Print Friendly, PDF & Email

illatocattivo

Rivoluzione e controrivoluzione

di Intervention Communiste

[Révolution et contre-révolution, Parigi 1974]

latocattivo11La coerenza della società capitalista ha come base il vigore e l'estensione della legge del valore. Se è attorno a quest'ultima, in quanto trasforma qualsiasi manifestazione umana in merce e l'uomo stesso in merce forza-lavoro, che si costituisce la comunità materiale del capitale, questa comunità non acquisisce la propria stabilità che attraverso la trasformazione dell'uomo in merce, in questo senso la comunità non è fondata sul valore, ma più precisamente sul valore in processo, sul valore che si valorizza.

Fondato sul valore non nella sua accezione statica, ma sul ciclo delle sue metamorfosi, il capitale erode la propria base: il valore. Il capitale lavora senza sosta alla distruzione del valore, il movimento proprio della sua accumulazione funge da base al momento in cui si presenta esso stesso come creatore di valore; il plusvalore diviene profitto, il valore diviene prezzo di produzione. Tutto sarebbe perfetto se il capitale potesse liberarsi dal valore, esso stravolge il proprio funzionamento: separazione della forma prezzo e della forma equivalente generale; produzione di un movimento di capitalizzazione nel quale una data parte dell'accumulazione di capitale non corrisponde ad alcun valore (cfr. le azioni); estensione del sistema di credito nel quale il capitale anticipa sé stesso. Il capitale frantuma la legge del valore. Ma più tende a liberarsi dal valore, più rafforza la violenza tutelare di quest'ultimo. Quando, sviluppandosi, il capitale si presenta come la sola fonte del profitto, non fa in realtà che diminuire quello stesso plusvalore in cui, ciclicamente, è costretto ad ammettere riassumersi il profitto.

Quindi il movimento stesso della messa a valore del capitale, della valorizzazione, è il processo di distruzione del valore, della devalorizzazione. L'abolizione del valore costituisce la necessità storica del capitale, ma costituisce altresì la possibilità della sua negazione.

Il capitale non può intraprendere la distruzione del valore che realizzando un'enorme accumulazione di valore, non può varcare la soglia che lo condurrebbe al di là del valore, perché fondamentalmente non è altro che valore in processo, benché questa definizione lo determini a distruggere il valore e, contemporaneamente, a non potersene disfare. In questo senso, la comunità del capitale non può che essere l'ultima comunità fondata sulla legge del valore.

Che essa lo voglia o no – non è questa la questione – l'abolizione del valore è il contenuto stesso della rivoluzione comunista, non è un obiettivo che essa si proporrebbe, essa non può compiersi che distruggendo il valore. Questa determinazione è contenuta nelle contraddizioni del capitalismo. Accelerando la propria emancipazione dal valore, il capitale intacca le basi della sua comunità poiché l'uomo diventa una merce inutile, esso decompone i rapporti sociali della sua comunità, e il contenuto di questa decomposizione, è la caducità del valore. La classe che appare sporadicamente per sparire altrettanto rapidamente viene costituita dall'impossibile riproduzione del capitale, dalla devalorizzazione; è una classe avente come propria ragion d'essere l'impossibilità dello scambio; la valorizzazione impossibile è la sua essenza, è il capitale stesso che la pone, provocando la sua apparizione, potenzialmente al di là del valore. Ma il capitale che produce la possibilità di un al di là del valore, non può in quanto valore in processo tollerare la sua esistenza, proprio come la classe, in ragione della sua stessa esistenza, non può tollerare l'esistenza del capitale.

In questo scontro, la rivoluzione trova la propria essenza, i mezzi della sua azione. L'abolizione del valore è per questa classe, il proletariato, una necessità perché molto semplicemente è la condizione della sua esistenza fornita dal capitale stesso. Estremizzando, visto e considerato il contenuto della rivoluzione, le condizioni «capitaliste» del suo insorgere, si può dire che l'abolizione del valore diviene una misura «tattica», la classe trova immediatamente nella propria essenza la conditio sine qua non della sua lotta. L'abolizione del valore non è una misura da intraprendere dopo la vittoria della rivoluzione, essa è la condizione stessa di questa vittoria imposta dalla natura del conflitto. Non fosse altro che per perpetuare la sopravvivenza fisica del proletariato nella violenza armata della rivoluzione, lo scambio non può sussistere. Ma non bisogna intendere questa abolizione come il miglior mezzo di condurre lo scontro; è il capitale che colloca la classe rivoluzionaria in tale situazione, la definisce esso stesso come impossibilità della valorizzazione, e nessun altro mezzo è possibile. La violenza rivoluzionaria non conosce alcuna differenza tra l'essenza dello scontro e la forma di questo.

L'abolizione del valore è pertanto il contenuto unico e necessario della rivoluzione, ed è altresì la sua forza giacché il suo nemico, il capitale, utopicamente non ha altro fine. Ed è qui che il movimento della devalorizzazione unisce organicamente rivoluzione controrivoluzione.

Se dagli anni '20 a questa parte il mondo ha conosciuto cinquant'anni di controrivoluzione trionfante, è perché tra il mancato riavvio (dell'accumulazione, NdT) degli anni '20 e '30 e la terrificante ristrutturazione della Seconda Guerra Mondiale, la contraddizione valorizzazione/devalorizzazione è stata mantenuta entro limiti non esplosivi dalla fuga in avanti del capitale, vale a dire attraverso l'intensificazione della sua accumulazione. La controrivoluzione si fondava su questo: ostacolare la devalorizzazione attraverso la devalorizzazione stessa, vale a dire attraverso l'intensificazione della valorizzazione (plusvalore relativo). La controrivoluzione è organizzazione della devalorizzazione. Ma una tale organizzazione della devalorizzazione fondata sulla devalorizzazione stessa incontra il limite radicale nell'esistenza degli umani quali il capitale li ha creati: come merce.

A questo punto, quando risulta che il profitto, in definitiva, si riduce al plusvalore e quest'ultimo al pluslavoro umano, il controllo della devalorizzazione stessa nella sua veste di devalorizzazione intensiva diviene esso stesso impossibile. Con la crisi, la controrivoluzione diviene pura e semplice organizzazione della devalorizzazione. Schematicamente, la valorizzazione è rimandata al futuro – ciò che, nei primi passi della crisi, stanno a significare i piani di rilancio posti in essere qua e là e le le loro varie fasi. Si tratta innanzitutto di frenare ogni sviluppo – salari, crediti, importazioni – per permettere solamente in seguito il rilancio degli investimenti e dell'espansione capitalistica; ma tutti questi piani falliscono, perché ciò di cui ha bisogno il capitale è una devalorizzazione brutale e su larga scala, unico mezzo al fine di ritrovare un tasso di profitto sufficiente. Questi piani sono interessanti per la disgiunzione che introducono tra devalorizzazione e valorizzazione, e se risultano inoperanti, è per la semplice ragione che non spingono radicalmente a fondo questa disgiunzione. Attualmente, dai governi alle comunità hippie, la società produce dei modi di essere, delle manifestazioni, dei progetti, volti all'organizzazione della vita nella devalorizzazione al fine di permettere la valorizzazione futura.

Adesso bisogna mettere in risalto la differenza tra rivoluzione e controrivoluzione. Le due hanno come supporto, natura e possibilità, la devalorizzazione. Ma la contraddizione del capitale è tale, e l'opposizione tra valorizzazione e devalorizzazione che esso sviluppa raggiunge un tale livello di acutezza, da provocare due movimenti contraddittori: devalorizzazione/abolizione; devalorizzazione/valorizzazione. La differenza tra rivoluzione e controrivoluzione risiede nel fatto che per la rivoluzione la devalorizzazione è la base dell'abolizione del valore, mentre per la controrivoluzione altro non è che il momento necessario per una valorizzazione futura.

Per comprendere la natura dei rapporti tra la rivoluzione e la controrivoluzione dobbiamo analizzare le due coppie precedentemente poste : devalorizzazione/abolizione e devalorizzazione/valorizzazione, il che riconduce a precisare la natura della rivoluzione. La rivoluzione sta nel binomio devalorizzazione/abolizione, vale a dire che funziona per necessità di un tutto o niente. Portato dalla devalorizzazione, la rivoluzione deve abolire il valore, dunque non può fissarsi, se non momentaneamente, ad uno stadio della devalorizzazione – ciò che, per inciso, elimina ogni possibilità di controllo da parte della rivoluzione di zone o settori particolari. La controrivoluzione, la cui essenza è la devalorizzazione volta a ristabilire il ciclo d'accumulazione del capitale, può, quanto a essa, seguire passo passo il processo di devalorizzazione e di decomposizione dei rapporti sociali; essa si trova sempre e comunque sul proprio terreno. In questo senso, quindi, la controrivoluzione si organizza in vista di un ulteriore approfondimento delle contraddizioni dove si troverebbe a fronteggiare la rivoluzione. La scomposizione e la rottura della comunità materiale del capitale spinge la controrivoluzione, per il fatto che anch'essa è un portato dalla devalorizzazione, a sfoderare le sue armi sul terreno della possibilità della rivoluzione.

