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Quattro brevi punti più uno che è utile considerare quando discutete del problema islamico
di Pierluigi Fagan
Ad estrema e brutale sintesi dello studio che svolgemmo sull’islam in diversi momenti e più puntate (qui, qui), vorremmo mostrare quattro punti della sua costituzione teorico – storico – politica, che è utile –a nostro avviso-, conoscere. A premessa, va detto che l’islam è un corpo di dottrine che si fonda come credo religioso ma comporta anche disposizioni giuridiche che poi diventano sociali e politiche e che si basa non su una scrittura sacra com’è il caso degli altri sue monoteismi ma divina, nel senso che le parole contenute nel Corano sono parola di Dio, espresse e trasmesse senza interpretazioni terze, da Dio stesso. Dio, nel Corano, dice di aver parlato chiaramente e quindi esclude debba esserci qualcuno che intermedi ovvero interpreti le sue parole, tant’è che ritiene questa Sua rivelazione, l’ultima, quella dopo la quale non ve ne saranno altre. Avvicinandosi con fede e cuore aperto alla scrittura, chiunque può entrare in contatto con la parola di Dio, quindi con Dio stesso. Questo porta ad escludere in via di principio vi possa essere una Chiesa islamica che intermedia tra Dio e fedeli per cui, ciò che è scritto nel Corano, è valido per l’eternità e non ha declinazione storica. Detto ciò, ci sentiamo di segnalare quattro punti critici perché invece, una problema di interpretazione -a nostro avviso- rimane:
- Muhammad ricevette la rivelazione divina lungo ventidue anni (610-632). Fintanto che fu in vita, sia lui che i credenti che lo seguivano, recitarono i versetti ricevuti da Dio a memoria, l’intero corpo era orale.
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Dewey e il Ministero del Disturbo
La rivoluzione darwiniana e il suo impatto filosofico
di Andrea Parravicini
Il significato e gli effetti della teoria dell’evoluzione di Darwin per il pensiero e la cultura occidentali sono ancora oggi spesso poco compresi, se non fraintesi, anche da parte di affermati filosofi e intellettuali. Il contributo che segue intende presentare alcune delle originali e profonde riflessioni che circa un secolo fa John Dewey, uno dei più grandi pensatori americani di tutti i tempi, dedicò alla questione. L’obiettivo di Dewey era quello di mettere a fuoco in modo ampio e lucido l’influenza profonda esercitata dalla rivoluzione darwiniana non solo sul nostro sguardo nei confronti del mondo vivente, ma anche riguardo al nostro modo di intendere le questioni etiche e politiche, mirando a un rinnovamento radicale del pensiero filosofico che oggi deve ancora largamente compiersi.
* * *
Le teorie scientifiche, si sa, hanno sempre avuto un ruolo importante per il pensiero filosofico, la cultura, il senso comune. Si pensi alla rivoluzione copernicana, alla relatività einsteiniana, alla fisica quantistica. La teoria dell’evoluzione di Darwin, che attualmente costituisce il nucleo teorico fondamentale del programma scientifico evoluzionistico, ha avuto in particolare un impatto enorme non solo sulla filosofia e sul senso comune, ma anche sul pensiero etico-sociale e politico.
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Bruxelles, sequenze di attentatori in tv tra propaganda e delirio
nique la police
Tra gli attentati di Parigi e Bruxelles, un atto della guerra asimmetrica tra Europa e Medio Oriente che sta attraversando il continente, la copertura mediatica europea ci rivela politiche della comunicazione tutte da leggere
Soffermiamoci al caso per noi più diretto, quello italiano, senza omettere però che i media europei, per quanto militarizzati, non arrivano al iivello di comunione mistica con i poteri costituiti come nel nostro paese. Solo in un paese in preda ad effetto Orwell, come lo è l'Italia, si poteva presentare l'arresto di un presunto jihadista, gambizzato dalla polizia, come il salvataggio di una bambina. Infatti la bambina altri non è che la figlia del presunto jihadista. In un mondo dove le foto di bambini sui media vengono sgranate per non ledere la sfera emotiva del minore, anche quando non ce n'è bisogno, sparare a qualcuno che ha accanto a sua figlia è "salvare la bambina". Altro che eredi di 1984, qui siamo un piano inarrivabile, celeste di reinvenzione del reale.
