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La Grecia è stata il prologo
George Souvlis intervista Elias Ioakimoglou
Ormai la storia della capitolazione di Syriza alle istituzioni creditrici europea è ben nota.
Syriza è salita al potere nel gennaio del 2015 con il mandato di opporsi all’imposizione dell’austerità. Syriza, invece, si è piegata alla pressione della troika, accettando misure accentuate di austerità e facendo svanire le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista con George Souvlis l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a devastare la Grecia un intero anno dopo. Secondo i suoi dati la depressione greca è oggi più profonda e più grave della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
* * *
Il governo di Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è dimostrato totalmente incapace di invertire l’austerità; al contrario, le politiche neoliberiste sono proseguite e persino intensificate. Il primo ministro Alexis Tsipras aveva ragione quando ha affermato che non c’era alternativa a una continua austerità in Grecia?
Non spettava a Tsipras decidere se c’era o non c’era un’alternativa.
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Contro la Costituzione, quella di ieri, di oggi e di domani
di Sebastiano Isaia
Tutti questi argomenti, che ci si vuol
proporre come questioni della massima
importanza per la classe lavoratrice, in
realtà presentano un interesse di portata
essenziale solo per i borghesi (F. Engels).
Leggo da qualche parte:
«La posta in gioco è decisiva. Non ci troviamo di fronte ad un passaggio qualsiasi della politica italiana, ma di fronte al tornante storico che definirà il nostro modello di sviluppo di qui ai prossimi decenni [nientedimeno!]. È una partita, quella del referendum, in cui la sinistra di classe gioca oggettivamente un ruolo subalterno e minoritario. Si tratta di mobilitare decine di milioni di voti, un campo dunque fuori dalla portata degli attuali movimenti di classe. Nonostante ciò, il contributo che da questi potrà venire favorirà quel processo che potrebbe aprirsi con l’eventuale vittoria dei NO. Non giocarsi nemmeno la partita, al contrario, regalerà quei NO alla rappresentanza politica della destra reazionaria o populista. La più classica delle eterogenesi dei fini».
Quando la mosca cocchiera parla di «eterogenesi dei fini» non si può che sghignazzare e lasciarla al suo gioco virtuale preferito: “fare la storia” – o quantomeno provarci.
Qui di seguito svolgerò alcuni ragionamenti, per dirla con il filosofo di Nusco, con l’obiettivo di convincere anche un solo lettore (meglio se non già convinto “di suo”) circa la natura ultrareazionaria della contesa referendaria sulla riforma – o «controriforma» – della Costituzione.
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Lo stato spende prima, poi incassa. Logica, fatti, finzioni*
di Sergio Cesaratto
Introduzione
La logica keynesiana (o kaleckiana) conduce gli economisti post-keynesiani a presumere che una variazione delle entrate dello Stato provenienti dalla tassazione o dalla vendita di buoni del Tesoro siano il risultato di una variazione della spesa pubblica, e non il contrario – date le altre componenti autonome che costituiscono la domanda aggregata (AD) e dati i parametri che regolano il moltipli catore del reddito (oppure, in un’analisi di lungo periodo, del super-moltiplicatore)1. La logica di questa proposizione è la medesima applicata dagli economisti post-keynesiani alla teoria degli investimenti: la creazione di moneta endogena finanzia l'investimento (finanziamento iniziale), mentre il risparmio compare solo alla conclusione del processo del (super)moltiplicatore del reddito e costituisce un fondo per il cosiddetto finanziamento finale (o “funding”) (Cesaratto 2016). Mentre la sequenza keynesiana moneta endogena→investimento→risparmio è generalmente accettata, almeno nei suoi termini generali, la proposizione che "lo Stato spende prima" invece non lo è. Come è noto, negli ultimi due decenni gli esponenti della Teoria della Moneta Moderna (MMT) sono stati in prima linea nel sostenere la logica keynesiana (o kaleckiana) di questa proposizione, riempiendo un vuoto teorico del pensiero post-keynesiano stesso. Considerando l’importanza della proposizione, si tratta di una lacuna davvero sorprendente. La preposizione è stata forse data per scontata, ma non dovrebbe esserlo.
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Grandi disastri, pace e corruzione. Spinelli e Hayek €nunciano la via
di Quarantotto
1. Com'è ormai tradizione del blog, riteniamo molto utile fissare alcune informazioni che dovrebbero essere incorporate nella comprensione consapevole del momento storico, e del ciclo economico che stiamo vivendo, per come emergono dai commenti e in raccordo a precedenti post.
Questa volta, come in molte alter occasioni, diamo il dovuto risalto a vari interventi di Arturo (che sempre ringraziamo...).
