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Elementi per un percorso di soggettivazione sociale, generazionale, politica

Lorenzo Zamponi

Lo scenario che le elezioni politiche del 24-25 febbraio ci hanno lasciato è quanto di più confuso e surreale si potesse immaginare. Dopo un anno e mezzo di governo Monti, in cui qualsiasi nefandezza è stata giustificata con le necessità della crisi finanziaria, ora che c'è un nuovo parlamento, in linea teorica ben più sensibile del precedente rispetto ai temi sociali ed economici, questi sono completamente spariti dalla scena, coperti dal folklore parlamentare, da assurdi dibattiti sul fatto se le indennità dei presidenti delle camere vadano tagliate del 30 o del 50% e da alchimie politiche sulla formazione del governo che non hanno niente di invidiare alla poco gloriosa epoca del pentapartito.

Anche i pochi elementi positivi di questo primo scorcio di legislatura, come l'elezione a capo dei due rami del parlamento di due persone come Laura Boldrini e Pietro Grasso, rischiano di ridursi ad aperture apprezzabili ma cosmetiche, che lasciano ancora fuori dal parlamento le vertenze reali, i mille drammi e conflitti quotidiani che attraversano questo paese, la realtà di un'emergenza economica che viene tirata fuori a orologeria per giustificare qualsiasi macelleria sociale da parte dei governi e nel frattempo continua lentamente ad erodere le condizioni di vita di milioni di cittadini.

Ciò che succederà nelle prossime ore e nei prossimi giorni aiuterà a chiarire alcuni elementi di questo panorama, dato che non tutti gli scenari, chiaramente sono uguali:

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Tre osservazioni al Manifesto di Fabrizio Barca

di Riccardo Achilli

1630 5 La Maddalena Penitente Georges De La TourUna sintesi del documento di Barca   Il documento “Un partito nuovo per un buon Governo”, presentato dal Ministro della Coesione Territoriale Fabrizio Barca, rappresenta la sua dichiarazione di discesa definitiva nella politica. Il documento in questione è focalizzato principalmente sulla idea di rifondazione della politica e della pubblica amministrazione, che nel pensiero di Barca passa tramite una decisa e profonda riforma del ruolo e del funzionamento dei partiti politici. Rispetto al focus sulla riforma dei partiti, le questioni programmatiche più generali sono, per così dire, lasciate sullo sfondo, anche se sufficientemente articolate da lasciar intravedere con chiarezza un orientamento politico generale imperniato su posizioni socialiste liberaldemocratiche moderate, equidistanti sia dal pensiero liberista più radicale (da lui chiamato “minimalismo”), sia dal pensiero socialdemocratico più ortodosso. Una sorta di riproposizione, in versione più moderna, di suggestioni da “terza via”, nel rifiuto di seguire un modello laburista radicale, incolpato di sostanziale fallimento nel dare risposte ad una richiesta sempre più personalizzata di servizi pubblici, di promozione di una cultura dell’assistenzialismo nei cittadini e nelle imprese, di distorsione “da sussidi eccessivi” dei segnali e delle aspettative imprenditoriali in materia di investimento privato, di soffocamento di una crescente tendenza della società verso l’individualismo (il che, a mio avviso, è un bene e non un male, peraltro). Emergono quindi alcuni elementi centrali del pensiero di un socialismo liberale e moderato: l’attenzione all’efficace funzionamento dei mercati, assegnando al soggetto pubblico il ruolo di produrre quei beni pubblici di contesto utili per realizzare esternalità favorevoli alla competizione (P.A. efficiente, dotazione infrastrutturale migliorata, più efficienti strumenti di separazione fra proprietà e controllo, ecc.), una visione di un nuovo welfare basato più sull’apprendimento permanente e l’adattabilità che sulla mera assistenza (cioè sostanzialmente ciò che Blair chiamava “workfare”), il tentativo di trovare un nuovo punto di equilibrio fra austerità e crescita, che recupera anche suggestioni di politiche di spesa di tipo “stop and go”, ecc.

