppressione e sfruttamento di cui si fa esperienza, un’educata coscienza di classe sa comprendere tutto ciò come manifestazioni di una connessione sistematica essenziale, alla cui base c’è un modo d’appropriazione del prodotto sociale.

Come abbiamo visto, Lenin ha distinto con chiarezza la coscienza di classe dalla spontanea articolazione dei  particolari interessi di classe. Lo stesso concetto di classe è una generalizzazione teorica, che presuppone l’astrazione dalle casuali forme di manifestazione della vita sociale e la formulazione dei tratti essenziali del processo di socializzazione.

La coscienza di classe è “l’autocoscienza” di un soggetto storico universale, che non può essere concepito semplicemente come sommatoria o media statistica di individuali soggetti psicologici. Piuttosto, ogni soggetto individuale, poiché astrae le proprie generalizzazioni teoriche dalle particolari prospettive della sua esperienza, va di nuovo ricondotto alla coscienza di classe, come all’universale di cui rappresenta solo una delle particolarità.

Nella teoria, questo divario può esser superato, ma certo al prezzo di riempirlo di contenuti, che diminuiscono la presenza delle esperienze individuali - l’atteggiamento di “distacco dalla vita” e il dogmatismo, che inclina verso forme burocratiche di realizzazione, con le sue istruzioni e soluzioni astratte, tutto ciò sta a dire che la teoria si è separata dall’esperienza.

D’altra parte, la traduzione della teoria nella pratica quotidiana si lega sempre all’inevitabile rimpicciolimento e deformazione prospettici  che vengono dal punto di vista dell’esperienza individuale, a cui la teoria è ricondotta nella sua applicazione. Ciò produce gli sbandamenti soggettivistici  nell’attivismo dei singoli, non adeguatamente mediato dall’organizzazione.

Il processo di costruzione della coscienza di classe va condotto, correndo il rischio di questi due pericoli di snaturamento. Si tratta della coscienza, costruita sul piano teorico, di un “complessivo lavoratore sociale” -dunque della coscienza universale di una “persona astratta”, che trova espressione nelle “persone naturali”.

 

§.2 - Le basi organizzative della coscienza di classe.

La coscienza di classe e il suo volgersi nella pratica non va concepita come quell’ “astuzia della ragione” che, secondo Hegel, si afferma dietro le spalle degli individui in quanto “spirito oggettivo”, assumendo la forma irrazionalmente reificata di un “destino storico” feticizzato (ma d’altronde questo è un limite insuperabile per la coscienza borghese della storia). La coscienza di classe, invece, ha bisogno che si operi continuamente la mediazione fra i contenuti di coscienza individuali della persona naturale e l’universale coscienza di classe del lavoratore sociale complessivo. Tale processo di mediazione presuppone un terreno su cui costruirsi ed i cui risultati possano precipitare in una teoria unita alla prassi, continuamente sottoposta ad arricchimenti e mutazioni, proprio perché non si arresta il processo di mediazione.

Il ‘terreno’ di cui dicevo è l’organizzazione politica della classe lavoratrice in lotta. L’organizzazione svolge la propria attività sulla base dell’esperienza dei suoi membri, impegnati nell’applicare e nello sviluppare la teoria scientifica, la quale generalizza le esperienze sotto le categorie della totalità sociale; teoria sacientifica che può, dunque, essere descritta come costituzione dell’insieme sociale, attraverso la formulazione delle leggi essenziali della socializzazione. Il carattere politico-economico e filosofico di una tale teoria si inferisce dai compti, che essa si dà.

In ogni singolo membro dell’organizzazione, la teoria vale come ingrediente della sua prassi, ma nel senso che solo mediante l’attività politica organizzata essa può darsi la completezza di un tutto. E’ mediante il Partito che gruppi di individui possono assumere come risultato astratto la teoria, che altri hanno costruito su base d’esperienza, e dare ad essa una realizzazione nella prassi, mediante una solidarietà che può essere efficace, anche là dove non si diano le immediate condizioni d’esperienza.

In realtà, la solidarietà stessa diviene generale contenuto d’esperienza nell’organizzazione e mediante l’organizzazione; ed è proprio così che le astrazioni della teoria possono penetrare nella prassi. Insomma, la solidarietà nella lotta è un momento essenziale della coscienza di classe, così come lo sono le azioni in cui tale solidarietà prende corpo. Naturalmente, tali azioni presuppongono l’esistenza di una determinata base comune d’esperienza e debbono avere un effetto chiarificatore, per produrre realmente quell’esito.

Là dove esiste un movimento dei lavoratori, forte e ricco di tradizioni, son presenti anche modelli solidaristici di comportamento, che sanno persistere pure al di là di azioni sbagliate. Il livello della coscienza di classe è pure condizionato dallo stadio storico d’esperienza di lotta di classe.

Tutte le azioni di lotta di classe del proletariato nella società borghese nascono da una posizione, che certamente è povera di diretti strumenti di potere, ma su cui invece fa affidamento la classe dominante, che s’appoggia sul suo strumento, lo Stato. Sul terreno della lotta di classe -di cui la resistenza armata è, per i rivoluzionari, l’ultima ratio- tanti sono gli strumenti di cui lo Stato può giovarsi, quanti sono quelli di cui è priva la classe lavoratrice.

Sempre la violenza è lo strumento primo, di cui si servono gli organi dello Stato; al proletariato -in quanto componente necessaria della società borghese- è offerta la possibilità di bloccare il funzionamento della società borghese, negativamente, mediante lo sciopero e, positivamente, conquistando posizioni particolari di potere.

Certamente la società capitalistica è potente; però, è anche vulnerabile. La forza, che un’organizzazione orientata alla lotta di classe può contrapporre al potere organizzato dello Stato, sta nella disciplina dei suoi militanti.

Da solo, il singolo lavoratore è impotente; in quanto classe -ovvero, in quanto parte rilevante della classe, dunque, in un’azione di massa-, il lavoratore è imbattibile, dacché sarebbe tolto il sistema stesso, se venisse tolta una condizione necessaria della sua esistenza. Ora: la massa per principio invincibile è tanto vulnerabile, quanto lo sono gli individui in essa riuniti; infatti, per risultare vittoriosa, la lotta di classe richiede vittime individuali e, dunque, disponibilità al sacrificio; l’inasprimento della lotta di classe fino al confronto violento ha senso, se gli individui in essa impegnati assumono -e non episodicamente- tale disponibilità al sacrificio! Ciò implica, naturalmente, un alto livello di coscienza di classe, intelligenza e morale combattiva, le quali risultano dalla disciplina, che nasce da un lungo lavoro di maturazione.

Da ciò non si cava, è ovvio, che la disciplina diviene necessaria solo al momento della sollevazione rivoluzionaria, mentre prima non è che un mèro ‘esercizio’; è vero, piuttosto, che, proprio nei lunghi periodi di scontri parziali e continui all’interno della società borghese, la disciplina è il presupposto per far sì che le esperienze e i livelli individuali di coscienza possano mediarsi e, così, elevarsi a coscienza di classe.

Se è vero che l’attività politica organizzata è il luogo in cui si costituisce la verità storica della coscienza di classe, allora è vero, anche, che son necessari il rifiuto delle azioni individuali, spontanee, ed il loro ricondurle invece, alla totalità del piano strategico;  nonché la disponibilità ad un impegno che importa sacrifici, pure nelle minute attività, le quali, poi, non sono che il lato individuale dell’impegno collettivo.

In questa disciplina, di cui il singolo si fa carico, si disegna l’aspetto formale della coscienza di classe, così come il suo contenuto materiale deriva dalla rielaborazione teorica delle esperienze individuali.

 

§. 3 - Mutamenti nella struttura di classe e compiti del Partito.

Resta da esaminare se -posti i mutamenti avvenuti nella struttura sociale dei Paesi ad alto sviluppo industriale- siamo ancora autorizzati a parlare di classe lavoratrice e di proletariato.

La sociologia borghese contesta tale pretesa, citando le forme diverse in cui si realizza il modo di vita dei lavoratori salariati. Senonché, «classe» non è concetto interpretabile ad arbitrio.