Il primo riguarda la reale visione di Spinelli sulla costruzione €uropea, ritraibile da un discorso (del 1985) che, nell'attualità, - e quando le dinamiche che erano auspicate esplicitamente (e implicitamente ma necessariamente) nel "Manifesto" si sono consolidate in modo coerente -, costituisce una sorta di interpretazione autentica dell'ideologia e della prassi politica concepita a Ventotene.
Un tale carattere ne consiglia la lettura integrale e con attenzione, specie per quei lettori che dispongono del quadro critico che emerge dal complesso del blog.
Arturo seleziona e commenta per noi dei passaggi altamente "eloquenti":
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La Scacchiera Spezzata
Brzezinski rinuncia all’Impero Americano
di Mike Whitney
Counterpunch commenta un recente articolo di Zbigniew Brzezinski, noto politologo e geostratega americano, consigliere sotto diverse amministrazioni, famoso per aver teorizzato nel 1997 la strategia (successivamente adottata) per consolidare la supremazia “imperiale” degli USA nella prima metà del XXI secolo – strategia di cui la Clinton è una delle principali promotrici. In questo articolo, Brzezinski fa un’inversione a U: gli USA non sono più una superpotenza, sostiene, si sta formando una vasta coalizione anti-americana e perseguire il progetto originale nelle mutate condizioni potrebbe portare caos e guerra in tutto il globo. Meglio collaborare con Russia e Cina e cercare di preservare la leadership americana. Una svolta letteralmente storica nell’indirizzo geostrategico di una parte dell’establishment americano, che prospetticamente lascia Hillary Clinton sola ad inseguire un progetto imperiale sconfessato dal suo stesso ideatore
L’architetto principale del piano di Washington per governare il mondo ha abbandonato il progetto e ha richiesto la creazione di legami con la Russia e la Cina. Anche se l’articolo di Zbigniew Brzezinski su The American Interest dal titolo “Towards a Global Realignment” [“Verso un riallineamento globale”, ndT] è stato ampiamente ignorato dai media, esso dimostra che membri potenti dell’establishment decisionale non credono più che Washington prevarrà nel suo tentativo di estendere l’egemonia degli Stati Uniti in tutto il Medio Oriente e in Asia. Brzezinski, che è stato il principale fautore di questa idea e che ha redatto il progetto per l’espansione imperiale nel suo libro del 1997 “La Grande Scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici“, ha fatto dietro-front e ha richiesto una incredibile revisione strategica. Ecco un estratto dal l’articolo del AI:
“Mentre finisce la loro epoca di dominio globale, gli Stati Uniti devono prendere l’iniziativa per riallineare l’architettura del potere globale.
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La stangata
Tutti contro tutti, tutti contro la Siria e il più pulito ha la rogna
di Fulvio Grimaldi
Prevenzione anti-terremoto no, Tav sì
Scrivo da un’Italia che, dopo aver esaurito le sue lacrime e i calcinacci da spostare, farebbe bene a urlare in faccia ai nostri mafioreggenti, tanto da travolgerli, le loro colpe per ogni singola tragedia che ci colpisce, dal terrorismo, alla mancata prevenzione, alle Grandi Opere, alle grandi guerre. Tragedie sulle quali poi reclamano e sciaguratamente ottengono – vecchio trucco di tutti i farabutti - la “grande unità nazionale”. Un miliardo in 10 anni per la ricostruzione dell’Aquila, 44 milioni per il 2016, briciole scandalose per non sforare a Bruxelles. Invece arriviamo ai 50 miliardi per le Grandi Opere, tutte devastanti, tutte inutili, tutte mafiose: Tav Torino Lione, Tav Terzo Valico, altri TAV, trivelle dappertutto in terre e mare, Olimpiadi, Orte-Mestre, Ponte sullo Stretto, per citarne solo alcune, Grandi Opere di uno Stato killer. Con 10 miliardi all’anno si metterebbe in sicurezza un paese in cui per il 70% si è costruito senza criteri antisismici. Basterebbe rimettere l’IMU a chi può.
Si ristabilirebbero l’organico e i bisogni finanziari dei Vigili del Fuoco, si potenzierebbe un Corpo Forestale ora sequestrato dai carabinieri. Intanto Nicoletta Dosio, tanto per citarne una, quasi 70 anni, da un quarto di secolo combattente nonviolenta anti-Tav e punto di riferimento di una resistenza nazionale che va oltre la Valsusa, protagonista con Alberto Perino del mio docufilm “Fronte Italia-Partigiani del 2000”, rischia il carcere perché non accetta il diktat di una magistratura alla Torquemada che le impone i domiciliari e l’obbligo di firma.
