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paroleecose

Quattro crisi politiche

di Guido Mazzoni

[Una prima versione di questo intervento è stata presentata al Politecnico di Milano il 17 giugno 2017, nell’ambito di un ciclo di conferenze intitolate Zona Disagio. Progetti di resistenza nella condizione contemporanea organizzata da Florencia Andreola per la rivista di architettura «Gizmo»]

Screenshot from 2018 12 23 22 02 26C’è stato un tempo, fra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta del Novecento, nel quale l’impulso alla metamorfosi, alla storicità, che è consustanziale all’epoca moderna sembrava essersi attenuato o spento. Due formule filosofiche davano forma a questa percezione. Perfettamente coeve, comparivano nei titoli di due libri usciti nel 1992. La più famosa era stata fatta circolare da un politologo americano, Francis Fukuyama, in un libro semplificatorio e tempestivo. Derivava dalle lezioni e dai saggi di Kojève su Hegel e suonava affascinante e lapidaria: la fine della storia[1]. L’altra apparteneva allo scrittore argentino Macedonio Fernandez ed era stata ripresa da Baudrillard: lo sciopero degli eventi[2]. Per tutti gli anni Novanta si è discusso seriamente di fine della storia e di sciopero degli eventi. Oggi può sembrare strano, ma le due categorie, spogliate dalla loro aura paradossale, descrivevano uno stato di cose che venticinque anni fa pareva tangibile: tutto ciò che accadeva, dalla Guerra del Golfo alle guerre etniche nella ex-Jugoslavia, dalla dissoluzione degli Stati africani alla crisi in Giappone, in Sudamerica o nei paesi dell’Europa dell’Est, sembrava incapace di trasformare il modello sociale che dal 1989 in poi aveva conquistato l’egemonia sul pianeta. Uno degli aspetti fondamentali del mondo moderno – l’ingegneria politica, l’idea che sia possibile costruire forme di vita differenti, tutto quello che si lasciava compendiare nella parola Rivoluzione – sembrava non esistere più, o esistere solo in versione privata e pulviscolare. Se nel corso del Novecento il fascismo, il comunismo e la Western way of life si erano contesi il dominio sulle enormi masse umane prodotte dall’esplosione demografica moderna proponendo modelli sociali alternativi e reciprocamente ostili, il secolo si chiudeva con una vittoria netta, simbolica prima ancora che pratica: la forma di vita occidentale fondata sull’economia di mercato, sulla democrazia liberale e sull’individualismo era l’unica legittima e la sola realistica; l’idea che un altro mondo fosse possibile era difesa solo da minoranze velleitarie.

Ma se la fine della storia rappresentava uno stato di cose planetario, lo sciopero degli eventi era tale solo per chi viveva nell’Europa dell’Ovest o negli Stati Uniti. Altrove la vita collettiva continuava a cambiare in modo sostanziale. Si trattava di miopia, certo, ma questo limite percettivo rifletteva rapporti di forza oggettivi: l’idea di storia che avevano le classi medie degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale pesava di più perché gli schemi egemoni dopo il 1989 riflettevano le idee, le mitologie e i desideri di quelle classi.

Nel decennio successivo il dibattito pubblico europeo e americano si è trasformato rapidamente; anche per noi gli eventi hanno smesso di scioperare. Gli anni Zero sono scanditi da due date che hanno preso subito un significato allegorico: l’11 settembre del 2001 è diventato un’antonomasia in diretta televisiva; il 15 settembre del 2008 si è caricato di sovrasensi nel giro di poche settimane. In mezzo c’è stata una terza mutazione che cade a metà degli anni Zero, quando la nascita dei social network e di YouTube apre una nuova fase nella storia dei media, piena di conseguenze psicologiche e politiche. Sono eventi carichi di Zeitgeist e interessanti per molte ragioni, a cominciare dalla forma che prendono. Ciò che in altre epoche avrebbe avuto l’aspetto di una dichiarazione di guerra, di una rivoluzione, o della cavalcata di un individuo cosmico-storico per le strade di una città conquistata, all’inizio del XXI secolo prende la forma di spettacolo, di astrazione o di mutazione tecnologica. L’11 settembre è stato, fra le altre cose, il più grande show televisivo della storia o, se si preferisce, la performance più seguita di tutti i tempi, il terrorismo essendo costruito secondo la logica della performance. Chi ha progettato quella giornata sapeva che l’arrivo del secondo aereo sarebbe stato trasmesso in diretta e in mondovisione, i media erano parte dell’evento, com’è tipico di una guerra che fa molti meno morti dei conflitti tradizionali ma agisce sull’immaginario[3]. La crisi economica si è annunciata sotto forma di astrazione: benché i commentatori spiegassero che stavamo guardando un evento di proporzioni planerarie, era difficile collegare le immagini degli impiegati che uscivano dalla sede della Lehmann Brothers portando via scatole di cartone piene di foto di famiglia e soprammobili a qualcosa di importante; ci sarebbero voluti mesi o anni perché il mutamento che si annuncia il 15 settembre 2008 generasse effetti sulla vita delle maggioranze. I processi che avevano condotto a quella scena sfuggivano al senso comune, all’esperienza vissuta e al dibattito politico, trascendevano gli individui e gli Stati: parevano ineluttabili come fenomeni naturali, ma a differenza dei fenomeni naturali erano invisibili, o visibili solo in superficie. La terza forma che gli eventi hanno preso è il mutamento tecnologico. Le due grandi rivoluzioni che stanno all’origine del nostro mondo, quella industriale e quella francese, sono allegorie delle forze che hanno fatto del mondo moderno il luogo di una metamorfosi accelerata: la Tecnica e la Grande Politica, quella che non si limita a amministrare ciò che già esiste ma cerca di cambiare le forme di vita. Oggi è chiaro che la seconda è uno spettro, mentre la prima è sempre di più il vettore delle metamorfosi, la potenza che trasforma l’economia, la vita psichica, la convivenza civile. Se è vero che lo spettacolo, l’astrazione e la tecnica fanno parte di ogni assetto sociale, è altrettanto vero che da qualche decennio spettacolo, astrazione e tecnica sono molto più visibili. Lo sono anche perché gli eventi propriamente politici non hanno lo stesso impatto e la stessa forza di rivelazione: il Novecento è stato segnato dalla Grande Politica (tre modelli sociali in lotta fra loro, due guerre mondiali, una guerra fredda planetaria), oggi non è più così. La fine del servizio militare obbligatorio, da questo punto di vista, è un confine simbolico.

Quest’epoca percorsa da eventi è attraversata da tensioni. Se gli anni Novanta delle società occidentali sono stati segnati dall’idea che non potesse più accadere nulla di decisivo, gli anni Zero e gli anni Dieci vengono letti attraverso un significante opposto – la crisi. Di solito viene declinato al plurale – non una ma molte crisi: economica, politica, culturale, ecologica. Alcune sono interne alle società occidentali, altre riguardano il rapporto fra queste società e ciò che le trascende del tutto o in parte: le migrazioni, il fondamentalismo islamico, il cambiamento climatico. Oggi vorrei parlare delle prime, o almeno di alcune – la crisi economica, la crisi della decisione, la crisi dei legami sociali, la crisi delle utopie illuministiche. Sono tutte crisi politiche in senso lato, perché riguardano la vita di noi in quanto esseri oggettivamente uniti in una polis astratta, fisicamente impercepibile ma reale.

 

I

Dieci anni dopo sappiamo che quella del 2007-2008 non è stata una crisi rovinosa del capitalismo. Il capitalismo si è ripreso; in alcune aree è stato scosso pesantemente, in altre marginalmente, e oggi non è più in crisi di quanto non lo sia di solito. Un sistema fondato sulla competizione, sullo sfruttamento della forza-lavoro altrui, sulla distruzione creatrice, sul rinnovamento perpetuo e su un’enorme quantità di fiducia collettiva si trova per sua natura esposto all’instabilità. Ciò che lo choc del 2007-2008 ha invece mostrato con chiarezza è un’altra cosa. Dal 1973 al 2016 la quota del Pil mondiale prodotta dall’Occidente e dal Giappone è passata da circa il 59% a circa il 37%[4]; se a metà degli anni Novanta i paesi di ciò che all’epoca era il G7 continuavano a produrre oltre la metà del prodotto interno lordo planetario, oggi ne producono poco più di un terzo[5]. Dopo la crisi petrolifera del 1973 il numero degli occupati nei paesi occidentali ha cominciato a diminuire e la disoccupazione è diventata un problema. Ci sono state fasi e congiunture, ma la tendenza generale è vistosa e leggibile. Inoltre, anche se il PIL mondiale si è quadruplicato rispetto al 1973, la distribuzione della ricchezza all’interno degli Stati è sempre più ineguale. Le statistiche di cui disponiamo confermano ciò che il senso comune, da una decina di anni a questa parte, percepisce e esprime nei risultati elettorali: le classi popolari e parti consistenti delle classi medie degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale stanno subendo la globalizzazione[6].