Di essa vi è, al contrario, una definizione scientifica che, prendendo le mosse dalla caratterizzazione datane da Marx e che abbiamo precedentemente citato, distingue le classi sulla base dell’appropriazione o non-appropriazione del plusvalore.

Capitalista è chi si appropria in forma privata il plusvalore prodotto socialmente; al proletariato, invece, (o alla classe lavoratrice) appartengono tutti coloro, che ciò non fanno e che possono solo vendere la propria forza-lavoro; questo vale, quale che sia la classificazione in cui il lavoratore venga collocato dalla sociologia, quali che siano gli ‘strati intermedi’ che essa distingue.

I cambiamenti strutturali, le nuove professionalità o i nuovi strati sociali prodotti dai mutamenti nella forma delle forze produttive, tutto ciò resta, comunque, inscritto entro la cornice dei rapporti capitalistici di produzione, dunque, dell’appropriazione privata del plusvalore per effetto della proprietà privata degli strumenti di produzione; si tratta, insomma, di modicazioni interne ad una società, già definita nella sua intima spaccatura di classe.

Ciò significa che se pure è vero che la contraddizione di classe continua a determinare la struttura fondamentale della società, tuttavia è necessaria un’attenta analisi, che sappia riconoscere i sotto-gruppi interni alla classe lavoratrica, ma anche ricondurli all’insieme del processo sociale di produzione e di scambio.

Naturalmente ciò non sta a dire che sia scomparsa la contraddizione reale tra capitale e lavoro salariato; va sostenuto, piuttosto, che, oggi, essa ha assunto aspetti assai più impersonali e anonimi, tanto da non poter più esser immediatamente avvertita.

L’autentico problema è, piuttosto, come sia possibile ricostruire una combattiva coscienza di classe -che comprende, sappiamo, solidarietà e disciplina-, a partire da gruppi, interni alla massa dei lavoratori salariati, la cui coscienza tende ad accentuare le differenze delle condizioni particolari.

Tanto meno unitarie son le condizioni di vita della propria posizione di classe, tanto più rilievo acquista la generalizzazione teorica che, partendo pure da esperienze ed interessi diversi, giunge comunque ad una coscienza sociale sistematica, in cui i differenti punti di partenza trovano la possibilità di una ricomposizione unitaria.

Per la ricostituzione della classe come fattore politico, il lavoro teorico è doppiamente necessario: in primo luogo, per l’elaborazione di modelli d’interpretazione di alto livello di generalità, che risultino da una fitta rete di mediazioni basate sull’esperienza; in secondo luogo, per assicurarsi un metodo, che consenta la larga diffusione di massa di tale conoscenza teorica, dunque, per garantire una vasta attività di propaganda e agitazione, che si leghi all’esperienza dello sfruttamento e dell’oppressione, ma che sappia, anche, riferirsi centralmente ai conflitti attuali, collegandoli ai fini politici di mutamento del sistema. Conflitti sindacali, iniziative di cittadini ed altre iniziative di lotta fungono, in questa prospettiva, da punto di partenza.

A questo punto, la questione della formazione della coscienza di classe in vista d’una cosciente unità politica torna al tema dell’organizzazione, la quale può offrire il terreno su cui si costruisce proprio quel processo di formazione.

L’organizzazione della lotta di classe richiede l’esisteza di un Partito, basato su una coscienza di classe, elaborata teoreticamente a partire dal socialismo scientifico. Un tale Partito deve fungere da punto di cristallizzazione e da perno dell’opposizione al sistema dominante.

Quella del Partito non è una mèra questione di sociologia dell’organizzazione, che possa esser affrontata in questo o in un altro modo: è piuttosto un aspetto centrale della consapevolezza storica.

Se la nostra è e deve essere l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo, dacché altrimenti si fallirebbe l’obiettivo dello sviluppo e dell’umancipazione umani, allora il Partito, cosciente di questo carattere epocale, è quello che conduce al superamento politico della mancanza di libertà, propria di qualunque società di classe; è, insomma, il portatore della verità storica del nostro tempo.

 

 

5° capitolo - Il concetto di epoca.

 

Il carattere di un’epoca non è deciso da un singolo evento politico, per quante ripercussioni questo possa avere sulla vita dei contemporanei. Undici anni dopo la decapitazione di Carlo I d’Inghilterra (1649), gli Stuarts tornarono dall’emigrazione e restaurarono la monarchia assoluta per quasi trent’anni: eppure, ciò restò solo un’episodio all’interno del “secolo delle rivoluzioni borghesi”. Non altrimenti avvenne nel 1815 con la Restaurazione guidata da una classe dirigente piena d’odio per le sconfitte subite, ma impotente a cancellare gli effetti dell’avvenuta Rivoluzione francese. Il tempo del feudalesimo era irrimediabilmente concluso e, nonostante le sconfitte, il trionfo della borghesia risultava inarrestabile: industrie, ferrovie, Istituti bancari rappresentavano forze storiche assai più incisive di qualunque potere statale in mano alla Santa alleanza, dacché determinavano il modo di produzione della nuova era e richiedevano, per il proprio sviluppo, un nuovo ordine sociale e nuovi rapporti di produzione.

Il carattere di un’epoca è determinato dalla produzione sociale e dalla riproduzione della vita civile che essa consente. Quali forze produttive sono a disposizione di un’epoca? In quali modi e forme di organizzazione lavorativa, dello scambio e della distribuzione esse sono usate? Quali forme proprietarie e giuridiche ciò comporta? Quali interessi -concordi e/o contraddittori- generano i rapporti di produzione dominanti? Come si mediano i differenti scopi individuali nell’orizzonte degli interessi collettivi di classe, in cui si esprimono le contraddizioni fondamentali di un’epoca?

Queste son le domande a cui dobbiamo rispondere, se vogliamo renderci conto non degli eventi episodici e superficiali, ma sì delle tendenze fondamentali di un’epoca. Ciò che avviene in questo o quel punto temporale o spaziale costituisce indizio di un significato, che l’occhio esperto dell’indagatore deve scoprire, se il suo intento è cogliere le forze generali, che operano sotto la superficie.

Il materialismo storico è il metodo per condurre una tale indagine; così come lo scarto -fra sviluppi delle forze produttive e resistenza opposta ad essi dai rapporti di produzione- è la chiave per determinare il carattere di un’epoca.

 

§. 1 - La rivoluzione tecnico-scientifica.

Nella nostra epoca, il fattore determinante della produzione materiale è dato dalla “grande industria” -come Marx aveva già visto più di cent’anni fa (cf. Das Kapital, 1. XIII).

Il rimpiazzo della forza lavorativa umana con le forze della natura; la sostituzione di un’attività, ormai divenuta routine, con l’impiego consapevole della scienza e l’accelerazione del ritmo e intensità del lavoro, in modo tale che tale aumento sistematico ed “ogni perfezionamento del macchinario si trasformi in strumento per succhiare una quantità maggiore di forza-lavoro” [40] -, ecco, nel fondo, la descrizione adeguata a render conto di quel processo di sviluppo tecnico del capitalismo, che conduce fino all’automazione ed all’elaborazione dei dati.

Dalla fine del XVIII° secolo, un’ingegneria tecnica sempre più raffinata ha legato scienza e produzione, in modo tale che la crescita dell’una implicita la crescita dell’altra.

La scienza stessa è divenuta una delle principali forze produttive, a ritmi di crescita sempre più accelerati e giungendo a conquiste conoscitive sempre più spettacolari. Le conoscenze in tal modo acquisite non solo hanno conquistato un’estensione, che va ben al di là della portata di un singolo intelletto; ma anche sono riuscite a penetrare nella struttura profonda della realtà materiale (fisica delle particelle, biologia molecolare, tecnologia genetica, psicoformacologia, ecc.).

Senonché, a questa prodigiosa estensione e capacità tecnica delle scienze particolari non si accompagna una visione generale del mondo e della società, che consenta al singolo di entrare in relazione con il tutto.