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Il topolino dei Saggi

Davide Antonioli e Paolo Pini

Il gruppo dei Saggi nominati dal Presidente della Repubblica Napolitano ha reso pubblica la ricetta per affrontare la crisi individuando la loro “Agenda possibile” per il prossimo Governo (>http://www.quirinale.it/qrnw/statico/attivita/consultazioni/c_20mar2013/dossier_gruppi.aspx ). Ci occupiamo qui di un tema su cui Inchiestaonline.it ha ospitato vari interventi: Retribuzioni, produttività e relazioni industriali.Il documento dei Saggi, nella sezione 3. Arrestare la Recessione, avviare la ripresa, al fine di 3.1 Creare e sostenere il lavoro, dedica alcune riflessioni a queste questioni. Riflessioni forse è troppo: 11 righe su Produttività e retribuzioni e 15 righe sulle Relazioni industriali, a pagina 22 del documento. Le novità sono poche, e quelle poche non sono buone.
>1. Retribuzioni e produttività Cosa suggeriscono i 5 Saggi che si sono occupati di proporre azioni per fermare il declino della produttività in Italia mediante lo strumento delle retribuzioni? Non hanno molta fantasia, e neppure sembra abbiano letto nulla, o molto poco, di quanto è stato scritto dopo l’accordo del 21 novembre 2012 tra le parti sociali, esclusa la CGIL, il noto Patto sulla produttività< su cui abbiamo scritto qui (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Produttivita-un-accordo-con-nulla-di-buono-1550 ).

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Il dilemma postelettorale

Carlo Formenti

Le interpretazioni dell’esito elettorale del 24/25 febbraio scorso si sono massicciamente concentrate su due fattori: il fenomeno (nel senso comune piuttosto che nel senso scientifico del termine) Grillo, osservato con gli occhiali della performance comunicativa e/o della protesta populista e «antipolitica», ignorando sia il programma politico – dato furbescamente per inesistente – sia le radici di classe del Movimento 5 Stelle; la straordinaria perfomance di Berlusconi, al cui «genio» di comunicatore si è tributato omaggio sorvolando allegramente sui contenuti comunicati e sugli interessi che tali contenuti incarnavano. Se ciò è spiegabile, anche se non giustificabile, per le analisi e le opinioni dei giornalisti impegnati a contemplare il proprio ombelico professionale e guidati dalla bovina certezza che la politica sia riducibile a prassi comunicativa, lo è assai meno – ed è del tutto ingiustificabile – per i politici e gli intellettuali di sinistra che, tramortiti dallo choc, hanno continuato a ripetere luoghi comuni e a marciare nella direzione che li ha portati alla disfatta.

Provo a offrire un’altra chiave di lettura di quel voto (a prescindere dai successivi esiti in termini di formule e programmi governativi che, nel momento in cui scrivo, appaiono nebulosi) a partire da tre dati di fatto: 1) come evidenziato da G.B. Zorzoli su www.alfabeta2.it, centrodestra e centrosinistra hanno perso, complessivamente, rispetto alle elezioni del 2008, più di dieci milioni di voti, il che, se si considera che il centrodestra è quello che ne ha persi di più, ridicolizza i peana sull’«impresa» berlusconiana;

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Fermiamo il “pilota automatico”

di Alfonso Gianni

Mentre ci si arrovella sul nome del prossimo presidente della Repubblica, il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro. Il problema è che in assenza di vigorose inversioni di percorso, presto o tardi andremo a sbattere

La politica ufficiale e i mass media si arrovellano sul misterioso identikit del prossimo Presidente della Repubblica, che dovrebbe mettere d’accordo tutti, almeno da Vendola a Berlusconi, passando per il Pd e contando sul contributo degli stessi grillini. Il tutto per arrivare alla sua elezione entro i primi tre scrutini quando ci vuole la maggioranza dei due terzi, il che potrebbe permettere poi una soluzione tutta in discesa del rebus del governo, visto che le elezioni a giugno non le vuole proprio nessuno, neppure Grillo essendo già in discesa nei consensi. Intanto il famoso “pilota automatico”, di cui ci ha parlato Mario Draghi, ovvero il governo occulto dell’economia, prosegue indisturbato il suo lavoro.

Anche perché trova una spalla efficace nel governo Monti tuttora in carica per l’ordinaria amministrazione, che però tale non è affatto. Non c’è dubbio che i 5Stelle abbiano ragione a chiedere l’insediamento delle Commissioni permanenti e che faccia loro bene, come a chiunque, tenere sedute serali di lettura collettiva della Costituzione. Ma farebbero ancora meglio, visto che ne hanno i numeri, a presentare, ai sensi dell’art. 94 della suddetta Costituzione, una mozione di sfiducia al governo che il Parlamento dovrebbe discutere.

