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la citta futura

Sul populismo di sinistra

di Renato Caputo

È possibile un populismo di sinistra?

Dinanzi ai successi del populismo, ci si interroga
se per tornare a vincere ci sia bisogno del cosiddetto populismo di sinistra

dea98c90b76a36d8a03d39347c874102 XLCome è noto, l’attuale governo italiano si autodefinisce, per bocca del suo stesso presidente e garante del contratto fra le due anime che lo compongono, populista. Quello di Salvini è esplicitamente un populismo di destra, di stampo essenzialmente sciovinista, che contrappone il popolo italiano – occultando così le contraddizioni al suo interno fra le diverse classi sociali – agli stranieri immigrati. In tal modo nasconde la contraddizione oggettiva fra l’interesse dei capitalisti a sfruttare la forza-lavoro, per estrarre il massimo plus-valore, e l’esigenza dei salariati di minimizzare tale sfruttamento.

Ciò favorisce evidentemente la classe dominante, che porta avanti anche inconsapevolmente la lotta di classe dall’alto, semplicemente facendo funzionare senza opposizioni significative il modo di produzione capitalista e le sovrastrutture liberali, che hanno proprio questo fine intrinseco. Anche se tale fondamento, in quanto tale, non appare, anzi, è occultato dal “naturale” carattere di feticcio che assume la merce, il denaro e lo stesso capitale, che non appaiono come prodotti del lavoro salariato, ma degli strumenti per il suo dominio. Inoltre il populismo nazionalista di destra tende a offrire al malessere della maggioranza dei ceti sociali subalterni – che subiscono, senza nemmeno avvedersene, il dominio della classe dominante e la sua lotta di classe condotta in modo sempre più unilaterale dall’alto – un capro espiatorio molto più facile, almeno apparentemente, da combattere, ovvero gli stranieri che aspirano a prendere il loro posto di lavoro, la loro porzione di “Stato sociale” e che, in ogni caso, con la loro semplice presenza rendono il proletario e il sottoproletario italiano più facilmente ricattabili.

Tuttavia, mentre il ricatto portato avanti dai capitalisti appare come “naturale”, in quanto conforme alla legge “oggettiva” della domanda e dell’offerta, la concorrenza dello straniero è considerata come sleale, in quanto pretenderebbe di mettere in discussione l’essere padrone a casa propria dell’italiano. Così alla componente apertamente di destra del governo basta sostenere dall’alto, come nuova classe dirigente, la lotta fra poveri, per conquistare consensi non solo fra le classi dominanti, ma fra le stesse classi subalterne.

Tanto più che, tutti i grandi mezzi di comunicazione e più in generale gli apparati della società civile, saldamente egemonizzati dai liberali, non fanno altro che rafforzare il feticismo che fa apparire gli attuali rapporti di produzione e di proprietà come naturali e, così, facendo si naturalizza la stessa lotta di classe dall’alto che da essi si sviluppa. Al contrario tutti gli apparati della società civile volti a rafforzare l’egemonia della classe dominante, dal punto di vista economico, ossia a farla dominare con il consenso dei subalterni – senza dover ricorrere, se non in casi particolari al monopolio della violenza legale – tendono a far apparire come del tutto innaturale, questa vera e propria invasione di “incivili”, che vengono fatti apparire come “naturalmente” portati al crimine. Ecco così che alla difficile, faticosa e pericolosa lotta di classe dal basso – che si trova a scontrarsi con gli apparati dello Stato, della società civile e dei proprietari dei mezzi di produzione e di sussistenza, che in quanto tali hanno sempre il coltello dalla parte del manico – la molto più semplice e poco pericolosa guerra fra poveri.

D’altra parte la forza (dal punto di vista elettorale) maggioritaria al governo – anche se tale vantaggio tende a ridursi sempre di più, visto che gli strumenti del consenso in mano alla classe dominante danno sempre più spazio e visibilità alla componente più destra, che sta così rapidamente recuperando anche in termini elettorali il proprio svantaggio – è anch’essa esplicitamente populista. Tale identità, che ha portato le due forze a unirsi nel governo del paese, sottende una differenza: infatti il populismo dei grillini quando si trovano all’opposizione si presenta con un indirizzo di centro-sinistra, in quanto tende a contrapporre chi sta in basso, ovvero tutto il popolo, alle élites della classe dirigente, ovvero il ceto politico.