Le conoscenze scientifiche vengono valorizzate in funzione degli scopi individuali dei proprietari degli strumenti di produzione e ciò, naturalmente, ha conseguenze anche rispetto al modo di orientare lo sviluppo scientifico.

Al momento attuale, il posto dei singoli capitalistici è stato accupato dalle concentrazioni di capitale, dai consorsi e dalle società finanziarie, che perseguono i loro scopi particolari  con forze e possibilità ancora maggiori.

Avvenuta questa sostituzione -dell’individuo capitalista con il consorzio-, le finalità particolari divengono sempre più esclusivamente quelle dell’accumulazione capitalistica, perché con le società anonime risultano tolti anche gli scopi privati, ma nel senso di personali, che il singolo capitalistica tuttavia aveva.

La legge che ha retto, per due secoli circa, la rivoluzione industriale, naturalmente, continua a valere -ed è la legge, appunto, dell’accumulazione del capitale.

Il capitale privato investito deve produrre plusvalore, in modo che ne risulti un profitto da convertire, anche, in nuovi investimenti. E’ in questo modo che i capitali finiscono col contrapporsi ai loro stessi proprietari, in quanto “valore valorizzantesi”, ovvero in quanto “feticcio nella sua forma più pura”. [41]

In questa sua astratta coazione all’autovalorizzazione, il rapporto di capitale diviene il più concreto -e più estraniato- modo di vita sociale dell’uomo all’interno della società borghese, che si imprime -direttamente o indirettamente- su ogni manifestazione della vita sociale. Una conseguenza è che i progressi della RTS, invece che risolversi in strumenti per la liberazione umana dalla costrizione esterna, si riducono a mezzi dell’aggiogamento umano alle finalità autonome della valorizzazione del capitale.

Valorizzazione del capitale significa continua crescita della produttività, quale che sia lo scopo e il contenuto della produzione. Ma significa, anche, continuo sorgere -manipolato!- di nuovi bisogni, che possano portare alla messa in circolo di merci, capaci d’assicurare sufficienti profitti.

Non appartiene ai comunisti assumere acriticamente questa continua espansione di bisogni, promossa dal principio della valorizzazione del capitale o accoglierla addirittura come criterio per valutare i progressi dello standard di vita delle masse.

Esattamente un grave errore, che caratterizzò la concezione dello svuluppo fatta propria dal XX Congresso del PCUS, fu di presentare come obiettivo socio-economico il superamento -in un tempo quale che fosse- dello standard di vita degli USA. Assumere questa finalità, infatti, implicava il sottomettersi al meccanismo d’una produzione mercantile sempre crescente e così sostituire i valori comunisti con l’ideologia piccolo-borghese del consumismo.

Il progresso in una società comunista implicita il superamento dell’estraniazione umana nel feticismo mercantile e il dispiegarsi, invece, dei valori dell’autorealizzazione umana, la quale trova adeguata espressione non solo negli standards di consumo, ma anche nella struttura stessa del modo di vivere.

Proprio il progresso tecnico, capace di sottrarre sempre più l’uomo all’oppressione del lavoro e di assicurargli una quota sempre maggiore di tempo libero (cioè, tempo non impiegato nell’immediata riproduzione della vita), consente l’espansione delle capacità ed attività umane, la differenziazione degli interessi e l’elaborazione di nuovi contenuti di vita. Il passaggio ad una nuova cultura, fondata sullo sviluppo multilaterale delle persone, è la chance che si offre ad un’epoca, in cui le forze produttive hanno raggiunto livelli, in grado di consentire all’intera umanità di emanciparsi dai bisogni materiali.

Va da sè che si faccia in modo d’assicurar la crescita dei bisogni materiali: in ciò consiste, appunto, la strategia volta ad assicurare la continua espansione della produzione mercantile, che è la stessa forma d’esistenza del capitalismo. Senonché, ben presto si mostra che tale unilaterale strategia di sviluppo produce insuperabili contraddizioni nel generale modo di vita umano.

La rapidità delle innovazioni tecnologiche porta con sé l’etica del rapido esaurirsi dei modi del consumo. Ogni produzione, inoltre, deve riprender l’avvio da materie che si trovano in natura; ogni consumo di materia, però, dà origine a scarti, che hanno da esser rigettati nell’ambiente naturale. La RTS che avviene all’insegna della valorizzazione capitalistica, per il nostro ambiente naturale, costituisce un danno sotto due aspetti:  esaurisce risorse e distrugge le condizioni fisiche, chimiche e biologiche degli equilibri ecologici, che poi son ciò che garantisce la sopravvivenza stessa della vita. I possibili benefici della RTS, all’interno del capitalismo, si rovesciano in maledizione per l’umanità: la crisi ecologica è una conseguenza dell’ordinamento economico-politico in cui viviamo.

(Anche gli Stati socialisti, sotto la pressione della concorrenza col capitalismo all’interno del sistema capitalistico mondiale, dovettero cedere a questa costrizione -d’altronde, tutti i deboli economicamente sono soggetti alle leggi economiche dalla “grande industria”).

 

§. 2 - imperialismo e sottosviluppo.

Nella forma che le vien data dal processo di valorizzazione del capitale, la RTS determina il volto del nostro mondo. Con le sue nuove produzioni, essa dà l’impronta anche al tipo di sviluppo di Paesi che, con grande fatica e lentezza, debbono riuscire ad integrarsi al livello di sviluppo degli Stati industrializzati.

Perché la produttività di una moderna industria possa realmente contribuire allo sviluppo delle masse di un Paese, è necessario che il momento di partenza del processo già si collochi ad un determinato livello di sviluppo, per quanto modesto, e che sia caratterizzato da un certo standard di vita: in caso contrario, non si potranno trasformare miserabili in forza-lavoro qualificata e in consumatori.

Le strategie capitalistiche di sviluppo -orientate, sappiamo, non allo sviluppo dell’uomo, ma sì alla valorizzazione del capitale- non sono in grado di assicurare quelle necessarie condizioni di partenza; solo programmi di solidarietà -e nel lungo periodo- possono superare l’arretratezza tecnologica ed operare le adeguate trasformazioni di rapporti e modi di vita (già presenti all’interno dei Paesi sviluppati), che corrispondono al processo di sviluppo d’una generazione. L’attesa di vantaggi a corto o medio termine possono condurre ad una politica di investimenti, che in realtà riproduce uno scarto fra una ristretta cerchia, capace di godere dei vantaggi del progresso, e masse sempre più immiserite e, così, determinare una crisi, che investe centinaia di milioni, miliardi forse, di uomini dei Paesi poveri. Il capitalismo non dispone affatto degli strumenti per dare una soluzione umana al problema del sottosviluppo.

La limitatezza delle risorse e degli sbocchi commerciali, a disposizione d’una ulteriore espansione del capitale, non fanno che approfondire una contraddizione radicale interna al capitalismo.

Le guerre di concorrenza, fin dal suo sorgere, appartengono al capitalismo; la vittoria dei più forti sui più deboli porta con sé processi di concentrazione. Oggi, l’incrocio di concorrenza e concentrazione ha condotto alla formazione di tre blocchi, che costituiscono superpotenze economiche: gli USA con i loro satellici; la Comunità europea, segnata dalle pretese egemoniche della Germania ed, in fine, il blocco Giappone/Sud-est asiatico.

Le divisioni tra questi tre gruppi si fanno ogni giorno più manifeste e mostrano i segni di possibili conflitti. Dal punto di vista politico, questi conflitti già danno occasione a numerose piccole guerre “indirette”: la Guerra del Golfo per il controllo del petrolio; la dissoluzione della Jugoslavia attraverso una sanguinosa guerra civile manovrata dall’esterno; gli scontri fra Armenia e Azerbaijan; la guerra in Cecenia; le aggressioni contro la Libia, Cuba; in molti altri luoghi del mondo,inoltre, si minacciano o addirittura si svolgono già altri scontri militari.

Dissolta l’Unione Sovietica e, con ciò, il cosiddetto equilibrio mondiale delle due “Superpotenze”, il mondo si è fatto meno sicuro.

