Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

gliasini

Bambini senza infanzia, futuro senza bambini

di Aurora Caredda e Giovanni Pillonca

diritti dei bambini.jpgAl termine di quale processo formativo un soldato arriva a inquadrare nel suo mirino telescopico la testa di un bambino? Come può accadere che non ci sia niente che gli impedisca di premere il grilletto? Sono domande che sorgono dopo aver letto la testimonianza di 99 medici e paramedici volontari che hanno prestato la loro opera negli ospedali di Gaza e che il 2 ottobre 2024 inviarono una lettera a Joe Biden, chiedendogli di fermare Israele. Di seguito, in articoli sul NYT– altri medici e paramedici denunciarono in particolare l’orrore dei bambini bersagli deliberati di violenza. Lo rivelavano le ferite alla testa o al petto, anche in bambini di età inferiore ai 5 anni e le conseguenze dirompenti dei micidiali proiettili a frammentazione. Uno dei firmatari della lettera a Biden, Feroze Sidhawa, un chirurgo californiano scriveva: “Non ho mai visto ferite così terribili e in tale quantità avendo a disposizione così poche risorse. Le nostre bombe stanno abbattendo donne e bambini a migliaia. I loro corpi mutilati formano un monumento alla crudeltà”. Dei circa 1.100.000 bambini che costituiscono quasi la metà della popolazione di Gaza, 18.000 gli uccisi, due terzi dei quali avevano meno di 13 anni, 40.000 gli orfani di almeno un genitore, tra i 3000 e i 4000 i mutilati (Unicef), la più alta percentuale al mondo, spesso dopo amputazioni d’emergenza eseguite senza anestetici. Profondo il trauma di tutti i sopravvissuti.

Chi ha familiarità con la storia di Israele sa che non si tratta di una pratica sconosciuta. Ilan Pappe in Ten Myths About Israel, riporta la poesia di Natan Alterman, “Una questione di nessuna importanza”, pubblicata sul quotidiano Davar nel 1951, a tre anni dalla fondazione dello stato:

La notizia è apparsa brevemente per due giorni, poi è scomparsa./ E a nessuno sembra importare, e nessuno sembra saperlo./ Nel lontano villaggio di Um al-Fahem,/ I bambini – dovrei dire cittadini dello Stato – giocavano nel fango/ E uno di loro sembrò sospetto/ a uno dei nostri valorosi soldati/ che gli gridò: Fermo!/ Un ordine è un ordine /Un ordine è un ordine,/ ma lo sciocco ragazzo non si è fermato,/ è scappato via./ Così il nostro valoroso soldato ha sparato,/ non c’è da stupirsi./E ha colpito e ucciso il ragazzo./E nessuno ne ha parlato.

La strage dei bambini va avanti da anni. Dei 15.000 Palestinesi uccisi tra il 1967 e il 1987 in Cisgiordania 2.000 erano minori (Amnesty). Lo stesso tragico bilancio si registra nelle operazioni su Gaza e Cisgiordania tra il 2008 e il 2023, a seguito dei bombardamenti e della tacita regola di ingaggio per i soldati che è “sparare per uccidere”. Chris Hedges, in Un genocidio annunciato, racconta d’essere stato testimone, da inviato del NYT, nel 2001, sempre a Gaza, di soldati israeliani che sparavano a dei bambini colpevoli di aver lanciato dei sassi ai soldati che li insultavano in arabo. 

Per articolare una risposta alle domande iniziali, si deve necessariamente far riferimento alla formazione di quei soldati, piloti, marinai, carristi, secondo gli obiettivi educativi che il nuovo stato si diede negli anni, e alle strategie didattiche messe in campo per promuoverli. Nurit Peled-Elhanan, ne ha offerto, una decina di anni fa, un quadro complessivo esaminando i libri di testo di storia, geografia, educazione civica, approvati dal ministero dell’istruzione. Secondo la studiosa, essi divulgavano fin dalla scuola materna (come conferma anche la ricerca di Daniel Bar-Tal e Meytal Nasie del 2016 Young Children in Intractable Conflicts: The Israeli Case), la grande narrazione sionista, composta da due parti dicotomiche: il declino dall’“età dell’oro” dell’antichità, attraverso l’“esilio” fino al culmine nell’Olocausto; il progresso che inizia con il ritorno sionista nella Terra di Israele come atto che conduce alla redenzione nazionale. Dei 1800 anni circa che separano la cacciata dal ritorno alla fine del 19mo secolo, come dei 1300 anni di presenza islamica e delle civiltà succedutesi nel corso dei secoli in quelle terre, fino all’inclusione nell’impero ottomano nel XVI secolo, non si trova traccia in questi testi.