La controrivoluzione precede la rivoluzione fintanto che il comunismo si presenta in negativo, vale a dire come conseguenza immediata della devalorizzazione, e che si manifesta simultaneamente l'impossibilità pratica dell'abolizione del valore. Il movimento della devalorizzazione dunque non è altro che la messa a punto catastrofica, non di una ri-valorizzazione futura, ma della distruzione pura e semplice. Il movimento negativo del comunismo manifesta in alcune regioni (Africa principalmente) o settori (ghetti, bande, giovani disoccupati che non hanno mai lavorato, teppisti) la capitalizzazione impossibile nella quale la devalorizzazione accelerata rimuove la possibilità stessa per la controrivoluzione di organizzare la devalorizzazione, perché nella crisi attuale e nel nuovo ciclo che essa «potrebbe permettere», le zone in questione sono definitivamente escluse da ogni valorizzazione futura. La situazione non lascia altra possibilità che la rivolta la morte. Il comunismo negativo si distingue dalla controrivoluzione in quanto puro prodotto della devalorizzazione, in una situazione che non offre né la possibilità dell'abolizione del valore, né quella di una valorizzazione futura. Ciò che toglie a queste rivolte la prospettiva comunista, è il fatto che l'immenso movimento di distruzione intrapreso dal capitale mondiale si effettua laddove il capitale non esisteva ancora pienamente. Ovvero, più precisamente, laddove il suo modo di esistere è già fatto di esclusione e distruzione. Questi movimenti di annientamento totale in zone poco sviluppate o di rivolte effimere nei capitalismi iper-sviluppati non sono il movimento pratico dell'abolizione del valore, ma mostrano che la legge del valore è un rapporto sociale caduco. E in questo, l'apparizione del comunismo nel suo aspetto negativo ha un significato universale. La sua esistenza mostra che nessun riformismo è praticabile, ma soprattutto che la crisi attuale non può sfociare in una ristrutturazione del capitalismo. «La crisi costituisce sempre il punto di partenza di un grosso investimento nuovo: quindi anche – se si considera la società nel suo complesso – più o meno una nuova base materiale per il successivo ciclo di rotazione». (Marx, Il Capitale, UTET, Torino 2013, p. 1150). Ebbene, l'apparizione del comunismo sotto il suo aspetto negativo svela un essenziale punto debole dell'attuale controrivoluzione, essa abbandona interi settori della sua società e del suo mondo al movimento anarchico della devalorizzazione, e questo perché la controrivoluzione vive unicamente in funzione del binomio devalorizzazione/valorizzazione (futura) e della sua possibilità. Quest'abbandono deriva dunque dall'impossibilità da parte del capitale di effettuare una ristrutturazione produttiva superiore. È importante evidenziare come opera l'accumulazione capitalistica: «In periodi più o meno lunghi si ha quindi riproduzione e precisamente – dal punto di vista della società – riproduzione su scala allargata; in modo estensivo, quando si estende il campo di produzione; in modo intensivo, quando il mezzo di produzione è reso più efficiente». (Marx, op. cit., p. 1136). L'apparizione del comunismo negativo scaturisce dalla cessazione – che non può essere portata a termine – dell'estensione del campo della produzione, ovvero – fondamentalmente – da un tasso di profitto che non consente più tale estensione. Il capitalismo non è entrato oggi in una fase di accumulazione intensiva, ma è al momento della crisi che questa accumulazione diventa evidente. Tutta la ristrutturazione in dominio reale del capitale che si effettua a partire dalla guerra del 1914, attraverso la crisi del '29 e la Seconda Guerra Mondiale, è diretta essenzialmente verso il secondo tipo d'accumulazione, e l'estensione non ha ormai altra forma che l'aggancio o la distruzione delle zone meno sviluppate, e l'insediamento di enclavi. In Russia, l'unica estensione reale si realizza nella scia della Prima Guerra Mondiale e non può farsi che per via rivoluzionaria, mentre l'integrazione dell'area cinese ha la «sfortuna» di diventare possibile solo in piena crisi. Ma la ristrutturazione intensiva alla quale il capitalismo tende dal 1914 è fondamentalmente impossibile, perché significa l'arresto di una qualunque crescita in valore della massa totale della produzione, che aumenterebbe in volume in maniera inversa rispetto al valore nominale di ognuna delle sue frazioni. È ciò che è abbiamo chiamato: combattere la devalorizzazione attraverso la devalorizzazione stessa.

L'impossibilità di questa ristrutturazione, teoricamente chiara, lo è altrettanto storicamente: la Prima Guerra mondiale non è sfociata in una grandiosa ricostruzione, ma in una seconda guerra, e il ripristino delle economie non è stato assicurato che alla fine degli anni '50 per sfociare sette anni più tardi in una nuova crisi; e in questi cinquant'anni, non è passato un anno nel quale il capitale non si sia adoperato alla distruzione in qualche parte del globo.

L'importanza universale dei movimenti fondati sulla devalorizzazione, e incapaci di sfociare in una valorizzazione futura come nell'abolizione del valore, risiede in ciò, che la società del capitale manifesta praticamente la sua impossibilità di ristrutturarsi ad un livello superiore. La distruzione non è, in quegli antagonismi, la condizione della valorizzazione, ma una soppressione definitiva. La controrivoluzione si presenta, negli insuccessi del comunismo negativo, come rigetto e/o distruzione, e in questo senso essa precede la rivoluzione perché quest'ultima non si presenta ancora positivamente. La controrivoluzione si sbarazza di tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua forza laddove è chiamata a concentrarsi, vale a dire sul binomio devalorizzazione/valorizzazione (futura).

Non c'è contraddizione nel dire che il capitale non può ristrutturarsi e fondare la controrivoluzione sul binomio devalorizzazione/valorizzazione (futura). Dire che il capitale non può ristrutturarsi, vuol dire che la crisi non può essere la base di partenza di uno stadio superiore del capitalismo, ma ciò non impedisce al capitalismo di accentuare, attraverso cataclismi sociali sempre più ravvicinati, la sua valorizzazione intensiva. Ovvero di concentrare il suo ciclo mandando in rovina intere porzioni del mondo. Da qui si possono trarre le condizioni che fanno si che la devalorizzazione sfoci nell'abolizione rivoluzionaria del valore. Diversamente dal comunismo negativo fondato esclusivamente sulla devalorizzazione, il comunismo positivo non può emergere che laddove la devalorizzazione è talmente spinta da essere alla base della valorizzazione intensiva nell'attuale sistema d'accumulazione. Ancora una volta ci appare l'intreccio fondamentale di rivoluzione e controrivoluzione. Nella fase attuale, il binomio devalorizzazione/valorizzazione si precisa come devalorizzazione/valorizzazione intensiva, vale a dire che la devalorizzazione è presente nei due termini, quest'ultima non viene combattuta che attraverso sé stessa. L'insorgere positivo del comunismo è dunque legato alla forza delle manifestazioni negative del comunismo, più la distruzione si rivelerà potente più il capitale accentuerà la devalorizzazione (qui in forma di valorizzazione intensiva) nei settori ancora integrati al suo ciclo produttivo. In termini pratici, la violenza della distruzione, del bisogno negativo di comunismo, porta il capitale ad attaccare praticamente la sopravvivenza proletaria nei settori e nelle zone che non ha escluso dal suo ciclo. È soltanto da questa congiunzione che può sorgere il movimento positivo d'abolizione del valore. Quindi il processo della crisi non lega soltanto rivoluzione e controrivoluzione, ma anche le manifestazioni negative del comunismo. Perciò vedere negli esclusi la forza rivoluzionaria era altrettanto falso che per i produttivi. La violenza negativa del comunismo non può esistere senza un attacco del capitale contro i produttivi, senza un'accelerazione della devalorizzazione e in fin dei conti senza trasformare il binomio valorizzazione/devalorizzazione in devalorizzazione/devalorizzazione. Praticamente, si tratta in questo caso di devalorizzazione/abolizione o di devalorizzazione/distruzione totale.

