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Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia?

Luigi Somma intervista Gabriele Giacomini

motus meltemi giacomini potere digitaleInternet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia? Il web è il luogo dell’informazione libera e autonoma o le informazioni si stanno organizzando attorno a inediti centri di potere? Internet promuove un pluralismo dialogico o rischia di nutrire una crescente polarizzazione? La democrazia rappresentativa è da superare oppure rimane la soluzione migliore per governare? La democrazia è certamente un sistema aperto (quindi sempre imperfetto e in evoluzione), ma è anche responsabilizzante: è compito dei cittadini e delle classi dirigenti gestire al meglio gli esiti dell’innovazione tecnologica.

Intervistiamo su questi temi Gabriele Giacomini, autore del volume “Potere digitale. Come Internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia”, pubblicato a fine 2018 dall’editore milanese Meltemi.

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Se da una parte le nuove tecnologie digitali alimentano il bisogno di una maggiore partecipazione democratica, dall’altra dobbiamo anche registrare fenomeni di disintermediazione, che hanno investito anche la struttura dei partiti e i corpi intermedi. Che ne pensa?

Il problema della disintermediazione è strettamente correlato al tema dei partiti, dal momento che la democrazia dei moderni ha visto sempre al centro il potere dei partiti. Nonostante questi abbiano mutato nel tempo le proprie forme, costituiscono, in ogni caso, una costante della democrazia rappresentativa. Siamo passati da un partito di notabili – il partito della democrazia a suffragio ristretto – al partito di massa, e ora si è registrata un’ulteriore modificazione: i partiti stanno cambiando in rapporto stretto con quelle che sono le tecnologie della comunicazione. Per spiegare questi cambiamenti partiamo dalle caratteristiche del partito di massa tradizionale.

Negli anni dell’immediato dopoguerra alcuni studiosi avevano tentato di misurare il rapporto esistente tra i cittadini e i partiti, realizzando che i partiti di massa generavano un’identificazione molto forte. Ciò vuol dire che il cittadino, quando votava un partito, si indentificava strettamente con esso, e tale identificazione spesso durava l’intero corso della sua vita. Inoltre, identificarsi con partito significava essere parte di tutto un mondo: ad esempio, il partito era anche collegato con un sindacato, o con una certa occupazione lavorativa (si pensi agli operai nel caso dei partiti socialisti e comunisti). Con la diffusione della televisione e dei nuovi media, e con la crescente “liquidità” della società, le cose sono cambiate, e sono emersi fenomeni come quello dei tickets splitters. In altre parole, l’elettorato diventa sempre più fluttuante, indebolendo la posizione dei partiti; si è costretti, cioè, a fare i conti con un elettorato che muta continuamente le proprie preferenze politiche, che cambia spesso partito e che lo fa, spesso, in base a dei temi specifici. Ma, soprattutto, al centro del rapporto tra cittadini e istituzioni emerge sempre di più la figura del leader – la quale, non a caso, è una figura facilmente comunicabile mediante la televisione. Si è, pertanto, consumato il passaggio ai “partiti personali”, ad esempio un partito personale famoso è stato “Forza Italia”. Dal momento in cui i partiti tradizionali, o partiti di massa, sono andati in crisi, e nel nostro paese potremmo segnare Tangentopoli come un momento di cesura, nuovi partiti emergenti come Forza Italia hanno cercato di impersonare questa inedita forma di partito, quella del “partito personale”. Ora, con la nuova rivoluzione digitale, alcuni studiosi come Paolo Gerbaudo hanno richiamato l’attenzione sui “partiti-piattaforma”. In questo quadro attuale si deve infatti tenere conto dell’introduzione di possibili nuove innovazioni, penso a nuove piattaforme partecipative. Insomma, una certa forma di partito è entrata in crisi, ma al tempo stesso è mutata la forma-partito, quindi siamo ancora bel lontani, a mio parere, dal cantare il de profundis di queste organizzazioni.