Tale impostazione, apparentemente antisistema, è in realtà, dal punto di vista ideologico, un prodotto della classe dominante economica che, attraverso i propri intellettuali organici, a partire dal “Corriere della sera”, ha lanciato una vera e propria crociata contro la casta politica, accusata indiscriminatamente di corruzione e additata come il vero ceto privilegiato. In entrambi i casi, tali attacchi, erano volti a ridurre i faux frais (falsi, in quanto superflui, costi) della classe dirigente politica, visto che ormai non è più presente una reale opposizione politica in grado di mettere in discussione i rapporti di proprietà e di produzione. In tal modo i grillini hanno potuto sfruttare l’ideologia dominante, e presentarsi come una reale opposizione dal basso al ceto dei privilegiati, anche perché la precedente opposizione si è riconvertita, pur di occupare il potere politico, a massima sostenitrice degli interessi dei reali privilegi.

In tal modo, però, una volta che ha iniziato a sostituirsi alla precedente classe dirigente diessina, dai comuni fino al governo nazionale, ha semplicemente offerto i propri servigi alla classe dominante, a un prezzo più basso, trattandosi per lo più di personale meno qualificato. Giunti a controllare fette sempre più ampie del potere politico, hanno progressivamente abbandonato gli aspetti di sinistra del proprio populismo – la contrapposizione fra il basso del popolo e l’alto del governo corrotto – essendo ora proprio loro la nuova classe dirigente. Il loro populismo è diventato un populismo di centro, doroteo, un vero e proprio ossimoro, da una parte inseguendo vanamente il populismo della destra, dall’altra portando avanti, in modo sempre meno credibile, la lotta contro la corruzione e gli sprechi della classe dirigente. Anche perché, mirando come la precedente classe dirigente unicamente al governo, da una parte si è dovuta sempre più sottomettere alle esigenze della reale classe dominante (dal punto di vista economico e sociale), dall’altra avendo abbandonato qualsiasi ideale, in nome della fine delle ideologie, anche il suo personale politico, come il precedente, finisce per pensare in primo luogo al proprio tornaconto.

Visto il successo dei populisti, al solito nell’opposizione ha cominciato a circolare la concezione che, se davvero si vuole uscire dal ruolo di testimonianza dell’opposizione e mirare realmente al controllo del potere politico, bisogna utilizzare gli strumenti che si sono dimostrati vincenti. Da qui le sempre più ricorrenti sirene che tentano la sinistra sempre più all’opposizione, ad abbracciare il populismo per recuperare il potere e la popolarità perdute. Da qui la proposta, che rischia di apparire sempre più seducente, dinanzi ai successi dei populisti non solo in Italia, ma anche in Europa e a livello internazionale, di sviluppare un populismo di sinistra. Anche perché dall’America latina, terra di elezione del populismo, tale prospettiva apparentemente vincente ha condizionato la stessa ex potenza coloniale spagnola per varcare infine i Pirenei. In altri termini, forze più o meno populiste di sinistra hanno avuto dei lusinghieri successi elettorali prima nei paesi dell’America latina e, più recentemente anche in Spagna e in Francia. Tale prospettiva, di poter riconquistare una parte del potere politico perduto, non poteva che incontrare consensi crescenti anche in Italia.

Dal punto di vista pratico i risultati, in Italia e forse anche a livello internazionale, non sono stati particolarmente felici. Certo, si potrebbe obiettare che una cosa è la teoria e altra la prassi, ovvero che il populismo di sinistra, in primo luogo in Italia, non ha avuto successo perché non è stato applicato correttamente. Ma, qui, sorge subito un primo problema, ossia che il populismo, come tutti i movimenti politici che hanno come base sociale il ceto medio, la piccola borghesia, come ad esempio i fascismi, tendono all’azionismo, ovvero a dare un valore assoluto ai risultati e un valore del tutto secondario alla teoria. Tanto che Guido Liguori, uno dei più importanti studiosi delle dottrine politiche in Italia, ha recentemente scritto: “non esiste, nella storia del pensiero politico, una teoria populista o un teorico del Populismo”.