Sullo sfondo delle “piccole” guerre si profila la rivalità tra i “Grandi” ed il fantasma di una futura guerra tra loro. All’interno del capitalismo non c’è modo di unificare l’espansione capitalistica, ché sempre essa comporta conflitti tra i diversi gruppi capitalistici e le strutture politico-statuali che li sorreggono. Il capitalismo non è apportatore di pace.

La situazione mondiale -caratterizzata da problemi globali, quali la crisi ecologica, l’impoverimento massivo e le minacce alla pace- scaturisce dal carattere espansivo del capitale nella sua attività di auto-valorizzazione su scala universale. Questa fase del capitalismo si chiama imperialismo e la valutazione che Lenin ne dette è, nella sostanza, ancor oggi valida -in particolare dopo la provvisoria vittoria riportata sul socialismo.

I problemi globali son la manifestazione d’una acuta crisi del sistema capitalistico, che giunge a render possibile addirittura l’auto-annientamento dell’umanità. La stessa strutturazione essenziale dell’economia capitalistica -valore che si valorizza o capitale che si incrementa- si contrappone ad una possibile soluzione di questi problemi.

Ogni intervento sul sistema, che sia orientato a curare questo o quel particolare cancro particolare, che qua e là si rivela, è destinato a mostrare tutta la sua insufficienza e, in definitiva, si condanna al fallimento, sino a quando non venga rimossa la causa profonda di quegli stessi mali -vale a dire, la coazione sistematica all’accumulazione di capitale. Presupposto del dominio sulla crisi è la modifica del sistema dei rapporti di produzione.

 

§.3 - Riforme e rivoluzione.

Cambiamenti d’un sistema si compiono solo dopo un lungo periodo di elaborazione. Prima che abbia successo la rottura rivoluzionaria, si snodano molti piccoli passi riformistici, volti ad edeguare un sistema inadatto alle condizioni della propria sopravvivenza. Questi passi sono i primi segni di un ‘passaggio’ più radicale, quando vengano concepiti ed usati come fasi inziali di più profondi cambiamenti.

Ovviamente, ciò non significa che le riforme siano superflue o addirittura indesiderabili, per il loro parziale esito stabilizzatore; giungere a questa conclusione sarebbe dar prova di frettolosità estremistica, dimentica della dialettica di quantità e qualità.

La nuova qualità -dunque, anche la nuova forma politica di organizzazione dei rapporti di produzione- non nasce per esplosione improvvisa, se così si può dire, dal seno stesso della vecchia società. Ha bisogno, invece, di molti piccoli cambiamenti, capaci di mettere progressivamente in forse l’unità sistematica della società in questione: ha bisogno, dunque, di molti interventi, che introducano in questo o quel punto la nuova qualità. Mediazione e rottura sono i due rovesci di una stessa medaglia, i due lati di uno stesso processo.

Ma il rovesciamento o la rottura non nascono ‘da soli’; al contrario, richiedono sempre soggetti operanti, che quel rovesciamento o rottura vogliano, che per essi si battano e li preparino.

L’ideologia riformistica si contenta dei cambiamenti interni al sistema esistente e dà così l’illusione di poter in tal modo combattere quelle deficienze, che son proprie, invece, del sistema come un tutto e in quanto tale: è in questo modo che il riformismo finisce col farsi puntello del sistema.

Un ruolo stabilizzatore non lo hanno le riforme in quanto tali, ma sì l’ideologia delle riforme (il riformismo), dacché smorza la volontà rivoluzionaria e giunge a sancire l’esistente fino al punto di comprimere ogni impulso rivoluzionario.

Lo sviluppo storico, tuttavia, segue sue proprie leggi: l’umanità non vuol precipitare nel baratro e, dunque, spinge per nuovi sviluppi, fino all’abbattimento dei rapporti esistenti.

Quest’ultimo risultato consegue ad un lungo e continuo processo di mutamento sociale; ma il passo politico decisivo per l’ingresso nel nuovo regime sociale è il mutamento del potere, ossia l’abbattimento rivoluzionario del potere d’una classe.

Non lasciamoci ingannare dall’abuso, che il linguaggio corrente oggi fa del termine ‘rivoluzione’: ogni paio d’anni, assistiamo ad una ‘rivoluzione’ -ad es., nella moda, col variare della lunghezza delle gonne; nel mercato, con l’introduzione di un qualche nuovo prodotto -per non parlare della ‘rivoluzione’, che l’ultimo libro pubblicato regolamente segna rispetto alla concezione del mondo! Le rivoluzioni effettive sono, invece, rare e coinvolgono l’intera società, in tutte le sue manifestazioni.

Un’effettiva rivoluzione disgrega l’esistente formazione sociale e comincia a far emergere il modello fondamentale di una nuova; a monte però di quel disgregarsi c’è un lungo processo, nel corso del quale la vecchia società comincia a mostrare crepe e segni di decadenza. Dall’altra parte è vero che al primo abbozzo di una nuova formazione sociale si richiedono ancora numerosi cambiamenti, perché un nuovo ordine si stabilisca effettivamente.

I mutamenti rivoluzionari non sono eventi improvvisi ed eccezionali, da cui sorga bell’e fatto il nuovo; al contrario, richiedono un lungo periodo di lotte -dunque, di vittorie e sconfitte, di innovazioni e di ricadute all’indietro.

Nel corso di questo lungo e complesso processo, però, vi è un momento, in cui i mutamenti introdotti appaiono con piena chiarezza in tutta la loro portata: è allora che ci si accorge che si è realizzato un mutamento di formazione sociale.

Son questi momenti, che fungono da segnale del fatto che si è entrati in una nuova epoca, che una rivoluzione è avvenuta e che essa dà il tono al’intera epoca.

 

§. 4 - La Rivoluzione d’Ottobre come segno di una nuova epoca.

La crisi del capitalismo, che scaturisce dall’acuirsi devastante delle sue interne contraddizioni, è un fenomeno secolare: per la prima volta, si manifestò nell’insieme della prima guerra mondiale.

In questa prima esplosione della crisi generale, la sconfitta militare portà al crollo della Russia zarista -nella quale andava svolgendosi ancora il processo di industrializzazione, ma in cui, anche, le masse popolari non avevano alcuna esperienza di lotta politica democratica, sia pure un senso borghese.

La borghesia, per altro relativamente poco sviluppata, non fu in grado di rispondere agli impetuosi colpi del movimento operaio e contadino con gli strumenti di una democrazia borghese funzionante, che si contrapponesse alla dittatura zarista: per questo fu trascinata nel suo stesso crollo.

L’«anello più debole» della catena imperialistica si ruppe; proprio l’immaturità delle condizioni, in questo caso, rese possibile la rivoluzione socialista.

Se in alcuni casi, la rivoluzione è stata l’acme o la conclusione di un lungo processo di sconvolgimenti radicali (si pensi al 1789 francese o alla Rivoluzione borghese del 1848), l’Ottobre del ‘17, invece, fu -e ciò vale anche per i primi anni dell’Unione Sovietica- il punto di avvio del processo mondiale di passaggio dal capitalismo al socialismo; essa non fu il frutto di mutamenti storici già realizzati: piuttosto, segnalò il primo ingresso in nuovi territori della storia; non sancì l’avvenuta vittoria del proletariato, ma sì l’inizio della lunga lotta per una società mondiale priva di classi, contro un avversario storicamente superato, ma ancora potente.

Con la Rivoluzione d’Ottobre inizia l’epoca del processo rivoluzionario, in cui il capitalismo sarà superato e la RTS sarà posta al servizio dell’uomo e non della valorizzazione del capitale.Trionfo e caduta del’Unione Sovietica sono stati una prima fase di questa epoca; noi  -che, ora, viviamo all’interno di un capitalismo apparentemente vittorioso ma, in realtà, dalle contraddizioni sempre più aspre ed acute-, siamo entrati in una seconda fase dello stesso processo.