 

Come vede la nascita dei partiti-piattaforma in Italia come il Movimento Cinque Stelle? È credibile il rischio paventato da alcuni esperti, che un’eccessiva orizzontalità della partecipazione politica possa dare luogo a forme di tecno-populismo?

La caratteristica più interessante del partito-piattaforma è che ad una presunta orizzontalità corrisponde, al tempo stesso, una forte verticalità. Queste piattaforme non permettono soltanto all’iscritto, o comunque al simpatizzante, di votare, di esprimersi direttamente. La situazione è più complessa, e devo dire che queste votazioni alcune volte ricordano i meccanismi del plebiscito (non è l’unico caso: alcune primarie nazionali del PD, in passato, sono state certamente grandi momenti di partecipazione, ma il risultato era a dire poco scontato). Ad esempio, queste votazioni digitali possono essere proposte in maniera del tutto arbitraria, in momenti molto particolari, dai vertici partitici. Si consideri che già Rousseau (il filosofo) sottolineava nei suoi scritti quanto il ruolo il presidente dell’assemblea potesse essere importante. Se, ad esempio, nella piattaforma del Movimento Cinque Stelle viene proposta una votazione su un decreto per l’ambiente una settimana dopo un disastro ambientale, comprenderete che la scelta di programmare una determinata votazione, in un momento piuttosto che in un altro, può diventare fortemente rilevante per gli esisti della stessa. Si può considerare quella della piattaforma Rousseau del M5S come una sperimentazione molto interessante, ma, al tempo stesso, la piattaforma è di fatto gestita da un’azienda. Questo dimostra come ad un’orizzontalità corrisponda una verticalità. E ciò non concerne soltanto l’ambito decisionale del partito, ma pertiene anche alla comunicazione: fino a pochi anni fa Beppe Grillo era, per così dire, il marchio del movimento e, insieme a Casaleggio, erano due personalità “forti”. Ora, di fatto, entrambi sono in una posizione tale per cui non possono essere sostituiti, a meno che non siano loro a volerlo. Abbiamo legato tali problemi all’esperienza italiana – perché, ovviamente, è quella che conosciamo meglio – vi sono, però, anche altri modelli di riferimento, che stanno affrontando sfide simili: si pensi a Podemos in Spagna, o al partito pirata in Germania. In generale, il problema delle modalità di consultazione digitale consiste nel fatto che tutti dovrebbero saper utilizzare i mezzi informatici. Se una persona non è in grado di utilizzare Internet, oppure non è in possesso di una connessione – ciò è possibile soprattutto tra le fasce più anziane, allora l’utilizzo di questo nuovo strumento diviene paradossale, poiché anziché generare condizioni di maggiore inclusione, finisce per minare i presupposti di una partecipazione più estesa; si rischia, cioè, di perpetrare delle nuove esclusioni. Un secondo problema è legato alla “sicurezza del voto”, perché abbiamo visto la cronaca di tanti scandali informatici, cioè di hacker al soldo di potenze straniere che si sono intromessi in processi democratici, penetrando in sistemi di sicurezza informatici. Quando si vota tradizionalmente, le schede cartacee possono essere ricontate da qualunque cittadino, cioè nel momento in cui v’è lo spoglio, i partiti inviano i rappresentanti di lista, i quali contano le schede alla chiusura del seggio insieme ai rappresentanti dei partiti avversari. Qualunque cittadino può, in questo modo, verificare l’esito della votazione; al contrario, quando passiamo alla votazione online, essa richiede inevitabilmente degli specialismi, ma soprattutto non può essere in alcun modo garantito che qualunque cittadino possa controllarne o verificarne l’esito, giacché tali meccanismi di controllo sono demandati a tecnici esperti informatici. Questo è un problema per il controllo democratico. Ma, soprattutto, il problema più difficile da superare è legato all’ideale propugnato da questi nuovi movimenti (che sarebbe quello di utilizzare Internet permettendo una partecipazione costante di tutti i cittadini). La realizzazione di questa condizione di impegno non intermittente, infatti, richiederebbe che vi sia un “cittadino totale”, ovvero un cittadino che si occupa a tempo pieno di politica, di tutte le questioni che riguardano la res publica, dal livello locale e quello internazionale.

