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manifesto

Per morte ricevuta. L'ottantanove del Pci

La svolta vent'anni dopo

Ida Dominijanni

funerali togliatti12 novembre 1989. Tre giorni dopo il crollo del Muro di Berlino Achille Occhetto annuncia alla Bolognina il cambio del nome del Pci. E' l'inizio della «svolta» che porterà alla dissoluzione del più grande partito comunista dell'Occidente. Un libro di Guido Liguori ricostruisce quei giorni e i mesi di passione che ne seguirono. C'era un altro esito possibile?

«Viviamo in tempi di grande dinamismo. Gorbacev prima di dare il via ai cambiamenti in Urss incontrò i veterani e disse loro: voi avete vinto la seconda guerra mondiale,se ora non volete che venga persa non bisogna conservare ma impegnarsi in grandi trasformazioni. Da questo traggo l'incitamento a non continuare su vecchie strade ma a inventarnedi nuove per unificare le forze di progresso...è necessario andare avanti con lo stesso coraggio che fu dimostrato nella Resistenza».

Fu con queste parole che il segretario del Pci Achille Occhetto anticipò a un gruppo di ex partigiani riuniti nella sezione della Bolognina, quartiere Navile di Bologna, quella che passerà alla storia come la «svolta» del Pci, e ai pochi giornalisti casualmente presenti l'intenzione di cambiare il nome del partito. Era il 12 dicembre 1989, vent'anni fa giusto oggi, il Muro di Berlino era caduto da tre giorni, Occhetto riteneva di prendere così, come scriverà in seguito, «il toro della storia per le corna», e per il Pci cominciavano i diciannove mesi di passione - e di passioni - che lo trasformeranno, lungo due congressi, in Pds. Ne La morte del Pci (manifestolibri, 195 pagine, 20 Euro) Guido Liguori ricostruisce quei giorni e quei mesi in modo accurato, essenziale e in più punti magistrale. Una ricostruzione imprescindibile dunque anche per chi non condivida la tesi centrale dell'autore, questa: che «la morte del Pci non fosse inevitabile». E che chi avanzò e sostenne la proposta di porre fine al Pci «per dare vita a una nuova formazione politica», come recitava il programma di Occhetto, «uccise il partito nel modo peggiore, rendendolo 'inevitabilmente corresponsabile', secondo una formula allora di moda, degli errori edegli orrori del 'socialismo reale'. Un'assimilazione che il Pci di Berlinguer non meritava».

Ben consapevole che per essere completo il quadro della fine del Pci dovrebbe allargarsi alla storia della rivoluzione neoconservatrice e neoliberista nell'Occidente degli anni 70 e 80 e a quella della crisi e dell'implosione del campo socialista, Liguori limita la sua analisi, e lo dichiara, alle dinamiche soggettive che portarono a quell'esito: «come i fatti epocali che segnarono la fine del 'secolo breve' furono subìti e agiti dai dirigenti e dai militanti del Pci». Il cuore del libro, che pure - ci torneremo- non tralascia di ricordare i fattori di crisi di lungo periodo che fin dagli anni '70 (e per certi versi già dai '60) minavano la coesione e l'identità del più grande partito comunista dell'Occidente, è dunque precisamente la conduzione occhettiana del partito, dal XVIII congresso dell'88 al congresso di fondazione del Pds (Rimini, gennaio 1991). E il venire a precipitazione, nel dibattito sull'identità del partito scatenato dalla proposta del cambio del nome, di una mutazione culturale che avrebbe non soltanto deciso il destino del Pci, ma altresì contrassegnato il futuro - perdente - della sinistra italiana. Alla ricostruzione dei fatti - l'effetto sorpresa, spiazzante e decisivo per tutto il seguito della svolta, scatenato nel gruppo dirigente e nel corpo del partito dal decisionismo spericolato del segretario, le divisioni nei due fronti del sì e del no alla svolta, la scissione della minoranza che darà vita a Rifondazione comunista - si aggiunge, e sta qui il valore principalae del lavoro, la ricostruzione delle posizioni culturali che si scontrarono sul campo. Con due cruciali retrospettive. La prima sulla questione del nome e dell'identità del partito, posta già nell'estate precedente alla Bolognina da un fronte esterno - la Repubblica, e in particolare Eugenio Scalfari - e da alcuni intellettuali del partito o d'area - Michele Salvati e Salvatore Veca per un verso, Biagio De Giovanni per l'altro: da lì passava la richiesta pressante di una rottura con la tradizione comunista, e segnatamente togliattiana, che non aveva aspettato il crollo del Muro per farsi sentire. La seconda, sul passaggio cruciale del XVIII congresso del 1988, che diede il via al «rinnovamento» e alla «discontinuità» occhettiane gettando le premesse culturali - è il giudizio dell'autore - per la svolta dell'anno successivo.