E che dire di Salah, indicato dai media globali come componente del commando degli attentati parigini? Salah è stato dato "secondo fonti ufficali", formula usata dal mainstream italiano, prima pentito del gesto, poi fuggitivo in Belgio, poi in Siria, poi semplicemente fuggitivo. Una volta arrestato in Belgio è stato dato, sempre con la stessa formula giornalistica, come pentito che rifiuta l'estradizione in Francia. Poi è stato dato come pentito che chiede, espressamente, l'estradizione in Francia. Poi come pronto a farsi saltare in aria a Bruxelles se non fosse stato scoperto. Facciamo notare che Salah, secondo fonti ufficiali, sarebbe stato coperto per mesi dall'Isis e poi addirittura inserito in un commando per un nuovo attentato.
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Il socialismo e la gestione democratica delle imprese
di Bruno Jossa
1. Ampiamente diffusa oggi è l’opinione che il marxismo sia morto perché il sistema sovietico di pianificazione centralizzato è fallito. Ma è vera, invece, l’opinione contraria. «Sono lontani i tempi – scriveva Bensaïd nel 2009 – in cui una stampa sensazionalistica annunciava trionfalmente al mondo la morte di Marx. […] Oggi il suo temuto ritorno fa scalpore. L’edizione tedesca del Capitale ha triplicato le vendite in un anno. In Giappone la sua versione manga è diventata un bestseller. […] A Wall Street ci sono state addirittura delle manifestazioni al grido di: “aveva ragione Marx!” (cfr., per es., Kellner, 1995, Stone, 1998 e soprattutto Cohen, 1978 e 2000). Quest’ultimo argomenta che «il fallimento sovietico può essere considerato un trionfo per il marxismo».
Oggi, infatti, conosciamo un modo per liberarci del capitalismo senza violenza rivoluzionaria, in base a decisioni parlamentari, perché il lungo dibattito sulla teoria economica delle cooperative di produzione che si è avuto, a seguito di un celebre articolo di Ward del 1958, ha mostrato chiaramente che è possibile creare un sistema d’imprese gestite dai lavoratori, che è un nuovo modo di produzione nel senso di Marx e che, pur non essendo il paradiso in terra, può funzionare assai bene.
Sartre ha scritto che «il marxismo rimane insuperabile perché le circostanze che l’hanno generato non sono state ancora superate» (1960).
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Agnelli sacrificali
di Alexik
Gli attentati di Bruxelles hanno lasciato sul terreno i corpi di 31 persone inermi e più di 100 feriti negli ospedali. A reti unificate, in questi giorni, ne stiamo conoscendo i volti, le storie. Possiamo rimpiangerne i desideri spezzati, identificarci con loro.
Altri morti di questa sporca storia non hanno avuto tanti riflettori. Nella migliore delle ipotesi, hanno dovuto accontentarsi di essere rappresentati da un numero. Molto più spesso la loro fine è stata oscurata dal buio dei nostri teleschermi. Il cordoglio e lo sdegno sono ‘privilegi’ riservati solo ai nostri morti, e vanno sapientemente amplificati, per spingerci attorno a una bandiera e motivare nuove avventure militari.
Avventure come queste: “Near Mosul, six strikes struck two separate ISIL tactical units and destroyed an ISIL assembly area, an ISIL supply cache, and three ISIL vehicles and damaged an ISIL-used bridge section and suppressed an ISIL fighting position” (19 marzo 2016).
Dovrebbe rassicurarci questa nota del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che sintetizza la cronaca di uno dei tanti attacchi aerei sull’Iraq. Rincuorarci sulla geometrica potenza, sulla precisione chirurgica della risposta occidentale al terrorismo. Se non fosse che a Mosul, occupata dal Daesh, ci abitano un milione e mezzo di persone, e che il bombardamento in questione ha ucciso, oltre a 40 combattenti jihadisti, decine di civili. Alcune fonti parlano di 25 civili morti, altre ne calcolano più di cento per l’attacco al campus universitario. I nostri media non si sono scomodati a contarli.