 

Ma tale cittadino può esistere?

Io non credo che l’esistenza di un “cittadino totale” sia possibile. Anzitutto perché noi tutti siamo razionalmente limitati, nel senso che non abbiamo capacità di calcolo infinite, e nemmeno abbiamo una disponibilità di tempo illimitata; per prendere decisioni in prima persona, direttamente, anche solo riguardanti istituzioni comunali locali, occorrerebbe avere la capacità e il tempo di informarsi. Io posso dirlo perché sono stato assessore in un comune medio come Udine. Ogni settimana bisogna leggere decine di delibere e di istruttorie, è un lavoro a tempo pieno, che spesso mi occupava anche dopo cena. Come potrebbe un cittadino comune occuparsi direttamente delle decisioni a livello comunale, provinciale, regionale, statale, europeo, tutte insieme? È evidente che l’ideale, portato fino in fondo, è inapplicabile, anche se rimane interessante come ideale regolativo. Si capisce perché, quindi, quando un cittadino viene eletto come rappresentante ha tempo pieno per occuparsi dei problemi della città, ha una indennità e si congeda momentaneamente dalla sua occupazione professionale. Credo che, per tali motivi, pensare di poter scavalcare questi rappresentanti allo scopo di demandare la responsabilità delle decisioni direttamente ai cittadini sia sbagliato. I cittadini non possono essere dei politici a tempo pieno, dal momento che la nostra è una società iper-specializzata. I cittadini non potranno che occuparsi della politica nei propri ritagli del tempo, e ciò non è sufficiente a raggiungere un livello di approfondimento che determinate decisioni politiche richiedono, se prese direttamente. Anche i rappresentanti politici sono spesso dei dilettanti: se, ad esempio, un ministro della salute è un medico, sarà certamente un buon professionista nell’esercizio della sua attività medica specialistica (nel prestare cure adeguate ai propri pazienti), ma la gestione di un ministero – quale quello della sanità pubblica – richiede competenze molto differenti e altrettanto complesse. Tuttavia, egli deve occuparsene a tempo pieno ed è sottoposto al controllo dei cittadini, che hanno la possibilità di valutare se il suo operato è stato buono o meno. Esercitare la fondamentale funzione di controllo e di giudizio rispetto ai rappresentanti eletti, e poterli cambiare se non hanno risposto alle aspettative, è quell’ambito di responsabilità e decisioni che non richiede un impegno a tempo pieno e che rientra, pertanto, nella sfera delle attività del cittadino di una democrazia liberale tradizionale.

 

Internet ha certamente moltiplicato le fonti di informazione, da un punto di vista quantitativo, tuttavia, mi chiedo se fenomeni come eco chamber e filter bubble, i quali spesso conducono una polarizzazione e frammentazione dell’informazione, influiscano negativamente sull’implementazione di un’opinione pubblica le cui opinioni dovrebbero essere razionalmente fondate.