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La crisi è diventata un modo di governo
Intervista a Christian Laval e Pierre Dardot
Ci troviamo con le spalle al muro. Non ci resta che una cosa: sognare, inventare, ritrovare il gusto dell’agire comune
Siamo in stato di emergenza. Non nel senso in cui lo intendono François Hollande o Charles Michel. No, per Christian Laval e Pierre Dardot, autori di Ce cauchemar qui n’en finit pas, Comment le néolibéralisme défait la démocratie (La Découverte, 2016), “viviamo un’accelerazione decisiva dei processi economici e sicuritari che trasformano in profondità le nostre società e i rapporti politici tra governanti e governati”. “Siamo prossimi ad un’uscita definitiva dalla democrazia a vantaggio di una governance espertocratica sottratta a ogni controllo”, affermano il sociologo e il filosofo. Nemmeno le crisi non sono state in grado di segnare una rottura capace di obbligare a una svolta. Al contrario “la crisi stessa è diventata un vero e proprio modo di governo delle società”.
Ma non tutte le speranze sono finite.
Secondo gli autori di Commun (La Découverte, 2014), il risveglio dell’attività politica democratica “dal basso” tra i cittadini è il segno che lo scontro politico con il sistema neoliberale è già cominciato. [1]
* * *
Voi scrivete che viviamo un’accelerazione dell’uscita dalla democrazia. Chi spinge oggi sull’acceleratore?
In primo luogo le forze politiche di destra dappertutto in Europa e nel mondo. In questo momento lo si vede in Francia e in Brasile.
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Dalla tragedia terzomondista al pateracchio rossobruno
Le molte facce della "teoria" leniniana dell'imperialismo
Dino Erba
I novant'anni di Fidel Castro hanno dato adito a esaltazioni alquanto fantasiose riguardo alla rivoluzione cubana. Quasi si volessero lanciare rossi lampi in un cielo assai cupo. Certo, Fidel si presenta con un volto assai più simpatico di altri cascami del socialismo reale (il coreano Kim Jong-un!). Ma la forma non cambia la sostanza. A Cuba come in Corea, la sostanza è il nazional-comunismo. Tuttavia la rivoluzione cubana presenta aspetti del tutto particolari che non devono essere assolutamente banalizzati, altrimenti non se ne capirebbe il prestigio, tutt’ora vivo.
Una riflessione su Cuba ci consente di sgombrare il campo da imbarazzanti eredità che viziano la possibilità di immaginare una prospettiva diversa da quella che ci propina l’ideologia dominante, di sinistra e di destra1.
Cuba: libertà e socialismo
La rivoluzione cubana (con l’Algeria e il Vietnam) fu l’esempio più alto delle lotte di liberazione nazionale (la decolonizzazione) che scoppiarono alla fine degli anni Cinquanta. In quel periodo, la «guerra fredda» andava attenuandosi mentre l’Unione Sovietica, col «disgelo» (destalinizzazione), guadagnava simpatie a livello internazionale. Contemporaneamente, per gli Stati Uniti veniva meno la spinta propulsiva democratica che aveva accompagnato (e nobilitato) il suo preminente ruolo nella Seconda guerra mondiale.
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Ecco chi finanzia Hillary Clinton
di Redazione
Senza ombra di dubbio Donald Trump, dal punto di vista dei personaggi della comunicazione politica, rappresenta un’originale interpretazione americana di una, diremo nel nostro linguaggio, sintesi tra Bossi e Berlusconi. Ovvero un incrocio, immancabilmente di destra, tra “quello che non le manda a dire”, per attirare l’elettorato frustrato e travolto dalle ristrutturazioni dell’economia, e l’imprenditore che spende la propria fama per alimentare la mitologia dei grandi creatori di ricchezza.
L’originalità, dal punto di vista italiano sta nell’incarnarli entrambi (Berlusconi invece faceva la parte del moderato) radicalizzando gli archetipi contenuti nelle figure che interpreta. Trump interpreta il ruolo dell’uomo libero da vincoli che dice “le cose come stanno” e, allo stesso tempo, quello di colui che ha accumulato ricchezze favolose con un tocco che può contagiare anche l’istituzione della presidenza americana. Per il resto, possiamo dire, dopo un ventennio di Bossi-Berlusconi, che quanto visto in Usa appare straordinariamente familiare: un establishment ripetitivo (il partito democratico) o bollito (il partito repubblicano), qualcuno che si propone come nuovo che avanza facendosi forza sulle frustrazioni di una parte importante dell’elettorato. Magari irridendo e delegittimando linguaggi, simboli, idee della politica che lo hanno preceduto.