La Rivoluzione d’Ottobre ha dato l’indimenticabile prova che gli sfruttati e gli oppressi -quelli che, oggi, vengon chiamati i deboli e gli esclusi- hanno la forza di ribellarsi. Essi sono in grado di edificare il loro proprio Stato, la loro propria società e di imporre limiti ad un potente nemico.

Fu l’Unione Sovietica ad abbattere il fascismo; fu essa ad assicurare la retrovia dei movimenti anti-colonialistici di liberazione nazionale; molte concessioni ai lavoratori negli stessi Paesi capitalistici, d’altronde, furono fatte proprio per la paura, che incuteva l’alternativa socialista. Insomma, “lo spettro del comunismo” ha turbato effettivamente l’animo dei potenti.

Tuttavia, il primo sistema sociale socialista è stato sconfitto.

Le sue basi economiche erano troppo deboli per poter vincere il confronto col sistema capitalistico, portando avanti contemporaneamente l’edificazione del sistema sociale sovietico.

La prosecuzione del processo rivoluzionario dopo la Rivoluzione d’Ottobre, nelle condizioni di persistente arretratezza tecnologica e di accerchiamento politico-militare, comportò a poco a poco deviazioni dagli scopi rivoluzionari.

In luogo della libera associazione dei produtori, si ebbe il progressivo rafforzarsi di un apparato burocratico, senza il quale non era possibile costruire il gigantesco Stato sovietico; il Partito non era più l’avanguardia del progresso sociale, ma sì chi esercitava effettivamente la funzione statuale e finì in tal modo col trasformarsi in un reale strumento di potere, invece che essere il mezzo collettivo, attaverso cui potesse costruirsi la volontà sociale.

Il Partito non riuscì ad essere il medio per l’integrazione delle masse in una complessa struttura d’istituzioni d’autogoverno. In questo modo, sempre più i singoli si rendevano autonomi dalla responsabilità verso la vita sociale e nel momento della crisi venne a mancare la prontezza necessaria alla difesa ed al rinnovamento della società socialista.

Ciò significa, forse, che la Rivoluzione d’Ottobre è stata nel suo complesso un fallimento? Oppure, che sia stata una sciagura, in quanto ha avuto come conseguenza il discredito dell’idea socialista?

Chi fraintendendo in modo sostanziale la Rivoluzione d’Ottobre la considera come stravolgimento del socialismo, non solo formula tali domande, ma anche risponde loro affermativamente.

Chi ritiene, invece, che la Rivoluzione d’Ottobre fu l’aurora di una nuova epoca mondiale e non il suo crepuscolo, non ha bisogno di negare il corso del sole, solo perché, al crepuscolo, il cielo si è oscurato.

Gli obiettivi per il futuro prossimo dell’umanità, che furono posti sia dal Manifesto comunista che dal Programma bolscevico, non hanno perso il loro contenuto.

L’aumentato sviluppo delle forze produttive, entro la pelle del capitalismo ed operando le sue leggi d’accumulazione, conducono alla distruzione dei presupposti ecologici della vita umana ed alla cancellazione ad opera dell’imperialismo di parte dell’umanità e delle cultura (non solo nel cosiddetto terzo mondo, ma anche nelle metropoli, sotto  forma d’immiserimento mentale e fisico di coloro i quali patiscono gli effetti della cosiddetta «società dei due terzi»).

Ecco perché la risposta al capitalismo è data dalla lotta rivoluzionaria per un ordine sociale alternativo, il socialismo, -non a causa della Rivoluzione d’Ottobre, ma sì in quanto lotta di classe, che si riproduce dall’interno stesso del capitalismo, persistendo ed acuendosi le sue contraddizioni radicali.

Alla vigilia dell’Ottobre rosso, nei materiali per la ristesura del Programma del partito bolscevico, Lenin formulò questa legge epocale: “ Il grado eccezionalmente alto di sviluppo del capitalismo mondiale in generale, la sostituzione del capitalismo monopolistico alla libera concorrenza, la creazione da parte delle banche e delle associazioni capitalistiche di un apparato per disciplinare socialmente il processo di produzione e di ripartizione dei prodotti, il carovita e l’oppressione della classe operaia che si accrescono con lo sviluppo dei monopoli capitalistici, le gigantesche difficoltà della lotta economica e politica della classe operaia, gli orrori, le calamità, le devastazioni, le atrocità generate dalla guerra imperialistica: tutto questo converte il capitalismo, giunto al suo attuale grado di sviluppo, nell’era della rivoluzione proletaria socialista. Quest’era è già incominciata.”  [42]

Si badi: Lenin scrive che “l’era” è cominciata e non semplicemente è venuto “il momento”. Egli era consapevole, quindi, che si trattava di una lunga fase dello sviluppo storico mondiale.

 

§. 5 - Vittoria o sconfitta: una partita ancora aperta.

E’ col 1917 che si è aperta l’era della rivoluzione proletaria. Ma anche rivoluzioni, che son giunte al culmine di uno sviluppo storico-sociale, non si sono svolte senza sconfitte.

La Grande Rivoluzione francese del 1789 ratificò il passaggio alla società borghese, che dopo più di un secolo mediante cambiamenti al livello dei rapporti di produzione fu portata a termine; e tuttavia con il Congresso di Vienna del 1815 -dopo la sconfitta militare di Napoleone-, per un’intera generazione, le potenze della Restaurazione riuscirono ad imporre di nuovo la monarchia assoluta, mediante la “santa alleanza” con lo Zar, con l’Imperatore austriaco e con il Monarca prussiano. Per questo bisogna dire che la Rivoluzione del 1789 fallì e che naufragarono i suoi ideali? In nessun modo.

Lo sviluppo dal faudalesimo al capitalismo ed alla democrazia borghese fu solo ritardato, ma non arrestato.

I maggiori spiriti del tempo, anche durante la reazione, continuarono ad apprezzare la Grande Rivoluzione: un personaggio dalla statura di un Hegel -per altro calunniato come “filosofo dello Stato prussiano”- era solito brindare il 14 luglio, giorno anniversario della presa della Bastiglia.

La Rivoluzione d’Ottobre è quella soluzione di continuità, da cui storicamente ha inizio l’attuale epoca della storia dell’uomo. A partire dall’Ottobre rosso comincia la lotta per l’emancipazione dalla società borghese, poichè il superamento della proprietà privata degli strumenti di produzione e dell’appropriazione privata del plusvalore prodotto socialmente (insomma, la logica negazione determinata del capitalismo), con il primo tentativo di costruzione d’una formazione sociale socialista, ha trovato una sua determinata concretizzazione storica. Va da sé che proprietari privati e direttori d’imprese non hanno mancato di contrapporsi a tale tentativo e non significa certo cadere nel disfattivo affermare che essi, posta la grande superiorità materiale su cui potevano fare affidamento, erano perfettamente in condizione di vincerla la battaglia.

Altrettanto certamente è un successo storico il fatto che coloro che hanno cominciato la costruzione di una società socialista, non solo, siano stati capaci di resistere per settant’anni e di conquistarsi un effettivo ruolo mondiale, ma che siano anche riusciti, in molti ambiti, a costruire modelli funzionanti di un nuovo insieme sociale. Questo è un successo che neppure la provvisoria rivincita del capitalismo può cancellare, dacché son stati prodotti esempi effettivi, che operano nella coscienza e possono motivare il comportamento politico.

La realtà è che il progresso nella storia non si compie in modo lineare, ma sì pagando il prezzo di sconfitte, anche, e di arretramenti; tuttavia, la storia è pure, come Hegel diceva, “progresso nella coscienza della libertà”: il che significa che quanto è stato una volta conquistato non è più dimenticato dagli uomini, ma continua ad operare nel “dominio della rappresentazione”.

Per tutti questi motivi è dalla Rivoluzione d’Ottobre che inizia l’epoca del passaggio dal capitalismo al socialismo. L’esito di questo passaggio, però, non è scontato: può riuscire, ma anche può fallire; è certo, comunque, che il suo successo presuppone che si lotti per la nuova società, dato che i proprietari capitalistici debbono contrapporsi ad ogni mutamento dei rapporti di proprietà, poiché l’essere sempre più soggetti al feticismo della valorizzazione del capitale, per essi, acquista l’aspetto del profitto.

