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Contro l'austerity. Sovvertire il presente

di Guido Viale

«Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell'alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario». Ma è sufficiente una democrazia ridotta alla sola dimensione orizzontale?

Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del «popolo sovrano». Le principali tappe di questo processo sono state: 1. La separazione della Banca centrale dal controllo del governo (anni '80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla Bce) di decidere le politiche economiche e sociali; ma soprattutto ha fatto schizzare il debito pubblico mettendolo in mano della finanza. 2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall'abrogazione del sistema proporzionale («una testa un voto», principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti; 3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori al referendum contro la privatizzazione dell'acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l'ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l'abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti; 4. L'imposizione di un «governo tecnico» con un programma (l'«Agenda Monti») imposto dalla Bce, e attraverso questa, dall'alta finanza sotto «l'incalzare» dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole; 5. il governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto «centro-sinistra») tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi); 6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione.

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marx xxi

Voto di classe e sopravvalutazione del voto utile nelle ultime elezioni

Domenico Moro

1. Crisi della forma bipolare del sistema politico

Qui di seguito cercheremo di evidenziare le principali risultanze delle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento, che testimoniano di importanti novità politiche, a loro volta frutto di modificazioni nella struttura socio-economica del nostro Paese. Soprattutto, cercheremo di evidenziare come il <<voto utile>> abbia avuto un peso marginale e come si affermi la tendenza dei salariati ad indirizzarsi al di fuori della sinistra e verso l’M5S e l’astensione.

Il primo dato è costituito dalla crisi del bipolarismo, ovvero della modalità di governo che le élites capitalistiche sono riuscite ad imporre all’Italia dagli inizi degli anni ’90, sul modello anglosassone. In realtà in Italia, come in molti altri Paesi, l’affermazione del bipolarismo è stato frutto più di sistemi elettorali creati ad hoc (maggioritario, quote di sbarramento, elezione diretta di sindaci e presidenti di regioni, eccetera), che di uno spontaneo raggruppamento dell’elettorato in due poli. Ne è la prova l’alto tasso di astensionismo che caratterizza da sempre i sistemi maggiormente bipolari, come gli Usa, e l’emergere in tutta Europa, dinanzi alla crisi, di terze e quarte forze di varia coloritura politica.

Come possiamo vedere nel Graf.1, le elezioni del 2013, rispetto a quelle del 2008, hanno registrato un vero tracollo delle due principali coalizioni, di centrodestra e centrosinistra. Il centrosinistra ha perso circa 3,64 milioni di voti, pari al -26,6%. Il centrodestra ha perso addirittura oltre 7 milioni di voti, pari al -41,9%. Al sistema a due poli si è sostituito, almeno per il momento, un sistema a tre poli o a tre poli e mezzo.

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Roma, così si è scelto di uccidere la città

Lettera aperta ai candidati sindaco Medici, Marino e Marchini

Christian Raimo*

La capitale è fatta di ghetti e di enclave di lusso. Colpa dei politici ma anche degli intellettuali

Vivo a Roma da quando sono nato, non ho mai vissuto in un’altra città che non fosse Roma, anzi, a dirla tutta, non ho mai stazionato più di due o tre settimane di seguito in un altro posto che non fosse Roma, per cui – come dire – le elezioni del sindaco mi riguardano. In tutti questi anni ho votato una volta sola con un senso di sfrontata convinzione: il mio primo voto, a diciott’anni da poco compiuti, per Renato Nicolini. Il resto delle volte: Rutelli (ballottaggio), Rutelli, Veltroni, Veltroni, Rutelli mi sono sempre turato un po’ il naso (per tapparmelo quasi del tutto e farmi mancare l’ossigeno per Rutelli 2008): questa cautela era dovuta all’impressione che la proposta dei sindaci di sinistra e centrosinistra andasse in una direzione di troppo timida trasformazione della città.

Roma dal 1993 è diventata una città indubbiamente più vivibile, ma sarebbe potuta diventare una città molto più vivibile, più giusta dal punto di vista sociale, meno ingovernabile; dall’altra parte avrebbe potuto essere – con i suoi quasi tre milioni di abitanti e i suoi 1300 km quadrati di estensione – ripensata completamente e trasformata in una metropoli. Non è accaduto, per motivazioni molteplici e complesse. Prima proverei a riassumerne alcune e poi ne vorrei sottolinearne una cruciale che voglio porre all’attenzione dei candidati sindaci – quelli presentabili.