A mio avviso non dovremmo soffermarci soltanto sugli aspetti critici legati a questi mezzi di comunicazione. I mezzi di comunicazioni sono molto importanti per la democrazia già da tempo: pensiamo, ad esempio, alla stampa a caratteri mobili di Gutemberg, che ha permesso la stampa dei giornali, dei libri, tutti elementi assai preziosi per il progressivo accrescimento dell’opinione pubblica; Internet rientra a pieno titolo all’interno di questo discorso. Esso rappresenta un’occasione in più per apprendere informazioni, e anche in maniera plurale, perché in realtà Internet abbatte molto i costi per produrre le informazioni. Pubblicare informazioni su un giornale, o sulle televisioni, ha dei costi assai più ingenti. Internet abbassa quindi i costi d’ingresso; un cittadino qualunque può fare digital journalism, cioè può pubblicare le proprie informazioni e può farlo su piattaforme che glielo permettono, addirittura pubblicamente. È un tipo di innovazione che favorisce il dibattito democratico, perché, appunto, possiede delle caratteristiche che permettono una comunicazione a più livelli, meno costosa, e persino più diretta. Il problema è dato dal fatto, però, che – come spiega anche Sartori – il “pluralismo” non corrisponde a “plurale”: pluralismo e plurale sono due cose differenti. Il plurale corrisponde ad una comunicazione in termini quantitativi, di numero: ad esempio Internet permette di avere tantissime fonti di informazioni. È sinonimo di complessità strutturale. Ma il pluralismo vero, in senso qualitativo, ha una caratteristica ulteriore: significa che le varie fonti di informazioni non sono delle monadi, ma si confrontano, almeno in una certa misura dialogano, promuovono l’incontro-scontro fra diversi. A questo punto la domanda che mi pongo è: ad un aumento della pluralità di informazioni, in senso quantitativo, corrisponde il pluralismo in senso qualitativo? Su questo vi sono alcuni dubbi, se consideriamo che il pluralismo è anche una componente qualitativa, ossia non è soltanto il numero di fonti disponibili ma è anche un certo tipo di rapporto tra queste fonti. Anche in epoca medievale le fazioni erano tante, cosicché quando si perdevano le elezioni si andava in esilio (così anche Dante Alighieri andò in esilio). La differenza tra la fazione e il partito è che quest’ultimo non è solo plurale, ma è anche un’espressione “pluralista”. Ma che significa “pluralista”? Significa che se perdi le elezioni hai comunque “merito di tribuna”, hai comunque diritto a prendere la parola. Quindi il pluralismo non è soltanto disporre di molteplici fonti di informazione, ma anche la possibilità che queste si parlino tra loro, che abbiano una certa disponibilità all’ascolto. Forse Internet assomiglia più alle fazioni che ai partiti: ci sono moltissime voci, ma spesso queste voci non parlano fra loro, stanno chiuse nelle loro echo cambers, si rafforzano polarizzandosi.

 

Mi sembra vi siano anche ragioni di matrice psicologica.

Sicuramente, ci sono motivazioni psicologiche e direi commerciali, da parte delle grandi piattaforme. Per come è costruito e in considerazione del ruolo esercitato dalle grandi piattaforme (Facebook, Twitter ecc), Internet valorizza una componente psicologica dell’essere umano che è l’omofilia, la quale corrisponde alla tendenza a frequentare persone che siano simili a noi. Queste piattaforme sono interessate a fare in modo che le persone stiano il più possibile nei loro ambienti informativi: ad esempio Facebook è interessata a far sì che i propri utenti leggano per quanto più tempo possibile le informazioni su Facebook, perché ciò garantisce più pubblicità ma anche più dati da poter rivendere o riutilizzare. Per far ciò esse devono offrire ciò che alla gente piace, e lo fanno profilando ogni singolo individuo, quindi, in questo modo, aumentano l’omofilia delle persone. Già le persone tendono a stare con chi gli piace, poi queste piattaforme propongono alle persone ciò che piace loro aumentando questo effetto di “autoreferenzialità”. Queste piattaforme, semplicemente, studiano ciò che piace ad ogni singola persona e glielo propongono attraverso dei raffinati algoritmi. Questo meccanismo è ciò che viene soprannominato “Filter bubble” o “Eco chamber”. La persona è nel suo ambiente digitale e tende ad ottenere conferma di quelle che sono le sue idee. E questo, purtroppo, non aiuta il pluralismo, che è, invece, basato su un grande numero di informazioni, ma su informazioni che entrano e si pongono in relazione. In tal modo, rischia di venir meno l’incontro casuale e lo scambio genuino di opinioni (anche differenti). Rischiano, altresì, di formarsi delle bolle, degli ambienti protetti che invece possono mettere in crisi una concezione pluralista e autenticamente democratica dell’opinione pubblica.

