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Jeff Bezos mette le mani nella tua posta

di Marta Fana e Simone Fana

Amazon si rafforza nel nostro paese grazie all'accordo con Poste Italiane: un'intesa che non serve a lavoratori e consumatori. E che consolida due monopoli privati, uno globale l'altro nazionale

amazon posteIl servizio postale nazionale nasce insieme allo stato unitario, nel 1862, quando fu istituito il monopolio delle Regie poste seguito vent’anni più tardi, nel 1889, dal Ministero per le poste e i telegrafi. La storia è quella dell’espansione del servizio pubblico e universale di accesso alla corrispondenza, ma anche al diritto all’inviolabilità delle lettere, e della tariffa unica, con l’istituzione del francobollo. Obiettivi diametralmente opposti alle regole che vigono oggi nel sistema privatizzato in cui la velocità delle spedizioni e la garanzia del servizio universale sono subordinati al potere d’acquisto: al censo, si sarebbe detto in quel lontano inizio del ventesimo secolo. Dall’interesse di garantire il servizio di corrispondenza a tutti i cittadini mediante il controllo della rete e dei prezzi si è giunti a porre l’interesse degli azionisti e del capitale privato come prioritari; fino a rendersi servizio non dei cittadini ma del capitale stesso, come mette in luce l’ingresso di Amazon nei servizi postali e l’accordo siglato con Poste Italiane.

Tra la fase del monopolio pubblico e la totale liberalizzazione, Poste Italiane ha vissuto da protagonista l’intera storia del capitalismo misto italiano, cadendo sotto i colpi del mantra della redditività e della libera concorrenza. A partire da fine anni Novanta le esigenze sovranazionali di completare la creazione del mercato unico investono il settore postale con quello dei trasporti e della logistica più in generale. In principio si provava a armonizzare il servizio postale e soprattutto a imporre i limiti ai diritti riservati ai fornitori del servizio universale. Come recita la pagina dedicata dell’Agcom Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, «il processo di liberalizzazione dei mercati dei servizi postali avviato dall’Unione europea con la direttiva 97/67/CE (da ultimo modificata con la direttiva 2008/6/CE) implica, per gli Stati membri, l’abolizione di qualsiasi forma di monopolio, di riserva e di diritti speciali nel settore». Il recepimento della direttiva del 2008, avvenne in Italia con il decreto legislativo n° 58 del 2011 che liberalizza il servizio postale e affida a Poste Italiane la copertura del servizio universale per un periodo di quindici anni, pro tempore e revocabile.

Negli ultimi vent’anni, Poste ha rivisto le proprie attività e la specializzazione produttiva, collocandosi sempre più nel settore assicurativo e finanziario. Era il tempo in cui la bolla finanziaria permetteva margini di guadagno superiori rispetto all’attività di consegna. Il settore finanziario avrebbe permesso a Poste di affacciarsi sul mercato come un’azienda di successo, innovativa e moderna. Questa virata sottovalutava la crescente importanza del settore della logistica per la produzione di valore, dato il dilatarsi degli spazi fisici tra produzione e consumo e con l’entrata in scena dell’e-commerce. Ma prima era necessario completare il processo di privatizzazione del monopolio più antico d’Italia.

Così a ottobre del 2015, Poste Italiane faceva il suo debutto in borsa e l’allora ministro dell’economia Pier Carlo Padoan dichiarava soddisfatto: «L’Offerta Globale è stata un grande successo. [Il collocamento in borsa di Poste Italiane] segna il rilancio del piano di privatizzazioni che resta un elemento importante della strategia economica del governo e che continuerà nei prossimi mesi con Enav e Fs, tra le altre». Padoan era in scia con i suoi predecessori, tutti impegnati nel processo di privatizzazione delle aziende pubbliche italiane. Anche questa storia inizia nei primi anni Novanta, durante il governo di Giuliano Amato e con Guido Carli alla guida del ministero dell’economia; fin da allora viene giustificata dalla necessità di ridurre il debito pubblico italiano. L’operazione che riguarda Poste Italiane interessa la cessione del 35% del capitale detenuto vale 3 miliardi di euro dei complessivi 110 raccolti tra il 1994 e il 2016.

Il nuovo piano industriale si muova in questo contesto: mira a rafforzare la posizione nel settore finanziario e quella del mercato in forte espansione dei corrieri. Secondo le stime Agcom, tra il 2014 e il 2018, i volumi dei corrieri espresso aumentano del 60% e passano da poco più di 240 a quasi 400 milioni di pacchi movimentati durante l’anno. Poste è ancora leader del settore postale con il 43% (considerando la controllata Sda), ma con i concorrenti alle calcagna: Dhl, Ups, Brt e Tnt «pesano nel complesso il 42,4%» su base annua e mostrano nel complesso una moderata flessione. Guardando ai soli corrieri Sda detiene una quota di mercato pari solo all’8,3%, mentre Dhl è al 23,3% e Bartolini segue con un 18,5%.