Invece continuiamo ad essere in una situazione mostruosa sotto il profilo istituzionale.

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utopiarossa2

Il Movimento 5 Stelle

Una rivolta nella postdemocrazia e le ossessioni della (ex) sinistra italiana

di Michele Nobile

Demonizzazione e captatio benevolentiae verso il M5S

È da tempo che la crisi di legittimità della casta partitico-statale italiana si esprime nella crescita dell’astensionismo: che è il fenomeno politico maggiormente in crescita di cui poco si parla o se ne parla per liquidarlo come primitivismo antiparlamentare o «qualunquismo». Come forma di protesta politica l’astensionismo cresce perché ha profonde e diffuse motivazioni sociali, alle quali né il centrosinistra né il centrodestra sono in grado di rispondere in modo credibile e accettabile.

Con le recenti elezioni la crisi di legittimità si è trasferita anche all’interno dell’istituzione parlamentare, in conseguenza del successo elettorale del Movimento cinque stelle (M5S): piaccia o no, di fronte ai partiti che da vent’anni governano il paese è il M5S che costituisce il terzo polo, quello della protesta.
È questo che spiega l’ambivalenza dell’atteggiamento di politici e commentatori nei confronti del M5S, che oscilla tra la demonizzazione e la captatio benevolentiae: in questo secondo caso ci si aspetta che Grillo «il demagogo» e i parlamentari della cosiddetta «antipolitica» sappiano anche mostrarsi ragionevoli e costruttivi, consentendo in tal modo la formazione di un governo, possibilmente di centrosinistra.

Tuttavia il M5S rifiuta, certamente non senza tensioni, di giungere ad accordi con il Pd: accordi che in altre circostanze si sarebbero spregiativamente bollati come consociativi e che costituirebbero il definitivo colpo di grazia alla ventennale retorica circa l’alternanza bipartitica (colpo, in effetti, già sferrato dal consenso bipartitico al governo Monti).

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Nel nome della Governabilità

di Walter G. Pozzi

E così, dopo la nuova tornata elettorale, riecco sulle bocche di media e politica la parola ‘Ingovernabilità’. questa sarebbe secondo loro la disgrazia del Paese.

La Governabilità, che la politica auspica sin dalla notte dei tempi, è un oggetto misterioso.

Che cosa intenda chi, al potere, la pronuncia, non è mai spiegato con sincerità. Possiamo dire che, espressa in una feroce sintesi di governo, cosa questa comporti all’atto pratico gli italiani lo hanno sperimentato con Mario Monti: un’amministrazione fortemente connotata a destra che, in perfetto accordo con i dettami neoliberisti, preveda, attraverso lo smantellamento del welfare state, una macelleria sociale, nonché la messa al bando di qualunque protezione legislativa per i lavoratori. Nello specifico: risanare le banche con soldi pubblici, tassare i ceti medio-bassi e votare la legge Fornero con l’allegro avallo di Berlusconi e Bersani, il quale, quest’ultimo, è in seguito tornato in campagna elettorale con la vecchia maschera, proponendosi come forza di sinistra, chiamando come fideiussore di fronte al proprio elettorato il mite Vendola. Anche questa è Governabilità e comporta dei premi per i propri attori. Lo stesso Vendola, oggi, accettando di allearsi con il Pd che ha fatto da stampella al governo Monti, in realtà viene a raccogliere un premio per il lavoro sporco fatto ai tempi della candidatura di Veltroni, nel momento in cui questi, nel 2008, aveva deciso di correre da solo – ovvero senza Rifondazione comunista – rimanendo trombato – il che era scritto sulla tabula rasa del suo vuoto politico – ma raggiungendo l’obiettivo di rendersi presentabile agli occhi di Confindustria.

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Ricominciare dopo il collasso

di Guido Viale

E’ da tempo che diversi economisti non asserviti al sistema sostengono che le politiche di austerità adottate prima dal governo Berlusconi e poi da Monti avrebbero sortito gli stessi effetti di quelle imposte dalla cosiddetta Trojka alla Grecia. Ed è da più di un anno che Monti si vanta invece di aver evitato al nostro paese lo stesso destino grazie alle misure del suo governo, che però sono in gran parte le stesse imposte alla Grecia. Chi ha ragione?