 

Penso alla rappresentazione evocata da Habermas del dibattito pubblico come un English-coffe house (come una seicentesca sala da caffè inglese), ovvero uno spazio di interazione informale che fornisca ai cittadini occasioni per informarsi, discutere, ma anche di prendere parte, in senso identitario, alla comunità di appartenenza, di sviluppare un’opinione comune. Alla luce di quanto detto precedentemente, che tipo di dialogo è possibile instaurare per mezzo della rete?

Quello definito da Habermas è, innanzitutto, un’ideale, in cui è sempre presente sullo sfondo la dimensione prescrittiva-normativa. In realtà, anche i caffè inglesi erano ambienti che non assomigliavano affatto a uno scambio di argomenti ragionati, ma più spesso descrivevano realtà caotiche. Al di là dell’idealizzazione, anche i caffè inglese erano luoghi che rendevano possibile “un dialogo imperfetto”. E, in un certo senso, tali sono anche i talk-show, nei quali c’è sì uno scambio di idee e di opinioni, ma spesso diviene preponderante anche la componente retorica e sofista dei discorsi. Non è che Internet sia un ambiente particolarmente negativo, diciamo che anche in Internet vi sono dinamiche che possono non aiutare il confronto (come le echo chambers), ma al tempo stesso vi sono anche dinamiche interessanti. Dobbiamo considerare il movimento dei cosiddetti debunker, il quale è caratterizzato da persone che amano fare fact-checking, cioè amano entrare in dialogo con gli altri utenti di internet contribuendo ad accrescerne il dibattito mediante una verifica della veridicità delle questioni discusse. Ora, molto spesso, quest’azione del debunker è fallimentare, poiché quest’azione di contrapposizione non fa altro che convincere ancora di più coloro che credono nelle bufale. Si potrebbe quindi pensare che la pratica del debunking non funzioni, però non è esattamente così. Queste esperienze dimostrano comunque che esistono degli utenti di internet che sono interessati ad un confronto il più possibile razionale e consapevole, basato sull’accertamento dei fatti. La presenza di un certo tipo di spirito dimostra che ci può essere un’etica propensa ad un confronto il più possibile razionale. Tra l’altro, le analisi sono state svolte sulle persone che abitano delle specifiche comunità virtuali, che prendono posizione e che presentano opinioni spesso molto forti (come nel caso delle comunità No Vax). Come è naturale aspettarsi, queste analisi dimostrano che un debunker in tali comunità ha ben poche possibilità di convincere gli altri. Dobbiamo, tuttavia, pensare anche ad una maggioranza silenziosa, rispetto alla quale un’eventuale azione dei debunker potrebbe essere non trascurabile. Il secondo caso interessante che andrebbe analizzato è quello delle piattaforme di partecipazione: ci sono, ad esempio, dei progetti urbani promossi dalle amministrazioni cittadine che permettono la partecipazione attraverso Internet su certe tematiche che riguardano la città. E queste piattaforme, a differenza di Facebook, Twitter ecc., non hanno scopi commerciali, e quindi non hanno interesse a profilare ciò che alle persone piace. Spesso sono sostenute dalle amministrazioni pubbliche, e quindi in un certo senso, non hanno quelle dinamiche algoritmiche che connotano le grandi piattaforme. In questo senso, contribuiscono a creare contesti di confronto ibridi – sia digitali sia reali – e possono favorire dei dibattiti che hanno visto dei risultati interessanti. Sono processi partecipativi che informano e che includono la cittadinanza nelle decisioni, in cui la componente digitale può essere importante rispetto alla trasparenza, alla partecipazione e al coinvolgimento. Per concludere, ciò segnala che forse una forma habermasiana di discorso razionale, anche se in maniera imperfetta, frammentata ed approssimata, può essere realizzata anche attraverso gli strumenti digitali.

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