 

Liberalizzare per centralizzare

Ad oggi sono 4463 le licenze concesse dal ministero per lo sviluppo economico abilitanti al servizio di corriere postale. Al netto di qualche eccezione, stando agli ultimi dati disponibili dell’Istat, si tratta di circa 2.500 imprese di cui il 55% registrate come aziende individuali e solo 8 società per azioni. Ad esse fanno riferimento circa 17.170 addetti contro i 140 mila di Poste Italiane. Qui si inserisce Amazon, utilizzando tutto il suo peso di monopolista globale. Il meccanismo attraverso cui la multinazionale di Jeff Bezos, l’uomo più ricco del mondo, può penetrare agilmente tra i concorrenti è messo a disposizione niente poco di meno che da Poste Italiane stessa. Nel giugno di quest’anno, Poste e Amazon hanno siglato un accordo triennale, rinnovabile ancora per un biennio. L’azienda italiana mette a disposizione del colosso statunitense la propria flotta di 30 mila lavoratori (quelli di Sda e della controllata MistralAir), estendendo i tempi di consegna alle 19.45 e ai week-end. L’accordo rientra nel piano strategico quinquennale di Poste, Deliver 2022 tra i cui obiettivi figura un aumento del fatturato dai 700 milioni di euro del 2017 agli 1,2 miliardi del 2022 grazie al consolidamento nel settore dell’e-commerce applicato alle consegne Business to Consumer (B2C) di cui Amazon è leader mondiale. Il merito di questi risultati economici non sarà dovuto solo all’incremento dei volumi consegnati ma anche – come si legge sul sito di Poste Italiane – «alla firma di due importanti accordi sindacali che sanciscono nuove modalità di lavoro»; accordi che siglano un incremento del saggio di sfruttamento necessario per poter offrire ad Amazon e Poste il giusto margine di profitto indispensabile per l’accordo. Ciò avviene nella sua forma più classica: intensificazione dei ritmi di lavoro e allungamento della giornata lavorativa. A questo si accompagna un’ulteriore compressione dell’organico: a fronte di 15 mila uscite volontarie o incentivate, si sbandiera un aumento di 6.000 assunzioni. Peccato, tuttavia, che come si legge nell’accordo con i sindacati queste unità non corrispondono a un aumento dell’occupazione: saranno in gran parte forme di stabilizzazione da tempo determinato a indeterminato o semplici trasformazioni orarie da tempo parziale a tempo pieno. Se i picchi di lavoro lo richiederanno, inoltre, Poste si rivolgerà alle agenzie di somministrazione utilizzando lavoratori in affitto.

Siamo di fronte a un accordo tra due monopoli, un cartello monopolistico, in cui i due agenti possono approfittare delle economie di scala che tale connubio può garantire a ognuno nel suo settore: per Amazon l’e-commerce, per Poste trasporto e distribuzione. Qualcuno potrebbe obiettare che i vantaggi di questa operazione siano un bene per la maggioranza del paese in quanto Poste è in fin dei conti un monopolio a maggioranza pubblico. Ma l’obiettivo distributivo di Poste è quello di ogni società quotata in borsa: remunerare gli azionisti, cioè coloro che ne detengono quote di capitale proprietario. Sta scritto nero su bianco tra gli obiettivi di Deliver 2022 secondo cui «Il flusso di cassa generato dalle attività operative e dai dividendi distribuiti dalle diverse società del Gruppo compenserà ampiamente gli investimenti e la distribuzione di maggiori dividendi agli azionisti» e nello specifico la «politica dei dividendi sarà basata sul livello 2017 di 0,42 euro per azione, con un aumento del 5% l’anno fino al 2020, payout minimo del 60% dal 2021 in poi». Una dichiarazione esplicita degli obiettivi di Poste Italiane che è confermata dalle politiche di precarizzazione del personale, messe in campo negli ultimi anni. La scelta di comprimere il costo del lavoro come leva di accumulazione trova la sua evidenza empirica nella riduzione del personale occupato con contratti di lavoro a tempo indeterminato a fronte di un aumento degli occupati con rapporti di lavoro temporanei. Se prendiamo in esame solo gli ultimi anni dal 2012 al 2016 il numero degli occupati a tempo indeterminato è passato da 144 mila unità a 135 mila. Nella realtà si verifica l’esatto contrario di quanto previsto dalla Direttiva Ue del 2008 sulle liberalizzazioni che recita: «Una completa apertura del mercato contribuirà ad espandere le dimensioni globali dei mercati postali e contribuirà a salvaguardare un’occupazione sostenibile e di qualità fra i fornitori del servizio universale, oltre a facilitare la creazione di nuovi posti di lavoro presso altri operatori, presso nuovi operatori e nei settori economici connessi».