Solo la classe, che non si appropria del plusvalore -dacché si limita a produrlo-, non ha il minimo interesse a che continui l’accumulazione di capitali; solo questa classe può cambiare il sistema, senza entrare in contraddizione con se stessa.

Coloro i quali vendono una forza-lavoro, da cui altri ricavano profitto, non hanno alcuna ragione di legare i propri interessi a quelli della difesa del capitale privato; debbono solo prender coscienza della loro condizione di classe e coglierne la radicale contraddizione con l’epoca presente.

La crisi del capitalismo è inscritta nel suo stesso sistema economico ed il trionfo su tale crisi è una questione di classe: insomma, la nostra epoca è tale, per cui o si ha fuoriuscita socialista dalla crisi o  non si ha affatto fuoriuscita.

Abbiamo tutti i motivi per non dimenticare i colpi sparati dall’incrociatore Aurora, con cui iniziò la Rivoluzione d’Ottobre. Come poteva dire Goethe a proposito delle cannonate di Valmy (quando i soldati rivoluzionari francesi misero in fuga l’armata interventistica austro-prussiana), anche noi possiamo asserire: qui abbiamo l’inizio di un nuovo tempo. Le cannonate dell’Aurora inaugurarono una nuova epoca, al cui termine l’umanità o avrà dato a se stessa  un nuovo ordinamento sociale, oppure avrà perso se stessa.

Con questa alternativa ben presente ai nostri occhi, possiamo continuare a vedere nella Rivoluzione d’Ottobre il segno d’una speranza, ma anche di un dovere: quello della lotta internazionale per i diritti dell’umanità.

 

 

6° Capitolo - Crisi generale del capitalismo.

 

La caduta del sistema socialista nell’Europa dell’est e il trionfo del capitalismo, come vittoriosa formazione sociale apparentemente stabile, hanno condotto al fatto che una serie di categorie storico-materialistiche per la comprensione della storia e dell’epoca siano state abbandonate in quanto giudicate inservibili.

Questo disfattismo teoretico significa che una costruzione propriamente concettuale è stata demolita senza un’effettiva verifica critica, ma semplicemente sulla base dell’apparenza esteriore.

La conseguenza è che si è, così, riconosciuta anche l’egemonia ideologica dell’avversario e si sono abbandonate posizioni strategicamente importanti al livello della visione del mondo.

Non infrequentemente tale arretramento è stato giustificato con il fatto che nel passato scienziati socialisti son caduti nell’errore di generalizzazioni grossolane ed hanno usato in modo inadeguato, se non addirittura falso, categorie discutibili, ottenendo così il risultato di discreditarle. Che tale giustificazione testimoni piuttosto di un’insicurezza soggettiva e non abbia validità logica lo si puà mostrare con un semplice paragone: chi se la sentirebbe di affermare che la sottile costruzione intellettuale di un Tommaso d’Aquino perda, essa, di valore, per l’appiattimento che subisce all’interno dell’insegnamento religioso?

Le categorie dialettiche denotano sì una realtà e la descrivono; ma lo fanno in modo tale, da lasciar trasparire, anche, la funzione che hanno nella prospettiva di una teoria dell’«insieme», orientata alla prassi e finalizzata a guidare il comportamento -funzione, che appunto quelle categorie possono avere, se e solo se vien riconosciuta la loro intima connessione con la teoria in questione. Estrapolate da tale connessione ed utilizzate isolatamente, esse perdono ogni capacità di significare la realtà e si capovolgono in strumenti di auto-accecamento -come dimostra ampiamente la storia del pensiero e delle visioni del mondo.

Perché una teoria continui ad esser vitale è sempre necessario -lo diceva Hegel- che si rinnovi la “tensione del concetto”. La conclusione è che il lavoro in ambito teoricoè un compito ineludibile per coloro, i quali puntano ad un agire politico, supportato dalla conoscenza scientifica del mondo.

Naturalmente, il lavoro nella teoria implicita che il contenuto concettuale si modifichi, modificandosi la realtà -la capacità di arricchirsi e di modificarsi è, forse, ciò che indica se un concetto continua a valere come forma del pensare, oppure se ha cessato di esser qualcosa di utilizzabile. Far sì che al livello dei concetti e della teoria il movimento della realtà trovi una propria, adeguata espressione è una pratica quotidiane delle scienze, che ha nella filosofia il suo riflesso.

Tra le formule discreditate, che giocano un ruolo centrale nella teoria storico-materialistica contemporanea, c’è quella della “crisi generale del capitalismo”.

Bisogna riconoscere che spesso questa formula è stata usata come un cliché, che mal nascondeva l’incapacità di analizzare ed elaborare a livello concettuale i processi determinati, in cui quella crisi si manifesta ma che consentono, anche, la riproduzione e perfino il consolidamento dei rapporti capitalistici di produzione. Parlare della crisi generale del capitalismo era divenuto quasi il ricorso ad una formula magica, con cui si cercava di sottrarre ad ogni dubbio  la vittoria del socialismo, pur se questa richiedeva ancora sacrifici e non era affatto scontata. Usata come incantesimo propiziatorio, che libera il pensiero dalle contraddizioni in cui noi stessi siamo invischiati, quel modo di caratterizzare l’epoca impediva l’approfondimento teorico dei processi in cui si snoda la crisi sociale e rendeva impossibile un agire politico, capace di incidere su quegli stessi processi.

Innanzi tutto, teorici marxisti caddero nell’errore d’un eccesso d’ottimismo nel valutare la forza del socialismo nella sua prima fase di costruzione: in questo modo si giunse a considerare l’esistenza stessa del campo socialista un essenziale fattore determinante la crisi generale del capitalismo.

Ma i fattori effettivamente determinanti la crisi di un sistema debbono esser ricercati in quei fenomeni, che nascono dal suo interno, dalla sua stessa essenza; fattoriesterni, infatti, divengono determinanti, solo nel caso in cui un sistema, per il suo stesso mantenimento, risulti troppo unilateralmente dipendente dalla coesistenza con e dall’aiuto di potenze esterne. Proprio questa dipendenza dall’esterno tende a divenire un interno fattore destabilizzante.

Da parte loro, i Paesi capitalistici non dipendevano unilateralmente dalla coesistenza e cooperazione con i Paesi socialisti: ben al contrario, il loro sistema poteva perfettamente prescindere da tale coesistenza o cooperazione ed, anzi, era in grado di sopportare perfino scontri militari (sia pur contenuti al di qua del confronto mondiale fra Potenze atomiche); e tutto ciò era stato, per altro, dimostrato dalle guerre in Corea e in Viet-nam e, ancor più ampiamente, dalla «guerra fredda» con la conseguente corsa agli armamenti, che poi non era altro se non una continua preparazione alla guerra e perfino quasi una sua prima fase.

Senonché, dopo il 1956 i Paesi socialisti divennero in crescente misura dipendenti dalle prestazioni economiche e, in seguito al processo apertosi con la Conferenza per la sicurezza e la collaborazione in Europa, anche dagli interventi politici delle Potenze capitalistiche, nonché favorirono lo sviluppo di ineguali relazioni economiche con le strutture egemoniche del capitalismo mondiale. E tutto ciò progressivamente divenne non un effetto della crisi dei Paesi socialisti, ma addirittura momento del loro stesso sviluppo.

Bisogna liberarsi dall’idea che la crisi generale del capitalismo vada definita mediante la correlazione con il sistema socialista: infatti, i tratti caratterizzanti quella crisi devono esser ricercati nell’essenza del processo di socializzazione capitalistico e, in definitiva, nell’inasprirsi della sua contraddizione fondamentale, quella, cioè, tra capitale e lavoro.

