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punto rosso

Il servo, la puttana, il moderato: tre figure della democrazia reale

di Stefano Calzolari

berlusconi daddarioCi sono tre figure della democrazia reale che hanno goduto di grande attualità in quest’ultimo periodo: il servo, il puttana, il moderato. Meritano qualche veloce osservazione, al di fuori delle righe di cronaca.

Partiamo dalla più complicata, e anche da quella di cui non si parla quasi mai, il servo. Non se ne parla, ma viviamo in un tempo in cui il servo potrebbe fungere come emblema: per tutti coloro che dall’infanzia alla morte sono impiegati in attività e lavori che non possono essere definiti schiavistici solo perchè remunerati da qualche capitale con salari da fame; o per il meccanismo generalizzato di servizio per cui tutto serve a tutto, in una serie infinita di funzioni concatenate; ovvero per l’ideologia del servo, inteso come fornitore di attività servili d’ogni genere, che accetta la subordinazione ai padroni, al potere, ai media, come condizione naturale. Sfruttati, impiegati in lavori sporchi, e del tutto privi di reale potere su qualunque pezzo significativo della loro vita, questi ultimi funzionano economicamente come lavoro subordinato, spettacolarmente come propagandisti, socialmente come fabbrica del consenso.

Come tutti i servi convinti del loro ruolo, sono pieni d’arroganza e d’odio con chi sta peggio e con l’ultimo venuto, visto come concorrente. I concorrenti, certo, non mancano. Nel nostro democratico Occidente si ripropongono figure e scene che sembrano ritagliate dai secoli passati: i mendicanti, ad esempio. Abbiamo città piene di mendicanti, anche perché non sappiamo altro che fare (scarse) elemosine attraverso organismi locali o internazionali i cui impegni vengono puntualmente disattesi. Si fa beneficenza con riti demenziali, fatti di giochi, partite, maratone televisive, ospiti d’onore, pubblicità - avanti, dobbiamo raggiungere ancora la cifra, un ultimo sforzo, coraggio, è una bellissima gara… .

Ovviamente, distribuendo elemosine e non giustizia si creano masse di mendicanti, le grandi città sono invase da novelli pícari, come nella Madrid o nella Toledo narrate da Quevedo e Alemán, da ladri, da puttane, da persone che cercano di arrivare a sera, pronte ai peggiori reclutamenti, o a un lavoro duro, malpagato e per niente sicuro, dato che chi lo pratica è spesso un clandestino. Chissà, forse anche questi o una parte di questi aspettano qualcosa e qualcuno; forse, per usare l’espressione hegeliana, aspettano una qualche forma di riconoscimento; forse non è affatto destino ineluttabile che cadano nelle mani delle narcomafie o di qualche dio terrorista e petroliere, forse domani questi pícari potranno essere imputati di altri crimini, crimini di giustizia, e magari risponderanno con una parola collettiva che il colpevole è Fuente Ovejuna. Ma al momento domina solo la caccia al clandestino, al mendicante, rimbomba ovunque il reclamo prima indotto, poi ripetuto e ampliato, di sicurezza, di polizia, di esercito, di punizioni. L’ha definito con precisione Žižek, questo istinto securitario atroce e incontrollato: una sorta di paura preliminare, la paura d’aver paura, da cui si vorrebbe essere liberi a priori. Meglio vivere come cadaveri protetti, che affrontare il rischio di vivere. E’ sotto questa ispirazione che gli esponenti politici della maggioranza degli italiani hanno dato vita ad un incredibile impasto barocco di leggi, di norme, di crudeltà e d’idiozia assoluta. Le fabbriche del Nord funzionano in gran parte grazie a lavoratori immigrati, le villette brianzole sono state edificate in buona parte con masse di lavoro nero clandestino, albanese o rumeno, però bisogna eliminare tutti gli effetti collaterali, ributtare a mare i clandestini, deportare i rumeni. Bisogna chiudere le frontiere, i villaggi, i vicoli, e scegliere noi, di volta in volta, chi deve entrare, per quanto, quando deve essere rispedito al suo paese, chi è meritevole dell’elemosina... Anche “elemosina” è una di quelle parole che non si possono più pronunciare, forse perché è una pratica molto reale; oggi si parla sempre e comunque di “solidarietà”, elemosina è un termine coperto dalla polvere del tempo, così come la parola “servo”. Chi adopera oggi questa espressione? Qualche terrorista effettivo o in pectore che accusa i servi dello stato, qualche islamico radicale – di nuovo, un terrorista – che nomina l’America e i suoi servi…