E' questo forse il cardine centrale della tesi di Liguori, nonché il punto più delicato e tutt'ora controverso di tutta la vicenda. Fu in quel congresso infatti che il Pci di Occhetto - segretario da pochi mesi - parve aprirsi a un cambiamento che convinse anche la sinistra ingraiana del partito, prospettando un riconoscimento di soggettività e di istanze - pacifismo, ambientalismo, femminismo - fin'allora rimaste secondarie nell'impianto culturale e politico del Pci. Senonché questa apertura conteneva già in nuce quello spostamento teorico di prima grandezza che si sarebbe poi dispiegato nella filosofia della svolta: l'enfasi, scrive Liguori, si spostava decisamente sul trinomio democrazia-libertà-diritti, a scapito dell'analisi del capitalismo, dello sfruttamento e dei rapporti di poteri. Non dunque un innesto, com'era stato in passato, del discorso liberaldemocratico sull'impianto marxista e anticapitalista, ma una sostituzione del secondo con il primo. La premessa, insomma, della piena «conversione» del partito al credo liberaldemocratico che il dopo-Bolognina sancirà in seguito.

Il punto è decisivo, perché è attorno ad esso che si snoderà - e si annoderà - tutto il dibattito della svolta, compresi - a mio avviso - molti equivoci negli schieramenti che allora si crearono e che in seguito si sono infatti ridislocati. L'equivoco numero uno riguardava - sempre a mio avviso, e fuori dalla traccia di Liguori - una malintesa declinazione della questione della libertà (psicologicamente, più che politicamente, intrecciata con istanze di liberazione dalla gabbia della forma partito tradizionale) che non trovando una declinazione più adeguata portò su posizioni «svoltiste» anche chi di un approdo acriticamente liberaldemocratico era tutt'altro che convinto, o convinta: fu il caso, ad esempio, di una parte del femminismo interno ed esterno al Pci, ma indizi chiarissimi di questo malinteso si ritrovano negli stessi testi che Occhetto dedicherà in seguito alla sua ricostruzionedei fatti. Per restare però al tracciato di Liguori, è attorno al rapporto fra paradigma liberaldemocratico, paradigma marxiano e tradizione comunista-italiana che lo scontro culturale si fece più aspro, fin dal primo - e lunghissimo: quattro giorni, e ben 250 interventi - comitato centrale successivo alla Bolognina. Ne fanno fede gli interventi di Cesare Luporini e Nicola Badaloni sull'«orizzonte del comunismo», di Mario Tronti su una possibile declinazione comunista della democrazia e della libertà, le motivazioni contro la svolta di Ingrao, Magri, Chiarante, Tortorella e degli altri dirigenti che guidavano il fronte del no, nonché i documenti del gruppo femminista «La libertà è nelle nostre mani» anch'esso contrario, da diversa posizione, al metodo prima che al merito del cambiamento proposto.

Va da sé che dalla ricostruzione di Liguori riemerge anche il da-sempre-rimosso della svolta, e cioè che la divisone fra il «sì» e il «no» non passava lungo il confine fra innovazione e conservazione, ma lungo quello fra un tipo di innovazione e un altro. Senonché il nuovismo, con relativa appropriazione del marchio del cambiamento, era parte costitutiva dell'occhettismo. Così come la parola d'ordine della discontinuità. Così come, fa bene Liguori a evidenziarlo, un tasso spericolato di revisionismo storico - lo stesso che indusse il neosegretario a lanciarsi, poco dopo la sua elezione, in una ricollocazione poco ponderata delle radici del Pci nella rivoluzione francese versus rivoluzione d'Ottobre. Così come un certo tasso di postmodernismo, «che lo poneva in sintonia con lo spirito del tempo ma che, al tempo stesso, lo rendeva ad esso subalterno».

Così sul lato culturale della svolta. Sul lato politico, le cose non si rivelarono più lungimiranti, né più efficaci. L'apertura alla «società civile» e alla «sinistra sommersa», ad esempio, si ridusse alla pressione della lobby della «sinistra dei club», «presto ridiventata sommersa» e ininfluente. E la «nuova formazione politica» si ridusse a un nuovo partito, più piccolo e sradicato di quello precedente. Il resto è la storia di un declino che neanche i dirigenti ufficialmente schierati con il segretario, ma intenzionati a «reinterpretare» la sua atrategia anche contro di lui - D'Alema e non solo - sono riusciti ad arginare.

Ci poteva essere un altro esito? Liguori è convinto che ci sarebbe stato, se il Pci non fosse finito e non di morte naturale ma di suicidio: «la drammatica debolezza della sinistra italiana è dovuta proprio alla finedel Pci, alla morte di quella tradizione politicae culturale e di quella comunità diversa di donne e uomini che per alcuni decenni avevano rappresentato una risorsa democratica per l'Italia e tenuta aperta la speranzadi una società migliore». Resta aperta tuttavia una domanda grande, questa: quanto, nella congiuntura della svolta, precipitò di quelle contraddizioni (ambivalenza del rapporto con l'Urss; lettura inadeguata del capitalismo novecentesco; mancata comprensione delle istanze di libertà del '68 e seguenti; ambivalenze del berlinguerismo) che Liguori ripercorre una a una all'inizio del volume, ma che lascia in un «prima» ininfluente sulle dinamiche dell'89? Sarebbe bastato «conservare» il Pci? Non era quello il modo di cambiare, ma cambiare si doveva.

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