Il peso del fenomeno è più grande della quantità di individui coinvolti nel processo perché la middle class occidentale è il gruppo culturalmente egemone del pianeta. È il principale modello di sviluppo delle classi popolari non occidentali, è la classe cui si rivolge in prima istanza il terziario onirico[7], il sistema dei consumi e la mitologia mediatica di cui la Terra è avvolta, e che è quasi sempre modellata sui gusti, i desideri, gli eroi, i volti, la musica, gli ambienti delle classi medie americane e europee. La decadenza economica di questo gruppo sociale conta molto di più dei numeri in sé.

Se l’impoverimento si mostra con chiarezza a partire dal 2008, quello che è accaduto negli ultimi dieci anni si prepara da oltre quaranta, cioè da quando, fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e poi l’Unione Europea reagiscono alla crisi degli anni Settanta attraverso le politiche neoliberali. Nel 1971 vengono meno gli accordi di Bretton Woods, i cambi possono fluttuare liberamente, il denaro perde il legame con l’oro e diventa una grandezza fiduciaria, si creano le condizioni per lo sviluppo della finanza; nel 1973 esplode la crisi petrolifera; nel 1978 Deng Xiaoping apre la Cina al capitalismo; nel 1979 Thatcher vince le elezioni in Gran Bretagna; pochi mesi dopo Volcker assume la guida della Federal Reserve e impone una politica monetarista; nel 1980 Reagan vince le elezioni americane; nel corso degli anni Ottanta l’Unione Europea converge su un’architettura neoliberale che il trattato di Maastricht ratifica nel 1992; nel 1995 nasce l’Organizzazione mondiale del commercio. La crescita del Pil, il credito, le tutele residue e il risparmio hanno bloccato per alcuni decenni la percezione di quello che stava accadendo. Quando la crescita si ferma, il credito viene meno, i risparmi finiscono e le tutele sociali diventano insostenibili, lo stato delle cose si mostra in tutta la sua evidenza. In una prospettiva di media durata il neoliberalismo peggiora le condizioni di vita delle classi popolari e medie in Occidente: le impoverisce, riduce diritti che erano stati faticosamente conquistati, sposta il lavoro altrove.

Il neoliberalismo ha preso il posto dell’economia sociale di mercato nata nel secondo dopoguerra e del suo compromesso fra capitale e lavoro. Un equilibrio simile poggiava su presupposti che oggi tendiamo a dimenticare. Alcuni nascevano da contingenze irripetibili (le possibilità di sviluppo garantite dalla ricostruzione, i mercati interni insaturi); altri sono inaccettabili per chi assuma come valore la giustizia sociale planetaria: la posizione di vantaggio, di scambio ineguale, che l’Occidente aveva nel mondo grazie all’eredità del colonialismo (la crisi del petrolio, da questo punto di vista, è un confine simbolico); la compressione dei salari e dei diritti, quella che porta in Italia alle rivendicazioni dell’Autunno caldo e degli anni Settanta; una società ancora tradizionale, fondata su rapporti di gender asimmetrici e sull’ethos superegotico del risparmio, del sacrificio, dell’ascesi intramondana in vista di un futuro, in nome dei figli e dei nipoti. Quando queste condizioni vengono meno, la crescita economica del dopoguerra si ferma e i conflitti sociali si fanno laceranti. Il neoliberalismo è la risposta a una condizione simile. Oggi la cultura populista di destra o una parte della cultura di sinistra tendono a interpretarlo come un inganno di pochi ai danni dei molti, e in questo modo ne danno una lettura puerile. Per capire la portata tragica e contraddittoria di quello che è accaduto occorre invece dire tre cose.

 

1. È vero che l’economia neoliberale si impone attraverso decisioni politiche, ma è altrettanto vero che queste decisioni rispondono alla logica sistemica del capitalismo e a un valore che la nostra cultura condivide plebiscitariamente – la difesa del benessere, la crescita economica. Era obiettivamente difficile contrastare questo processo negli anni in cui si afferma; ci sarebbe voluta una lungimiranza di cui le democrazie non dispongono, perché il loro scopo è il mantenimento del consenso e il loro tempo è il presente, come dice Tocqueville, non il passato o il futuro. Il neoliberalismo ha fatto ripartire l’economia; in altre parole ha consentito lo sviluppo delle forze produttive e lo ha fatto assecondando la logica interna del capitalismo alla luce della nuova apertura spaziale che la tecnica rendeva possibile. Nel corso degli anni Settanta, davanti a una caduta del saggio di profitto, all’aumento dei diritti dei lavoratori e conseguentemente della loro indisciplina, i detentori di capitale cercano più libertà di movimento e più disciplina: meno tasse, costi del lavoro più bassi, meno controlli, meno obblighi e tutele, classi lavoratrici più remissive, nuovi mercati potenziali. Non lo fanno per un complotto o per una decisione politica, ma perché perseguono il proprio interesse e perché portano avanti, con mezzi nuovi resi possibili dello sviluppo della tecnica, la tendenza all’extraterritorialità che è consustanziale al capitalismo. In quel momento la loro richiesta ha un peso politico enorme perché il modello dell’economia sociale di mercato non funziona più, lo scopo che tutti condividono è far ripartire la crescita e le classi dirigenti neoliberali hanno una risposta che nella breve durata funziona. Negli Stati che la adottano il prodotto interno aumenta: la svolta di Thatcher e Reagan si impone per questo. È innegabile che abbiano agito gli interessi dei detentori di capitale e l’opera di élites intellettuali organiche a questi interessi, ma è altrettanto innegabile che il primo motore della trasformazione sono la logica interna dell’economia di mercato, le nuove possibilità rese disponibili della tecnica, la crescita come valore e la risposta della realtà.

 

2. Per alcuni decenni il neoliberalismo ha avuto un consenso molto esteso presso quegli stessi individui e quelle stesse classi che oggi votano in massa per i partiti antisistemici. Oltre a vincere una volta, Thatcher e Reagan hanno rivinto: hanno governato con un consenso altissimo fra le classi medie e consistente fra le classi popolari. Thatcher rivinse le elezioni del 1983 col 42,4% dei voti e quelle del 1987 col 42,2% (i laburisti presero il 27,6% e il 30,8%: quasi 15 e 12 punti di scarto); Reagan rivinse le elezioni nel 1984 col 58,8% dei voti e conquistò la maggioranza in tutti gli stati tranne il Minnesota; il suo vicepresidente e successore, George Bush padre, vinse le elezioni del 1988 col 53,4% dei voti. L’Unione Europea, da parte sua, ha adottato il modello neoliberale nel corso degli anni Ottanta e degli anni Novanta col consenso di tutte le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra e di quasi tutta l’opinione pubblica. A lungo il neoliberismo ha avuto l’appoggio delle maggioranze silenziose, cioè presso quelle stesse classi sociali che oggi si rivoltano contro le politiche per le quali hanno a lungo votato.

Permettere al capitale di girare senza ostacoli per il mondo cercando un costo del lavoro più basso e nuovi mercati significava spostare la ricchezza fuori dall’Occidente e consentire ad altre nazioni di entrare nel sistema, prima come serbatoi di manodopera per aziende delocalizzate, poi come mercati per aziende di proprietà occidentale, infine come produttori, come concorrenti. Significava dar potere al capitale a scapito del lavoro, creando nuovi rapporti di forza dai quali le tutele che il movimento sindacale europeo e americano si era costruito in oltre un secolo di storia dentro un mondo recintato sarebbero uscite corrose. Allo stesso modo significava revocare la grande divergenza che con la rivoluzione industriale ha separato la crescita economica dell’Occidente e dell’Oriente[8]. Oggi tutto questo sembra chiaro – ma fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del Novecento ciò che contava era la ripresa economica sulla breve durata, come succede nei regimi che si reggono sul consenso e nei quali il presente conta molto di più del futuro. Quando il processo si compie, chi perde posizioni ha due strategie davanti a sé, una difensiva e una offensiva. La prima è l’espansione del debito pubblico e privato. Grazie al debito si è occultato per qualche decennio la percezione dell’impoverimento progressivo: che la crisi del 2007-2008 esploda proprio a partire dai mutui è sintomatico. La seconda è rimodellare la società e lo Stato in funzione della concorrenza planetaria. In questo senso il primo obiettivo dei governi neoliberali, a cominciare da quello di Margaret Thatcher, è la metamorfosi delle società, la sua trasformazione in una macchina fondata sul mercato.