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Napoli. Lavori in corso
di Iain Chambers
La difficoltà che si nota quando ci si ritrova a parlare dei problemi di Napoli dovrebbe, a mio avviso, spingere ad una riflessione radicale. Dopotutto abbiamo sentito lo stesso ritornello da decenni, se non secoli, da napoletani e forestieri. Forse le questioni sono troppo scivolose e complesse da afferrare, o forse il linguaggio impiegato non è all’altezza della situazione, ma arriviamo sempre agli stessi verdetti: la città è sporca e disorganizzata, la gente è maleducata e incivile, il declino della città appare incontrollabile, Napoli è sempre in bilico tra la perdita delle sue glorie antiche o non è ancora abbastanza moderna. Si sa che nessun linguaggio, abbandonati gli idealismi positivistici e linguistici, può essere in grado di rendere la città completamente decifrabile, trasparente, nei nostri ragionamenti. In questa chiave provocatoria, la città resta sempre una sfida. Magari, però, spostando il lessico e la sintassi che siamo abituati a impiegare, diventa possibile ascoltare e far parlare la città in un registro diverso. E allora potremmo forse riuscire a liberare il discorso sulle cosiddette malattie di Napoli dalla luce pallida di vecchie diagnosi, e riciclare le carte ingiallite che trascrivono sempre la stessa canzone. Se, come sembra, la città è in declino ormai da secoli, e vive quotidianamente sull’orlo dell’abisso, forse dobbiamo cercare di trasformare l’energia di questa caducità in un altro spazio critico e culturale. Le rovine, come insegnava il più grande maestro della caducità europea Walter Benjamin, sono sempre fonti di energia rinnovabile, luoghi di storie che nelle loro resistenze disseminano delle interrogazioni che possono aprire altre porte verso altri orizzonti.
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Provocare la guerra nucleare tramite i media
di John Pilger
L’assoluzione di un uomo accusato del peggiore dei crimini, il genocidio, non ha fatto notizia. Né la BBC né la CNN se ne sono occupate. Il Guardian si è permesso un breve articolo. Un’ammissione ufficiale così rara è finita sepolta o soppressa, comprensibilmente. Spiegherebbe troppo riguardo a come i reggitori del mondo lo governano.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) de L’Aia ha sollevato in silenzio l’ex presidente serbo, Slobodan Milosevic, dalle accuse di crimini di guerra commesse durante la guerra bosniaca del 1992-95, compreso il massacro di Srebrenica.
Lungi dall’aver cospirato con il condannato leader serbo-bosniaco Radovan Karazdic, in realtà Milosevic “condannò la pulizia etnica”, si oppose a Karazdic e cercò di fermare la guerra che ha smembrato la Jugoslavia. Sepolta verso la fine di una sentenza di 2.590 pagine lo scorso febbraio, questa verità demolisce ulteriormente la propaganda che giustificò l’offensiva illegale della NATO in Serbia nel 1999. Milosevic è morto d’infarto nel 2006, solo nella sua cella de L’Aia, nel corso di quello che è stato un processo fasullo da parte di un “tribunale internazionale” inventato dagli Stati Uniti. Negatogli un intervento al cuore che avrebbe potuto salvargli la vita, le sue condizioni sono peggiorate e sono state controllate e mantenute segrete da dirigenti statunitensi, come da allora ha rivelato WikiLeaks.
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La critica marxista della scienza capitalistica: una storia in tre movimenti?
di Gary Werskey
per Bob Young
Introduzione
Il mio obiettivo, con questo scritto, è comprendere, come partecipante e come osservatore, la storia e le prospettive della critica marxista della scienza capitalistica.
Tale prospettiva – e le politiche da essa sostenute – hanno vissuto una breve fioritura, in particolare in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti, negli anni Trenta e Quaranta, per poi essere riprese e trasformate solo negli anni Sessanta e Settanta. In entrambi i casi, i critici socialisti hanno attinto dalla propria esperienza personale, professionale e politica – influenzati dal marxismo della loro epoca – dando vita a nuovi e stimolanti resoconti circa la storia, la filosofia e le politiche della scienza. Tuttavia, nessuna corrente marxista ha condizionato, in modo significativo, la tendenza dominante nello sviluppo degli studi su scienza e tecnologia (STS) nella second meta del XX secolo. Ancora più importante per queste attività, i movimenti politici sui quali poggiavano sono interamente, e rispettivamente, crollati negli anni Cinquanta e ottanta.
Ciò nonostante, come un fantasma infernale nella macchina degli STS, l’influenza di tali critici marxisti ha aleggiato nell’ombra, nelle memorie e nelle liste di lettura. Al culmine della Guerra fredda, Marx rappresentava una sorta di spirito non annunciato, che ossessionava i resoconti dell’epoca sulla rivoluzione scientifica del XVII secolo. Né certi sopravvissuti marxisteggianti – in particolare J.D. Bernal e Joseph Needham – avevano chiuso bottega del tutto.