La disoccupazione, la cassa integrazione e il precariato in continua crescita, i redditi da lavoro e i consumi in continua contrazione, le aziende che chiudono una dopo l’altra, il loro know-how che si disperde o emigra all’estero, i loro mercati che si dileguano, i principali gruppi industriali in disarmo, il welfare che si contrae sia a livello statale che municipale, la miseria che avanza, la scuola che avvizzisce, la ricerca che emigra, l’ambiente che si degrada, la burocrazia che si avvita su se stessa, l’ingorgo legislativo, la politica in stallo rendono evidente che l’Italia ha ormai toccato un punto di non ritorno.

Forse che, se domani venissero varate misure economiche di sostegno, come quelle invocate dagli economisti non di regime una spesa pubblica più espansiva, un credito più abbondante, un ribasso dei tassi, un nuovo programma di lavori pubblici, un sostegno alla ricerca (tutte cose peraltro incompatibili con gli accordi imposti da Ue e Bce e sottoscritti dal governo Monti e da tutti i partiti che l’hanno sostenuto), allora la macchina produttiva riprenderebbe a funzionare come prima?

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Golpista fino in fondo

Leonardo Mazzei

L'accanimento terapeutico di Napolitano, lo sbando di una classe dirigente alla frutta, il M5S e il cambio di passo necessario

Il piccolo golpista del Colle ha colpito di nuovo. Non ancora pago dei disastri combinati con l'insediamento a Palazzo Chigi del Quisling al 10% (di consensi), ha ritenuto di ripetersi in coda al suo settennato.

Tra tre settimane - a meno di una rielezione che finora si è rifiutato di prendere in considerazione - sarà solo un ricordo, ma al suo sporco lavoro è proprio affezionato e l'ha voluto dimostrare anche oggi. Il suo disegno è fallito, la «grande coalizione» non ha visto la luce, né prevedibilmente la vedrà. Non per questo la sua mission di uomo fedele alle oligarchie euroatlantiche, che tanto lo amano, è venuta meno.

E' solo partendo da questo punto fermo che si possono davvero capire le mosse del Quirinale. Mosse che travalicano i poteri assegnatigli dalla Costituzione. Forzature inaudite che vorrebbero preludere ad un nuovo commissariamento delle camere appena elette. Cioè l'esatto contrario di quanto hanno improvvidamente detto alcuni "grillini", si spera solo momentaneamente distratti dal clima pasquale.

In breve, cosa ha fatto Napolitano? Prima ha rispedito Bersani a Piacenza per condurre personalmente le trattative tra Pd e Pdl. Poi, di fronte all'impossibilità di conferire comunque un nuovo incarico, ha affidato la risoluzione della crisi politica a due commissioni (una istituzionale, l'altra economica), che dovrebbero elaborare «precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche».

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La civetta costituente

Antonio Negri

Che siamo entrati in una fase costituente, tutti lo dicono: ma costituente di che cosa? La Boldrini e Grasso, ma anche tanti altri, ripetono ad ogni entrata in scena che la Costituzione del ’48 è “la più bella costituzione del mondo” – e allora, su quale ramo dovrà appollaiarsi la civetta costituente?

In realtà continuiamo a spendere parole troppo importanti per dir poco o niente. “Costituente” è una di queste parole. Per trasformare il Senato in Camera delle autonomie, non dovrebbe esser necessario il ricorso allo spirito costituente. E neppure per fare una nuova legge elettorale, e neppure per realizzare il riconoscimento dei sindacati, e neppure per abolire le province, e tantomeno per stabilire i criteri del fiscal compact (che, d’altra parte, la Commissione europea ha già statuito), ecc.. Non sembra che in tal modo il desiderio costituente e l’ansia di corrispondere a tempi nuovi siano esaltati – ormai si parla sempre di più di “costituente” ma sempre di più si opera, in realtà, sul terreno amministrativo. Si pensi a quanto avviene sul livello europeo – se “l’Europa non è uno Stato”, non è neppure un ambito costituente, anche se ognuno dei mille produttori di norme e dei mille attori di governance che agiscono dentro il terreno comunitario, si pretendesse costituente. Iniziativa costituente significa invece creare “incidenti democratici di base”, “produzioni istituzionali di democrazia dal basso” e non determinare semplicemente atti amministrativi nell’alto dei cieli della politica dei partiti.