Parto dalla mia ultima esperienza di campagna elettorale: per le elezioni a presidente della Regione, mi sono speso insieme a molte altre persone per Nicola Zingaretti.

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L’ultimo bunker della destra

di Marco Bascetta

Non basta il presente a spiegare il presente. Soprattutto in Italia, dove la “non contemporaneità del contemporaneo” è sempre alacremente all’opera. E di certo vi è solo che non c’è alcuna rivoluzione in corso né in prospettiva, tanto meno quando abbondano i tribuni che la evocano. Il percorso tortuoso conduce a una fine nota: quelle larghe intese che nel nome della “responsabilità” ignorano, quando non reprimono irresponsabilmente tutto ciò che di vivo e di non definitivamente rassegnato esiste ancora in questo paese. Non è la prima volta, ma è la prima volta che una classe dirigente screditata come non mai e nel suo insieme perdente quanto ai numeri e alla capacità di leggere il contesto in cui agisce, si blinda senza offrire alcun compromesso a una società stremata. È qui che i paragoni storiografici di Giorgio Napolitano con gli anni ’70 mostrano come la memoria possa volgere in sclerosi e come il pio desiderio di interpretare una nuova situazione con un vecchio paradigma partorisca più mostri del sonno della ragione, fino a confondere le “convergenze parallele” di un tempo con le marcescenze parallele di oggi.  Lo schema è pressappoco quello, collaudatissimo, della vecchia destra comunista da cui il presidente della repubblica proviene.  Consiste, certo semplificando all’estremo, nello stabilire, in accordo con i poteri forti del momento e con i “mercati”, una serie di “compatibilità”, garantire che le forze sociali rappresentate dalla sinistra le rispettino senza fiatare, nel condannare, reprimere e accusare di fascismo (rosso o a 5 stelle poco importa) ogni forma spontanea di mobilitazione e di dissenso, nell’impedire ogni pretesa di esercizio della democrazia che anche garbatamente si discosti dai canali istituzionali e dagli equilibri politici tra i partiti maggiori.

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Il grillismo spiegato ai deficienti 1

di Emanuele Maggio

Innanzitutto chiedo scusa alla persona che sta iniziando a leggere questo post. L’ho appena chiamata “deficiente”. Ciò è legato a ragioni di volgare promozione del post stesso: si istiga il lettore a leggere. Questa “rubrica” si dividerà in 3 parti. In ognuna delle 3 parti verranno smontate due bugie dei media dominanti sul M5S e una bugia di Grillo/Casaleggio sul M5S (questa disparità quantitativa è dovuta semplicemente al fatto che i media dominanti, essendo tali, hanno prodotto una quantità di menzogne maggiore). Naturalmente mi propongo soltanto di offrire piccole coordinate “pratiche” per cercare di capire meglio quest’incredibile accozzaglia di analfabeti e Premi Nobel che è il M5S, indubbiamente uno dei fenomeni politici più importanti dei nostri tempi, nel bene come nel male.

In questa prima parte smontiamo i miti del fascismo, del leaderismo e del cambiamento del M5S.  

 

FASCISMO?

Il cittadino X legge su un sito di sinistra qualcosa del tipo: “Entrambi nascono da una crisi economica e politica; capacità di radunare folle e di eccitarle; fenomeno generazionale “giovani contro vecchi”; ibrido di destra e sinistra; votazioni plebiscitarie periodiche per simulare la democrazia…” Oh mio Dio! Il fascismo è alle porte! Sotto al letto, presto! Nel tragitto verso il letto, il cittadino X si imbatte nella sua tv. Non riesce a resistere e l’accende. Siamo su RaiNews24. Titolone: Grillo prepara la Marcia su Roma. Ecco, sta succedendo…poi altro titolone: Forza Nuova aderisce alla Marcia su Roma. No! E’ finita! Viva la Repubblica! Viva la Resistenza! Poi le telecamere della Rai si trovano costrette ad inquadrare la “Marcia su Roma”, una piazza con molte bandiere rosse in cui si passeggia cantando Bella Ciao sotto il sole…mmm, c’è qualcosa che non quadra. Come è possibile?