 

3. Il neoliberalismo ha un effetto contraddittorio sulla giustizia sociale. La globalizzazione produce effetti di segno diverso: in Occidente impoverisce e toglie diritti alle classi popolari e medie; nello spazio-mondo fa nascere una plutocrazia planetaria[9] concentrando enormi capitali nelle mani del 5%, e ancora più clamorosamente dell’1% della popolazione; in altre zone della Terra, e in particolare in Asia, consente a miliardi di persone di uscire dalla povertà e di accedere alla classe media. Questa uscita avviene grazie a quello che con occhi socialdemocratici occidentali è puro sfruttamento, ma viene avvertita, da una parte consistente di coloro che la vivono, come un miglioramento. Si ricrea, su scala terrestre, ciò che l’Europa occidentale ha vissuto nel corso dell’Ottocento: il capitale sfrutta il lavoro per generare sviluppo; la nuova fase storica viene percepita, dalle masse che vendono la propria forza-lavoro provenendo dall’indigenza o dalle campagne, come un progresso – un progresso carico di ingiustizia e diseguaglianza, ma comunque come uno stato di cose migliore di ciò che c’era prima e aperto a possibilità future. I grandi partiti di massa moderni vogliono un’altra modernità, non rimpiangono il passato premoderno; gli atteggiamenti nostalgici, elegiaci o reazionari appartengono a minoranze intellettuali di origine borghese ferme su posizioni di anticapitalismo romantico.

Gli argomenti che una parte della cultura di sinistra usa contro il neoliberismo sono sfocati. Il neoliberismo aumenta le diseguaglianze nel pianeta e dentro le nazioni e al tempo stesso redistribuisce la ricchezza fra le nazioni e permette lo sviluppo di continenti un tempo poverissimi. Lo fa attraverso lo sfruttamento brutale della forza-lavoro salariata, come a suo tempo fece il capitalismo in Europa prima che il movimento operaio e sindacale conquistasse delle forme di tutela. Nasce da una strategia iniziale, da un’ideologia di fondo, ma è soprattutto un meccanismo automatico, soverchiante e acefalo, perché coincide, di fatto, con la connessione impersonale degli interessi planetari secondo la logica della Zweckrationalität. In questo senso lo spostamento della ricchezza verso l’Asia e l’impoverimento delle classi popolari e medie in Europa e negli Stati Uniti sono processi difficili da fermare, perché molto più potenti delle forze che si sforzano di contrastarli. Ciò rimanda alla seconda crisi di cui vorrei parlare, quella della decisione politica.

 

II

A partire dalla fine degli anni Ottanta e dagli anni Novanta le opinioni pubbliche europee percepiscono gli effetti di un processo che ha una storia decennale, ma che solo in quel periodo si rivela. Il potere contemporaneo è un’entità polimorfa fatta di centri decisionali multipli, ma il senso comune delle democrazie moderne continua a attribuire alle elezioni politiche nazionali un peso simbolico assoluto; benché molte decisioni vengano prese al di sopra e al di sotto degli Stati-nazione, le passioni della politica continuano ad avere una scala statale. Ebbene: dopo il 1989 entra nel discorso pubblico europeo l’idea che le elezioni nazionali servano a poco, che gli Stati abbiano perso una parte considerevole del loro potere, che la loro sovranità sia limitata, che le decisioni di fondo siano già prese, le leggi di bilancio già scritte, le grandi alleanze decise in modo irreversibile e che solo una catastrofe sistemica che nessuno vuole, e che nessuno sarebbe in grado di sostenere, possa cambiare questo stato di cose. L’elettorato fa sempre più fatica a percepire la differenza fra la politica economica dei governi di destra e la politica economica dei governi di sinistra. Il significante che fissa questa percezione, pensiero unico, emerge all’inizio degli anni Novanta nel dibattito francese e si diffonde con rapidità. In fondo è la versione di sinistra del più celebre slogan di Margaret Thatcher, there is no alternative. Negli stessi anni si diffondono altre due formule che, con armoniche diverse, dicono la stessa cosa: la prima, «il verdetto dei mercati», è un topos giornalistico; la seconda appartiene al qualunquismo atmosferico, diffuso, che emerge in quel periodo, «sono tutti uguali». Due decenni più tardi l’idea che la classe politica sia tutta uguale diventa il nucleo dei populismi degli anni Dieci, il voto populista essendo anche la ricerca più o meno cieca di un’alternativa in un’epoca nella quale sembra non esserci alternativa.

La prima causa di questa crisi politica, come si sa, è la globalizzazione stessa: «la forza dell’economia-mondo moderna consiste nel fatto che agisce in uno spazio più ampio di quello che può essere completamente controllato da qualsivoglia entità politica»[10]. La cultura pensa questo stato di cose ricorrendo alle metafore fisiche legati ai passaggi di stato: ciò che un tempo era solido diventa liquido o gassoso (Marx-Engels, Berman, Bauman), una sovranità fondata sul nomos della Terra viene sconfitta dal nomos del Mare o dell’Aria (Schmitt). La soggezione degli Stati terrestri al capitalismo extraterritoriale è accresciuta dall’aumento del debito pubblico che è fenomeno endemico a partire dagli anni Settanta e Ottanta, e che li rende vulnerabili ai mercati[11].

Tuttavia la cessione della sovranità non avviene solo verso l’alto, a favore dei meccanismi economici o delle istituzioni governamentali che sovrastano gli Stati, ma ha luogo anche verso il basso, cioè nel corpo delle nazioni. Negli ultimi decenni sono aumentati sia la quota di potere politico sottratta agli esecutivi e consegnata al potere giudiziario o alle tecnocrazie (le banche centrali, le autorità)[12], sia il peso dei poteri locali a scapito del potere centrale. Quest’ultimo processo viene di solito presentato come un modo per riavvicinare i cittadini alle istituzioni. In realtà il primo risultato del decentramento così come ha preso forma in questi anni è stato quello di frammentare la decisione politica, di moltiplicare i contenziosi e i ricorsi (il contenzioso e il ricorso sono figure dello spirito, emblemi della crisi della politica contemporanea), di indebolire lo Stato-nazione, di aumentare lo scetticismo verso la politica.

La metafora della gabbia d’acciaio che Weber usava per descrivere il processo di razionalizzazione moderna si applica perfettamente all’assetto del mondo neoliberale e alla sua logica senza alternative: gli Stati contemporanei sono organismi politici deboli immersi in un sistema che li sovrasta. Fino a quando la crisi del 2008 non ha rivelato l’impoverimento delle classi popolari e medie, le maggioranze americane ed europee hanno tacitamente accettato un assetto simile; dal 2008 in poi, e in misura crescente negli ultimi cinque anni, il campo politico si è diviso in due.

 

1. Da una parte le forze sistemiche, quelle che ritengono che l’assetto contemporaneo sia al tempo stesso un destino inaggirabile e l’unico modo per assicurare una piccola sfera di benessere e autonomia alle maggioranze. I loro programmi vogliono adeguare i paesi occidentali alla concorrenza mondiale e scommettono sulla crescita. Poiché il capitalismo globalizzato aumenta le diseguaglianze interne agli Stati, per evitare che i conflitti fra le classi diventino insostenibili occorre aumentare il prodotto interno lordo e aver fiducia nella premessa ontologica e articolo di fede della filosofia neoliberale, cioè nell’idea che la ricchezza ridiscenda a pioggia dall’alto verso il basso. Di solito questa politica viene perseguita in due modi. Il primo è abbassare il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori in modo da rendere più favorevoli gli investimenti di capitale. La parola-emblema di un simile indirizzo è ‘riforme’[13]. Il secondo indirizzo è cercare di competere in settori e produzioni nei quali l’Occidente ha un vantaggio. Ora: l’unico modo per conservare un vantaggio competitivo nei confronti di paesi che offrono un costo del lavoro molto più basso e pochissime tutele è produrre merci e servizi ad alto valore intellettuale aggiunto, per tecnologia o per estetica. Ciò che permette alle economie occidentali di competere nella guerra economica con aree che offrono condizioni migliori al capitale, prima ancora che la riduzione del costo del lavoro e dei vincoli, è saper fare merci complesse e riuscirci per primi, creando o intercettando le novità. Non a caso il più vistoso fenomeno di rallentamento del processo che redistribuisce la ricchezza da Occidente a Oriente è la new economy degli anni Novanta. Di qui l’importanza che hanno assunto, negli ultimi decenni, le riforme scolastiche, che sono ormai diventate un fenomeno endemico. In questa visione il primo compito del sistema educativo non è quello di trasformare le persone in cittadini consapevoli, ma quello di trasformare gli individui in imprenditori di se stessi e in lavoratori cognitivi capaci di stare nel mercato, e prima ancora di accettare il mercato come un orizzonte esistenziale assoluto. Questo discorso ha un rovescio implicito: chi non ha la forza e le competenze per reggere è destinato a un impoverimento progressivo e a una progressiva marginalità culturale. Un effetto vistoso del neoliberalismo è stato quello di dividere le classi medie occidentali fra la parte che pensa di poter stare nei processi in corso e la parte che li subisce. La linea di confine è la stessa che ritroviamo nelle analisi del voto sulla Brexit, o nelle elezioni americane del 2016, o nelle elezioni italiane del 2018, o nelle proteste di questi giorni contro Macron, e separa centro e periferia, grandi città internazionali e province, professioni competitive (o professioni garantite) e posizioni a rischio, segnando un confine che c’è sempre stato, ma che non si è mai stato così importante.