Queste due coppie determinano l'opposizione tra rivoluzione e controrivoluzione nella sua purezza, una purezza alla quale il processo pratico non può attenersi, dacché la controrivoluzione si organizza allora in uno scontro nel quale controlla i due poli: la guerra. Non è assolutamente certo che in queste condizioni la guerra significhi la distruzione totale; quest'ultima è il programma della controrivoluzione solo quando si oppone alla rivoluzione. Il grado di distruzione è proporzionale al grado di purezza della trasformazione del binomio valorizzazione/devalorizzazione in devalorizzazione/devalorizzazione.

Per riassumere, abbiamo a che fare con tre binomi, di cui uno ha un termine vuoto: si tratta della devalorizzazione/... (il comunismo negativo); della valorizzazione/abolizione (la rivoluzione); e della devalorizzazione/devalorizzazione (la controrivoluzione). Il processo teorico di apparizione della rivoluzione è il seguente: lo sviluppo del comunismo negativo tende a trasformare la controrivoluzione in devalorizzazione/devalorizzazione, ed è a questo punto che si manifesta la possibilità di una rottura in cui fa breccia la rivoluzione (devalorizzazione/abolizione). Tutto è attraversato dalla devalorizzazione.

Ma allora l'apparizione positiva del comunismo mina il terreno della controrivoluzione trasformando la devalorizzazione in abolizione del valore.

La controrivoluzione è un fenomeno assai plastico. L'apparizione della rivoluzione significa che la devalorizzazione ha prodotto il superamento non di sé stessa nella valorizzazione e nella persistenza del binomio, ma che la devalorizzazione ha prodotto il superamento del suo contrario, la valorizzazione. Allora, la controrivoluzione nella sua forma dominante non è più l'organizzazione della devalorizzazione, ma la concentrazione politica della forma capitale. La fase di devalorizzazione accelerata è tenuta quindi nell'ottica del capitale dalle lotte rivoluzionarie (da qui l'importanza dell'armamento nucleare tattico per questo fine). La rivoluzione significa che la devalorizzazione sfugge al capitale, che vi è dissociazione nel binomio devalorizzazione/valorizzazione, il capitale non mantiene più la sua coerenza. Se a questo punto la controrivoluzione «segue», è perché la forma valore si concentra politicamente su ciò che la devalorizzazione svuota del suo contenuto reale (salario politico, DSP1, autogestione – che è una forma più politica che economica).

Il fatto che la devalorizzazione attraversi i tre binomi teorici può comportare una estrema complessità del processo pratico. L'unità del processo d'accumulazione del capitale è l'unità delle diversità, degli ineguali livelli di sviluppo tanto geografici che tra sfere produttive, che tra i diversi fattori del capitale. Quest'unità contraddittoria non è che la manifestazione della necessità della devalorizzazione per la valorizzazione; essa permette allo stesso tempo la formazione della rivoluzione e della controrivoluzione. La comprensione della comunità del capitale come comunità fondata su insormontabili antagonismi di classe, così come l'analisi del processo unificato dell'accumulazione del capitale come unità delle diversità, determinano già il rifiuto totale di ogni visione caritatevole di una rivoluzione nella quale l'insieme degli uomini, come un solo proletario, rovescerebbe un modo di produzione divenuto l'ombra di sé stesso. Divenuti obsoleti, i rapporti di produzione non si concentrano più in una controrivoluzione compatta. La rivoluzione non scoppia quando tutto il sistema produttivo si trova sull'orlo dell'abolizione del valore ma, piuttosto, quando ogni nuova estensione del processo cumulativo del capitale – cui determinati settori sono già pervenuti a quell'orlo – è reso in tal modo impossibile.

Da ciò scaturisce una conseguenza capitale: mentre ogni nuova riproduzione allargata dal rapporto sociale è impossibile, gli uomini impegnati in diverse sfere della vita produttiva non si trovano tutti confrontati alla necessaria abolizione del valore. Mentre se si prende il sistema nel suo insieme, nessun'altra soluzione è possibile all'infuori dell'abolizione del valore, questa necessità non corrisponde alla sollecitazione immediata di tutte le sfere d'attività.

Questa complessità del processo di devalorizzazione fornisce già alla controrivoluzione il suo aspetto proteiforme; allorché attualmente la sua forma dominante è la razionalizzazione della devalorizzazione, l'organizzazione della sopravvivenza del capitalismo non potendo condurre effettivamente che alla guerra, essa già contiene in germe la concentrazione politica della forma capitale nella sua tendenza a promuovere i DSP come standard monetario o il salario auto-definitosi “politico”, non essendo più una necessità. La violenza senza obiettivo preciso del bisogno di comunismo può ugualmente contribuire allo schiacciamento della rivoluzione se quest'ultima resta isolata. Infine lo sviluppo ineguale può provocare scontri militari controllati da ambo le parti dalla controrivoluzione. Si deve considerare anche il caso in cui lo scarto che le distruzioni scavano senza sosta tra devalorizzazione/valorizzazione e devalorizzazione/devalorizzazione (utopia-limite del capitale) può far sì che lo scontro rivoluzionario torni a beneficio della controrivoluzione, che la rivoluzione resti isolata, che la violenza del comunismo negativo si rivolga contro di essa. Il comunismo non è che una possibilità. Questa non-ineluttabilità conferisce un ruolo essenziale alla conoscenza precisa degli schieramenti in campo, alla teoria come padronanza del reale.

Prima di procedere all'analisi di come si presenta la controrivoluzione, era necessario definirla come organizzazione della devalorizzazione. Con il dominio reale del capitale sul lavoro appaiono due fenomeni legati:

  • il modo di produzione capitalistico non coesiste più con nessun altro modo di produzione;

  • la valorizzazione del capitale è fondata sul plusvalore relativo, di conseguenza è organicamente legata alla devalorizzazione.

Se i due fenomeni sono strettamente legati, è perché, per fondare la valorizzazione sul plusvalore relativo occorre che nessun settore d'attività sfugga al capitale, altrimenti il valore della forza-lavoro potrebbe in parte essere determinato da settori non capitalistici; affinché il plusvalore relativo divenga il fondamento della valorizzazione, occorre che la produttività del capitale sia efficiente su tutta la società. Fondato sul plusvalore relativo, avendo eliminato ogni altro modo di produzione, ed essendosi unificato esso stesso (capitale finanziario), il capitale ha un solo ostacolo alla sua espansione : l'uomo-forza- lavoro. E' questa centratura della crisi del capitalismo sull'esistenza della forza-lavoro che già esprime la socialdemocrazia tedesca come principale forza controrivoluzionaria nel 1918. La socialdemocrazia tedesca inaugura il nuovo ciclo della controrivoluzione. Da allora in poi, una qualunque controrivoluzione non può esistere che come razionalizzazione, modernizzazione, militarizzazione della forza-lavoro, e non può sfociare che in distruzioni massicce. Dopo la crisi del 1929, i due modi di essere più estremi della controrivoluzione sono rappresentati dal nazismo in Germania e dal New Deal negli USA. Per il nazismo, si trattava di frenare al massimo la fuga di valore attraverso una tendenza all'autarchia, attraverso forme di scambio che escludessero la mediazione monetaria (la compensazione), e infine militarizzando il lavoro, inquadrando la forza-lavoro, si trattava di realizzare in qualche modo delle economie di scala per diminuire il valore della forza-lavoro. Per quanto riguarda il New Deal, dato lo sviluppo del capitale già raggiunto, non poteva più trattarsi di una tendenza all'autarchia; la forza- lavoro si trova fin da subito in eccesso. Essa fu gettata in un mezzo alla strada (cfr. Furore di Steinbeck descrive la soluzione americana dal XIX secolo in poi, cfr. anche La strada. Diari di un vagabondo di Jack London), oppure impiegata in grandi opere di costruzione, come nel caso della Tennessee Valley Autority, attraverso i quali la controrivoluzione pone le basi per la valorizzazione futura; diversamente dal nazismo, venne anche caldeggiato l'incremento del consumo (Keynes), e un tale sistema è allora nella sua essenza stessa un sistema che tende alla guerra come sua soluzione reale. Al pari del nazismo, la sua organizzazione non può trovare il proprio compimento che nella guerra.