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Come la scuola rafforza le diseguaglianze
di Marco Magni
Il rimosso della diseguaglianza
I libri dedicati alla scuola ne ignorano quasi sempre il carattere sociale. I tratti dominanti del discorso sono costituiti, da un lato dall’idealizzazione del merito, dell’efficienza, della razionale allocazione della spesa, della libertà di scelta tra pubblico e privato o, per converso, dalla istanza della difesa della natura “pubblica” e democratica della scuola, dalla valorizzazione della passione per l’insegnamento e della sua (platonica) dimensione erotica. La diseguaglianza sociale rimane normalmente, perlomeno nella letteratura più diffusa e di successo, una glossa o una nota a margine. Una rimozione che riguarda trasversalmente destra e sinistra, anche se cifre molto vistose ci dicono che stiamo vivendo, nel campo dell’istruzione, un’epoca di crescita delle differenze sociali: i neoiscritti all’università provenienti dai tecnici e i professionali sono diminuiti, negli ultimi 10 anni, dal 40% al 26.4%.
Quando viene messa al centro del discorso, si fa della diseguaglianza nel campo dell’educazione un uso strumentale: molte pubblicazioni caratterizzate da un’impostazione economica ed economicistica considerano le evidenze della differenza di risultati scolastici degli studenti appartenenti alle diverse classi sociali come la prova della natura inefficiente e parassitaria dell’educazione pubblica, e la dimostrazione della necessità di riforme “meritocratiche” – come la “Buona scuola”, oramai in fase di implementazione avanzata – che modifichino in senso privatistico e manageriale i caratteri del sistema educativo.
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USA-Italia-Etiopia, Yemen, Eritrea
I criminali, le vittime, il target e rispettivi corifei
di Fulvio Grimaldi
E a Ventotene tre frodatori, eredi di tre frodatori, con i loro corifei
Medaglia d’argento della maratona, medaglia d’oro dell’eroismo
Il drammatico, coraggioso, nobilissimo gesto della medaglia d’argento etiopica della maratona di Rio ha squarciato non solo l’ipocrita e cinica immagine dello sport affratellante e pacificante, in effetti mercato mafioso e strumento di guerra fredda (vedi la montatura del doping russo). Ha squarciato il velo dietro al quale l’Occidente e l’Italia in prima persona nascondono, a vantaggio di rapine e profitti, l’orrenda dittatura e i sistematici genocidi compiuti dal regime di Addis Abeba nei confronti dei vari popoli del Corno d’Africa. Tra i quali i somali e, sottoposti ad aggressioni latenti o attive da oltre sessant’anni, gli eritrei.
L’eroico Feyisa Lilesa, con i polsi levati alti e stretti nel gesto delle manette all’arrivo della maratona, nello sbatterli sul muso dei mercanti e boccaloni olimpici e sulla coscienza del mondo e, a seguire, con le interviste e denunce, ha determinato anche il suo destino: schiacciato nella scelta tra ritorno in patria per raggiungere in carcere i suoi famigliari Oromo o, più probabile, essere ucciso, e l’esilio perenne, quanto meno fino alla caduta del terrorismo di Stato che gestisce l’Etiopia ininterrottamente dai tempi di Haile Selassiè, l’amerikano, Mengistu, il sovietico-cubano, Meles Zenawi e, ora, Haile Mariam Desalegn, di nuovo amerikani.
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“Il neoliberismo è un progetto politico”
B. S. Risager intervista David Harvey
Un’intervista al grande geografo David Harvey sul mensile Jacobin : https://www.jacobinmag.com/2016/07/david-harvey-neoliberalism-capitalism-labor-crisis-resistance/ - Traduzione a cura di Panofsky (https://www.facebook.com/Panofsky-260479200991238/?fref=ts)
Proponiamo un’interessante intervista al geografo e sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe ricordarsi.
* * *
Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi uno dei libri più citati sull’argomento.
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Ventotene's vaudeville, la penosa agonia dell'€uropa spiaggiata
di Quarantotto
1. La costruzione €uropea, - contrariamente a quanto ritengono gli z€loti che vivono di luoghi comuni, facitori e vittime della propaganda neo-ordo-liberista -, è stata guidata dalla volontà USA di governare l'intero Occidente (qui p.2 e qui, per la traduzione della fonte ufficiale), assicurandosi, per la sua parte più importante (cioè il "vecchio" continente), due certezze considerate imprescindibili:
a) ancorare il continente "madre" (o "padre") all'economia di mercato, in contrapposizione a ogni cedimento "socialista" al bolscevismo sovietico, e trascinarlo in tutte le successive evoluzioni economico-ideologiche del "mercatismo", preparatorie e posteriori alla "caduta del muro" (in particolare il Washington Consensus);
b) agevolare il conseguente perseguimento delle strategie geo-politiche ritenute opportune dagli USA stessi - o meglio dal suo establishment sentitosi trionfatore della guerra fredda e emblema della "fine della Storia"-, in quanto naturali leaders di questo blocco omogeneo di paesi trasformati in sinergici ausiliari "liberal-liberisti": l'agevolazione consentita dall'€uropa è quella di avere un interlocutore unico allorquando occorra garantire un coordinamento politico, ossequioso della linea stabilita al centro dell'Impero, verso le aree diverse da questo blocco (come insegna la vicenda dell'Ucraina e, in misura più incerta, quella dei Balcani, della Libia e del Medioriente...).