 

2. Dall’altra parte i partiti antisistemici, quelli che da alcuni anni a questa parte intercettano la rabbia delle classi popolari e delle classi medie di fronte alla decadenza generata da meccanismi per i quali, in passato, quelle stesse classi hanno espresso un largo consenso. Esistono due famiglie principali, seguono la distinzione moderna fra destra e sinistra, ma questa partizione non copre tutto il campo. Per esempio il partito antisistemico che ha avuto la maggioranza relativa alle elezioni politiche italiane del 2018, il Movimento 5 Stelle, assembla elementi di destra, elementi di sinistra e tratti democristiani in un patchwork instabile che ricombina residui di programmi politici ottocenteschi e novecenteschi ed elementi nuovi, come un edificio barbaro che riusa frammenti eterogenei di edifici romani crollati aggiungendoci degli stilemi nuovi. Questo soggetto politico gassoso è tenuto insieme da un capo carismatico che crea il proprio popolo e lo aggrega al di là delle contraddizioni, secondo un tratto tipico del populismo che Berlusconi è stato il primo a usare nella politica italiana recente.

Le forze antisistemiche più forti sono quelle di destra o quelle che sfuggono all’antitesi fra destra e sinistra. Hanno alcuni elementi comuni molto visibili: sovranismo, nazionalismo, protezionismo, separazione dicotomica fra Noi e Loro, dove il significante-Noi è definito su base etnico-popolare mentre il significante-Loro rimanda di volta in volta alle élites, agli stranieri o ai diversi. Uno dei tratti più interessanti, a mio modo di vedere, è l’estraneità dei loro leader alla cultura politica e all’habitus delle classi dirigenti tradizionali. I partiti populisti rompono con il pensiero unico e prima ancora con le forme classiche della democrazia liberale, a cominciare dalla concezione stessa della democrazia, che non viene più intesa come un sistema complesso che deve tenere insieme il diritto della maggioranza, i diritti delle minoranze, l’equilibrio fra i poteri, il rispetto delle leggi e delle procedure, ma viene ridotta al suo elemento minimo, cioè al nudo diritto della maggioranza a governare. Questa estraneità è ancora più profonda delle posizioni ideologiche esplicite e ha a che fare con l’habitus delle classi dirigenti. I leader dei partiti populisti, come dice una metafora morta del dibattito giornalistico contemporaneo, non sublimano le istanze che provengono dal basso ma «parlano alla pancia». Le democrazie rappresentative, come si sa, combinano un principio democratico in senso stretto (la sovranità popolare), un principio aristocratico (la mediazione tecnica e morale di quelli che in teoria sono i migliori, cioè le classi dirigenti elette) e un principio monarchico (l’azione dell’esecutivo). La prevalenza teorica va al primo, ma nella prassi di governo i rapporti fra i tre principi sono molto mescolati: l’esecutivo ha spazi di decisione autonoma; i gruppi dirigenti interpretano con un certo grado di libertà i desideri degli elettori di cui hanno raccolto la delega e ai quali renderanno conto al momento delle elezioni. Nei grandi partiti di massa del dopoguerra il principio aristocratico era molto presente: le classi dirigenti raccoglievano i bisogni e gli umori della base e li portavano a un grado di elaborazione più alto, attraverso ideologie, parole d’ordine e significanti-guida che ripulivano le passioni e gli interessi di parte dal loro elemento viscerale. La distanza culturale e linguistica fra elettori e gruppi dirigenti non veniva mai meno: veniva mediata da mitologie collettive, da grandi narrazioni ideologiche e da grandi apparati di propaganda, ma non scompariva. Anche partiti inclini al clientelismo, al sottogoverno, e largamente compromessi con le zone grigie e gli interessi ignobili, come la DC in Italia, sapevano comunque articolare il proprio discorso su piani di complessità e mediazione crescenti. Nei nuovi partiti antistemici, invece, il leader assomiglia alla propria base, ne parla il linguaggio. Anche quando sono dei multimiliardari, i leader di queste aggregazioni parlano e soprattutto pensano come i loro elettori; la loro cultura e la loro visione del mondo si spingono poco più avanti della cultura e della visione dell’elettore medio; il programma di governo tende a coincidere con la propaganda elettorale. I regimi populisti lasciano la parola al demos senza i filtri delle democrazie rappresentative mature. In questo senso, non sono una malattia della democrazia, ma democrazia allo stato puro.

È fondamentale il rapporto che il discorso populista intrattiene con la vera cultura della società di massa – cioè la cultura pop, con le sue mitologie e le sue forme di comunicazione. Fra i tanti motivi di choc che la vittoria di Berlusconi alle elezioni italiane del 1994 ha comportato ce n’è uno legato a questo passaggio. Berlusconi rompeva con l’habitus delle classi dirigenti postbelliche non tanto perché proveniva dalla società civile, e non dai quadri di partito o dall’amministrazione dello Stato, ma per due ragioni più sostanziali: perché riduceva la distanza fra il proprio discorso e il senso comune della piccola borghesia e delle classi popolari depoliticizzate e perché, attraverso le proprie televisioni, aveva creato un’egemonia culturale pop alternativa a quella costruita dalla scuola e dalle classi dirigenti cattoliche, comuniste e laiche nei decenni precedenti. In questo senso, gli unici leader che negli anni Dieci hanno dimostrato di avere un consenso popolare – Renzi, Grillo e Salvini – sono tutti figli della rottura discorsiva berlusconiana, la adattano alla nuova epoca che Internet e i social media hanno aperto, mentre i leader ancora legati all’habitus politico-dirigenziale di una volta – Monti, Letta, Gentiloni – non sono mai stati popolari.

Nel frangente attuale i populismi hanno fortuna perché rompono con la visione del mondo, col linguaggio e con le maniere di partiti sistemici che in passato hanno avuto consenso e che in seguito non hanno saputo mantenere le promesse in nome delle quali avevano ricevuto una delega. Agli occhi delle classi dirigenti tradizionali i leader populisti sono dei demagoghi improbabili, tecnicamente incapaci e senza principio di realtà. Nella campagna elettorale del 2016 gran parte dei media considerava Trump unqualified; per due volte l’«Economist» ha giudicato Berlusconi unfit to lead Italy e unfit to lead Europe; nel 2013 sempre l’«Economist» parlava di Grillo e Berlusconi in un articolo dal titolo eloquente: Send in the clowns. C’è da dire che, nel corso del Novecento, toni simili sono stati usati per definire le richieste del movimento operaio e le idee dei partiti socialisti e comunisti, secondo una retorica classica del capitalismo, che concepisce se stesso come il portato di leggi economiche naturali e giudica l’insubordinazione a queste leggi un errore tecnico prima che politico, un deficit di razionalità strumentale. Ma oltre alle enormi differenze nei programmi, ciò che distingue i movimenti populisti di oggi dai partiti della sinistra storica, ma anche dai fascismi storici, è la povertà delle competenze tecniche (il rifiuto di accettare l’idea che la politica sia anche un sapere, una professione) e il rapporto con l’ingegneria sociale. I partiti socialisti e comunisti nascevano insieme a un lungo lavoro teorico, erano convinti che il loro modello avrebbe sociale retto e che il superamento del capitalismo fosse inscritto nello sviluppo delle forze produttive; il primo scopo del fascismo storico era la subordinazione della società civile allo Stato. I movimenti populisti di oggi non sembrano avere un’ingegneria sociale, cioè un’utopia di destra o di sinistra: propongono versioni autoritarie, protezionistiche, nazionalistiche di un’economia di mercato che, per altri aspetti, mantengono ultraliberale o dotano di palliativi deboli, di foglie di fico. Le forze sistemiche, da parte loro, aspettano che i regimi populisti crollino o che si adeguino ai fondamentali del capitalismo: la possibilità che creino un modello economico e sociale diverso non è nemmeno contemplata.