Questo primato assoluto dell’azione, dei risultati concreti, rispetto agli ideali astratti, dovrebbe far suonare un primo campanello di allarme, non solo perché, come abbiamo visto, è un aspetto tipico dei fascismi, ma anche poiché tutte le volte che tale prospettiva si è affermata nel movimento operaio ha portato a un’affermazione del revisionismo. Quest’ultimo, partendo dalla prospettiva per cui il movimento è tutto, mentre il punto di arrivo è qualcosa di utopistico, ha sempre portato ad abbandonare l’originaria prospettiva rivoluzionaria, facendo prevalere il tentativo di affermarsi all’interno della società borghese. Anche perché la teoria, nella sua astrazione, entra necessariamente in contraddizione con l’esistente, mentre l’attitudine pragmatica favorisce i tatticismi, gli opportunismi e i trasformismi. Infine, rinunciando alla teoria, in nome del primato della prassi, si finisce per considerare come naturale l’ideologia dominante e, dunque, l’azione non può portare mai a mettere in discussione i fondamenti del sistema dominante, ma al massimo a riformarne taluni aspetti secondari.

Comunque, proprio perché predilige la prassi, un sostenitore del populismo non accetterà un confronto teorico dal punto di vista storico. Proviamo, quindi, a confrontarci direttamente con una questione di attualità, ovvero se è possibile un populismo di sinistra. Posta così la questione è di facile soluzione, dal momento che la categoria del possibile essendo quella più generica e astratta, non può che portarci alla conclusione che tutto è possibile. Tanto più che, mancando una teoria populista e persino un vero e proprio teorico del populismo, è evidente che anche tale concetto si presenta così vago e indeterminato da essere declinabile in ogni senso. Ma proprio per questo, essendo uno strumento fondamentalmente neutro per la conquista del potere politico, è evidente che si tratta di uno strumento molto più utile alla destra piuttosto che alla sinistra. È, infatti, la destra – che naturalizza l’attuale modo di produzione o ritiene che l’unica cosa che realmente conti è la volontà di potenza – a mirare al potere per il potere, mentre evidentemente la sinistra dovrebbe vedere nel potere uno strumento per conseguire un più elevato obiettivo, ovvero nei termini più generali la realizzazione di una società giusta e razionale. Inoltre mentre la destra aspira naturalmente a governare una società capitalista o imperialista, la sinistra – che invece mira a una società più giusta e razionale – dovrebbe puntare a rivoluzionare la società esistente, piuttosto che a preoccuparsi di garantirne la governance.

Ma anche qui il dialogo con il populista rischia di interrompersi, perché proprio la sua attitudine anti-teorica, anti-filosofica e antipolitica lo porta, generalmente, a considerare in termini puramente nominalistici, e, dunque, inessenziali la differenza fra destra e sinistra. Anzi, nei termini più diretti e pragmatici con cui si esprime, il populista considera superati o meramente ideologici gli aspetti che consentivano di separare in modo significativo la destra dalla sinistra.

 

È utile il populismo di sinistra?

Può essere utile alla sinistra servirsi del bagaglio teorico e storico
del populismo per uscire dal suo attuale minoritarismo?

Nel capitolo precedente ci siamo interrogati sulla possibilità stessa di un populismo di sinistra. Nel tentativo di risolvere tale questione ci eravamo imbattuti nella difficoltà che il populismo, nella sua attitudine praticista, tende a considerare inessenziali o, comunque, storicamente superate le stesse distinzioni teoriche fra destra e sinistra. Nella sua tendenza antiuniversalistica, gli universali come destra e sinistra appaiono generalmente al populista meri flatus vocis, ossia pure emissioni di voce, vuote parole prive di un significato reale, concreto. Il suo approccio antiteoretico e inconsapevolmente positivista, mira a prendere in considerazione i puri fatti e a guardare con sospetto le impostazioni teoretiche e teoriche, che considera ideologiche nel senso negativo del termine, ossia dei meri sofismi. Ecco che, forse il più noto uomo politico esplicitamente populista, il generale e a più riprese presidente dell’argentina Juan Domingo Perón ha sostenuto apertamente la necessità di superare la distinzione ideologica fra destra e sinistra, come più recentemente hanno fatto i suoi epigoni italiani pentastellati e buona parte dei sostenitori della necessità di un populismo di sinistra.