Agli scolari israeliani, dagli anni 50’ in poi, è stato trasmesso il messaggio del diritto alla terra basato su una promessa biblica. “La Bibbia – ribadisce una circolare del Ministero dell’Istruzione nel 2014 – fornisce l’infrastruttura culturale dello Stato di Israele, in essa è ancorato il nostro diritto alla terra”. Si tratta della posizione di Ben-Gurion il quale, davanti ai membri della Royal Peel Commission incaricata nel 1937 di indicare un futuro alla Palestina mandataria, agitò una copia della Bibbia affermando: “Questo è il nostro Qushan [la prova catastale ottomana], il nostro diritto alla Palestina non deriva dalla Carta del Mandato, la Bibbia è la nostra Carta del Mandato”.

Insieme al diritto inalienabile alla terra, le scuole hanno sempre veicolato il discorso “anti-arabo” circolante nella società israeliana, in cui l’etichetta “arabo” evoca masse sporche, terrorismo e primitività, oppressione delle donne e fondamentalismo. I palestinesi di Israele sono presenti nei testi solo come un fenomeno negativo, un peso per lo sviluppo e per la sicurezza nonché una minaccia demografica. I libri di geografia raffigurano la Cisgiordania occupata come Giudea e Samaria, mentre le colonie illegali sono viste come parti di Israele. Le città miste come Nazareth o Acri non sono menzionate. Le mappe della grande Israele di cui l’attuale stato è solo una piccola porzione, sono accompagnate da citazioni bibliche sulla Terra promessa. Il passato mitologico nasconde la realtà geopolitica del presente.

I libri di testo narrano il racconto di una realtà immutabile di persecuzione e vittimismo. “La memoria dell’Olocausto – segnalava nel 2007 il compianto Alon Confino – è diventata sempre più centrale di pari passo con l’incrudelirsi dell’occupazione”. Un’altra ricorrenza nei libri di testo è il messaggio tipicamente coloniale che vede gli ebrei israeliani quali emissari del progresso e dell’illuminismo in un ambiente dove i primitivi arabi devono essere civilizzati, anzi coltivati, come il paesaggio ‘trascurato’. Gli eventi sono riportati da una prospettiva sionista che non tollera ambiguità e contraddizioni, mentre le versioni palestinesi sono silenziate o cancellate. Tutte le pratiche di oppressione, dalla discriminazione alla segregazione, dalla confisca dei terreni all’espulsione, sono legittimate da ragioni di sicurezza e salutate come realizzazioni delle profezie bibliche. 

Con questa memoria condivisa, che crea una coesa identità sociale, gli studenti sono chiamati alle armi. In una società in cui il militarismo e la cultura militaristica sono diventati, secondo Baruch Kimmerling, principi organizzativi centrali della società israeliana, il ruolo della forza militare imposta nei territori occupati dal ‘67 e la loro sottomissione all’egemonia israeliana hanno trasformato Israele in una Herrenvolk democracy, una etnodemocrazia. 

Si tratta di un militarismo totale perché include la gran parte delle istituzioni sociali e perché è diffusa la convinzione che tutto il popolo debba partecipare alla preparazione della guerra e possedere un expertise militare mentre la maggioranza è coinvolta nel combattimento attivo. Per questo tipo di militarismo non è necessario che il militare come struttura istituzionale governi nella sfera politica. Il militarismo civile, o ciò che può essere chiamato la mente militare, è interiorizzato sistematicamente nella maggior parte degli uomini di stato, dei politici e del pubblico tanto da essere una realtà auto evidente, il cui imperativo trascende le alleanze politiche e sociali. L’essenza del militarismo civile è che le considerazioni militari e le materie definite come problemi di sicurezza nazionale ricevono alta priorità rispetto a considerazioni di ordine politico, sociale, economico o ideologico. 