Ciò significa che dobbiamo rinunciare alla categoria di crisi generale del sistema capitalistico ? Oppure che essa manchi di un qualunque senso effettivo, che possa e debba esser conservato, una volta liberata quella categoria dal suo appiattimento? Non dice proprio nulla della situazione del sistema sociale, in cui viviamo e che -apparentemente con nuove forze- continua a dar l’impronta di sé al mondo intero, ad influenzare le condizioni della riproduzione di Paesi non capitalistici -come la Cina e il Viet-nam- o precapitalistici -come in Africa-?

Una formazione sociale, -che produce oggi distruzioni ambientali, guerre, impoverimento di massa e svuotamento di senso della vita umana-, come altrimenti potrebbe essere caratterizzata se non da un concetto, che esprime il divorzio radicale fra scopi e realtà sociale ed il rompersi stesso del tessuto sociale?

Quella di crisi generale del capitalismo è una categoria storica, che ci dice che le sue contraddizioni interne -sulle quali poteva ancora esser esercitato un controllo nella fase di sviluppo del sistema sociale-, oggi, nella sua fase matura, non generano altro che scompensi gravidi di pericoli tra le condizioni d’esistenza dell’umanità.

Crisi generale significa che le contraddizioni capitalistiche hanno ormai assunto forme, che derivano dal loro intrecciarsi, influenzarsi e incastrarsi l’un nell’altra, generando così un sistema, in cui caoticamente i singoli elementi entrano in conflitto l’un con l’altro.

La categoria in questione non appartiene al vocabolario marxista, quale si trova nelle opere di Marx e di Lenin; e ciò perché le manifestazioni di una crisi generale del capitalismo sono apparse, solo, nella sua fase imperialistica con l’acuirsi profondo delle sue contraddizioni interne.

Quando Lenin parla di crisi del capitalismo si riferisce alla prima guerra mondiale ed alle acuite contraddizioni economiche che ne erano la conseguenza, nonché alle contrapposizioni politiche fra Stati capitalistici.

Certamente in Lenin vi sono numerose indicazioni circa il fatto che “l’imperialismo è entrato in un’epoca di crolli giganteschi e di violente decisioni e crisi militari a livello di massa”, di cui il 1918 poteva esser diagnosticato come solo l’inizio [43] . Inoltre, in una comunicazione al Comitato esecutivo del Comintern, nel 1920, Lenin elencava una serie di decisioni, che caratterizzavano in tal senso la situazione, sempre ovviamente nel contesto del quadro internazionale. [44]

Il concetto di crisi restò, comunque, confinato all’ambito economico-politico ed usato, solo, in riferimento a situazioni spazialmente circoscritte.

Anche Stalin, nel 1925, disse con tutta chiarezza che la disgregazione del capitalismo non ne imperiva, tuttavia, un ulteriore sviluppo, anche se ciò avrebbe comportato la creazione di relazioni, che avrebbero reso più acute le contraddizioni basilari del capitalismo; Stalin parlò, perfino, di una fase di stabilizzazione del capitalismo. [45]

Per la prima volta nel 1934, analizzando nel rapporto al XVII Congresso del Partito la crisi capitalistica del momento, Stalin disse che si trattava della crisi più seria, che aveva ormai investito tutti i Paesi capitalistici senza eccezione, esattamente perché “la crisi industriale cresceva sulla base della generale crisi del capitalismo.” [46]Comunque, neanche in quell’occasione, si chiariva cosa comportasse l’aggettivo generale.

Dall’insieme risulta che la combinazione di crisi industriale ed agricola per il mantenimento di altri prezzi delle merci ne costituiva un aspetto essenziale, così come il montare del fascismo e del pericolo di guerra; Stalin, comunque, ammoniva, sulla scorta di Lenin, a non considerare la crisi della borghesia come priva di vie d’uscita. [47]

“Crisi generale del capitalismo” non significa che il sistema sociale capitalistico si trovi in una processo di auto-dissolvimento, ma solo che le conseguenze delle sue interne contraddizioni saranno scaricate sempre più pesantemente sulle masse. Il capitalismo non crolla da sé per la sua crisi, ma se -e solo se- le masse si costituiscono come soggetto alternativo, come forza che lotta per un nuovo ordinamento sociale. [48]

Ma cosa distingue, dunque, quella ‘generale’ dalle crisi cicliche, che hanno accompagnato ed accompagnano tutto lo sviluppo del capitalismo e che son l’espressione stessa della dinamica delle sue contraddizioni interne?

Il passaggio ad un’attività economica che si estende sul piano mondiale -in particolare, l’attività del capitale finanziario- ha come conseguenza l’esplodere più facile e rapido di crisi regionali; è questo che cosegue dall’universalità economica, che si costituisce col mercato mondiale.

La reciproca dipendenza delle economie nazionali, ma anche dei singoli settori economici, fa crescere la possibilità di esser colpiti dalla crisi del sistema, i cui meccanismi di ricaduta si svolgono, in una crescente dimensione, spontaneamente (“naturalmente”), ad opera delle leggi del libero mercato.

Di qui la necessità, al fine di gestire la crisi all’interno del sistema, di far ricorso ad Istituzioni ed a strumenti, che riescano ad introdurre momenti di direzione e di sistematicità (ad es., gli interventi delle Banche centrali sul mercato finanziario, per il controllo dei cambi), allo scopo di attutire gli scossoni che volta a volta si determinano.

Ma quando un sistema non può più funzionare sulla base delle sue proprie leggi strutturali ed ha bisogno, invece, di ricorrere a strumenti che quelle leggi contraddicono, allora esso dà  prova della sua instabilità e riesce a conservare un’apparenza di stabilità solo per produrre nuove contraddizioni (le quali, a loro volta, genereranno nuova instabilità ad un livello crescente, e così via).

Non è dubbio che un simile ordinamento economico è in grado di conservarsi a lungo nel tempo -se non altro quando può fare affidamento su grandi riserve di ricchezza sociale e quando non incontra, al proprio interno, un nemico combattivo. In ultima istanza, però, esso si mantiene, solo, facendo gravare, via via maggiormante, sugli strati più deboli del sistema sociale il costo dei tentativi di equilibrare le proprie contraddizioni: un risultato di ciò è l’inasprimento delle interne distanze sociali. Tuttavia, questo è, per quanto fondamentalesolo un aspetto -quello economico- della crisi del sistema.

Tale crisi in tanto può essere generale, in quanto dall’ambito dei rapporti di produzione, le contraddizioni si espandono fino ad investire il complesso della vita sociale.

L’aggravarsi delle crisi economica dal punto di vista degli interessi della classe dominante ben presto si accompagna allo smantellamento delle strutture politiche equilibranti, che dovrebbero assicurare l’integrazione degli sfruttati e dominati all’interno del sistema. In luogo di una sia pur limitata partecipazione al potere politico, mediante istituzioni democratiche, va sempre più affermandosi la subordinazione ad istanze amministrative, fino all’instaurazione di un autentico ordine statale poliziesco e di un imperscrutabile, anonimo meccanismo di regole e di sistemi di controllo.

Non più organi statali sottoposti a limiti costituzionali, ma sì aumentato ruolo del potere finanziario in decisioni, che riguardano direttamente la vita dei cittadini (ad es., a proposito dell’installazione di impianti tecnicamente rischiosi; di piani commerciali; di strategie di ricerca; di investimenti, con le connesse implicazioni occupazionali, ecc.).

La crisi della democrazia è un aspetto essenziale della crisi del capitalismo e, di qui, estensione della corruzione, della perdita di rispetto per l’ordinamento giuridico, di una insicurezza giuridica progressivamente crescente.

Se, all’interno, la dimensione politica della crisi economica assume l’aspetto della crisi della democrazia, all’esterno invece, assume quello di un carattere sempre meno pacifico delle relazioni internazionali.

La connessione di espansione economica e militare, di crisi economica e di avventure armate è talmente sotto gli occhi di tutti, che non va neppure dimostrata: la guerra non è che la forma manifesta della crisi del capitalismo in epoca imperialistica.