La realtà è diversa: non si può più nominare il servo perché è scomparso il signore, il master, il padrone. E’ tutto sociale, che c’è di più sociale del capitale sociale? Oggi abbiamo imprenditori, società per azioni, manager, banchieri, funzionari, ma non padroni – certo, basta accennare a qualche prelievo fiscale che abbia a che fare con la proprietà e il padrone ricompare immediatamente, con la sua nobile battaglia contro la rapacità del pubblico. La dialettica hegeliana di servo e signore è giunta ad una nuova tappa, una sola figura ha rilevato entrambi: l’homo democraticus. L’autentico discorso del padrone oggi porta questo nome. La vecchia contraddizione sembra svanita nell’opposizione tra determinazioni puramente esteriori, tra il democratico e il non-democratico (quale che sia), tra la figura del consenso e ciò che vi si oppone. Il massimo trionfo reale di servo e padrone, con la sua infinita proliferazione gerarchica, coincide con la scomparsa nominale di entrambe le categorie, con il loro dissolvimento dal punto di vista della coscienza collettiva. Ma questo merita alcune rapide riflessioni. L’esito della lotta non è affatto neutro, ma segna una tappa ben precisa, la sconfitta del servo, nella sua rivolta contro il padrone, e la sconfitta del servo divenuto, a sua volta, master – comunque lo si voglia intendere, dagli stati socialisti alle accademie di sinistra. Ora abbiamo l’evoluzione alla categoria consensuale superiore: servo e padrone si sono sfaldati in mille figure, un cattivo infinito in cui trova posto l’operaio, il capitalista, il banchiere, il funzionario statale, l’artigiano, il pescatore, il giornalista, il calciatore, il professionista, il dilettante, la donna, il giovane… Il servo (reale) non si sente affatto tale, o perché si ritiene imprenditore di se stesso o perché, in via di principio non marca alcuna differenza col padrone, – se non quantitativa ovviamente: chi ha i soldi e chi no. Figure, sia ben chiaro, tutte equivalenti; certo, all’interno del mondo consensuale c’è rissa, scontro, odio tra i diversi “competitors”, ma tutto ciò è normale poiché la lotta è tra questo mondo e chi intende negarlo, ovvero le forze anti-democratiche.

La fase che stiamo vivendo, in questa democrazia barbara e atroce, ha dunque tra i suoi marchi, tra i suoi brands, anche il dileguarsi di quei nomi, servo e padrone. Ma per quanto impersonale si presenti il meccanismo del capitale, per quanto astratto appaia il mercato, per quanto naturale la lotteria elettorale, non c’è nessun gioco di prestigio che ci impedisca di riconoscere, nella singolare concretezza delle situazioni, l’esistenza dei padroni, e dei servi, e dei servi dei servi…. Cosi come dobbiamo riconoscere che il significante-padrone di tutto quell’ovvio, normale, naturale meccanismo impersonale che ci governa ha a che fare non solo col capitale, ma anche con ciò che sono oggi la democrazia reale e il discorso democratico. Ogni processo di liberazione, di libertà passa contemporaneamente per lo sfondamento di un simbolo, per l’individuazione di un nuovo principio, e per il riconoscimento attivo di tutto questo, in situazione.