(È difficile che le politiche dei partiti sistemici riescano a contrastare lo spostamento della ricchezza a Oriente e la perdita progressiva di benessere e di tutele di una parte sempre più estesa della popolazione. È probabile che la loro politica venga vista in futuro come una tentativo di katechon, un modo per rallentare e governare un processo di decadenza inevitabile. Dall’altra parte è improbabile che i partiti populisti, con le loro dirigenze unfit, riescano a restaurare una forma di controllo nazionale sull’economia. L’unico che ha uno spazio di manovra è il presidente degli Stati Uniti solo perché gli Stati Uniti, per molte ragioni, sono il centro del sistema, lo Stato che non può fallire, mentre le altre nazioni sembrano in ultima analisi impotenti davanti al sistema mondiale dell’economia moderna. Possono solo adeguarsi o crollare, come negli ultimi decenni è sempre successo).

 

III

Oltre che nell’indebolimento degli Stati terrestri nel mondo sempre più liquido e aereo, la crisi della politica è implicita nel modello di civiltà che la democrazia liberale difende e nel modello di emancipazione che persegue. Gli ultimi decenni hanno accentuato un processo che è implicito nella logica della modernità e che è al centro delle riflessioni sulla struttura della società civile borghese, da Hegel a Constant, da Tocqueville ai classici della sociologia di fine Ottocento e di inizio Novecento, da Schmitt e Kojève alle riflessioni degli anni Settanta sulla mutazione antropologica e sulla fase narcisistica dell’individualismo contemporaneo. Questo processo ha a che fare con i legami sociali, col loro allentamento e col problema della coesione interna delle società liberali.

Oltre che sul terreno del potere la forma di vita occidentale ha vinto sul terreno dell’egemonia; alle masse dei paesi in via di sviluppo, o alle masse che hanno sperimentato il socialismo reale, la Western way of life è apparsa una società più desiderabile. Perché un modello simile ha vinto? Non certo in nome e per effetto della democrazia, sia perché la democrazia è un ideale troppo astratto per aggregare le masse in tempi ordinari, sia perché «non c’è alcuna connessione necessaria fra libertà individuale e principio democratico»[14]. Il XX e il XXI secolo sono pieni di regimi autoritari, di assetti borderline fra democrazia e dittatura, o di vere e proprie dittature che però assicurano una piccola sfera di beni materiali e autonomia a molti e proprio per questo durano col consenso delle maggioranze. Ciò che ha fatto la fortuna della forma di vita occidentale non sono le libere elezioni partecipate ma la capacità di creare bolle di benessere e libertà privata attorno agli individui e alle loro aggregazioni elementari, ovvero alle loro famiglie e ai loro clan, reali o metaforici. In questo senso la Western way of life è la forma che la società borghese liberale prende quando perde le strutture del notabilato che nel modello liberale classico sono ancora implicitamente o esplicitamente attive e diventa una vera società di massa. Del proprio archetipo la Western way of life eredita anche i problemi, a cominciare da quello della coesione interna. Legittimando la concorrenza e attribuendo un’importanza nuova agli individui, ai loro diritti, interessi e verità particolari, le società liberali sono percorse da spinte centrifughe, impolitiche. La riflessione su ciò che le tiene insieme è un topos della filosofia moderna: non avrei né il tempo né la capacità di ripercorrerlo in questa sede. In forma sintetica e brutale si può dire che le società liberali moderne sono tenute insieme da una combinazione variabile di elementi diversi: il peso assoluto attribuito alla vita privata e ai suoi valori, la persistenza di alcuni vincoli etici tradizionali di origine religiosa o comunitaria, la differenziazione sociale, che moltiplica le sfere e fa sì che gran parte di coloro che incontriamo ogni giorno ci sia solo indifferente e non rivale, la capacità di creare benessere, e infine un apparato di regole. Il liberalismo e il neoliberalismo hanno l’ossessione delle regole, perché sanno che, al di sotto della superficie, agiscono forze che tendono al conflitto e alla separatezza. Oltre alle leggi sancite dagli Stati, le famiglie principali di norme sono quella della governance economica (i dispositivi che oggi cercano di impedire agli Stati di intervenire nell’economia o alle grandi multinazionali di monopolizzare il mercato, come sarebbe altrimenti naturale), e le regole che disciplinano la conflittualità fra individui, quello che un tempo si chiamava educazione civile, ingentilimento dei costumi, tatto e che oggi si riassume nell’espressione correttezza politica. La correttezza politica è l’equivalente intrapsichico delle regole di mercato: è un apparato di controllo esterno, cioè governamentale, e interno, cioè superegotico, che maschera il fondo grigio e oscuro dell’indifferenza o dell’ostilità reciproca. Se la riflessione sul nucleo centrifugo e impolitico che cova sotto il capitalismo e la democrazia liberale si è aperta con Hegel e Tocqueville e ha una lunga storia, gli ultimi decenni hanno accentuato la rottura dei legami. Per un verso, è di nuovo chiaro che gli interessi di cui il capitalismo si nutre sono privi di misura. Uno degli elementi di forza di un libro come Gomorra, per esempio, è il modo in cui Saviano mostra, anzi dà per scontata la continuità fra attività legali e illegali nel capitalismo contemporaneo, e prima ancora la naturalezza con cui considera la criminalità come il prolungamento della logica capitalistica, riprendendo un’idea che è un tema classico del marxismo – e del Padrino. Negli stessi anni in cui Gomorra veniva scritto e pubblicato, i grandi scandali finanziari di inizio secolo, da Enron ai mutui subprime, fornivano conferme in tempo reale. Per un altro verso, il movimento centrifugo sembra avere ulteriormente segmentato gli individui e i gruppi. Ciò accade su molti piani dell’essere: sul piano psichico (chi vive all’inizio del XXI secolo ha una vita molto più schizofrenica, polimorfa e reversibile di chi viveva all’inizio del XX secolo o prima del 1968, ma soprattutto è autorizzato ad avere una vita molto più schizofrenica, polimorfa e reversibile di chi viveva in quegli anni); sul piano del rapporto soggettivo col tempo (se già Tocqueville rifletteva su come l’individualismo democratico sciogliesse il legame col passato e col futuro dando valore solo al presente, questo processo è diventato vistoso, il carpe diem di massa è un topos della cultura pop, dalla pubblicità alle canzoni); sul piano politico (le solidarietà orizzontali, i partiti, le associazioni si sono indeboliti, si sono fatti fluidi e gassosi). Ma soprattutto avviene sul piano dell’ethos. Negli ultimi decenni si sono diffusi atteggiamenti collettivi che lacerano la coesione sociale. Prendono due forme diverse. Da un lato una forma radicale di inappartenenza, l’ethos che Houellebecq consegna a una formula icastica del suo romanzo più importante («non me ne frega un cazzo»[15]); dall’altra, la dissoluzione di un senso comune tipica di ogni multiculturalismo, quella che ha luogo quando gli orizzonti si allargano generando relativismo e crisi scettiche. Dopo la fine del suo mandato, Barack Obama ha rilasciato alcune interviste nelle quali parla, da osservatore, della politica contemporanea. Una delle più seguite l’ha concessa alla BBC. L’intervistatore era il Principe Harry[16]. Uno dei passaggi più interessanti è quello in cui Obama riflette sulla balcanizzazione della società contemporanea:

The question has to do with how do we harness this technology in a way that allows a multiplicity of voices, allows a diversity of views, but doesn’t lead to a Balkanization of society and allows ways of finding common ground[17].