Se il Fronte Popolare in Francia non ha la nitidezza formale del New Deal americano o del nazismo tedesco, ciò discende dalla minore acuità della centratura della contraddizione sull'esistenza stessa della forza-lavoro. Questa minore acuità deriva dall'esistenza sociale ancora importante delle classi medie – commercianti e individui la cui sussistenza era ancora legata alla piccola produzione mercantile. La coesistenza della distruzione necessaria di queste classi e della contraddizione a livello della forza-lavoro provoca un vasto assembramento popolare in cui trionfa la democrazia. Questa intersezione può realizzarsi soltanto a livello dello Stato. Le classi medie, i piccoli produttori, sono i cittadini per eccellenza, e tutta la loro esistenza è quella della libera legge del valore, reale fondamento della democrazia. La forza della controrivoluzione risiede in ciò, che essa spinge «gli interessati medesimi» a farsi carico della propria distruzione; per le classi medie questo farsi carico non poteva che essere democratico, considerata la loro natura di classe. Per la classe operaia, il dominio del capitale sul valore non ha ancora radicalmente separato il produttore dal cittadino, e le contraddizioni del primo possono essere illusoriamente risolte dal secondo. La crisi unisce i due processi e produce la controrivoluzione sotto forma di Fronte Popolare. E l'ironia delle strade parigine fa sì che Voltaire e Léon Blum si incrocino2.

Nel 1936, in Francia, il proletariato è stato effettivamente battuto. Il Fronte Popolare non costituisce una risposta di fronte al pericolo di una «sovversione generalizzata» (cfr. Ph. Riviale, J. Barrot, A. Borczuk, La légende de la gauche au pouvoir, La Tête de Feuilles, 1973, p. 26), il Fronte Popolare non ha giocato un «ruolo di freno». Il capitale francese non può distruggere interamente i ceti medi; il fatto che li abbia preservati non è una conseguenza della sua strategia, ma della sua debolezza. Fino alla crisi del 1958, ultima sequela di quella del 1929, il capitale francese non ha potuto sbarazzarsi della France éternelle dei bottegai, e non è un caso se la concentrazione capitalista si accompagna allora ad un regime che tende ad essere un sistema presidenziale caratterizzato dalla predominanza dell'esecutivo. Non si tratta che di dominio del capitale sul valore e della sua cara compagna, la democrazia. La forma democratica del Fronte Popolare fu proprio il tentativo di questi ceti medi di farsi carico della propria distruzione. Nello stesso periodo, in Germania, il nazismo lascia che una parte della piccola borghesia ne consegni un'altra alla distruzione. Non ci fu alcuna rivitalizzazione della piccola produzione mercantile: a partire da un indice dei prezzi a 100 nel 1929, si ha tra 60 e 64 nel 1933 e 55 nel 1935. All'inizio del 1934 si verifica una caduta dei prezzi all'ingrosso dell'ordine del 30% in rapporto al 1930, ma viste le svalutazioni precedenti della sterlina e del dollaro, questi erano ancora superiori dal 20 al 25% rispetto ai prezzi inglesi. Ciò conduce, il 1° ottobre 1936, a una prima svalutazione del franco; la deflazione viene momentaneamente arrestata, ma nel 1937 bisogna rendere il franco variabile, e questo provoca un deprezzamento ancora più elevato. In rapporto a un indice 100 attestato al 1930, l'indice della produzione è 91 nel dicembre 1936, 94 nel marzo 1937 (primi effetti della svalutazione), e di soli 89 in giugno.

La presenza dei ceti medi al potere non ha avuto come conseguenza di preservarli dalla loro distruzione necessaria. Non c'è stato finanziamento della piccola produzione mercantile da parte dei settori altamente concentrati dell'industria francese. Se si fosse trattato di far erogare maggiore plusvalore dai settori concentrati, risulterebbe difficile comprendere le quaranta ore settimanali, allorché in piena recessione erano già una realtà di fatto, se non di diritto. In piena recessione, svalutazione e caduta della produzione, lungi dal rivitalizzarla, colpiscono in pieno la piccola produzione mercantile.

In realtà, in Francia i vecchi ceti medi furono effettivamente estromessi. Ma a causa del ritardo dell'economia, questo movimento iniziato nel 1914 si è concluso solo nel 1958 (non bisogna dimenticare che, a causa della debolezza della sua economia moderna, la Francia rischiò di non far parte della CEE – l'apertura favorì i settori concentrati e completò la distruzione dei settori ritardatari). Essendo un prodotto della crisi, il Fronte Popolare fu incapace di garantire una vera salarizzazione della popolazione; ciò si tradusse nella non-partecipazione dei comunisti al governo, ma non vi fu, per la stessa ragione, alcuna rivitalizzazione dei ceti medi. La funzione della crisi è stata certamente la salarizzazione dell'insieme della società, la distruzione della gruccia del valore da parte del capitale; in realtà non c'è stata che una sola ed unica dinamica – fondamentalmente irrealizzabile – dal 1914 in poi, i cui snodi sono: '14-'29-'39-'58-'68.

Per quanto riguarda l'Europa centrale e la sua capacità a sbarazzarsi delle classi medie senza concedergli un centimetro di potere, è necessario considerare che la guerra del 1914 e l'inflazione che ne seguì avevano quasi completamente spianato il terreno. La ricostruzione di queste economie fu esclusivamente opera di paesi stranieri, e i piani che la Società delle Nazioni fece applicare impedirono, in Austria e in Ungheria, la ricostituzione delle imprese locali. L'articolazione mondiale fu immediatamente effettuata dal capitale finanziario.

Abbiamo visto che con il dominio reale, che sopprime ogni nemico esterno al sistema e che è fondato sul plusvalore relativo, la contraddizione valorizzazione/devalorizzazione non può risolversi che a livello dell'esistenza dell'uomo come forza-lavoro. La forza-lavoro è il centro della contraddizione del sistema capitalista, è l'esistenza umana della contraddizione valorizzazione/devalorizzazione. Se il sistema capitalista abbandona in periodo di crisi la sua gestione alla forza-lavoro, non è per una scelta politica (affinché i lavoratori rimangano tranquilli), ma perché questa gestione è la crisi stessa. Quest'abbandono fonda la novità dell'attuale controrivoluzione, la radicalizzazione della controrivoluzione risulta dall'assenza di valorizzazione futura (cfr. supra). Vale a dire che essa non interviene che laddove la crisi si presenta nella sua purezza direttamente contro l'esistenza della forza- lavoro, e non simultaneamente come una carenza dell'accumulazione chiamata a ritrovare un secondo respiro. Qui la forza-lavoro oppone il suo limite fisico all'accumulazione. L'autogestione, che è questo farsi carico della contraddizione da parte degli interessati stessi, non diviene una necessità che laddove il dominio del capitale sul valore ha separato il cittadino dal produttore, e questo perché il capitale non potrebbe conoscere il cittadino se fosse possibile pensare il capitale senza valore. L'unità produttore- cittadino, vale a dire il produttore che porta immediatamente i suoi problemi a livello politico, al livello dello Stato, è la CGT3. La devalorizzazione erode le basi di una tale unità, che esplode; la devalorizzazione di cui si fa carico il produttore stessa resta, come si dice; «un movimento di base», la politica come cittadinanza non ha più senso, ed è in quanto Stato dei produttori che la comunità materiale del capitale tende a riformarsi. La forza-lavoro si è allora fatta Stato. Rivoluzione e controrivoluzione non hanno per base la comunità materiale del capitale nel suo stato di relativa stabilità, esse non si costituiscono, per definizione, che nella disgregazione della comunità. L'autogestione è una soluzione solo nella crisi, è un sistema capitalistico di guerra, nazionale o rivoluzionario. E' nell'essenza stessa dell'autogestione l'essere un sistema che deve essere attaccato; l'autogestione provoca l'attacco, l'aggressione è la sua ragion d'essere; essa non vive che nel confronto con la sua impossibile negazione: il capitale costante divenuto in qualche modo indipendente dalla forza-lavoro. Questo è l'altro aspetto della radicalizzazione della controrivoluzione.