Nelle cronache mediatiche di politica nazionale, non si è mai parlato tanto di puttane come in questi ultimi tempi. Interviste, segreti rivelati, notizie da sempre note e ora semplicemente confermate, lunghe discussioni su sesso e potere. La cosiddetta opposizione attacca citando la stampa estera, che trova la situazione italiana oggetto di ridicolo e di pubblico scandalo; i media amici del premier si rifugiano in difese a oltranza, o fanno bandiera del più becero sessismo maschilista; e al contempo vengono istituite norme punitive per le puttane (da strada) e i loro clienti (da strada). Sulle prime pagine dei quotidiani arrivano lettere di mogli di Cesare tradite, per denunciare lo scandalo di vergini che si offrono al drago – ma è storia vecchia, il drago esiste perché le vergini gli si offrono, e sotto le scaglie e la lingua di fuoco c’è solo il riso ebete di un vecchio puttaniere... . Insomma, una perfetta immagine della tristezza del presente.

Tuttavia, il fatto che questa figura – la puttana – sia divenuta così significativa non è solo dovuto ai recenti fatti di cronaca. La puttana è una figura assolutamente emblematica e per certi versi riassuntiva della nostra democrazia reale. La puttana ha sempre avuto qualche parentela con lo spettacolo: è il motivo per cui, da sempre, le puttane costituiscono un oggetto di osservazione. E’ sufficiente leggere un po’ di letteratura di viaggio dei secoli passati per vedere quanto lo spettacolo delle puttane nei bordelli o nei quartieri, in Oriente come in Occidente, abbia attirato l’occhio curioso dei viaggiatori. Niente da stupirsi, dunque, se l’elemento spettacolare, ancorché deteriore, accompagni sistematicamente questa figura. Che occorrerebbe rinominare incrociando i generi, maschile e femminile: come Julian Beck, fondatore del Living Theatre, parlava di “actoress” “attorice”, e non più attore e attrice, così bisogna parlare de “il puttana”. Figura universale, che non ha esclusivamente a che fare col commercio carnale, maschile o femminile: il puttana può essere parlamentare, opinionista (per definizione), uomo di spettacolo, sedicente critico d’arte, sedicente filosofo, o psicoanalista, o romanziere…. Ma se si prova a dare una definizione contemporanea di questa figura risultano due capi opposti, nettamente delineati, all’interno dei quali si sgrana una catena senza fine di gradi intermedi (e chi vuole, per esercizio, può cercare a quale gradino della scala collocare il premier e le sue signore): puttana è chi esercita la vendita del proprio corpo - che non è mai solo un corpo - di donna, di uomo, di bambino perché non ha null’altro da offrire; puttana è chi commercializza per vendita la propria persona, ivi compresi impulsi, desideri, coscienza. Forma merce assolutizzata che richiama, sdoppiandosi, il doppio valore da cui origina: da un lato, il valore d’uso più elementare, l’unica proprietà che è anche il supporto della nuda vita, il corpo; dall’altro, il sé come puro valore di scambio, l’imprenditore che infine diventa davvero imprenditore di se stesso. Non deve stupire questa compresenza paradossale, tenuta assieme dalla vendita, perché il vendere, più ancora che il produrre, è lo stile di questa democrazia. In un saggio appunto intitolato Democracy for sale, Kristin Ross ci ricordava le parole del Rimbaud di Solde, “À vendre les corps sans prix, hors de toute race, de tout monde, de toute sexe, de toute descendance”; ma in vendita anche abitazioni e migrazioni, sport, comfort “ et le bruit, le mouvement, et l’avenir qu’ils font!”.

Tutto in saldo, tutti saldi che inizia la svendita! “À vendre l'anarchie pour les masses; la satisfaction irrépressible pour les amateurs supérieurs; la mort atroce pour les fidèles et les amants!” Che oggi, centoquarant’anni dopo la visione di Rimbaud, il puttana risulti una figura esemplare non può essere oggetto di stupore; lo è solo per coloro che vorrebbero un mondo identico all'attuale, ma senza i difetti più evidenti. Coloro che vorrebbero merci perbene, un capitalismo ascetico e dignitoso, una democrazia che abbia a cuore la decenza. Insomma, è oggetto di stupore per qualche moderato.