In realtà, la glorificazione della figura del soldato è prospettata ben prima del 1948. Secondo Jacqueline Rose, in A Vision of Zion, risale alla visione di Shmuel Yavne’eli, figura di spicco della seconda Aliya, socialista, che nel 1918 proclamava: “Ciascuna persona nell’esercito realizza il concetto messianico”. Questa deformazione della coscienza civile è implicata con il processo che Bar-Tal, nel suo Sinking Into the Honey-Trap, ha definito “religionizzazione”. Il sionismo religioso, con tratti messianici, ha acquisito preminenza in molte aree della società: nell’esercito, nel sistema legale, in quello educativo, nei media, e nel governo. Ha confermato e rafforzato la base epistemologica di Yavnee’ly, che era laica alle origini, finendo per giustificare sia la costruzione degli insediamenti nei Territori Occupati, con un progetto ormai rivendicato apertamente che mira alla loro annessione, sia tutte le rappresaglie su Gaza. L’identità religiosa dell’esercito costruita come esercito ebraico è stata accentuata dal potere al Rabbinato militare che gestisce i Corpi di Educazione rivolti ai giovani in preparazione al servizio militare, l’ultima fase della formazione del futuro soldato. Il sionismo religioso messianico ha di fatto eliminato la discussione sull’occupazione, la parola pace e la risoluzione del conflitto dal discorso pubblico. Si è avverata così anche la predizione di Zygmunt Bauman che in un articolo su Haaretz nel 1971 intravedeva le conseguenze a lungo termine di quella che definiva una militarizzazione della psiche. L’esercito avrebbe governato la nazione e non il contrario. Il militarismo e il nazionalismo montante lo spinsero a lasciare il paese. Bauman si spinge a considerazioni di un pessimismo estremo: “Oggi (la conversazione con Peter Haffner, Making the Familiar Unfamiliar, è del 2015), circa l’80% dei cittadini israeliani ha conosciuto solo la guerra. La guerra è il loro habitat naturale. Ho il sospetto che la maggior parte degli israeliani non voglia la pace, in parte perché ha dimenticato come affrontare i problemi della vita sociale in tempo di pace, in un periodo in cui i problemi non possono essere risolti sganciando bombe e bruciando case. La gente non ha mai avuto l’opportunità di imparare a cercare soluzioni alternative a problemi difficili, soluzioni che non implichino l’uso della violenza. La violenza è stata introiettata. È il loro modo di vedere il mondo.” Jacqueline Rose rintraccia simili preoccupazioni nelle riflessioni di Buber, Scholem, Arendt, e Ha’am, precedenti alla fondazione stessa dello stato, che avvertivano che Sion non poteva essere costruita ‘con ogni mezzo possibile’, ma solo bemishpat (con giustizia). Si sa che a vincere è stato il messaggio di Jabotinsky, il quale riteneva che il mezzo più importante del processo di rinascita nazionale fosse il fucile. 

Attraverso la stretta interconnessione con la Bibbia, la memoria collettiva è investita di un’aura sacrale che rafforza il principio positivo di emancipazione e liberazione. I problemi sorgono quando tale memoria e tale principio diventano una forma di chiusura, un terreno di esclusione e uno strumento di guerra. Peled Elhanan cita l’avvertimento di Pierre Nora in Lieux de memoires: “Rivendicare il diritto alla memoria significa, in fondo, invocare giustizia. Negli effetti che ha avuto, tuttavia, si è spesso trasformato in un appello all’omicidio”. Come avverte Pappe, questo processo di legittimazione politica da un testo sacro può portare al fanatismo con conseguenze pericolose. La Bibbia, ad esempio, contiene riferimenti al genocidio: gli Amaleciti furono uccisi fino all’ultimo da Giosuè. Personificazione del male assoluto, gli Amaleciti possono essere sterminati, secondo quello che viene considerato un volere divino. Lo si legge nel Primo libro di Samuele: «Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini» (I Samuele 15, 3). Nell’identificare i Palestinesi quali i nuovi Amaleciti viene data di fatto ai soldati licenza di ucciderli senza alcuna remora morale. È stato Nethanyahu a ricordare Amalek nel suo discorso alla Knesset riferendosi agli attentatori del 7 ottobre e alla necessità di vendicare il massacro compiuto da Hamas. Citare Amalek equivale a giustificare qualsiasi massacro. 