Nelle zone in cui l'accumulazione di capitale costante rende addirittura impossibile la soluzione autogestionaria – poco importa qui se si tratti di regioni, di settori o di Stati – la controrivoluzione non può che essere la negazione totale di qualsiasi umanità. Se questa tendenza della controrivoluzione è già attualmente all'opera, si manifesta chiaramente solo nella disgregazione della comunità materiale. Questa disgregazione, in assenza di una manifestazione positiva dell'abolizione del valore, si traduce in feroci antagonismi controllati da cima a fondo dalla controrivoluzione, che oppone il capitale autogestito (questa autogestione corrisponde a delle necessità di profitto piuttosto prossime a quelle del nazismo) al capitale «autonomizzato» dove tendenzialmente la sola causa del profitto è il plusprofitto, dunque l'estensione perpetua, necessaria, della sua area di perequazione. È questa necessità a conferire un ruolo di primo piano a un uomo come Kissinger, trovandosi gli Stati Uniti (U.S.A.) nell'obbligo perpetuo di estendere la loro area di perequazione; ma facendolo in periodo di crisi, zone economiche e militari non possono che confondersi. Non c'è alcun tentativo di ristrutturazione di una comunità da parte del capitale «autonomizzato», e sarebbe totalmente erroneo accostare questa tendenza della controrivoluzione al fascismo o al nazismo; tutta l'umanità che il capitale «autonomizzato» controllerebbe viene distrutta o segregata. (Nota: l'ideologia del godimento prodotta in queste zone, e che non riesce – se non difficilmente – ad affermarsi altrove, partecipa interamente alla controrivoluzione); in periodo di crisi, l'ideologia della controrivoluzione non è che l'aspetto soggettivo del pluslavoro, vale a dire del capitale liberato; della distruzione necessaria. Ciononostante, il tempo libero rappresenta simultaneamente il limite del capitale. Questa ideologia, per quanto modernista, cozza senza possibilità di superamento contro i limiti del capitale, e si trasforma nel suo contrario, nell'ideologia della morte. Nel capitalismo moderno, l'ideologia della morte e l'ideologia del godimento, non sono che l'espressione soggettiva della senilità del modo di produzione capitalistico. Nel capitale, il tempo libero è simultaneamente tempo di godimento e tempo di morte; tempo di godimento in quanto è aspetto umano del capitale liberato; tempo di morte perché per il capitale liberazione di capitali e necessità della distruzione, innanzitutto del capitale variabile divenuto inutile, poi di tutti gli aspetti del capitale, sono indissociabili. L'assunzione della contraddizione fondamentale che il capitale rivendica per gli uomini, ovvero il fatto che la contraddizione cerchi di risolversi da sé, è contemporaneamente godimento, perché il capitale gli fornisce questo ruolo centrale e perché questa assunzione è il risultato della liberazione del tempo, ma è anche morte, giacché questo ruolo gli è stato dato in quanto è una merce caduca che deve farsi carico della propria distruzione.

Guerra, velocità, droga, aborto sono allo stesso tempo liberazione, godimento e morte. «Per liberazione di capitale intendiamo il fatto che, perché la produzione continui entro i limiti della sua scala originaria, una parte del valore totale del prodotto, che finora si doveva riconvertire o in capitale costante o in capitale variabile, si rende disponibile o superflua». (Marx, op. cit., p. 1664) – la devalorizzazione è liberazione. Il capitale «autonomizzato», anche quello, non è altro che una soluzione di crisi, un sistema capitalistico di guerra. Lo scopo attuale della controrivoluzione è la distruzione totale – se dovesse affrontare la rivoluzione –, oppure la distruzione al fine di permettere una valorizzazione superiore (l'unico stadio superiore che può raggiungere attualmente è quello in cui, volontariamente, proclamerebbe la sua fine e passerebbe la mano al comunismo – ridicolo), comunque di scavare più a fondo e senza sosta lo scarto tra valorizzazione/devalorizzazione e devalorizzazione/ devalorizzazione (fine utopico del capitale). Il secondo scopo non potendo risultare, egualmente, che da violenti antagonismi, non potendo che rovesciarsi – in assenza in prospettive di soluzione – in distruzione totale.

La complessità della contraddizione valorizzazione/devalorizzazione determina la complessità delle forme della controrivoluzione e la possibile apparizione della rivoluzione. Il carattere proteiforme della controrivoluzione proviene dall'indissociabilità del binomio devalorizzazione/valorizzazione, sebbene la devalorizzazione non sia diffusa nella società con una potenza uniforme, e la coppia funziona sotto forme differenti e necessariamente antagoniste.

La disgregazione della comunità materiale del capitale è rilevabile già dalla fine degli anni '60 innanzitutto negli Stati Uniti, poi in Europa occidentale. In questa disgregazione si manifesta l'opposizione tra valore e capitale. Nelle zone relativamente arretrate questo antagonismo esplode in una crisi aperta e violenta; nel caso del Maggio francese e del Maggio italiano (il comunismo è allora una provocazione), altrove come negli USA, vi è una scomposizione accelerata. Nei paesi del Nord- Europa, il capitale tenta di controllare questa ristrutturazione della comunità (la permissività). Ma la comunità che esplode è impossibile da ristrutturare, perché questa ristrutturazione si vorrebbe comunità del capitale senza essere una comunità che abbia il valore come base. Economicamente, si tratta di capitale fittizio, di credito, della base monetaria astratta; socialmente, si ha l'organizzazione degli uomini in gruppi, la distruzione della famiglia, della coppia, la scomparsa dell'individuo, della formazione scolastica, di tutti i modi di essere fondati sul valore. Il capitale non può accedere a questo modo di essere se non marginalmente, ovvero nei gruppi che il proprio movimento di capitale pone al di fuori del valore. Del movimento comunitario, di tutti i modernismi che vivono della non-esistenza sociale dell'individuo, si potrebbe dire che sono dei movimenti «esclusivamente» capitalistici – se non gli fosse necessario, per accedere al processo di valorizzazione, l'esserne rigettati. In periodo di crisi, vale a dire nel momento in cui il capitale accede al suo limite di dominio sul valore, la ristrutturazione al di là del valore può diventare una forza controrivoluzionaria materiale, nella violenza rivoluzionaria. Per quanto sia l'abolizione del valore ad essere in gioco, la ristrutturazione della comunità che il capitale porta potenzialmente con sé, può presentarsi come una soluzione. Questa forza della controrivoluzione risulterebbe allora dall'attività nella società di vasti gruppi la cui diversità è data dal capitale: neri, omosessuali, operai, bretoni. La forza di questa controrivoluzione, ma anche il simbolo del carattere illusorio della sua soluzione, sta nel fatto che questi gruppi sociali tenderebbero a trascendere la distinzione di classe della valorizzazione, e la società diventerebbe armonica. L'illusione consiste ancora nell'impossibile superamento del valore da parte del capitale, mentre la sua forza consiste nel fatto che questa ristrutturazione può acquisire, in un periodo di crisi, una certa realtà, essendo la valorizzazione momentaneamente sospesa.

La radicalizzazione della contraddizione valorizzazione/devalorizzazione, è la fonte di una radicalizzazione della controrivoluzione. La controrivoluzione prende il controllo alla radice, e la radice della contraddizione valorizzazione/devalorizzazione è l'uomo; questa necessità di farsi carico della controrivoluzione a livello dell'uomo si accompagna alla caducità delle vecchie forme politiche, e determina una diluizione della controrivoluzione nella società. Quest'ultima è ugualmente imposta dalla disgregazione della comunità materiale. Ma la controrivoluzione non può restare allo stato diluito, occorre che affronti la rivoluzione o altre frazioni della controrivoluzione. La rivoluzione non può essere altro che un movimento che si unifica sotto la spinta di identiche esigenze. Di fronte ad altre frazioni della controrivoluzione, una strategia di difesa è necessaria. Che si tratti del primo o del secondo avversario, vi è pertanto la necessità di una centralizzazione.

Stando alla differenza che abbiamo stabilito tra capitale autogestito e capitale «autonomizzato» è facile affermare che il capitale «autonomizzato» distrugge ogni altra forma di controrivoluzione, soprattutto quella che nel proprio seno ricalca il suo avversario. Nelle zone a bassa composizione organica media, l'autogestione non è in contraddizione con la centralizzazione, come ce lo provano gli schemi consiliaristi. In un caso come nell'altro, si rivela un'inadeguatezza di qualsiasi vecchia forma politica, perché è la politica stessa che è chiamata in causa dalla radicalizzazione della controrivoluzione. I sindacati – principalmente la CGT – agiscono in forma politica, quella del produttore-cittadino; la CFDT4, pur restando incollata alla base, ha tutte le pene del mondo a sostenersi in quanto sindacato. La sola forma di deliberazione (politica) che il capitale può produrre è quella tra i suoi gruppi (cfr. supra) e le sue imprese. L'unità del processo di centralizzazione è dato, in un caso come nell'altro, dal suo contenuto: la concentrazione illusoria di un rapporto sociale che la crisi priva di qualsiasi reale necessità. Con l'insorgere della rivoluzione, che si presenta come un movimento unito intorno all'abolizione del valore, non è certo che la controrivoluzione possa unirsi, poiché essa rimane fondata sulla contraddizione devalorizzazione/valorizzazione (futura) e dunque sui diversi stadi della devalorizzazione. Lo scontro rivoluzione/controrivoluzione può accompagnarsi ad uno scontro interno alla controrivoluzione. Lo Stato della controrivoluzione non può essere differente dalle forme precedenti, perché non è l'ingranaggio di una comunità stabile, ma di una comunità che esplode. Questa trasformazione provoca una controrivoluzione insidiosa che consiste nel promuovere la trasformazione degli organi dello Stato, nel gestire dittatorialmente, democraticamente o in maniera autogestita questi organi o queste forze dello Stato, dalla televisione ai commissariati di polizia, passando per il Commissariato del Piano5.