Le forze politiche presenti in parlamento non vanno oltre quell’alto livello amministrativo.

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Proficue ambivalenze del grillismo

di Nicola Casale e Raffaele Sciortino

Le elezioni di febbraio hanno sconvolto il quadro politico italiano. Le politiche rigoriste di Monti, appoggiato dalla Chiesa, hanno subito una sonora bocciatura. Si conferma che la borghesia che conta non è in grado di proporre un suo partito, mancandole sia il personale credibile che la capacità di costruire consenso (bisognerà tornarci su, se è vero che non è dato solo italiano).

Vittoria simile a una disfatta per Pd-Sel che si proponevano di continuare Monti con qualche pennellata di “attenzione” al lavoro. Credibilità decrescente per Berlusconi con la sua proposta di fare come se debito e crisi non fossero un problema per i ceti sociali di riferimento. Ridimensionamento secco per la Lega. Batosta senza attenuanti per la “sinistra alternativa”, di cui l’elettorato ha giustamente sancito la perfetta inutilità. Unico vincitore il M5S. Una vittoria che spariglia le carte, non a caso vista con grande preoccupazione dall’establishment politico nazionale ed europeo. Assai meno preoccupato quello Usa che intravede la possibilità di un maggiore incasinamento dell’Europa quale concorrente monetario nonché l’emergere di altri segnali favorevoli (di cui più innanzi).

Prima di esaminare questo successo, tre annotazioni minori ma non troppo: Berlusconi, dato per finito, ha parzialmente rigalvanizzato la sua base nella battaglia per scaricare i costi della crisi esclusivamente sugli altri settori utilizzando anche l’attacco al rigorismo di Berlino[1]; i ceti di riferimento del centro-sinistra escono ancor più depressi e spaesati dall’anno di sostegno a Monti, assieme ai loro sindacati, Cgil e Fiom; la Lega conquista la Lombardia contando di conservare forze sufficienti ad affrontare frangenti di precipitazione della crisi per riproporre la prospettiva padanista.

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Né totem né tabù*

di Sergio Labate

“Mi interessano le cose
che stanno per diventare qualcos’altro”
(Franco Arminio)

1. Premessa sul tempo uggioso che annuncia la primavera

Le macerie che le recenti elezioni ci costringono ad abitare qualcosa hanno cambiato, nelle nostre convinzioni. Vi sono tante prove di questo abitare spaesato cui siamo costretti. Ma non colgo disincanto, quanto sollievo: come se la necessità di spostarsi dal punto cieco in cui eravamo finiti prevalesse sul timore dell’ignoto verso cui ci dirigiamo. Questo strano impulso ad affrontare le cose proprio nell’istante in cui stanno diventando qualcos’altro da se stesse vale anche per la questione del rapporto tra democrazia dei movimenti e democrazia della rappresentanza. È da più di un decennio (da Genova 2001) che l’eventualità di un nodo tra movimenti e politica si lacera e si consuma tra due estremi.

Da un lato c’è chi sostiene che la rappresentanza sia come un totem, e che disinteressarsene non solo non è lecito ma è impossibile: perché non si può “uscire dalla politica” (a meno che non “si esca dalla società”).

Dall’altro lato invece ci sono coloro per cui la questione della rappresentanza è un vero e proprio tabù (posizione oggi egemonica nella società italiana, con tante di quelle buone ragioni che a volte le contro-ragioni addotte dai politici contro di essa appaiono discorsi di extraterrestri).

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marx xxi

La svolta di Confindustria

di Pasquale Cicalese

Nei “Diari intimi” Baudelaire scriveva, a proposito della Comune di Parigi, che “tutto è comune, persino Dio”. Celebrava quegli eventi e la città parigina, prima che questa venisse sventrata dalla hausmanizzazione imperialista di Napoleone III. Tracce della capitale francese all’epoca del sommo poeta francese si trovano nel capolavoro benjaminiano “Parigi capitale del XIX° secolo” in cui si analizza la dicotomia merce-lotta di classe di quei lavoratori che Marx giudicò l’avanguardia del proletariato mondiale.