I discorsi intrecciati di sicurezza e redenzione così come vengono presentati nelle scuole legittimano non soltanto le pratiche di oppressione e discriminazione ma anche l’assassinio usato come pratica di difesa, deterrenza e ritorsione. La parola fine al dibattito se quello che l’esercito israeliano di occupazione sta perpetrando a Gaza sia un genocidio l’ha pronunciata uno dei suoi generali, Aharon Haliva, considerato un moderato di centro sinistra. In un articolo apparso il 17 agosto su Haaretz, Gideon Levy ne riporta che, apertis verbis, ha sostenuto in tv: “Israele ha bisogno di commettere un genocidio ogni tanto, uccidere i palestinesi è un atto necessario”. “Per ogni vittima del 7 ottobre, dovevano morire 50 palestinesi. Non importa se si trattava di bambini. Non lo dico per vendetta, ma per lanciare un messaggio alle generazioni future. Non possiamo farci niente: hanno bisogno di una Nakba di tanto in tanto, per sentirne il prezzo”.

La società israeliana è incastrata nella cultura del conflitto con le sue narrazioni di supporto che ne dettano le politiche, le norme, le leggi, i curricula scolastici, il discorso pubblico e le azioni. Bar-Tal citando Stanley Milgram sostiene che ‘le persone ordinarie tendono a seguire gli ordini di una figura d’autorità, anche se ciò comportasse l’uccisione di un essere umano innocente, senza nessuna considerazione per il suo significato o conseguenze. Ciò accade a soldati, a combattenti e persino a civili che seguono le direttive senza porsi domande. La violenza si scatena contro l’Altro, razzializzato, il nemico, il terrorista, termine esteso a tutti i membri del gruppo, comprese donne e bambini. Questo tipo di delegittimazione è un meccanismo potente che fornisce il permesso psicologico di calpestare un popolo intero, e anche di esercitare su di esso un potere di vita e di morte, secondo quella “necropolitica” così ben descritta da Achille Mbembe nel libro omonimo. O, come l’ha definita la studiosa palestinese Honaida Ghanim, la Thanatopolitics, ossia la gestione della vita e della morte e della distruzione del popolo colonizzato. Il saggio di Ghanim è del 2008 e affrontava la questione della biopolitica di Israele a Gaza, ovvero l’uso della morte come strumento politico a partire dalla conta delle calorie concesse agli abitanti dei campi profughi, stabilite a livelli tali da tenerli in una zona liminale tra la vita e la morte. Una politica che ha ora assunto caratteristiche estreme con lo scoppio della carestia generata dal blocco di tutti i rifornimenti. Riduzione alla fame come arma di guerra. Nella sua poesia, Alterman descriveva il bambino palestinese come un cittadino dello stato, un soggetto che aveva diritto a quello status in una democrazia. Ma in una società etnocratica non è la cittadinanza la pietra angolare del funzionamento di uno stato ma la nazione etnica. Perciò quella israeliana non solo non è una democrazia ma, considerato lo spietato – come lo definisce Pappe – atteggiamento nei confronti dei palestinesi, sia quelli che vivono dentro lo stato di Israele sia quelli dei Territori, si configura come una dittatura della peggior specie. Mentre scriviamo, i minori cui nei decenni è stata negata l’infanzia, sono sia a Gaza sia in Cisgiordania in costante pericolo, al pari dei genitori, esposti a tutti i traumi di un’umanità sotto l’ininterrotta minaccia di essere spazzata via giorno per giorno in quella che è diventata una routine genocida (“incremental genocide” scriveva Pappe già nel 2009) in cui non sono solo i bombardamenti a seminare terrore e distruzione e morte ma la fame usata come arma, la mancanza d’acqua, di medicine, di cure mediche. In questo scenario, i bambini che sopravvivono devono anche farsi carico, insieme agli adulti, della ricomposizione dei cadaveri dei genitori o dei fratelli, recuperandone le membra dilaniate in mezzo alle macerie delle abitazioni in cui hanno trovato la morte.