La necessaria trasformazione del potere centrale da parte della controrivoluzione è data dalla conquista dello Stato da parte del capitale. Quest'ultimo, dominando il valore, produce un'inadeguatezza tra il movimento della produzione e il movimento sociale, e il capitale risolve questa opposizione sbarazzandosi della democrazia, sostituendo agli individui le sue proprie categorie; schematicamente, sostituisce al parlamento la pianificazione. Ma la crisi significa che la produzione della vita umana è entrata in contraddizione con la sua forma sociale, da cui la diluizione della controrivoluzione, e al contempo l'inadeguatezza della vecchia forma politica e la sua necessaria trasformazione in quanto concentrazione illusoria di un rapporto sociale svuotato della realtà. Questa trasformazione (diluizione, centralizzazione) è, in sostanza, il ruolo dei gruppuscoli.

Mentre la controrivoluzione, attraverso la contraddizione sulla quale si costituisce, può presentarsi sotto forme diverse, controllando passo passo la devalorizzazione, la rivoluzione, in ragione della coppia contraddittoria che presenta, è incapace di formarsi gradualmente, poiché il suo fine e il suo contenuto non sono la valorizzazione ma l'abolizione del valore. Il proletariato è una rottura, non può nascere che in un momento di rottura; se appare nella società non può che distruggerla o essere distrutto da essa, esso non può conservarsi o riprodursi. Il contenuto stesso della rivoluzione – l'abolizione del valore – vieta al proletariato qualsiasi perpetuazione all'interno della società. Abbiamo precedentemente stabilito le incognite della rottura rivoluzionaria nella non-ineluttabilità del passaggio dalla devalorizzazione/valorizzazione futura alla devalorizzazione/abolizione. Ad ogni modo, nell'apparire come una rottura, il proletariato non è l'incontro o la giuntura di categorie del capitalismo. Prodotto nella disgregazione della comunità materiale, il suo contenuto «capitalistico», che è simultaneamente il suo contenuto rivoluzionario, è l'impossibilità della valorizzazione, e non può dunque essere formato da categorie appartenenti al processo di valorizzazione. Ma se il proletariato è una rottura rispetto al processo di valorizzazione, la radice di questa rottura è la contraddizione valorizzazione/devalorizzazione, e l'impossibile valorizzazione di un valore accresciuto non può che manifestarsi laddove la contraddizione è più potente: settori esclusi o inglobati nel movimento di abolizione, settori sull'orlo dell'automazione, grandi centri industriali.

L'analisi della crisi pone come punto centrale l'esistenza dell'uomo come limite fisico all'accumulazione del capitale. Ci sarebbe molto da dire sul tentativo attuale di trasgredire questo limite, che consiste nel non vedere nella forza-lavoro nient'altro che del capitale circolante e non simultaneamente del capitale variabile. La sua natura di capitale circolante lo accomuna alle materie prime e ausiliarie, di cui l'attuale aumento dei prezzi, che si verifica in periodo di crisi, non può che contrapporre le diverse zone di sviluppo fra loro. Ciononostante, questa confusione-mistificazione ha una base reale: diventando inessenziale rispetto al processo produttivo, la forza-lavoro tende ad abbandonare il suo carattere di capitale variabile per non garantire null'altro che la conservazione del valore del capitale costante; la circolazione del capitale inizia a predominare sulla creazione del valore. Questa non può che essere un'espressione della crisi del ciclo del capitale, ma la confusione acquisisce nondimeno un contenuto reale. È un movimento reale – la caduta del saggio di profitto – che tende a ridurre la forza-lavoro alla sua natura di capitale circolante; malgrado questo movimento non sia che una mistificazione reale della controrivoluzione.

Quindi questo limite che il capitale non può trasgredire, se non in una confusione mistificatrice, ha una base reale, e restituisce la contraddizione centrale del capitale. Questa contraddizione centrale che è il proletario, è la contraddizione immediata di un rapporto sociale, ed è completamente falso isolare una crisi di oggetti economici che determinerebbe l'azione umana. La crisi è immediatamente, nel suo darsi, una contraddizione; è una pratica umana; e non ha bisogno di alcuna mediazione – partito, politica – per essere la formazione del proletariato; che la crisi sia rivoluzione e/o controrivoluzione non dipende dall'esistenza, dalla forza, di una mediazione politica. Porre la necessità di una mediazione politica, rappresenta la controrivoluzione nel senso che quest'ultima necessita di una trasformazione della politica (cfr. supra). Ed è questa necessità controrivoluzionaria a fondare la crisi come crisi di oggetti economici; questa visione è necessariamente vittima del feticismo della merce e vede la crisi, in ultima istanza, nel movimento delle merci e non nella riproduzione del rapporto sociale capitale. La necessaria mediazione politica diviene allora il corollario del fatto di non concepisce gli oggetti come risultato dell'attività umana.

La teoria non è in alcun modo una mediazione tra le condizioni oggettive e la pratica umana. È una presa sul reale, vale a dire che la teoria è un ciclo che implica la sua riappropriazione pratica. La teoria, fissandosi su un programma da applicare, si astrae da questo ciclo (vedi Les classes, in «Intervention Communiste», n. 2, 19736). Se la teoria comunista è immediatamente una presa sul reale, è perché è determinata dall'esistenza di una classe la cui conoscenza è conoscenza dell'insieme della società, non avendo essa alcuno scopo particolare in quanto classe. Il proletariato è la prima classe nella storia che non può avere come obiettivo la propria generalizzazione, ma la propria abolizione; non sviluppa, nella società di cui è l'abolizione, alcun nuovo modo di produzione; non può coesistere con questa società. L'importanza della teoria nella rivoluzione comunista risulta da questa assenza di una base produttiva nella società capitalistica, ed egualmente dal fatto che la rivoluzione non è che una possibilità. Avendo per contenuto l'abolizione del valore, la rivoluzione è la riappropriazione cosciente da parte dell'uomo della sua storia, della sua comunità; in ragione del suo contenuto, della sua essenza, è produzione teorica. Padronanza/pratica della realtà. Il suo contenuto si identifica ai suoi mezzi; e giacché la rivoluzione non è il prodotto di una necessità ineluttabile, essa è produzione teorica, e non può rinunciare a questa produzione. Lo scatenamento della rivoluzione, sopprimendo la possibilità materiale di produrre grandi lavori teorici (in quanto è più interessante fare la rivoluzione che parlarne), nondimeno realizza l'osmosi della teoria e della pratica; la rivoluzione è riappropriazione immediata della teoria perché è produzione teorica. Riassumendo – ed è in questo senso che la teoria-programma è una forma politica – la teoria non è una mediazione, non è il mezzo della rivoluzione, non è ciò che le forze rivoluzionarie avrebbero bisogno di assimilare; la teoria è il contenuto e la produzione stessa della rivoluzione. Abolendo il valore, la rivoluzione è più che mai produzione di teoria. Non vi è riappropriazione della teoria da parte del proletariato; la teoria non è un atto intellettuale, ma una produzione teorica, produzione di una presa cosciente sul reale. La produzione della teoria raggiunge il suo apogeo con l'apparizione del proletariato, ovvero della storia cosciente.