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La casa comune non vuole il cappello

Guido Viale

Anche se le modalità hanno lasciato tutti basiti, i passaggi che hanno portato alla formazione del nuovo governo, quale che ne sia poi l’esito (finiranno comunque tutti in bocca a Berlusconi, Napolitano compreso), erano in qualche modo scontati. Il Pd non avrebbe mai potuto imboccare una strada diversa dopo più di un anno di sostegno senza se e senza ma a Monti, cioè al definitivo trasferimento del governo del paese dal Parlamento (già sostanzialmente esautorato dal porcellum) alla Bce e, per suo tramite, alla finanza, ben rappresentata da Monti e Draghi.  Sono due uomini di Goldman Sachs, che ragionano alla maniera di Goldman Sachs: non è necessariamente un legame diretto, ma un dato di cultura e di modus operandi che in Europa sono chiari a tutti, ma che in Italia attirano invece l’accusa di schematismo o complottismo.

Quanto al Movimento Cinque Stelle, gli esiti disastrosi della linea di condotta adottata, che gli è già costato parecchio in Friuli, non possono essere imputati solo a inesperienza o a eccessiva rigidità: si è visto peraltro Grillo e i suoi adepti ammorbidirsi assai nel corso dei giorni. Il fatto è che il Movimento Cinque Stelle non ha un progetto. Il suo programma è solo un insieme di obiettivi, in larga parte condivisibili, anche perché riprendono temi su cui comitati, movimenti, iniziative civiche e associazioni lavorano da anni. Ma un programma che nulla o quasi dice su come arrivarci, su come imporli.

Democrazia diretta o referendaria – di cui la consultazione via web è una sottospecie – e democrazia partecipata non sono la stessa cosa.

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I "pezzi staccati" di una sinistra che non smette di morire

Qualche idea per ricominciare

EffeEmme

Pezzo staccato è il sintagma che Lacan utilizza nel seminario sull’angoscia[1] per definire quel “modulo d’oggetto” che caratterizza l’epoca moderna fatta da parti che tendono al tutto pur non essendo che porzioni limitate ad una funzione. Parti che costituiscono un tutto, abbiamo detto.  Lacan si chiede:  qual è il valore del “pezzo” quando l’insieme di cui fa parte “non funziona più”? Una volta che la parte smette la funzione svolta all’interno del sistema, cosa resta di essa? Che ce ne facciamo di un “pezzo staccato” «quando il tutto al quale esso si rapportava è andato a rotoli, è diventato desueto?»[2]

La risposta più ovvia è: niente! Un pezzo staccato dal suo contesto è stupido e non ha alcun valore, è una «figura fuori senso, una figura fuori dal senso». Solo in quel momento, però, può avere inizio il suo riutilizzo ed eventualmente un’analitica sulla sua funzione. Quanto detto può essere applicato al Partito Democratico che, durante le elezioni del Presidente della Repubblica, ha definitivamente mostrato di non esistere come tutto e di «non servire a niente». I pezzi che lo costituiscono sono definitivamente andati in frantumi e non si trova chi ne dichiari la proprietà per farli sparire, per toglierli di mezzo.

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politicaecon

Tutti in Barca? Alla ricerca di una sinistra diversa

di Sergio Cesaratto

Il documento di Fabrizio Barca “Un partito nuovo per un buon governo” non è di facile lettura per chi, come me, non è attrezzato a porre la questione dei rapporti partiti-Stato nella prospettiva della storia del pensiero politico e dell’esperienza storica. Lasciando dunque ad altri questo compito, solo poche osservazioni rimangono a me possibili, anche perché il documento non entra nel merito delle proposte, ma riguarda soprattutto l’idea di partito come strumento per un nuovo riformismo italiano.


1) La prima osservazione concerne l’enfasi che esso ripone sulle competenze. Il partito deve essere collettore e sintesi di competenze diffuse sui territori e fra gli individui. Questo a me sembra un importante elemento riformatore in una politica italiana, sinistra inclusa, in cui la competenza è spesso tacitata di specialismo tecnico, mentre l’incompetenza è contrabbandata per visione politica di grande respiro. Un aspetto centrale della scissione fra competenza e visione riguarda la politica economica delle cui tematiche anche specifiche – si pensi ai complessi problemi europei – i leader della sinistra sono in genere manifestatamente inesperti. Il riformismo, come Barca giustamente rivendica, è fatto di pragmatismo a ogni livello, dal micro al macro, di voler e di saper fare.