Nadera Shaloub- Kevorkian, l’antropologa che da decenni studia e denuncia l’effetto della violenza razzista sui minori da parte dei soldati e dei coloni, a Gerusalemme Est e nei Territori, ha dovuto di recente affrontare questo nuovo atroce capitolo in cui l’immagine ricorrente è quella dello smembramento, ashlaa in arabo, brandelli di corpi sparsi, raccogliendo le testimonianze di bambini e civili sopravvissuti ai bombardamenti. Di questo argomento – su cui aveva scritto un articolo nel 2024 – ha parlato di recente, alla Casa delle Donne di Milano, soffermandosi proprio sulle immagini oggi frequenti dopo ogni bombardamento soprattutto a Gaza e in Cisgiordania, che assurgono a simbolo della condizione generale del popolo palestinese, smembrato sin dal 1948 sia dal punto di vista sociale con la diaspora dei rifugiati in varie parti del Medio Oriente, sia, dopo il 1967, con la frammentazione del territorio occupato militarmente attraverso gli insediamenti, il muro di separazione, la campagna di spossessamento e di terrorismo portata avanti dai coloni e, mentre scriviamo, con il genocidio in corso. Uno scenario inimmaginabile quando Kevorkian documentava la sofferenza dei bambini palestinesi anche in tempo di pace, con particolare attenzione a quella delle bambine, che andando a scuola subivano intimidazioni, umiliazioni, molestie sessuali da parte dei soldati, palpeggiamenti e violenze come lo strappo del velo e la confisca dei libri, o attraverso l’uso minaccioso dei fucili branditi in modo osceno o infilando le canne fra le gambe delle bambine. 

Il termine usato dalla studiosa per definire la condizione di questi bambini è unchilding: bambini privati dell’infanzia, come li aveva definiti anche Mahamoud Darwish nella sua ode “Silenzio per Gaza”: bambini senza un’infanzia, ora senza scuola da quasi due anni, espropriati di quei diritti che le norme internazionali considerano irrinunciabili, disumanizzati a tal punto da diventare vittime di violenze mirate, bersagli di esecuzioni sommarie. Alla privazione dell’infanzia, l’unchilding, si aggiunge così il childcide, l’infanticidio di massa.

In quelle immagini e testimonianze di bambini, nell’azione pietosa della ricomposizione dei corpi, disperatamente sottratti ai cani randagi e riconosciuti dai vestiti, da un anello, da un pigiama, Kevorkian legge un disperato atto di resistenza, l’articolazione di una prassi che invita a raccogliersi, a mettersi insieme, a opporsi con ostinazione e tenacia a una tragedia che appare inarrestabile. Un ultimo grido di aiuto rivolto alle nostre democrazie occidentali che ancora sostengono le politiche del governo di Israele e a noi tutti perché non voltiamo il capo dall’altra parte, a non essere passivi. Noi vi vediamo anche un’implorazione potente che va a toccare un principio basilare della civiltà umana: la rivendicazione della sacralità dei corpi, dei vivi e dei morti, e il dovere di onorare i defunti. Una rivendicazione della memoria e della storia, della cultura di un popolo oppresso, perché non siano cancellate. Reclamarlo oggi mentre quei principi vengono così empiamente negati sconvolge la percezione totalizzante dell’annientamento e si staglia come riaffermazione indomita del diritto dei palestinesi tutti alla vita e alla giustizia, come diceva Buber citando Isaia.

Pin It

Add comment

Submit