Nel seguito dell’intervista Obama attribuisce il deterioramento del legame sociale ai nuovi media, ma la cosa più interessante è che consideri la segmentazione dei valori come un problema decisivo del nostro tempo. Non c’è dubbio che la stagione della storia di internet che si apre a metà degli anni Zero abbia cambiato la struttura della sfera pubblica e lo sviluppo dei social network e di YouTube sia uno di quegli eventi di cui Baudrillard lamentava la scomparsa, ma il processo che questa nuova fase dei media fa esplodere ha una storia secolare ed è inscritto nella logica dell’individualismo moderno. È significativo che sia stato Obama a ritornare sul problema della deriva centrifuga. Se il Presidente degli Stati Uniti è la figura che oggi conserva meglio le prerogative della decisione politica, Barack Obama, per ideologia e storia personale, è stato il presidente che ha cercato di immaginare una società liberal rispettosa dei diritti civili, aperta, tollerante, politicamente corretta. Ha immaginato un liberalismo che connettesse disconnettendo, una società di persone educate alla differenza, unite dalla libertà negativa, dai valori della vita privata, dal grande mito moderno del sogno americano e da alcuni legami etici tradizionali: la famiglia, la community, certi elementi di origine religiosa (la compassione, il sacrificio, il principio del giving back). È significativo che sia proprio questa figura a prendere atto, a pochi mesi dalla fine del suo mandato, che una società simile rischia di smarrire il terreno comune. Basta adottare un punto di vista radicalmente altro per capire che la forma di vita occidentale ha un’impalcatura riconoscibile (per esempio «Dabiq», il giornale inglese on line dell’Isis, usa l’espressione Western way of life per designare un’entità che, agli occhi di scrive per «Dabiq», appare unitaria[18]), ma il nucleo che la rende riconoscibile e unitaria non le assicura coesione. Questa tendenza centrifuga si rivela nel modo in cui si declina oggi il principio che è alla base dell’individualismo moderno, il diritto alla separatezza. Ne circolano due versioni, una di destra e una di sinistra. La prima è quella tipica dei populismi di destra a base etnico-identitaria; la seconda è tipica della cultura liberal che ha smarrito il legame con le classi popolari e con la storia del movimento operaio e persegue ciò che nel dibattito americano si chiama identity politics, e che sarebbe più corretto chiamare politica della differenza.

La separatezza è il nucleo dei populismi di destra fin dagli slogan (America first, La France aux Français, Britain first, Prima gli italiani) e a maggior ragione nelle scelte politiche. È sbagliato interpretare questi movimenti alla luce del fascismo storico. Se è indubitabile che l’attrazione per la personalità autoritaria, che un elemento di fascismo eterno faccia parte del discorso populista, è altrettanto innegabile che manca del tutto quella soggezione dell’individuo allo Stato che era caratteristica fondamentale dei fascismi di primo Novecento. È difficile immaginare i leader di questi movimenti in uniforme militare, non perché in quei movimenti manchi il culto della forza autoritaria, ma perché l’esercito non è il modello di vita cui i populismi di destra si ispirano e che desiderano. Al fondo c’è una forma di individualismo anarcoide di destra uguale e contrario all’individualismo anarcoide di sinistra: la società è un aggregato di persone e famiglie, come nel modello liberale classico, ognuno si sente autorizzato a esprimere il proprio egoismo individuale, familiare o microcomunitario, ma nessuno è disposto a sacrificarsi per un principio collettivo; lo Stato è un nemico potenziale e dev’essere minimo. Il modello cui i populismi di destra guardano non è il fascismo storico, sono piuttosto le gated communities che si proteggono dal mondo esterno; e il dispositivo di potere cui guardano non è l’esercito, ma la polizia. In questo senso, l’amore di Salvini per le felpe della polizia ha un valore allegorico, proprio come le divise che Mussolini indossava durante i comizi. (C’è anche da dire che Salvini alterna le felpe della polizia alle felpe col nome della città o del paese in cui parla, o con le magliette del Milan, e anche questo ha un significato allegorico). I populismi di destra contemporanei non vogliono le mobilitazioni generali, le adunate militari, i bambini in divisa e il sabato fascista: vogliono una forma più o meno blanda di apartheid. Il rifiuto dello ius soli è questo: una forma di apartheid. Al fondo c’è l’ethos arcaico e tribale dei primi occupanti, quello che separa Noi e Loro, autoctoni e barbari, chi è arrivato prima da chi è arrivato dopo. Questi movimenti sono il rovescio e insieme il compimento del liberalismo classico: ne esasperano l’individualismo anarchico ma lo fanno su base territoriale e identitaria, senza rispettare né l’altro, né le procedure che regolano i rapporti fra estranei o fra concorrenti e che, nel liberalismo classico, hanno valore universale. È significativo che chi partecipa a questi movimenti discrimini i non-indigeni ma poi lamenti la discriminazione simbolica del ceto medio liberal verso le classi popolari indigene, e questo proprio perché è saltato ogni principio universale di coerenza e conta solo la propria particolarità. Così facendo, i populismi mostrano quanto sia fragile il rispetto per l’altro quando l’altro è un estraneo da tollerare o un concorrente da combattere.

Dall’altro lato dello spettro politico, la separatezza è il nucleo dell’identity politics. Questa formula andrebbe rovesciata, come si diceva: la politica dell’identità è in primo luogo una rivendicazione della differenza. Il suo primum è l’imperativo che era alla base del movimento femminista all’inizio degli anni Settanta: partire da sé, assumere il proprio stato e la propria oppressione (di donna, di minoranza etnica, di persona omosessuale) a fondamento dell’agire politico. In questo gesto c’è un tratto innegabile di verità e di liberazione (la sinistra tradizionale ha considerato secondarie rispetto al conflitto di classe delle linee di frattura che, da altri punti di vista, sono più importanti del conflitto di classe nel sistema di potere delle società, a cominciare dalla linea divisoria che separa donne e uomini) e al tempo stesso c’è un chiaro riflesso politico dell’età del narcisismo. I populismi di destra e la politica liberal delle differenze esprimono un ethos, un habitus e dei valori opposti: i primi discriminano fra autoctoni, che sono dotati di pieno diritto, e i non-autoctoni, che non hanno pieno diritto; la seconda vuole che tutti abbiano diritto e che il diritto riconosca le differenze; i primi parlano a un elettorato che di solito ha un’origine popolare o medioborghese, un basso grado di cultura generale ed è radicato in un luogo; la seconda parla al ceto medio riflessivo che ha un grado medio o alto di cultura generale e una mobilità mentale o fisica di tipo cosmopolita; i primi parlano a un elettorato che rispetta pubblicamente un sistema di valori tradizionali anche quando privatamente non li pratica, la seconda parla a un elettorato che accoglie nuove forme di morale; la politica dei primi pare aberrante al mio sistema di valori, le rivendicazioni della seconda mi sembrano largamente condivisibili. E tuttavia la logica profonda che agisce in questi movimenti opposti è la medesima:

Quando i nazionalisti conservatori affermano di desiderare per le rispettive nazioni […] soltanto lo stesso diritto all’identità rivendicato dalle minoranze etniche e sessuali, nell’ipocrisia profonda di questa rivendicazione troviamo nonostante tutto un elemento di verità[19].

(Peraltro anche nei populismi identitari di destra c’è un elemento di verità e di liberazione, che nasce dal rifiuto di quei freni educativi, repressivi, senza i quali le democrazie liberali non potrebbero esistere. Proprio questo elemento dà ai populismi di destra la loro energia emotiva aggregante, fatta di rabbia, risentimento e sfogo contro il disagio della civiltà. Più in generale, in ogni rivendicazione di separatezza c’è un elemento di verità e di liberazione, lo stesso che risuona in ogni rivendicazione individualistica e particolaristica).

L’identity politics e i populismi identitari portano la rivendicazione della separatezza oltre l’universalismo sostanziale. La prima mantiene un universalismo solo formale attraverso il diritto, provando a estendere per legge l’ambito delle libertà soggettive; i secondi, con la loro idea minima di democrazia, rispondono che la legge è decisa a maggioranza, e se la maggioranza stabilisce che i diritti degli individui non possono andar contro l’ethos tradizionale allora è giusto che certi diritti non vengano concessi. In entrambi i casi si è indebolito quel nucleo di valori sostanziali condivisi che le democrazie moderne tendono a ridurre professando neutralità rispetto ai fini, ma senza il quale faticano a esistere[20]. Populismi identitari di destra e politica delle differenze sono forme opposte di tribalizzazione. Da un lato una società in cui l’inclusione viene definita su base etnica («prima gli italiani»); dall’altro, una società che esalta le differenze («partire da sé») dando per scontato che non possa più esistere una prima persona plurale collettiva e che la convivenza fra diversi possa e debba essere garantita da un sistema di regole e dall’educazione, cioè dal Super-Io.