Lo sanno bene i precari di Poste Italiane da anni in mobilitazione a causa dei contratti di durata trimestrale e interrotti poco prima dei 36 mesi per evitare l’obbligo dell’assunzione a tempo indeterminato. Strategia non abbandonata neppure una volta ridotto il limite a 24 mesi introdotto dal cosiddetto “Decreto dignità”. Non vivono condizioni migliori i fattorini e facchini di Sda, come testimoniano le mobilitazioni che negli anni si sono sviluppate a Carpiano, Bologna, Roma e altre città. Una situazione dovuta alla precarietà temporale dei contratti e al susseguirsi di livelli di esternalizzazione e cambi di appalto, sempre al ribasso. Condizioni di ordinario sfruttamento avallate da Poste che però si lamenta tramite il suo amministratore delegato, Matteo Del Fante, dei livelli di concorrenza e dumping nel settore. Nella sua ultima audizione alla camera, Del Fante lamenta l’esistenza di «condizioni di lavoro disomogenee, spesso al di sotto di soglie economiche minime (uso eccessivo del “cottimo”, straordinari non pagati, lavoro ‘nero’)». Piuttosto che inseguire l’inevitabile corsa al ribasso sul lavoro che la liberalizzazione sottende, bisognerebbe rovesciare il piano e rivendicare la necessità di una gestione della manodopera che restituisca dignità ai lavoratori. Serve cioè rimettere in discussione non soltanto il prezzo della forza lavoro ma anche la sua organizzazione, possibile solo in un meccanismo di riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro attraverso forme di controllo pubblico a garanzia degli interessi collettivi e non privatistici.

 

Il monopolio privato e lo stato italiano

La penetrazione di Amazon nel mercato italiano conosce un passaggio significativo nel 2016, quando l’’Agcom sanziona il gigante dell’e-commerce per aver «organizzato una rete unitaria per il servizio di consegna» senza l’autorizzazione del ministero competente, quello per lo sviluppo economico. Amazon finisce sotto accusa per aver prodotto concorrenza sleale ai danni di altri operatori abilitati al servizio, con chiaro riferimento a Poste Italiane. Un antecedente che racconta meglio di tante analisi il ruolo dei grandi monopoli internazionali nella fase attuale del capitalismo. Amazon dapprima entra nel mercato dei servizi postali in spregio alle normative che perimetrano il settore e alle istituzioni deputate a controllare il mercato. Poi, una volta sanzionata, trasforma questo richiamo in uno strumento di pressione politica per legalizzare il proprio potere. La vicenda porta alla luce il nucleo originario dei rapporti di potere tra capitale e lavoro e della frantumazione degli spazi di organizzazione politica. La centralizzazione del capitale nella forma monopolistica produce da un lato la frantumazione degli spazi tradizionali delle organizzazioni di rappresentanza del lavoro (mediante il ricorso alle esternalizzazioni e ai subappalti) e dall’altro la stessa trasformazione delle istituzioni statuali. Questo meccanismo ingloba tanto la dimensione verticale, come leva di valorizzazione finanziaria del capitale investito, quanto la dimensione orizzontale, spaziale, come ambito di direzione e controllo dei flussi di merci e servizi. Il caso Amazon segnala che la liberalizzazione dei movimenti di capitale non è una proprietà neutrale della globalizzazione capitalistica, ma il prodotto di un intreccio tra interessi dei grandi player mondiali e di una borghesia nazionale che controlla gli apparati di potere nazionale, lo Stato appunto. La scelta di aprire il mercato dei servizi postali a un monopolio privato non è una decisione ineludibile, scevra di alternative politiche, ma una misura politica, la cui cifra consiste nel piegare l’interesse pubblico e le ragioni dei lavoratori (sia nella veste di produttori che di consumatori) alle logiche di accumulazione finanziaria a beneficio di una piccola cerchia di attori nazionali e internazionali. Dietro la mistica della liberalizzazione del mercato si cela un passaggio di consegne di portata storica tra capitale pubblico e capitale privato.