La rivoluzione, abolizione del valore e produzione della storia cosciente, è la risoluzione, il superamento, la negazione, l'archiviazione della storia passata. Il capitalismo è l'ultimo sistema economico fondato sulla legge del valore, ha distrutto i modi di produzione anteriori pur non essendo in grado di liberarsi del loro presupposto fondamentale. Il valore costituisce l'unità di tutti i modi di produzione che precedono il comunismo. In questo senso, sancendo l'abolizione del valore, è l'abolizione di tutta la storia passata dell'umanità che il comunismo sancisce. Il capitale, in quanto valore in processo, conserva tutte le contraddizioni del valore e principalmente quella che risulta dall'uomo come creatore di valore. Avendo fatto dell'uomo la merce valorizzante, il capitalismo è l'ultimo stadio dell'uomo-merce. La sua crisi è l'opposizione tra tutta la creazione dell'uomo dai tempi del comunismo primitivo e la sua esistenza sociale di merce. La forza della contraddizione che può permettere il superamento dell'uomo-merce può così distruggere le basi di tutta l'umanità, perché il capitale conclude il ciclo dell'uomo-merce avendo fatto di questa merce particolare una merce creatrice di valore. Per il capitale, la chiusura di questo ciclo, è la chiusura del ciclo di tutta l'umanità, e in ciò risiedono le mire fantastiche della controrivoluzione verso la distruzione totale. È dunque altresì nella conservazione di tutta la produzione dell'umanità passata che risiede il comunismo; il capitale costituisce lo stadio ultimo in cui l'uomo-merce non può più coesistere con la sua forma sociale, in cui l'alienazione non può più assicurare lo sviluppo di ciò che aliena.

Come sviluppo di tutte le società passate fondate sulla legge del valore, il comunismo realizza l'unione dell'individuo e della comunità, l'uomo diviene un essere generico. Essendo il superamento del valore, il comunismo è senza dubbio il superamento della democrazia delle società di classe, ma è anche la risoluzione della «contraddizione» della democrazia e del comunismo primitivo, dei loro schemi deliberativi ed elettivi. Realizzando l'unione dell'individuo e della comunità, esso sopprime le basi stesse di un qualunque arbitraggio, e a differenza della «democrazia» primitiva, essendo fondato sull'abbondanza, non ha bisogno di ratificare alcuna scelta, alcun rigetto, alcun sistema di difesa. È possibile che nel comunismo primitivo, al pari del valore, la «democrazia» nascesse alla periferia della tribù. La democrazia del comunismo primitivo è fondata sulla penuria, la comunità di cui l'uomo fa parte è una comunità limitata, e necessita di schemi deliberativi. La natura esteriore non è integrata come essere generico dell'uomo, la comunità non è compiuta. Il comunismo è la comunità compiuta e il suo funzionamento è il superamento di qualunque democrazia.

Se insistiamo sul contenuto della rivoluzione, è per mettere in evidenza che il processo della rivoluzione non conosce separazione tra fine e mezzo. Abbiamo già detto che l'abolizione del valore è il contenuto e il mezzo stesso della rivoluzione. Questo contenuto si rivela altresì quando si tratta della sua durata e della sua estensione. 

Il comunismo non sviluppa nessun rapporto di produzione all'interno della società capitalista, non è l'opera di nessuna classe che – come categoria del capitale – potrebbe mantenersi al suo interno e trarvi le forze di un combattimento prolungato. La rivoluzione non può conservarsi sotto il capitale perché è l'espressione umana della dissoluzione di quest'ultimo. La rivoluzione non può essere una «guerra rivoluzionaria», e la sua fase violenta decisiva non può essere che di breve durata, in quanto non ha nessuna base di ripiego nella società. Se la violenza rivoluzionaria si trasforma in un esercito rivoluzionario, si tratta allora di un antagonismo controllato da una parte e dall'altra dalla controrivoluzione. Svolgendosi in un momento di disgregazione della comunità materiale, è completamente idiota voler infiltrare l'esercito o la polizia con degli elementi rivoluzionari o stabilire un piano per la presa della sede dell'ORTF7. La rivoluzione non può che incontrare la forza armata della controrivoluzione, ma i fondamenti di questa forza armata rischiano di essere tutt'altri da quelli attuali, e quest'ultima potrebbe essere la forza-lavoro divenuta Stato in armi. D'altra parte, il capitale non possiede più quelle aree di ripiego che erano le zone periferiche, da cui un capitale in fase ascendente poteva costituire una forza di schiacciamento della rivoluzione. Tutte le zone periferiche vengono escluse, oppure attraversate dall'intensificazione del rapporto di classe al suo più alto livello di contraddizioni. Ad ogni modo, due cose sono fondamentali:

  • la brevità dello scontro rivoluzionario;

  • la dissoluzione della comunità del capitale e dunque la forma delle forze rivoluzionarie e controrivoluzionarie, diverse da quelle attualmente dominanti. Se la rivoluzione mirasse allo scontro a livello del potere centrale, ponendosi sul terreno del suo avversario non potrebbe che essere sconfitta. L'arma principale della rivoluzione è l'abolizione del valore; essa costringe la controrivoluzione a porsi sul proprio terreno; e su questo terreno, essa mina la coerenza della controrivoluzione, che può allora ricorrere alla distruzione totale.

Il problema della «estensione» della rivoluzione è evidentemente legato alla sua durata. Ma per la rivoluzione il problema non si pone in termini di estensione, si pone in termini di contenuto: l'abolizione del valore. Quest'ultima (vedi più in alto) è utopicamente all'opera nel capitale; più quest'ultimo unifica il mondo nella sua accumulazione, l'interdipendenza del capitalismo mondiale è l'arma principale della «estensione» rivoluzionaria. Ciononostante sarebbe stupido pensare che la rivoluzione si inneschi ovunque lo stesso giorno, alla stessa ora. Ma è ugualmente falso vedere un settore del comunismo alla conquista del mondo. La risoluzione del problema si trova nel valore. In primo luogo, qualsiasi movimento rivoluzionario, essendo abolizione del valore, dunque dello scambio, ha una tendenza immanente a non poter rimanere isolato. Così come per fondare lo scambio occorre essere in molti, vale lo stesso per abolirlo. In secondo luogo, l'abolizione del valore non può manifestarsi in una zona definita se non in una situazione dove la necessità dell'abolizione del valore si è universalizzata. Proprio come il valore è divenuto una necessità interna nella comune primitiva a partire dal momento in cui è divenuto una necessità nel rapporto con l'esterno, così la necessità della sua abolizione si fa sentire in un'area, a partire dal grado di sviluppo di quest'area, ma anche perché il valore non assicura più la coesione della comunità estesa a tutto il pianeta. E – terzo punto importante – qualora vi sia una rottura in un punto, il valore nel suo movimento d'abolizione si trova necessariamente accelerato; giacché l'abolizione del valore non è abolizione di oggetti, ma di un rapporto sociale, questo fenomeno costituisce la base della «accelerazione» del movimento comunista.

La pratica della rivoluzione non è mai una scelta tattica, dei mezzi, ma il suo stesso contenuto.


Note
1Diritti Speciali di Prelievo. È la valuta internazionale che funge da unità di conto del Fondo Monetario Internazionale. Originariamente introdotta, nel 1969, per sostituire l'oro nelle transazioni internazionali, il suo valore viene calcolato sulla base di un paniere comprendente le principali valute di riserva internazionali. [NdT]
2Il testo fa qui allusione all'incrocio tra Boulevard Voltaire e Place Léon Blum, nell'XI arrondissement di Parigi. [NdT]
3Confédération Générale du Travail. Sindacato francese fondato nel 1895, tradizionalmente radicato nel comparto metalmeccanico e legato al Partito Comunista staliniano, in maniera in qualche modo analoga alla CGIL in Italia. [NdT]
4Confédération Française Démocratique du Travail. Sindacato francese fondato nel 1964 dalla corrente maggioritaria del sindacato di ispirazione cristiano-sociale CFTC (Confédéderation Française des Travailleurs Chrétiens). Fino alla fine degli anni '70, la CFDT fu portatrice di un sindacalismo conflittuale alternativo a quello della CGT, incentrato sulla proposta dell'autogestione, che riscosse un certo successo fra i tecnici e, in misura molto minore, fra gli operai meno qualificati. In seguito la CFDT si orientò sempre più verso un approccio collaborativo, fino a diventare il principale sostegno alle riforme neo-liberali in ambito sindacale. Dal 2017 è anche il primo sindacato di Francia, avendo sorpassato la CGT alle elezioni professionali. [NdT]
5Commissariat Général du Plan. Organo di pianificazione economica non coercitiva dello Stato francese esistito dal 1946 al 2006. [NdT]
6Disponibile qui in traduzione italiana: http://illatocattivo.blogspot.com/2015/04/le-classi.html. [NdT]
7Office de radiodiffusion-télévision française. Dal 1964 al 1974, fu la sigla del monopolio radio-televisivo dello Stato francese, analogo alla RAI italiana del secondo Dopoguerra. [NdT]