 

IV

La quarta crisi di cui vorrei parlare riguarda gli ideali di emancipazione. Nell’aprile del 2017 è uscito, per Suhrkamp, il volume collettivo Die große Regression. Eine internationale Debatte über die geistige Situation der Zeit[21]. Il curatore Heinrich Geiselberger ha chiesto a quindici intellettuali di riflettere sulla situazione spirituale del nostro tempo, e in particolare sulla grande regressione che avrebbe avuto luogo negli ultimi anni in Occidente. L’idea di partenza è che il progetto illuministico di uscita degli esseri umani dalla minorità stia arretrando e che si stia andando verso una crisi di civiltà. La regressione più vistosa ha avuto luogo nell’ultimo decennio. La crisi del 2008 ha reso di nuovo maggioritari parole e atteggiamenti che si credevano addomesticati per sempre; forze politiche che tengono discorsi xenofobi hanno vinto le elezioni negli Stati Uniti e in Europa; idee che si ritenevano indicibili sono riemerse e hanno avuto seguito. Non è la riedizione dei fascismi di inizio Novecento, come abbiamo detto; sono piuttosto delle democrazie minime e autoritarie su base nazionale e su un fondo di individualismo anarcoide; i modelli cui si guarda sono la gated community e una forma di apartheid gestita dalla polizia, non lo Stato etico, la mobilitazione generale e l’esercito. Allo stesso modo la xenofobia cui questi movimenti si richiamano è più schizoide e blanda, meno seria di quella che ha generato i pogrom di fine Ottocento e inizio Novecento o il razzismo di Stato di primo Novecento. Si vede che è passata attraverso l’ingentilimento dei costumi e l’indebolimento progressivo della politica generati da settant’anni di pace, dal benessere, dall’idea che in fondo la vita privata sia l’unica cosa che interessa davvero.

Ciò detto, quello che sta accadendo ha tratti sinistri per chi sostiene il progetto illuministico. Ci ricorda una cosa semplice: che la ragione per la quale la Western way of life ha imposto la propria egemonia nella seconda metà del XX secolo non è la democrazia parlamentare o il suo legame con un’idea illuministica di emancipazione e di formazione del cittadino, ma la capacità di immergere gli individui in piccole bolle private di benessere e di autonomia percepita. Quando il benessere declina, l’incivilimento si indebolisce e torna fuori l’arcaico. I ceti che non regrediscono sono i più ricchi o i più colti; gli altri non hanno abbastanza agio, cultura o cosmopolitismo per impedire che riemergano gli archetipi primari: Noi e Loro, gli autoctoni e i barbari. Settant’anni di vita occidentale in tempo in pace ci hanno fatto dimenticare che la civiltà è un risultato: richiede benessere, richiede educazione (cioè repressione), e proprio per questo lascia dietro di sé una forma di disagio. Allo stesso modo hanno fatto dimenticare che la massa come modo dell’essere-con-gli-altri è il luogo in cui l’arcaico si manifesta. Fra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’incremento demografico, lo sviluppo delle città e la trasformazione della società rendeva sempre più visibile la presenza delle folle, l’assetto complessivo della vita si rimodellava su di loro; grazie al suffragio universale maschile, allo sviluppo della stampa e della comunicazione, classi che erano state da sempre escluse o emarginate dalla decisione e dalla presa di parola cominciavano a esistere pubblicamente, a farsi vedere, a contare. Di fronte a questo processo molti scrittori, filosofi e scienziati sociali di origine per lo più borghese cominciarono a riflettere sulla costitutiva irrazionalità delle folle: Baudelaire, Flaubert, Nietzsche, Sighele, Le Bon, Tarde, Park, Freud, Ortega y Gasset, T.S. Eliot, Huizinga, Valéry e altri. L’ultimo grande esponente di questa linea di pensiero è Canetti. Posizioni simili rimandavano a una lunga tradizione di contemptus vulgi, a un topos della filosofia politica occidentale che Platone è il primo a sviluppare e le cui prime tracce si trovano già nel secondo libro dell’Iliade, quando Ulisse umilia Tersite per i suoi attacchi populistici ad Agamennone. Nascono da ragioni diverse e mettono insieme molti argomenti: la diffidenza di classe per valori, idee e habitus che appartengono a strati inferiori e ignoti, ma anche l’idea che la massa come forma faccia emergere l’inconscio a prescindere dall’origine sociale di chi la compone. Nel dopoguerra i nuovi assetti politici e l’ingentilimento dei costumi generato dal benessere, dalla Western way of life e dal rifiuto della guerra hanno oscurato questa linea di pensiero confinandola a destra. Al confinamento ha contribuito anche l’azione dei grandi partiti di massa del secondo Novecento, il modo in cui queste forze hanno saputo interpretare gli effetti del suffragio universale addomesticandone il lato oscuro, quello che era chiaramente emerso nelle elezioni tedesche del 1932 per esempio. Hanno saputo incarnare legittimamente la volontà degli elettori e inserirla nel gioco democratico, e al tempo stesso hanno portato le istanze popolari a un grado più alto, mediato e razionale di elaborazione. Così facendo hanno promosso un’idea positiva della massa e del numero, un’idea che emerge con la Rivoluzione francese e che viene ripresa dal movimento operaio. Fra le grandi conquiste delle democrazie postbelliche ci sono anche la capacità di non far degenerare il suffragio universale in populismo o dittatura e la diffusione di un senso comune non-reazionario fra le masse. Oggi sappiamo che queste conquiste non sono scontate.

Negli ultimi anni l’equilibrio postbellico si è indebolito per molte ragioni. È diminuito il benessere e la sua funzione di lubrificante della macchina sociale, di calmiere dei conflitti; le maggioranze hanno smesso di delegare a classi dirigenti troppo diverse da loro e dalle quali erano state deluse; internet e i social network hanno consentito a tutti di prendere la parola scavalcando i corpi intermedi. Il risultato è una sorta di nuova ribellione delle masse che assomiglia a quella degli anni Venti e Trenta del Novecento. Ma le ribellioni delle masse, come dice Ortega y Gasset, sono anche grandi fenomeni di iperdemocrazia[22]: sono il segno che le distanze decrescono, che il corpo sociale si livella e che i privilegi si redistribuiscono, a cominciare dalla presa di parola. In questo senso i populismi regressivi, come si diceva, sono più democratici delle democrazie illuminate. In generale, l’illuminismo come fenomeno politico si basa su un equilibrio fra istanze contraddittorie: non c’è rischiaramento senza corpi intermedi, e inversamente i corpi intermedi portano con sé un elemento paternalistico. Una società governata dai soli corpi intermedi è, nella migliore delle ipotesi, un elitismo illuminato, non una società illuminata.

Se la regressione populistica è diventata molto visibile negli ultimi anni, chi volesse davvero riflettere sull’idea di emancipazione dovrebbe meditare su un fenomeno di più lunga durata. Il punto fondamentale è questo: le maggioranze non hanno mai immaginato l’uscita dell’uomo dalla minorità nella forma di cui parla Kant; l’Illuminismo non è andato come i philosophes e Kant avevano creduto[23]. Nello scritto di Kant si dà per scontato che il modello di emancipazione sia uno e coincida con una versione alla portata di tutti di un ideale – la vita guidata dalla ragione – che Platone è il primo a elaborare estesamente, mentre l’effetto reale della crisi dell’autorità che il processo chiamato Illuminismo porta con sé è una forma di anarchismo senza guida, a cominciare da quella della ragione. Gli esseri umani non vogliono servirsi liberamente della propria intelligenza: questo è un modo settoriale di interpretare l’uscita dalla minorità proprio di alcuni ceti, e soprattutto dagli intellettuali. Il modo largo e esteso è quello che Isaiah Berlin ha chiamato la libertà negativa: la libertà di essere come a ciascuno pare, di fare quello che a ciascuno pare: per esempio rifiutare gli ideali di emancipazione e regredire, sognare, giocare, non pensare, delegare all’autorità altrui purché la delega sia una scelta. La libertà negativa comporta la fine dell’ascesi, del Super-Io e delle trascendenze nel campo dei valori, mentre l’uscita dell’uomo dalla minorità è comunque un ideale ascetico, una forma laica di trascendenza.