Al riguardo, porrei a Barca due questioni:

(a) I grandi temi e scelte di politica economica – come in generale quelle di politica estera a cui sono legati - non possono facilmente emergere dalla sintesi di conoscenze locali come su temi più squisitamente legate al territorio e trasferibili da un territorio a un altro.

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Un'intesa con l'autore dello sfascio?

Daniela Preziosi intervista Stefano Rodotà

Parla Stefano Rodotà: «Il capo dello stato messo alle strette dai partiti. Faranno qualche provvedimento, ma non affronteranno la crisi in cui siamo finiti.» «Napolitano costretto a fare un discorso da premier. La Sinistra debole è un guaio per la democrazia». «I 5 stelle stanno in parlamento, vedremo come utilizzeranno lo strumento parlamentare»

«In questi giorni ho cercato di fare con discrezione, ma con decisione, quello che si doveva fare. A quelli che dicevano 'Rodotà non si pronuncia?', dico che le cose non si fanno in trenta secondi. E a giudicare dalle reazioni, mi pare di esserci riuscito». Il professor Stefano Rodotà, l'«altro» candidato alla presidenza della Repubblica, quello delle forze contrarie alle larghe intese, ha ascoltato Napolitano in tv.


Cosa pensa delle parole di Napolitano?


La prima osservazione è una conferma: l'irresponsabilità o l'interesse dei partiti hanno trascinato il presidente nella crisi che loro stessi hanno creato. Hanno messo il presidente con le spalle al muro: siamo incapaci, pensaci tu. Un passaggio di enorme gravità politica. La seconda: Napolitano è stato indotto a un discorso da presidente del consiglio. E poi c'è una terza. Sono scandalizzato: mentre Napolitano diceva dell'irresponsabilità dei partiti, quellli applaudivano invece di stare zitti e vergognarsi. Hanno perso la testa.


Piazza e parlamento non si possono contrapporre, ha detto
.

Vanno riaperti i canali di comunicazione fra istituzioni e società, soprattutto dopo il governo Monti, con il parlamento ridotto a passacarte.

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Il Cambiamento

Marco Cedolin

Ci sono voluti quasi due mesi, dopo le elezioni di febbraio, per condurre l'Italia al punto d'incontro con il secondo golpe, promesso da Napolitano e da Monti a tutti i poteri forti internazionali alla vigilia della campagna elettorale.

In molti si supponeva che saremmo giunti al nuovo colpo di stato, attraverso le ire dei mercati ed il progredire dello spread, invece la strada scelta è stata di tutt'altra natura. Bersani e Berlusconi hanno di fatto menato per il naso gli italiani che li hanno votati, attraverso due mesi di teatrino tanto folkloristico e disordinato, quanto mirato ad ottenere l'effetto voluto. Il primo ostinandosi fintamente ad inseguire l'appoggio di Beppe Grillo, pur sapendo bene che mancava qualsiasi spazio per ottenerlo. Il secondo cavalcando l'affondamento dell'Italia (quasi le colpe del disastro fossero di un evento tellurico) ed inseguendo Bersani, fingendo di volerlo abbracciare stretto.
PD e PDL hanno passato il tempo cianciando di cambiamento e chiamando i propri elettori a manifestazioni farsa, fino ad arrivare al momento dell'elezione del nuovo Presidente della Repubblica.....

Giunti al punto concordato, Bersani, pur avendo la possibilità di fare eleggere fin dalla prima votazione un uomo del suo partito, nella persona di Stefano Rodotà, proposto molto generosamente da Beppe Grillo, unitamente alla promessa di quell'apertura in chiave nuovo governo a lungo (fintamente) agognata, ha detto di NO, preferendo proporre Marini con il gradimento di Berlusconi.