* * * *

 Appendice:

 

A proposito di Rivoluzione e contro-rivoluzione

[ estratto da: François Danel, Prefazione all'antologia Rupture dans la théorie de la révolution. Textes 1965-1975, Senonevero, Marsiglia 2003, pp. 47-49 ]

 […] Alla metà degli anni 1970, tutti i gruppi provenienti dalla defunta ultra-sinistra marxista francese sono in crisi, e così le loro riviste. «Invariance», credendo di aver trovato la via d'uscita in un umanesimo trascendente l'«erranza» dell'umanità, si è sganciata dall'attrazione gravitazionale. «Le Mouvement Communiste», divenuta dubbiosa quanto alle possibilità d'azione rivoluzionaria a breve termine, ha smesso di uscire. I componenti di «Intevention Communiste» e quelli di «Négation» tentano ancora di raggiungere una sintesi tra la difesa delle posizioni rivoluzionarie classiste e il comunismo come realizzazione dell' «uomo totale», e discutono su questa base. Il problema della ristrutturazione non viene ancora posto, e la sua stessa possibilità viene negata. Ma in questo diniego, la sua realtà viene implicitamente riconosciuta, e per il tramite di questo riconoscimento ambiguo del corso della crisi, viene ripresa l'analisi dello sfruttamento che sfocerà nella sua definizione come contraddizione storica fra classi. È ciò che ci apprestiamo a mostrare analizzando l'ultimo testo della nostra antologia, Rivoluzione e controrivoluzione, scritto da un membro di «I.C.».

Questo testo, scritto nel 1974, riprende l'analisi del processo rivoluzionario esposto nel 1973 in Le classi. Fondato sul ciclo delle metamorfosi del valore, il capitale mina la propria base, il valore. Il suo limite, dunque, non è esterno o quantitativo – l'estensione insufficiente del mercato o l'esaurimento delle risorse terrestri – ma interno qualitativo: è l'accumulazione stessa. È in virtù della necessità del proprio movimento cumulativo, che il capitale giunge a presentarsi come il vero creatore del valore e dunque a porsi come eternamente riproducibile. Tutto andrebbe per il meglio se esso potesse affrancarsi dalla legge del valore, ma in realtà non può che distorcerne il funzionamento. Insomma: «Quando, sviluppandosi, il capitale si presenta come la sola fonte del profitto, non fa in realtà che diminuire quello stesso plusvalore in cui, ciclicamente, è costretto ad ammettere riassumersi il profitto.».

Dunque, è perché la valorizzazione è allo stesso tempo devalorizzazione – cfr. Marx e Mattick – che l'abolizione del valore è la necessità storica del capitale. Ma per quanto possa effettivamente andare lontano in questa direzione, il capitale non può fare il passo decisivo che lo porterebbe al di là, poiché «in fin dei conti» non è altro che questa contraddizione in processo. È dunque il proletariato che va a realizzare la sua utopia, ma essendo l'abolizione del valore già inscritta nel corso storico del capitale, essa è contenuto stesso della rivoluzione, non un obiettivo finale. «Accelerando la propria emancipazione dal valore, il capitale intacca le basi della sua comunità poiché l'uomo diventa una merce inutile».

Con una certa confusione tra specie umana e proletariato, la positività o l'esteriorità della classe rivoluzionaria rispetto alla società viene mantenuta. L'impossibilità di un'eterna valorizzazione del capitale non viene concepita come contraddizione fra classi, essa diviene una proprietà del proletariato,

il quale diviene d'un colpo soggetto-oggetto della rivoluzione. A partire da qui, diviene possibile porre l'abolizione del valore come condizione d'esistenza del proletariato, e l'identità fra l'essenza e la forma dello scontro rivoluzionario come abolizione del valore. Ed è questo il terzo momento della dimostrazione: la devalorizzazione unisce in un medesimo movimento rivoluzione e contro-rivoluzione.

Considerando l'insieme del ciclo storico che stava per compiersi, dalla fine della Prima Guerra mondiale al dopo-Maggio '68, si può dire che l'accumulazione si è intensificata, che attraverso il riavvio mancato degli anni '20 e '30 e la spaventosa ristrutturazione della Seconda Guerra mondiale, la contraddizione valorizzazione/devalorizzazione è stata mantenuta entro limiti non esplosivi. (Questo nell'area sviluppata del capitale, e innanzitutto ad Ovest; nel Terzo Mondo, il rapporto capitalistico ha assunta la forma dell' «agganciamento-distruzione» di vaste regioni, implicando numerose e violente esplosioni sociali). Ma questa valorizzazione incontra il suo limite nell'esistenza degli uomini-merce, dei proletari. Ed è il ritorno della crisi: il profitto riappare come plusvalore, e il plusvalore come pluslavoro, la cui crescita ha per l'appunto soppresso una parte cospicua del lavoro necessario.

Quindi, se si considera il compimento del ciclo, non si ha più una devalorizzazione controllata, ma la mera organizzazione della devalorizzazione, dai governi alle comunità hippie. Ovvero la devalorizzazione è rimandata a più tardi. Ora, la rivoluzione pone la devalorizzazione come abolizione del valore. Funzionando ad aut-aut, essa esclude qualsiasi controllo parziale e provvisorio di zone o settori «liberati». Nelle zone o settori esclusi dalla valorizzazione intensiva – dalle bidonvilles del Terzo Mondo ai ghetti americani e nord-irlandesi – la controrivoluzione non può nemmeno organizzare la devalorizzazione, essa lascia semplicemente che si compia. Il solo esito, per i proletari, è la rivolta la morte. Ma il significato universale di questa peculiare impossibilità del riformismo viene trattata come l'impossibilità di una ristrutturazione del capitale nella sua crisi incipiente.

Lasceremo qui da parte le sottigliezze della costruzione teorica (i tre binomi della devalorizzazione), come pure i dettagli della pertinente analisi storica (la controrivoluzione dal 1918 al post-1968), per isolare i due punti di rottura del testo. Da un lato, qualsiasi ristrutturazione viene formalmente esclusa, ma la possibilità di una ristrutturazione è comunque inclusa nell'affermazione secondo cui la devalorizzazione unisce rivoluzione e controrivoluzione. Se la devalorizzazione può essere combattuta tramite sé stessa, e se la crisi è immediatamente pratica «umana», allora nessuna crisi, considerata dal punto di vista strettamente economico della classe capitalista, può essere definita «finale». D'altra parte, se la crisi del vecchio regime di sfruttamento «fordista» non ha svuotato il rapporto capitalistico della sua necessità, come tutti i comunisti potevano credere all'epoca, essa ha distrutto le basi dell'affermazione gestionaria del proletariato – ciò che in effetti ha reso inutile qualsiasi mediazione politica, e ha cambiato la funzione della teoria.

Il doppio movimento della controrivoluzione dopo il 1968 – diluizione soggettiva nella società come ideologia del godimento e concentrazione oggettiva nel movimento gauchiste e nella sinistra sindacale come riformismo «radicale» – liquida il vecchio movimento operaio rivoluzionario e il suo programma di liberazione del lavoro. In questo doppio movimento, la teoria comunista inizia a criticare il programma e, con ciò stesso, a reintegrare nella propria costruzione l'altro attore del rapporto capitalistico, ovvero la classe capitalista. È il corso nuovo delle lotte che permette di porre l'abolizione del valore come abolizione di tutte le classi – proletariato incluso – e come superamento di qualsiasi funzionamento democratico. Allo stesso tempo, la teoria cessa di confondersi con un programma da difendere e da realizzare, ciò che permette di affermare che lo scoppio della rivoluzione, sopprimendo la possibilità dei grandi saggi teorici, realizzerà comunque l'osmosi della teoria e della pratica, perché la teoria non è una mediazione, ma il contenuto e la produzione stessa della rivoluzione.

La conclusione di Rivoluzione e controrivoluzione è che nella comunizzazione non vi è alcuna separazione tra il mezzo e il fine. Essendo la rivoluzione abolizione del valore, la sua fase violenta e decisiva non può che essere di breve durata, e rapida la sua estensione mondiale. In quanto abolizione del valore, essa implica l'intervento di popoli appartenenti a diversi gradi di sviluppo capitalistico. Di più, essa non può manifestarsi in una zona determinata senza che il problema si ponga a livello globale. Infine, se vi è rottura in un punto, essa si trova accelerata dal fatto che si non si tratta di abolire una somma di oggetti, ma la totalità di un rapporto sociale. […]

Add comment

Submit