Poiché siamo al Politecnico di Milano, vorrei concludere con una riflessione che parte dall’architettura, anche perché nell’ultimo mezzo secolo una delle discipline che hanno meglio intercettato lo Zeitgeist è stata proprio la teoria dell’architettura. Learning from Las Vegas (1972) di Venturi e The Language of Postmodern Architecture (1977) di Jencks hanno lanciato la categoria di postmodernità prima che Lyotard e Jameson la trasformassero in un concetto storico-filosofico. La teoria dell’architettura ha anche prodotto una delle più interessanti riflessioni sulla crisi dell’Illuminismo, Junkspace (2002) di Rem Koolhaas. Il risultato della modernità, scrive Koolhaas, non è la grande architettura modernista ma il junkspace, quel paesaggio fatto di palazzi, palazzine, villette, svincoli, disordine edilizio, terre di nessuno che rappresenta il novanta per cento delle costruzioni esistenti. «La modernizzazione aveva un programma razionale: condividere le benedizioni della scienza, universalmente. Il Junkspace è la sua apoteosi o il suo crollo»[24]. Il Junkspace è quello che resta dopo la fine della Tradizione architettonica e dell’Utopia modernista. È la fine dell’Illuminismo, scrive Koolhaas, e la sua resurrezione come farsa: un prodotto dalla tecnica, ma senza piano generale, visione complessiva, telos. È «l’architettura della gente»[25], l’espressione dell’individualismo di massa. Intrinsecamente politico, comunica anarchia («uno degli ultimi modi tangibili in cui facciamo esperienza della libertà»[26], dice Koolhaas) e il predominio del piacere e del comfort sulle facoltà critiche e razionali. Il junkspace di Koolhaas è l’equivalente visibile della libertà negativa di Berlin: un anything goes pieno di regole, proprio come pieno di regole è il liberalismo, nonché ciò che rimane dopo la fine della Tradizione e dell’Utopia. La grande architettura modernista sta al progetto illuministico come il junkspace sta agli effetti che l’Illuminismo ha veramente avuto: è il risultato visibile su scala di massa del suo individualismo anarcoide all’ombra delle grandi strutture di potere. L’Aufklärung non è andata come se la immaginavano gli intellettuali, ha prodotto un altro tipo di emancipazione. Forse uno degli aspetti più interessanti per una filosofia della storia è riflettere su questo: lo scenario migliore che oggi possiamo immaginare è un ritorno alla socialdemocrazia del secondo dopoguerra; un mondo retto dai grandi dispositivi dello Stato e del mercato che assicuri alle persone private una bolla di reddito e sicurezza all’interno della quale perseguire i propri scopi individuali (amore, famiglia, lavoro, carriera, piacere) senza rimandare a una meta collettiva e senza porsi problemi di giustizia universale. Ogni trascendenza rispetto a questo piano di realtà, ogni utopia sembra velleitaria e lontanissima. Basta solo parlarne per sentire di appartenere al Novecento, cioè al passato.


Note
[1] F. Fukuyama, The End of History and the Last Man (1992); trad it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
[2] J. Baudrillard, L’Illusion de la fin ou la grève des événements (1992); trad. it. L’illusione della fine o lo sciopero degli eventi, Milano, Anabasi, 1993.
[3] M. McLuhan, Contro i terroristi l’arma più efficace è il silenzio, intervista a G. Fantauzzi, “Il Tempo”, 19 febbraio 1978.
[4] The Conference Board, The Total Economy Database,
https://www.conference-board.org/data/economydatabase/
[5]World economic outlook database, International Monetary Found,
http://www.imf.org/external/pubs/ft/weo/2018/01/weodata/index.aspx;
[6] B. Milanovic le ha accorpate nel suo Global Inequality (Cambridge Mass., Harvard University Press, 2016).
[7] La formula “terziario onirico” è di Walter Siti (Exit Strategy, Milano, Rizzoli, 2014, p. 192).
[8] K. Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe, and the Making of the Modern World Economy (2000); trad. it., La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia moderna, Bologna, Il Mulino, 2004.
[9] Cfr. B. Milanovic, Global Inequality, cit., p. 3.
[10] I. Wallerstein, The Modern World-System: Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1974.
[11] V. Tanzi, L. Schuknecht, Public Spending in the Twentieth Century: A Global Perspective, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. In realtà lo svuotamento della sovranità statale era cominciato prima che il neoliberismo diventasse pensiero unico. Era già implicito nei grandi trattati internazionali del secondo dopoguerra, quelli che avevano fatto nascere le istituzioni di Bretton Woods, rafforzato l’ONU e creato l’istituzione che col tempo sarebbe diventata l’Unione Europea. Il più grande esempio di cessione della sovranità da parte di Stati che si rappresentano come democrazie libere ha luogo all’inizio della Guerra fredda, con la nascita di un mondo bipolare e il sistema di vincoli che l’appartenenza a un blocco comportava. Ciò vale per i paesi sotto l’influenza americana: per i paesi sotto l’influenza sovietica il problema della democrazia non si poneva a priori. L’Italia, per dire, si è sempre confrontata con l’idea di avere una sovranità limitata. Uno dei momenti in cui questo stato di cose si rivela nel modo più esplicito e drammatico è l’intervento che il segretario del Partito Comunista Berlinguer pubblica in tre parti su «Rinascita» dopo il colpo di Stato militare in Cile, fra il settembre e l’ottobre del 1973, e dove Berlinguer arriva a dire che, se anche il Partito Comunista avesse la maggioranza per governare, non potrebbe farlo da solo. Cfr. E. Berlinguer, Riflessione sull’Italia dopo i fatti del Cile (1973), in Id., La crisi italiana. Scritti su Rinascita, Roma, Editrice “L’Unità”, 1985, pp. 45-75.
[12] G. Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Venezia, Marsilio, 2018, p. 86.
[13] Uno dei fenomeni linguistici più interessanti nel lessico della politica contemporanea è lo slittamento semantico di questo termine, che nel giro di pochi decenni è passato dal campo socialista al campo neoliberale: prima indicava un insieme di provvedimenti socialdemocratici pensati per introdurre diritti sociali nel capitalismo; oggi indica un insieme di provvedimenti neoliberali pensati per smantellare i diritti conquistati dal 1945 agli anni Settanta.
[14] I. Berlin, I due concetti di libertà, in Id., Libertà, a cura di H. Hardy, trad. it., Milano, Feltrinelli, 2005, p. 180.
[15] «[Bruno] si accorse altresì che non gliene fregava un cazzo. I colleghi, i seminari di riflessione, la formazione umana degli adolescenti, le altre culture… Per lui quella roba non aveva più la minima importanza. Christiane gli ciucciava il cazzo e lo accudiva quando stava male; Christiane era importante». M. Houellebecq, Les Particules élémentaires (1998), trad. it. Le particelle elementari, Milano, Rizzoli, 1999, p. 237.
[16] Si potrebbe riflettere a lungo anche su questo: ormai la sfera pubblica delle società occidentali è fatta in modo tale che il più autorevole canale televisivo britannico affida un’intervista all’ex presidente degli Stati Uniti a un non-giornalista incompetente solo perché questo non-giornalista è famoso. In questo gesto irrazionale c’è tutta la logica inconscia da cui la vita delle masse è percorsa e che la società dello spettacolo rivela.
[17] BBC Radio 4, 27 dicembre 2017 https://www.youtube.com/watch?v=XPGHSbJ7lxs, 21:45 ss.
[18] The Fitrah of Mankind and the Near Extinction of the Western Woman, in «Dabiq», 15, 1437 Shawwal (June-August 2016), p. 20.
https://clarionproject.org/factsheets-files/islamic-state-magazine-dabiq-fifteen-breaking-the-cross.pdf
[19] S. Žižek, La tentazione populista, in Die große Regression. Eine internationale Debatte über die geistige Situation der Zeit (2017); trad. it., La grande regressione, trad.it. Milano, Feltrinelli, 2017, pp. 229-30.
[20] Cfr. E.-W. Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation und Utopie, (1967), trad. it. La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, introduzione di M. Nicoletti, Brescia, Morcelliana, 2006.
[21] La traduzione italiana è uscita nello stesso anno da Feltrinelli: col titolo La grande regressione.
[22] J. Ortega y Gasset, La rebelión de las masas (1930); trad. it. La ribellione delle masse, Torino, Tea, 1988, p. 40.
[23] In generale i filosofi e gli scrittori continuano a proiettare se stessi, la propria Weltanschauung, il proprio habitus e i propri desideri, su processi che si svolgono in un altro modo, e tendono a dimenticare ciò che in linea di principio, a un secolo e mezzo da Marx o a mezzo secolo da Foucault, dovrebbero sapere bene: le idee sulla vita che la cultura canonica ci rimanda hanno un’origine parziale; sono classiste, privilegiano i valori di alcuni gruppi sociali determinati e in larga misura maschili: i guerrieri, gli eredi dei guerrieri, cioè le classi dirigenti, e i detentori della parola, cioè le classi che parlano in pubblico e scrivono. In ciò che chiamiamo cultura le immagini del mondo, i valori, le passioni degli schiavi, dei lavoratori, dei borghesi, delle donne sono sottorappresentate, o rappresentate in modo sfocato, perché queste classi non avevano la possibilità di prendere la parola e perché il discorso pubblico non era pensato per loro. È un discorso che quasi tutti oggi in teoria accettano, e magari propugnano, ma che tendono a dimenticare nel concreto della prassi culturale.
[24] R. Koolhaas, Junkspace, in «October», 100, Spring 2002, p. 175.
[25] Ivi.
[26] Ibidem, p. 179.

Comments

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GIOVANNI DAVIDE LOCI
Tuesday, 25 December 2018 11:39
incredibile, un fan di fukuyama nel 2018. uno che parla di fine della storia, degli stati uniti che non possono perdere il loro ruolo dominante, e che coerentemente si augura un ritorno del passato uguale a prima. tutti gli altri sono utopisti, mica le perone seire come lui e fukuyama......
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