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Impresa, desiderio, ricchezza
L'anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia
Franco Berardi Bifo
Nella sua accezione rinascimentale e umanistica, con la parola impresa si intende l’attività che si organizza per dare al mondo la sua forma umana. L’impresa dell’artista rinascimentale è il segno e la condizione dell’indipendenza della sfera umana dal fato e dalla volontà divina. Nel pensiero di Machiavelli l’intrapresa è tutt’uno con la politica, che si emancipa dalla fortuna e pone in essere la repubblica, spazio nel quale le volontà umane costruiscono e confrontano la loro astuzia, la loro capacità di creazione.
Nella sua accezione capitalistica la parola impresa acquista nuove coloriture, pur non perdendo il senso di azione libera e costruttiva. E le nuove coloriture stanno tutte nella opposizione tra impresa e lavoro. L’impresa è invenzione e azione libera. Il lavoro è ripetizione e azione esecutiva. L’impresa è investimento di capitale che produce nuovo capitale, grazie alla valorizzazione che il lavoro rende possibile. Il lavoro è prestazione salariata, che valorizza il capitale ma svalorizza il lavoratore. Cosa resta oggi dell’opposizione tra lavoratori e impresa, e come si sta modificando la nozione di impresa, la sua percezione nell’immaginario sociale?
Impresa e lavoro sono sempre meno opposte nella percezione sociale, e nella coscienza stessa dei lavoratori cognitivi, cioè nella coscienza di quell’area che esprime il più alto livello di produttività e la più alta capacità di valorizzazione e che incarna la tendenza generale del processo lavorativo sociale.
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L’Antropocene: aumenteranno i crimini contro l’umanità?
di Salvatore Palidda
L’attenzione e talvolta la passione per lo studio dei diversi aspetti dei cambiamenti nel campo delle conoscenze sul pianeta Terra sono sempre state circoscritte alle cerchie degli archeologi, biologi, geologi, alcuni antropologi, mentre non hanno mai suscitato interesse fra le scienze politiche e sociali. Si sa, sin da Platone e Aristotele sino ai vari filosofi politici (Sant’Agostino, Ibn Khaldoun, Tommaso Moro, Machiavelli, Tommaso Campanella, Hobbes e Locke) e poi Durkheim e alcuni contemporanei, queste «scienze» sono state quasi sempre condizionate soprattutto dall’imperativo «prescrittivista», cioè dalla pretesa di fornire «ricette» per «risolvere» i problemi dell’organizzazione politica della società. Spesso in nome della prosperità e posterità, della pace e persino della felicità «per tutti» (come la «giustizia uguale per tutti»). La storia del mondo recente e anche l’attuale congiuntura, al contrario, mostrano sempre crescenti diseguaglianze, atrocità e genocidi. Più guerre che periodi di pace. La pretesa prescrittivista si è rivelata dunque fallimentare, se non peggio: visto che molto spesso le “scienze”, di fatto, hanno prodotto saperi utili ai dominanti, cioè i primi responsabili della riproduzione del peggio. La parresia – da Socrate a Foucault – è stata sempre osteggiata, o confinata in una nicchia concessa dal potere. Il quale si può permettere di essere criticato o dissacrato, anche perché di pari passo cresce sempre più l’asimmetria fra dominanti e dominati, ridotti oggi a qualche tentativo di resistenza spesso disperata o semplicemente all’impotenza, a fronte dell’erosione delle possibilità di agire politico (il caso della Grecia è assai eloquente e peggio è l’assenza di contrasto della tanatopolitica che l’UE pratica nei confronti dei migranti).
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Il proletariato (non) ha nazione...
Sergio Cesaratto
Pubblichiamo la traccia di un intervento a un dibattito con Giorgio Cremaschi a una straordinaria e affollatissima festa nei dintorni di Pisa. Il tema era: “La sovranità appartiene al popolo: i referendum momento di conflitto sociale fondamento di democrazia”, 18 Agosto 2016, Festa RossaPerignano (PI)
Paese mio che stai sulla collina. Battaglioni internazionalisti o ordo-keynesismo?
Voi perdonerete se prenderò il tema di questa sera un po’ alla lontana. Non sono un giurista, e sono anche un po’ scettico sulla via giuridica al conflitto sociale, come sembra un po’ suggerire il tema della serata. In un certo senso mi riferirò di più alla prima parte del titolo: La sovranità appartiene al popolo. Giusto. Ma qual è l’ambito di questa sovranità? Lo Stato nazionale, il tuo continente, il mondo intero? Su questo come sinistra siamo molto reticenti, e su questo mi piacerebbe dire qualcosa. Esiste una democrazia che vada oltre i confini del tuo Stato nazionale? E siccome, almeno su questo si è d’accordo, il conflitto sociale è l’humus della democrazia, qual è lo spazio naturale per il conflitto sociale?