Anche in tal caso la Historia magistra vitae dovrebbe metterci sull’allarme, in primo luogo perché tale concezione ha generalmente favorito le tendenze qualunquiste e antipolitiche che, in nome del contrasto al politically correct,hanno finito il più delle volte per favorire il revisionismo o meglio il rovescismo storico. Ecco, dunque, che Perón non solo nei suoi discorsi amava citare Hitler, ma, dopo la seconda guerra mondiale, ha anche dato asilo nel suo paese, cercando di sfruttarli a proprio vantaggio, ad alcuni dei peggiori criminali nazisti. Allo stesso modo vediamo oggi i suoi epigoni al comune di Roma votare compatti per l’intitolazione di una strada della capitale a un repubblichino fucilatore di partigiani, fra i più accesi razzisti e antisemiti fra i gerarchi fascisti, responsabile nel secondo dopoguerra di innumerevoli azioni violente e provocatorie contro gli esponenti della sinistra e implicato in molti dei tentativi eversivi durante la tragica stagione della strategia della tensione. Inoltre non bisognerebbe dimenticare come il populismo fascista nasca proprio dal superamento, in nome della prassi, di questa presunta astratta separazione fra destra e sinistra e più radicalmente fra forze reazionarie e rivoluzionarie. Tanto che fascisti e nazisti amavano definirsi rivoluzionari, in quanto artefici di una rivoluzione conservatrice, un vero e proprio ossimoro.

Del resto questo superamento o commistione di temi fra destra e sinistra costituisce il cuore stesso del programma di fondazione del fascismo in Italia. Nel programma di San Sepolcro, Mussolini dichiara apertamente che il suo movimento sarà aristocratico e democratico, conservatore e progressista, reazionario e rivoluzionario a seconda delle circostanze. Tale incoerenza esprime, dal punto di vista ideologico, le contraddizioni proprie del ceto di riferimento del fascismo, ossia della piccola borghesia per la sua posizione intermedia rispetto al conflitto fra forza lavoro e capitale, in quanto il piccolo borghese è al contempo sfruttatore e sfruttato di se stesso. Perciò, in quanto sfruttato e sempre a rischio di essere proletarizzato dal grande capitale, tende ad assumere posizioni anti-liberiste, assimilabili a quelle della sinistra, d’altra parte in quanto borghese rivendica una propria posizione, per quanto necessariamente subordinata, nel blocco sociale dominante rivendicando posizioni scioviniste e fautrici di una società gerarchica, per distinguersi e mantenere la propria superiorità sul proletariato. Infine tende a trovare una via intermedia, fra destra e sinistra, fra la grande borghesia liberale e il proletariato comunista, dichiarandosi, come avverrà in Germania, nazional-socialista. Il nazionalismo sta a indicare la sua intenzione di superare, in senso corporativo, i conflitti sociali fra capitale e lavoro; il socialismo l’esigenza di uno “Stato sociale” che riequilibri la società capitalista che, lasciata a se stessa, porta ad aumentare sempre di più la polarizzazione sociale. L’elemento socialista nazionale è essenziale per distinguerlo dall’internazionalismo proletario, il conseguente razzismo è funzionale, attraverso il fomentare la guerra fra poveri, al mantenimento delle gerarchie sociali e a politiche protezioniste, volte a favorire le piccole imprese nazionali di contro al grande capitale transnazionale. In tali aspetti populisti si possono individuare delle sinistre affinità fra i populismi oggi al governo in Italia e i programmi del fascismo e del nazionalsocialismo.

D’altra parte il superamento della dicotomia destra-sinistra è un caposaldo del pensiero positivista che critica come idee metafisiche, non dimostrabili, oggi diremo ideologiche, la stessa sovranità popolare e l’illimitata libertà della coscienza individuale. Concezioni ideologiche che sarebbero proprie di un’epoca ormai, per sempre, superata di sconvolgimenti sociali. Ora, per affermare una società pacificata e razionale bisognerà abbandonare queste antiche ideologie in quanto anti scientifiche. In ambito scientifico, infatti, non si creano i contrasti creati dalla irrazionale pretesa della sovranità popolare o dalla libertà di coscienza individuale, in quanto tutti si atterrebbero alle regole stabilite dai competenti. La scienza, infatti, non è un’opinione soggettiva. Perciò nel mondo contemporaneo bisognerebbe abbandonare i contrasti ideologici del passato anche perché, creando contraddizioni e dissidi insanabili all’interno del popolo-nazione, lo indeboliscono e lo portano a soccombere rispetto alle nazioni straniere. Perciò mentre il potere spirituale spetterà ai soli competenti, gli scienziati, il potere temporale spetterà ai più competenti, i dirigenti industriali o manager. In tal modo la politica, liberata dalle sterili diatribe fra destra e sinistra, diventerà una scienza, affidata ai competenti, ossia ai tecnici e sarà al pari delle altre scienze al riparo dal contrasto delle opinioni e dalle pretese di giudizio della coscienza individuale.