A suo modo arrivò alle conclusioni di Baudelaire lo stesso Schumpeter: analizzando lo schema marxiano della trasformazione dei valori in prezzi ne subì, quasi inorridito, il fascino, per poi ritirarsi nella metafisica. Ebbe modo però di scrivere che il socialismo era superiore al modo di produzione capitalistico e che avrebbe avuto il sopravvento. Concetto poco chiaro ai breszeviani, che condannarono la gloriosa Unione Sovietica alla stagnazione: le proletarie russe volevano, giustamente, mangiare e vestirsi bene, il socialismo è anche questo, raffinatezza dei gusti, concetto precluso ai crucchi, che mangiano da schifo, e si vede.

Le proletarie meridionali, tra loro, parlano di tre cose: figli, cibo e moda. Da anni stanno rinunciando alle ultime due, tra poco anche al primo, e sono incazzate nere. Sembrano le russe degli anni ottanta, così come le descriveva il padre di Sami, un turco che era comandante di flotte mercantili in rotta verso Leningrado e il Mar Nero.

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La cuoca e Lenin

L'incontro-scontro tra centri sociali e 5 Stelle

Franco Piperno

Alcune delle idee-forza del movimento M5S hanno ascendenze lontane. Si avverte, per chi eserciti l’arte della memoria, l’eco della parole d’ordine comuni ai movimenti degli anni 70. Il reddito di cittadinanza; la democrazia diretta; l’esercizio spesso inconsapevole di una certa potenza destituente; il rifiuto del lavoro salariato perché aliena e l’attrazione per l’attività scelta liberamente perché realizza; la critica beffarda al sistema dei partiti; un sentimento di estraneità ostile verso l’ideologia lavorista e progressista, per quella illusione di conseguire la felicità cercando d’arricchirsi in fretta; e così via.

V’è ancora qualcosa di comune in quella sorta di appercezione della trasformazione sociale come processo interiore, esercizio di autocoscienza; perché il nemico non è tanto fuori di noi ma piuttosto dentro di noi, e prima di cambiare il mondo bisogna mutare le nostre idee sul mondo. Per dirla in altri termini, la psicologia del sovra consumo di massa, quella del cittadino in quanto “consumatore obeso” è senza dubbio addebitabile alla smodata produzione di merci in cerca d’acquirenti, ma non si può non riconoscere che tutta la baracca, dirò così il sistema, riposa, in buona misura, sulle condotte complici del cittadini stessi.

Va da sé che queste similitudini non comportano, certo, una qualche identità tra il ciclo insurrezionale “68-78” e il movimento di cui Grillo si fa portavoce.

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Papi e madonne

di Cristina Morini

Nessuno mette in dubbio le molte competenze di Laura Boldrini, attuale presidente della Camera. Ci limitiamo a sottolineare brevemente come un sistema completamente al collasso, vada affidando le tribolazioni del dopo elezioni alle brave persone, meglio se donne, ai buoni pensieri e alle parole semplici quasi fossero piccoli atti di purificazione simbolica per avvezzarci a sopportare i mali del momento. “Buona sera, fratelli e sorelle”, dice al microfono il neo-papa Francesco e a noi pare già di sentirci meglio.

La cura è proseguita, appunto, con l’elezione sullo scranno della Camera di una donna dai solidi meriti. Bella, buona, sa tutte le lingue, sempre con la valigia in mano, in giro per tutti i paesi disperati del mondo. Dacci una mano anche tu che sei stata in tanti luoghi di crisi, tra cui ex Jugoslavia, Afghanistan, Pakistan, Iraq, Iran, Sudan, Caucaso, Angola e Ruanda. Lei, nel primo discorso, non dimentica nessuno:  “la difesa dei diritti degli ultimi… l’impegno per chi ha perso certezze e speranze… la lotta contro la povertà e non contro i poveri… le donne che subiscono violenza travestita da amore… i detenuti che oggi vivono in una condizione disumana e degradante… i pensionati che hanno lavorato tutta una vita e che oggi non riescono ad andare avanti… chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato, a chi rischia di perdere la Cig, ai cosiddetti esodati… ai tanti imprenditori che costituiscono una risorsa essenziale per l’economia italiana e che oggi sono schiacciati dal peso della crisi… alle vittime del terremoto…”.

Qualche commentatore si è emozionato e ha sentito allora di poter destare il fantasma di Enrico Berlinguer, cioè di quella vecchia e rassicurante sinistra che di solito sta chiusa a chiave in un cassettone.