Presa alla lettera, la tradizione marxista respinge oltraggiosamente l’idea dell’identificazione della classe lavoratrice col proprio Stato nazionale. Come è stato osservato, secondo questa tradizione: “Proprio perché la classe operaia è priva di proprietà, non è più lacerata dai limiti dell’interesse privato, diventa per ciò stesso suscettibile di solidarietà” (Gallissot 1979, p. 26; v. anche Cesaratto 2015), insomma chi ha solo le catene da perdere non necessita di passaporto. Il principale ostacolo a tale solidarietà, ben noto a Marx ed Engels, era nella concorrenza fra le medesime classi lavoratrici nazionali, sia intermediata dalla concorrenza fra i capitalismo nazionali che diretta attraverso i fenomeni migratori.
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Conversando con Camatte
Armando Ermini
Parlando con Stefano Borselli su come dare un seguito all'antologia Marxisti Antimoderni, ci è sembrato buona cosa andare a incontrare Jacques Camatte di persona. Jacques ha preferito che i nostri colloqui non avvenissero in forma di intervista, ma che fossero del tutto liberi, conviviali (stricto sensu), proprio per darci maggiori possibilità di recepire a modo nostro le sue parole. Ciò che dunque emergerà non sarà il Camatte-pensiero, ma ciò che di esso, dalle conversazioni e dai suoi scritti, abbiamo capito noi.
* * * *
In questa impresa non possiamo non partire dai luoghi che Jacques ha scelto di abitare. Una campagna, fra Tolosa e Bordeaux, scarsamente atrofizzata, con paesini antichi per lo piú siti in collina, coltivazioni di viti, campi, ed ancora tanti boschi. Luoghi che gli inevitabili centri commerciali che qua e là appaiono non hanno ancora sfigurato. Una campagna caratterizzata dai tipici fiumi francesi che per trovare la loro strada verso il mare si involvono in numeros1 amplissim1 meandri, i quali trasmettono a chi osservi il paesaggio dall’alto un senso di grande calma. Insieme ai fiumi, un reticolo di canali con un sistema di chiuse che li rende navigabili anche a imbarcazioni di una certa mole e, insieme, ne rallenta la marcia. Ma questo, in quei luoghi, non ha l’aria di essere un problema.
Per giungere in zona, prima di addentrarci nell’interno abbiamo lambito in autostrada luoghi famosi ed affollati lungo il Mediterraneo, le mete di vacanza della Costa Azzurra, il che ha contribuito a generare il contrasto con la tranquillità dell’interno: anche i picnic familiari — abbiamo notato sulla via del ritorno — lí si svolgono in parchi attrezzati, intorno a enormi autogrill, come se nemmeno nel tempo libero passato all’aperto ci si potesse allontanare dai colossi del consumo.
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Il burkini e il dress code neocoloniale
di Militant
Da ormai oltre un quindicennio, la questione dei diversi veli indossati da alcune donne islamiche si impone ciclicamente nel dibattito pubblico e politico. Dopo il patetico tentativo di pinkwashing con cui si giustificò l’attacco all’Afghanistan governata dai talebani («Dobbiamo liberare le donne dal burqa»), abbiamo avuto la discussione in Francia sul divieto di indossare il burqa e il niqab. Dopo l’orribile Daniela Santanché – quella che si fa chiamare col cognome dell’ex marito dopo oltre vent’anni dal divorzio e blatera sulla libertà delle altre donne – che se ne andava in giro a strappare i veli alle donne islamiche, abbiamo visto le Femen invitare in modo neocoloniale le musulmane a spogliarsi girando in topless per i quartieri islamici di Parigi (leggi 1 e 2). Ecco che adesso – in periodo di vacanze – la questione è diventata quella del cosiddetto burkini, termine nato da una contrazione impropria tra la parola burqa (abito che copre integralmente tutto il corpo – viso incluso – usato da una minoranza di donne islamiche) e la parola bikini, indumento che evidentemente – soprattutto se succinto – è ritenuto dover caratterizzare le donne occidentali. Il dibattito è stato scatenato dalla decisione di alcune città francesi di vietare l’uso del burkini in spiaggia, convalidata giuridicamente dal tribunale amministrativo e politicamente dal ministro dell’Interno francese Manuel Valls (leggi), secondo il quale addirittura il burkini non sarebbe compatibile coi valori della repubblica francese in quanto espressione di un’ideologia basata sull’asservimento della donna.