L’abbattimento o lo svuotamento dei diritti democratici, l’estendersi in ambito politico della crisi economica, tutto ciò consegue all’inasprimento delle interne distanze sociali, che -a loro volta- sono il frutto di una gestione della crisi nell’interesse della classe dominante. Questo trasferimento dei guasti della crisi significa abbassamento dello standard di vita in alcuni Paesi, aumento dello sfruttamento della forza-lavoro, aumento crescente della disoccupazione e, per quanto possibile, esportazione dell’immiserimento in Paesi poso sviluppati.

Regressione sociale, abbandono della gioventù, crescita della criminalità e del tasso di violenza quotidiana, immigrazione con conseguenti difficoltà di inserimento: ecco altre conseguenze  della crisi sociale.

Così la società perde la sua capacità di integrare. Gli individui vengon ricacciati nel chiuso e nell’isolamento della loro individualità; si disgregano i legami familiari e comunitari, dacché vengono a mancare scopi generali, capaci di legare e responsabilizzare; sempre più misere si fanno le attese per il futuro ed il singolo non vede più la possibilità di un proprio ruolo positivo nella costruzione dell’insieme sociale. Sollecitazioni privatistiche isolano sempre di più dalla vita pubblica; la stessa identità personale si fa problematica e si finisce col ricercar sicurezza aderendo a sette o piccoli gruppi, anche passando ripetutamente dagli uni agli altri.

Tutto l’insieme dei valori che orientano la vita si disgrega e ciò che resta è la vuota parola libertà, all’interno di un realtivismo pluralistico e scettico, nonché la facile disponibilità alla rinuncia a qualsivoglia opinione in nome della novità, dell’  innovazione.

Ma esattamente il disperdersi di qualunque visione del mondo costituisce il presupposto della manipolazione delle coscienze, che si sostituisce all’autonoma capacità di giudizio critico: è così che la crisi sociale diviene, anche, crisi del senso stesso della vita. Tale perdita di senso porta con sè anche il dissolversi delle tradizioni culturali, che fanno da tessuto connettivo di una società.

Costumi, stili di vita, coscienza storica, contenuti culturali illanguidiscono e vengono sostituiti da mode, che rapidamente si esauriscono -mode, che ovviamente non sono in grado di dare agli uomini stabilità e consistenza di concezione della vita.

Con l’abbandono di obiettivi culturali di fondo, anche la scuola scade a luogo in cui si accostano l’uno all’altro apprendimenti particolari che, però, non hanno più un’anima, un punto di riannodo, che sia capace di dar loro un senso; e così il pensiero non è più in grado di comprendere e ordinare, all’interno di una visione sistematica, la massa sempre crescente delle scoperte e innovazioni, che son prodotte dalla RTS. A questo punto, la crisi culturale diviene anche crisi delle capacità tecniche, per soddisfare i nostri bisogni e per strutturare il nostro rapporto con la natura.

Ed ecco come il cerchio si chiude: sotto la pressione della legge fondamentale del capitalismo -la necessità dell’accumulazione capitalistica-, il crescente sviluppo delle capacità tecnico-scientifiche conduce ad un perturbamento dei rapporti naturali, gravido di pericoli per le stesse condizioni della vita umana.

Lo sfruttamento spontaneo delle risorse naturali non solo modifica lo stato biologico della terra (ad es., abbattimento di foreste o perdita di risorse d’acqua), ma, anche, muta le condizioni stesse dell’ illimitata produzione dei beni della civiltà (ad es., mediante il dannoso inquinamento atmosferico, il buco dell’azono e l’ accumulo di residui inquinanti).

Per la prima volta nella storia, si mostra oggi una fondamentale contraddizione naturalistico-dialettica del capitalismo: quella tra crescita economica e disastro ecologico. Questa è, appunto, la crisi dei rapporti fra uomo e natura o  crisi ecologica.

Il concetto «crisi generale del capitalismo» acquista tutto il suo senso solo sulla base di quanto abbiamo detto; si tratta di una categoria, che appartiene alla storia delle formazioni sociali.

Se ogni formazione sociale conosce periodi di crescita (quando lotta contro una preesistente formazione, in via di decadenza), di maturazione (quando il suo sviluppo coincide con le richieste progressive dell’umanità) e di decadenza (quando si contrappone con la sua forma di sviluppo a finalità sociali umanistiche), il capitalismo -la cui forma di sviluppo è quella delle crisi cicliche-, una volta entrato nella fase della sua decadenza, non conosce più crisi in quanto momenti di passaggio ad un più alto livello d’organizzazione del sistema produttivo, ma sì in quanto momenti di disgregazione  delle condizioni complessive della vita sociale e, così, è lo stesso sistema capitalistico, che taglia l’erba sotto i piedi a quelle che sono le condizioni della sua riproduzione.

Di conseguenza, la crisi non è più solo una generale crisi economica, una crisi dell’ordinamento economico (che potrebbe esser valutata ancora come ciclica e, dunque, destinata ad esser superata); sì piuttosto è la crisi generale del sistema sociale. Essa ne abbraccia tutte le manifestazioni ed opera guasti in progressione. Questi sono i segni caratteristici di tale situazione:

- crisi economica;

- crisi politica della democrazia fino a forme di fascismo;

- crisi politica fino a possibilità di guerra;

- crisi sociale;

- crisi di senso;

- crisi culturale e d’orientamento;

- crisi delle capacità tecniche;

- crisi ecologica.

E’ chiaro come i vari momenti di questa crisi generale agiscano l’un sull’altro, sulla base delle fondamentali contraddizione e crisi economiche.

Nella stessa misura in cui quello di crisi è un concetto economico - “la crisi ha origini interne, nei modi di produzione e quindi di scambio, e non in fatti politici e giuridici...” [49]-, esso deve ampliarsi a concetto, che designa un’intera epoca storica e non si chiude nel ristretto ambito economico, poiché “è difficile nei fatti separare la crisi economica dalle crisi politiche, ideologiche ecc., sebbene ciò sia possibile scientificamente, cioè con un lavoro di astrazione.” [50]

E’ appunto l’amalgamarsi dei vari momenti della crisi, che la rende una determinata fase storica dello sviluppo capitalistico e, dunque, la eleva a crisi generale.

Insomma, l’espressione «crisi generale del capitalismo» ha un senso teoricamente preciso, da cui una teoria materialistica della storia non può facilmente prescindere, qualora non voglia sottrarsi al compito di dare una caretterizzazione complessiva della fase attuale del capitalismo.

Che questa fase non sia necessariamente di breve durata e che non comporti l’automatico crollo del capitalismo ed il passaggio al socialismo, Lenin lo ha già detto con estrema chiarezza.

“Compagni, siamo così giunti alla questione della crisi rivoluzionaria, che costituisce il fondamento della nostra azione rivoluzionaria. E qui bisogna indicare anzitutto due errori molto diffusi. Da un lato, gli economisti borghesi presentano questa crisi come un semplice fenomeno di «irrequietezza», secondo l’elegante espressione degli inglesi. Dall’altro, i rivoluzionari si ingegnano talvolta di dimostrare che la crisi è assolutamente senza sbocco. Questo è un errore. Nessuna situazione è assolutamente senza sbocco. La borghesia si comporta come un rapinatore sfrontato, che ha perduto la testa, fa una sciocchezza dopo l'altra, aggrava la situa­zione e affretta la sua rovina.  Tutto questo è vero.  Ma non si può «dimostrare» che la borghesia non abbia assolutamente alcuna possi­bilità di addormentare una minoranza di sfruttati con qualche conces­sione e che non riesca a schiacciare questo o quel movimento, questa o quella insurrezione di una parte degli oppressi e degli sfruttati. Sa­rebbe pura pedanteria, significherebbe baloccarsi con le parole e le idee, cercare di «dimostrare» in anticipo che la situazione è «assolu­tamente» senza sbocchi.  In questo e in altri problemi del genere una «dimostrazione» effettiva può venire soltanto dalla pratica.” [51]

La pratica -vale a dire l’organizzazione e la mobilitazione delle masse, che sono le vittime della crisi; la formazione di un soggetto collettivo, che si assuma il compito di battere questa società produttrice di crisi. E questo è un compito lungo, che non va mai dismesso.

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