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La Sinistra di re Giorgio

Giso Amendola

Giorgio Napolitano, nei giorni convulsi delle fallimentari consultazioni di governo, li aveva già richiamati alle proprie responsabilità; e aveva evocato un anno chiave, il 1976. Così è stato subito chiaro in cosa consistesse la vera responsabilità da assumersi: attenersi rigorosamente alla strada maestra delle larghe intese. Questo Paese va tenuto unito rigettando ogni cosa che sappia di conflitto, e mantenuto sui binari della concertazione eterna tra le forze politiche principali: evocando, a norma fondamentale del governo, la perpetua emergenza.

Non si può dire che non abbiano ascoltato il Presidente. Fa nulla che, nel solito passaggio da tragedia a farsa, le grandi forze popolari delle grandi intese del 1976 si siano ridotte, nel frattempo, a correnti litigiose del PD, e che le intese ora si facciano con la destra berlusconiana: lo schema non si tocca. Ciò che non s’era riuscito (ancora) a fare per la formazione del governo, si farà nell’elezione del Presidente della Repubblica. Il richiamo di Napolitano al 1976 suona come la riproposizione obbligata di una cultura politica perenne e inaggirabile: larghe intese, unità nazionale, emergenza. Così: “deve essere un cattolico”.

E allora recuperiamo l’uomo della CISL, insieme cattolico ed eroe della concertazione: Marini. Poi, quando pure ci si è spinti a rompere l’intesa e ad arrivare a un nome votato dal solo centrosinistra, allora è stato Prodi: mai Rodotà.

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Il Palazzo dei morti si è arreso al diktat contro l’Italia

di Giorgio Cattaneo

«Vilipendio al popolo italiano», tuona Giulietto Chiesa: l’inaudita rielezione di Napolitano al Quirinale, maturata con la resa del Pd ormai “suicidato” da Bersani, è un oltraggio per i milioni di italiani che invocavano, con Grillo, il nome di Stefano Rodotà come garante di una Costituzione calpestata dalla casta dei partiti e demolita giorno per giorno dall’oligarchia tecnocratica europea, che mira a cancellare lo Stato e il suo sistema di protezioni sociali, sotto il ricatto finanziario dell’euro-rigore. «Come avrete capito – protesta “Megachip” – riavremo un governo molto peggiore del terribile governo Monti. E si va allo scontro, politico e sociale». Drammatici gli appelli alla mobilitazione popolare: dal leader del “Movimento 5 Stelle”, che parla di “golpe”, a Paolo Flores d’Arcais che su “Micromega” esorta gli italiani che hanno assediato Montecitorio a restare in piazza, «contro la vergogna di un presidente dell’inciucio, e del salvacondotto per il Caimano».

Impressionante, il 20 aprile, lo spettacolo del Palazzo assediato e delle tessere del Pd date alle fiamme: «Il Pd è finito e ci sarà un esodo massiccio di Napolitano rielettomilitanti ed elettori ingannati», annuncia “Megachip: «Anche a quel popolo dovremo parlare per difendere la democrazia». Il clima è di emergenza politica nazionale: l’esausta nomenklatura della Seconda Repubblica si è arresa a Monti e a Napolitano, non è riuscita a costruire un governo e nemmeno ad eleggere un nuovo presidente della Repubblica. «A mio avviso – disse Carlo Azeglio Ciampi nel 2006 di fronte all’ipotesi di rielezione – il rinnovo di un mandato lungo, quale è quello settennale, mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato».