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Atlante, ovvero abbiamo tutti una costituzione da piangere
di Fant Precario
1. È notizia di qualche giorno fa che la Corte d’Appello di Tolosa, ha confermato la decisione di primo grado che aveva ritenuto privo di causa [(reale, e seria) perché senza fondamento economico)] il licenziamento di 191 dipendenti da parte di Molex, condannata al pagamento di “un’indennità” di 7 milioni di euro, che – ci avverte L’Humanitè - saranno corrisposti da un fondo pubblico, l’Assurance de garantie de salaires: (i) a parte l’ovvia, ma sempre efficace, considerazione che il capitale privatizza i profitti e socializza le perdite, (ii) a parte che non si hanno notizie sulla solidità patrimoniale e finanziaria della (già) datrice di lavoro e della possibilità di recupero della somma, (iii) quello che risalta è l’esiguità della somma rispetto al rilievo dato alla notizia; secondo i padroni si tratterebbe di condanna (oltreché ingiusta in quanto limitativa della libertà di impresa) esorbitante, i sindacati, tronfi d’ottusità, confermano la natura esemplare della condanna.
Abituati, quantomeno dai tempi di Lama a non credere ai sindacati (da sempre ai padroni) facciamo qualche conto. Ecco i numeri: 8 anni di lotta giudiziaria (il che la dice lunga sul potenziale scarsissimo del ricorso alle toghe, più o meno rosse), 191 esseri umani sul lastrico, 7.000.000 di euro di indennizzo.
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La riforma costituzionale e l’Unione Europea
di Noi Saremo Tutto - Genova
Recensione del libro di Vladimiro Giacché, La Costituzione italiana contro i trattati europei, un conflitto inevitabile, Imprimatur.
Introduzione
Che il progetto di riforma costituzionale del Governo Renzi, che andrà a referendum in autunno, non serva a ridurre i costi della politica o a colpire la fantomatica “casta” politica, è un dato che sembra oramai acquisito al dibattito politico. Anche all'interno del centrosinistra, per azione degli scontenti PD, e nel dibattito sui media di regime si mette in evidenza come il Senato di fatto non venga abolito ma si trasformi in una Camera inutile che continuerà comunque ad avere costi altissimi. Il punto principale della propaganda renziana sulle riforme sembra quindi scomparire dal dibattito politico che invece si concentra sul “combinato disposto” riforma Costituzione-Italicum paventando una possibile riforma della nuova legge elettorale come condizione necessaria per appoggiare il processo di riforma. Sullo sfondo emergono le difficoltà del governo Renzi il quale prova a fare un passo indietro scegliendo di non personalizzare il quesito del referendum. Comunque sia, la partita è decisamente aperta (i sondaggi, per quel che valgono, segnalano un'opinione pubblica spaccata a metà tra favorevoli e contrari) e l'insistenza di alcuni settori della classe dominante europeista a sostegno del sì raccontano di una riforma che comunque deve essere fatta.
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Colti in trappola. L’università postfordista e la formazione del cognitariato
Giuseppe Burgio
Una seconda lettura per l’estate: un saggio di Giuseppe Burgio pubblicato su Studi della formazione (2014). Burgio è un ricercatore di pedagogia di Palermo e in questo testo ricostruisce bene i problemi di quadro dell’istituzione universitaria (che, come Effimera, abbiamo diffusamente affrontato in questo periodo, a partire dal caso di Roberta Chiroli), stretta tra dispositivi neoliberali, profondamente connessi alla crisi, processi di esclusione differenziale, gerarchie, valutazione e debito. Il tutto nell’orizzonte del capitalismo biocognitivo, cioè all’interno di un nuovo paradigma produttivo, e nel crescere del ruolo “ri-produttivo” assunto dal cognitariato.
Cifra della nostra società è l’avvenuto passaggio dal modo di produzione fordista a quello postfordista. In questo contesto, la corrente teorica del post-operaismo vede come centrale la dimensione cognitiva del lavoro, che si manifesta ormai in ogni attività produttiva, materiale o immateriale che sia.
Dopo aver definito tale cornice teorica, queste pagine si concentreranno sulla precarietà lavorativa e sull’affaticamento esistenziale di quanti hanno affrontato un percorso di istruzione superiore all’università, proponendo la tesi che – proprio per poter essere adattati a, e inseriti nel, postfordismo – questi futuri lavoratori del cognitariato siano stati formati da un dispositivo economico ed educativo complesso, paragonabile a quello che nel capitalismo industrialista permise la formazione (cioè la costituzione sociale e il condizionamento culturale) del proletariato.
Tale dispositivo verrà analizzato in alcune delle sue curve attuative – studiandone le conseguenze da un’ottica pedagogica – in relazione alle trasformazioni del mondo del lavoro, ai mutamenti del sistema della formazione e alle riforme che da ormai 25 anni interessano quasi incessantemente l’università italiana.
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Considerazioni – abbastanza inattuali – su Adorno e su altro
di Sebastiano Isaia
La sofferenza incessante ha tanto
il diritto di esprimersi quanto il
martirizzato di urlare (T. W. Adorno).
Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur nulla: ma questo sforzo
pare di tutti il più difficile
(M. Horkheimer, T. W. Adorno).
Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!
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