Il moderato, appunto: un appellativo onorifico in questi tempi, un segno di riconoscimento. Essere moderati significa contrapporsi ai fanatici, agli estremisti, ai radicali; le cronache sono piene delle battaglie che in altri paesi (specie di religione islamica) si combattono tra moderati e radicali, ma anche da noi, a livello nazionale, la destra al potere continua, per pura propaganda, ad accusare di estremismo l’opposizione e i suoi giornali, i quali rispondono, a giusto titolo, che gli autentici moderati sono loro. Come in tutti i periodi di colossale restaurazione, “moderato” è la parola chiave, il passe-partout per ogni situazione, ciò che segnala la distanza dagli eccessi passati e la solida e oculata gestione del presente. Essere moderati significa dunque contrapporsi a qualunque pensiero radicalmente differente rispetto a questo stato di cose, a qualunque pensiero che rifiuti di considerare come un unico orrore i tentativi passati di cambiare il mondo, e che non veda il futuro come un infinito prolungamento dell’attualità. Insomma, il moderato è il democratico, o meglio: ogni vero democratico non può che essere un moderato!

Il punto critico, tuttavia, non è nella strategia dei moderati, che è nota, ma nelle pratiche consensuali che questa induce, anche tra coloro che se ne dicono immuni, che si dichiarano nemici del moderatismo. Il quale, in questi decenni, è riuscito a imporre quello che può essere definito registro (o regime) della replica: il discorso moderato diventa senso comune, un senso comune inquisitorio, che costringe gli avversari a repliche sostanzialmente difensive. Replica è, insieme, rispondere e ripiegare: si risponde alle accuse ripetendo l’argomento anche se da posizioni opposte, si riprende la stessa piega, si risponde a un discorso mantenendone comunque il tracciato, l’impronta. Si replica da replicanti, poiché non esiste ancora un’altra politica e idee sufficientemente forti e consolidate da permettere di spezzare il discorso moderato. Ma se si vuole fare questa scelta, davvero, è già possibile reperire i punti da cui iniziare.

In un vecchio e celebre western italiano l’inevitabile duello finale tra un bandido messicano e un cacciatore di taglie diventa lo scontro tra chi sostiene la superiorità del fucile sulla pistola, soprattutto per chi sa centrare il cuore. Il pistolero, a distanza, invita l’avversario a sparare, provocandolo: “al cuore Ramón!”; il bandito mira, colpisce, l’avversario centrato cade, ma il sorriso dura solo per un attimo, perché il caduto si rialza e ripete il suo incitamento beffardo: “al cuore Ramón! Al cuore!”. Il bandito è come ipnotizzato, mira con la massima precisione, spara, vede il nemico cadere per poi rialzarsi, e tutto ciò si ripete finché il pistolero non arriva alla giusta distanza di tiro, non prima di avere mostrato a Ramón la pesante lastra di metallo nascosta sotto il poncho e riempita di proiettili proprio all’altezza del cuore.

Ciò che dovremmo fare è qualcosa di simile: farci carico delle accuse, non giustificarci; dichiarare, non replicare. Che colpiscano pure il bersaglio, quello sbagliato. Siete estremisti – certo, poiché consideriamo che una tesi o un discorso vadano portati all’estremo per valutarli, senza farsi fermare da considerazioni d’opportunità o di morale; siete antidemocratici – è ovvio, l’unico modo per ripensare e ridare un significato alla parola democrazia è collocarsi contro l’attuale “democrazia reale”; siete vecchi – esattamente, per quanto concerne l’attualità siamo fuori-tempo e fuori-luogo, in quanto contemporanei siamo invece contemporaneamente al passato e al futuro; siete per l’universale, quando tutto si muove nella relatività delle culture – siamo per l’universale perché l’essere soggetti non si arresta all’essere italiani, europei, arabi, ebrei, donne, uomini, gay, neri, bianchi, per quante specificità o singolarità questo possa apportare; siete fuori dalla Storia – sì, perché la storia si fa ogni volta che la Storia s’interrompe, e noi siamo fuori da questa Storia e da queste storie; siete ideologici – giusto, siamo per le idee, non per l’informazione e la comunicazione …

Al cuore, Ramón!

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