L’entrata di Amazon nel mercato dei servizi postali costituisce un ulteriore ma decisivo tassello nel processo di privatizzazione del servizio. La fase di liberalizzazione del settore e di apertura a una miriade di piccoli soggetti privati non è che funzionale alla fase successiva di accumulazione, caratterizzata da una sempre maggiore centralizzazione del capitale in seno a poche aziende; non a caso le grandi quote di mercato sono già in mano a poche società. Amazon non fa che completare questo processo. Allo stesso tempo, la politica sceglie: piuttosto che condizionare gli attori privati nell’interesse dei cittadini, consumatori e lavoratori del settore, decide di avallare l’interesse del grande capitale privato, nazionale e internazionale.

 

Il controllo e la programmazione pubblica

Un’alternativa allo strapotere di Amazon è possibile solo se si prende atto della dinamica di sviluppo del capitalismo contemporaneo e del terreno di scontro politico che essa impone. Da una parte un monopolista privato che concentra nelle proprie mani un potere finanziario illimitato, dall’altra la progressiva perdita di centralità della programmazione pubblica come strumento di ripartizione delle risorse economiche e sociali. Il terreno dello scontro è tutto dentro questa asimmetria di potere. Non si tratta di una mera contraddizione tra stato e mercato, tra il libero gioco della concorrenza e il potere coercitivo degli stati nazionali. Si tratta di un rapporto di forza che si gioca sul piano degli interessi di classe, che divide il campo da gioco tra gruppi sociali distinti. Da questa prospettiva è possibile riconoscere l’alleanza tra il monopolio dell’e-commerce e le élite nazionali che stanno svendendo un settore strategico come quello dei servizi postali, continuando ad accrescere i loro portafogli finanziari con la valorizzazione delle quote azionarie. Dentro questo conflitto aperto tra interessi in lotta si vedono le ragioni di una riforma degli assetti proprietari e di una rinnovata politica di programmazione pubblica dei servizi postali. La domanda a cui rispondere è quindi: quali saranno i benefici di una politica di ripubblicizzazione del servizio postale? E chi ci guadagnerà? La differenza principale tra la gestione pubblica e quella privata riguarda la determinazione e il controllo dei prezzi dei servizi e le condizioni di smistamento delle merci lungo l’infrastruttura italiana. Se nella gestione pubblica il prezzo del servizio è legato alla necessità di contemperare il diritto a erogare i servizi su tutto il territorio nazionale con gli standard lavorativi costituzionalmente garantiti per gli operatori del settore, la definizione del prezzo in campo privato è mosso unicamente dalla logica di accumulazione. Margini di profitto che non vengono automaticamente investiti per ridurre i prezzi dei servizi o per migliorare le condizioni di lavoro degli operatori o la qualità della rete infrastrutturale, ma che seguono le aspettative di profitto immediato.

Il rovesciamento dei rapporti di forza deve partire dalla messa in discussione degli assetti proprietari e di controllo, ripristinando un controllo politico-democratico sulle decisioni fondamentali che attengono alla gestione del servizio postale e all’intero settore della logistica. Assumendo come linea strategica che nessun servizio di interesse pubblico può essere controllato e gestito da attori privati, men che meno da monopoli, che possono in virtù della loro posizione di dominio sul mercato determinare i prezzi dei servizi postali, controllare la forza lavoro e determinare il ciclo degli investimenti. Significa dare attuazione alla Costituzione, che all’articolo 41 afferma che l’iniziativa privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

Il controllo pubblico dovrebbe estendersi su tutta la filiera logistica, interessando tanto l’organizzazione del lavoro quanto le scelte che riguardano la gestione e l’utilizzo della rete infrastrutturale. Si tratta di riportare sotto un comando politico-democratico il processo di produzione e distribuzione del valore, spostando la direzione dei benefici verso il basso, anziché verso l’alto.

Se potrebbe sembrare utopistico invocare la nazionalizzazione di Amazon, lo stesso non può dirsi della possibilità di sottrarre al gigante dell’e-commerce la capacità di generare e accumulare profitti sullo sfruttamento della filiera logistica. Un passaggio che impone un rovesciamento del punto di vista, riconoscendo una verità quasi ovvia: non sono i lavoratori e le lavoratrici del servizio postale né le infrastrutture del nostro paese ad avere bisogno di Amazon, ma è Amazon che ha bisogno di assumere la proprietà e il controllo di un settore nevralgico della struttura produttiva italiana per incrementare i propri profitti. Squarciando il velo di Maya che separa la narrazione dei vincitori dalla realtà si torna alla durezza di un rapporto di forza, in cui la posta in gioco torna a essere quella di sempre: il potere su chi, come e cosa si produce.


*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. Autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).

*Simone Fana si occupa di servizi per il lavoro e per la formazione professionale. Autore di Tempo Rubato (Imprimatur). Scrive di mercato del lavoro e relazioni industriali.

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