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Non è un golpe, è una resa

di Marco Revelli

Da oggi l'Italia non è più una democrazia parlamentare. Non c'è altro modo di leggere il voto di ieri se non come una resa. Una clamorosa, esplicita e trasversale abdicazione del parlamento. Per la seconda volta in poco più di un anno una composizione parlamentare maggioritaria si è messa attivamente in disparte. Ha dichiarato la propria impotenza, incompetenza e irrilevanza, offrendo il capo e il collo a un potere altro, chiamato a svolgere un ruolo di supplenza e, in prospettiva, di comando.  E se la prima volta poteva apparire ancora "umana", la seconda volta - con un nuovo parlamento, dopo un voto popolare dal significato inconfutabile nella sua domanda di discontinuità - è senz'altro diabolica, per lo meno nei suoi effetti. C'è, in quella triste processione di capi partito col cappello in mano, in fila al Quirinale per implorare un capo dello stato ormai scaduto di rimediare alla loro congiunta e collegiale incapacità di decisione, il segno di una malattia mortale della nostra democrazia. La conferma che la crisi di sistema è giunta a erodere lo stesso assetto costituzionale fino a renderlo irriconoscibile. Forse non è, in senso tecnico, un colpo di stato. Possiamo chiamarlo come vogliamo: un mutamento della costituzione materiale. Una cronicizzazione dello stato d'eccezione. Una sospensione della forma di governo... Certo è che questo presidenzialismo di fatto, affidato a un presidente fuori corso per un mandato tendenzialmente fulmineo, stravolge tutti gli equilibri di potere. Produce una lesione gravissima al principio di rappresentanza. Soprattutto fa scomparire la tradizionale forma di mediazione tra istituzioni e società che era incarnata dal parlamento, tanto più se questo venisse occupato e bloccato da una maggioranza ibrida e bipartisan, contro-natura e contrapposta al volere della stragrande maggioranza degli elettori.

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Zero Repubblica

Tre opinioni a caldo sulle vicende che hanno condottto alla ri-elezione di Napolitano e alla mancata elezione di Stefano Rodotà alla presidenza della repubblica.

Il disprezzo per la democrazia

di Mario Pezzella

Scherzavo in un mio intervento di qualche giorno fa sul fatto che noi si possa o si debba diventare i grilli parlanti di Grillo; gli avvenimenti di questi giorni dimostrano se ce ne fosse bisogno che il M5S la sua politica la fa senza alcun bisogno di soccorso intellettuale esterno e occupando totalmente quello che avebbe dovuto essere il nostro spazio di critica e di azione. Il rammarico è dovuto al fatto – come già ampiamente argomentato su questo sito all’indomani delle elezioni – che la critica al regime dei partiti avviene in direzione di una soluzione populista, con tutte le sue ambiguità, e tuttavia con la forza di un fiume in piena.

C’è ancora spazio per un nuovo, “nostro”, soggetto politico? Ciò significherebbe ad esempio spiegare perché a Roma, a Pisa, o a Messina nelle prossime comunali bisognerebbe votare per i candidati delle liste di cittadinanza che sosteniamo e non per il candidato dei 5 Stelle. Credo che a questo debba servire l’incontro nazionale che si sta preparando per maggio.

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La fine dei partiti-vaselina

di Pino Cabras

Gesù ebbe dei guai quando fu tradito da appena un discepolo su dodici. Prodi e Bersani sono stati traditi da uno su quattro. Nei guai di Prodi e Bersani, un gorgo di guai, c’è tutta la sinistra degli ultimi vent’anni, ormai giunta al capolinea, definitivamente, senza rimedio. Si apre uno squarcio enorme nel sistema, un cataclisma che proietterà i suoi effetti per lungo tempo a venire. La crisi italiana è composta da tanti strati esplosivi: lo strato dell’economia, della politica, della giustizia, e altri ancora. Oggi è esploso definitivamente lo strato della crisi politica. Il Partito Democratico è decapitato nel modo peggiore. Andrea Scanzi, uno dei testimoni più lucidi in questi giorni convulsi, sintetizza così: «Si è dimesso il sicario del Pd. Sbagliando persino i tempi delle dimissioni. Lo ricorderemo come l'uomo che ha sbagliato tutto. Politicamente non ci mancherà. Come non ci mancherà la Bindi. Come non ci mancherebbero le Finocchiaro. Avete fallito. Andate via e non tornate.» Eppure una soluzione istituzionale era lì sotto gli occhi: Rodotà. Non l’hanno voluta, fino a immolarsi. Perché?

Si moltiplicano le analisi sull'inettitudine strutturale del Partito Democratico. Aldo Giannuli ci ricorda che il PD «non ha una cultura politica, ha un gruppo dirigente da operetta, è un aborto politico e, soprattutto, non ha alcuna ragione di esistere che non sia una federazione di emirati contro il Califfo Berlusconi». Un partito diviso come lo era la DC, che tuttavia, ricorda Giannuli, «era un partito vivo (brutto, ma vivo), con una sua cultura politica, un vero gruppo dirigente e, soprattutto, una sua ragion d’essere che non era solo l’occupazione del potere».