Tala “nuova” concezione della politica risolverà la più grave difficoltà della politica contemporanea, la condizione di vita delle masse, senza mettere in questione la proprietà privata o la subordinazione gerarchica che sono considerate indispensabili al benessere sociale. Questa politica, non più ideologicamente condizionata, farebbe comprendere a imprenditori e salariati il loro ruolo e i loro doveri, consentendo una pacifica cooperazione fra la testa e le braccia. Contro l’antagonismo fra le classi, si stabilirebbe una comune autorità morale indipendente e illuminata che consentirebbe di conciliare in modo imparziale i contrasti sociali.

Tali concezioni, non a caso egemoni per lungo tempo nel mondo occidentale, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, con l’affermarsi della società borghese, le ritroviamo soprattutto nel populismo pentastellato, che non a caso sia nella sua proposta di governo precedente alle elezioni che nei governi locali, dove non è costretto al compromesso con il populismo della Lega, ha selezionato su tali basi il gruppo dirigente a livello locale e nazionale, a partire dai curricula e del tutto a prescindere dalle posizioni ideologiche e politiche. Con i problemi che ben conosciamo dei governi tecnici, che finiscono con il considerare il pensiero unico dominante l’unico non ideologico, finendo con l’applicare in modo ancora più dogmatico le ricette economiche mainstream che tanti disastri hanno prodotto. Infine, trattandosi di individui essenzialmente privi di grandi ideali universali, hanno come orizzonte solo quello particolaristico del far carriera e questo mostra come le formazioni populiste ora al governo in Italia, sebbene si siano affermate proprio con la lotta alla corruzione del ceto dirigente politico, una volta giunte al potere, anche a livello locale, hanno finito con il riprodurre gli stessi livelli di corruzione che avevano denunciato.

Infine, sempre dal punto di vista storico, la posizione anti-ideologica, volta a superare le contrapposizioni politiche all’interno della società, è propria di tutto il pensiero reazionario, dalla Kriegsideologie, a pensatori vicina al nazionalsocialismo come M. Heidegger, o ideologi del fascismo come G. Gentile, fino ai moderni comunitaristi, come A. McIntyre. In tutti questi casi si tende a esaltare, in modo reazionario, di contro all’individualismo e alla libertà di coscienza caratteristiche del mondo moderno, il comunitarismo delle società antiche in cui il singolo aveva valore solo in quanto componente organica di una totalità collettiva quale la comunità popolare o razziale, la società o lo Stato a seconda delle diverse declinazioni che ha avuto questa comune concezione. In tale orizzonte lo stesso dissenso diviene impossibile o, quantomeno intollerabile, all’interno della comunità retta dagli stessi valori non scritti della tradizione (nazionale). Da qui la sostanziale xenofobia di tali concezioni che vedono nello straniero in quanto tale, proprio perché necessariamente in contrasto contro la comunità (nazionale), il nemico, o quantomeno un pericolo, qualche cosa di estraneo che non può che costituire un elemento di turbamento della comunità nazionale. Da qui la persecuzione delle minoranze nazionali e religiose, generalmente considerate alla base stessa dei conflitti sociali, da qui l’identificazione del sovversivo con l’ebreo, il musulmano, o lo straniero. Anche in tal caso possiamo vedere quanto queste concezioni siano presenti nell’attuale populismo di destra che pare sempre più capace di egemonia nel nostro paese.

Evidentemente si tratta di concezioni del tutto antitetiche alla sinistra e, dunque – a meno di non riprendere l’ideologia rosso-bruna, all’origine del nazi-fascismo, o a meno di non seguire M. Cacciari, ossia chi sostiene che essendo vincenti le concezioni della destra, l’unico modo per tornare a vincere da parte della sinistra consisterebbe nel farle proprie – su tali basi un populismo di sinistra sarebbe o impossibile o comunque inutile.

D’altra parte, il loro successo, che rimane purtroppo immutato nel tempo, è indizio che tali concezioni, per quanto espressioni dell’ideologia dominante e funzionali al mantenimento di rapporti di produzione e di proprietà sempre più irrazionali, debbono avere al loro interno qualche cosa se non di vero, quantomeno di verosimile e, perciò, appetibile per il senso comune, privo di una salda coscienza di classe. A questo proposito giocano un ruolo fondamentale i pregiudizi prodotti dal linguaggio, quelli che F. Bacon definiva Idòla fori, considerandoli i più comuni e i più perniciosi. Si tratta della tendenza – non solo del linguaggio comune, ma anche di quello “giornalistico” dei grandi mezzi di comunicazione – di dare agli stessi termini, alle stesse parole significati differenti, a seconda che vengano usate in senso letterale, metaforico, tecnico ecc.

Così i termini destra e sinistra vengono usati sia in senso letterale-empirico secondo una consuetudine sorta con la Rivoluzione francese – che ha prodotto i partiti politici – per cui i deputati più radicali e progressisti tendono a sedere in parlamento alla sinistra del presidente dell’assemblea, mente a destra sono solito posizionarsi conservatori e reazionari. Evidentemente tale distinzione ha senso, anche in senso tecnico-concettuale, quando in un parlamento esistono realmente delle forze che si contrappongono dal punto di vista ideologico, politico e sociale. Come, ad esempio, alcuni decenni fa in Italia, quando a sinistra vi erano forze progressiste, socialiste e comuniste – che rappresentavano gli interessi delle classi subalterne – mentre a destra forze conservatrici e reazionarie, che difendevano gli interessi dei settori più retrivi del blocco sociale dominante. In un parlamento in cui, come è avvenuto progressivamente in Italia con il passaggio alla Seconda repubblica, tutti i parlamentari sono sostanzialmente sostenitori del pensiero unico, ossia rappresentanti della classe dominante, tali differenze tendono a perdere il loro significato originario e a divenire meri nomi cui non corrisponde più una sostanza sociale, politica ed ideologica.

Dunque, dinanzi al bipolarismo liberale introdotto con la seconda repubblica, con un centro-destra e un centro-sinistra sempre più indifferenti, che in ogni campagna elettorale si accusavano vicendevolmente di copiarsi i programmi, non poteva apparire evidente al senso comune – che si ferma alle apparenze empiriche – che fra destra e sinistra fosse venuta meno ogni differenza sostanziale, come nella nota canzone di G. Gaber. D’altra parte, però, la scienza esiste proprio perché per approssimarci alla verità occorre andare al di là delle apparenze. Inoltre, in quanto tale, il linguaggio della scienza non può essere equivoco come il linguaggio comune o quello “giornalistico” ma deve essere, necessariamente, univoco e rigoroso. Da tale punto di vista, sino a che la società sarà divisa in classi, con interessi necessariamente antitetici, non potrà perdere senso la distinzione fra chi, definendosi di sinistra, si schiera dalla parte delle classi subalterne e chi, definendosi di destra, si pone dal punto di vista delle classi dominanti.

Negare ciò significa negare la realtà, negare o la divisione in classi della società, o gli interessi antagonistici fra dominanti o dominati, o negare l’esistenza di un blocco sociale dominante e di uno subalterno. Evidentemente tali negazioni favoriranno chi, su tali divisioni e contrapposizioni sociali, fonda i propri privilegi. Mentre altrettanto evidentemente è controproducente per chi intende eliminare tali privilegi. Dunque, anche da questo punto di vista, il populismo che considera superate le differenze fra destra e sinistra non può essere di sinistra o, quantomeno, non sarà utile alla sinistra.

Comments

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francesco
Tuesday, 03 July 2018 12:09
"non potrà perdere senso la distinzione fra chi, definendosi di sinistra, si schiera dalla parte delle classi subalterne e chi, definendosi di destra, si pone dal punto di vista delle classi dominanti" ... il problema è che larga parte delle classi subalterne si schiera (inconsapevolmente) con le classi dominanti
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