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Lo scontro tra civiltà come arma pop di atomizzazione di massa
di Bazaar
Consideriamo una risposta positiva come un augurio di Buona Pasqua. Per tutti...
Introduzione- Imperialismo globale, menti elementari e fallacia fallaciana
John Maynard Keynes, a proposito del governo britannico, in una lettera a Duncan Grant del 15 dicembre 1917
Ricordiamo come – stando con Braudel – le correnti della Storia fluiscano a velocità diverse: ed invece, ci troviamo a constatare come la comune esperienza porti a credere che «geografia, civiltà, razza e struttura sociale» siano un dato di fatto. Oggetti immutabili, come le leggi stesse che li governano.
I motivi sono principalmente due: il primo – come sconsolati dovettero prendere atto Marx ed Engels – è che l'ignoranza della storia è diffusissima[1] anche in gran parte delle classi più istruite; il secondo, invece, lo aveva ben chiaro Adolf Hitler: i dominati con «un cervello illuminato da alcune nozioni di storia, giungerebbe a concepire alcune idee politiche, e questo non andrebbe mai a nostro vantaggio»[2].
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L'era dei robot e la fine del lavoro
Un bene o un male per l'umanità?
di Fabio Chiusi
È un giorno qualunque, nell’era dei robot, e il lavoratore tipo esce di casa per recarsi in ufficio. Le macchine, per strada, si guidano da sole. Il traffico pure: si dirige da sé. Lo sguardo può dunque alzarsi sopra la testa, dove, come ogni giorno, droni consegnano prodotti e generi alimentari di ogni tipo – oggi, per esempio, il pranzo suggerito dal frigorifero “intelligente”. Sul giornale – quel che ne resta – gli articoli sono firmati da algoritmi. Giunto alla pagina finanziaria, il nostro si abbandona a un sorriso beffardo: il pezzo, scritto da un robot, parla delle transazioni finanziarie compiute, in automatico, da altri algoritmi.
Entrato in fabbrica, poi, l’ipotetico lavoratore di questo futuro (molto) prossimo si trova ancora circondato dall’automazione; per la produzione, ma anche per l’organizzazione, la manutenzione, perfino l’ideazione del prodotto: a dirci cosa piace ai clienti, del resto, sono ancora algoritmi. Quel che mi resta, pensa ora senza più sorridere, è coordinare robot, o robot che coordinano altri robot. Finché ne avranno bisogno.
Ma per quanto ancora? Per rispondere, basta tornare al presente. Nei giorni scorsi, l’intelligenza artificiale di Google chiamata ‘AlphaGo’ ha umiliato il campione Lee Sedol in uno dei giochi più complessi, astratti, e dunque tipicamente umani – così pensavamo – mai esistiti: il millenario Go.
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L’insensato parallelo tra jihadismo e Brigate rosse. Di nuovo
di Militant
Già dopo gli attentati a Parigi di novembre avevamo scritto una riflessione sull’uso strumentale dell’accusa ai jihadisti di essere come le Brigate rosse: un parallelismo disgustoso quanto frequente, come testimonia l’immagine trovata su internet che apre questo contributo, sulla quale ogni commento sarebbe superfluo. Un parallelismo bislacco, privo di senso, senza alcun valore non solo politico, ma anche storiografico. Insomma, quello che a Roma si chiama «buttare in caciara», un modo da un lato per chiamare alla sacra unione nazionale contro il nemico e dall’altro per bollare come «nemica» e «criminale» qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale del sistema in cui viviamo.
Dopo gli attentati di martedì a Bruxelles, politici e giornalisti italiani non hanno perso tempo per riproporre l’assurdo parallelismo. Così prima di tutti Renzi, che nella conferenza stampa ufficiale ha inizialmente elogiato le forze dell’ordine italiane che avrebbero una vasta esperienza nella lotta alle emergenze – «dalla mafia, al terrorismo, al brigatismo», come se fossero la stessa cosa – e poi si è rivolto (in un crescendo che andava dal nazismo sconfitto dai nonni alla sua generazione, a coloro che hanno studiato giurisprudenza dopo gli omicidi di alcuni magistrati per mano mafiosa) alla generazione dei suoi genitori, che «hanno avuto la prova del terrorismo e del brigatismo: durante le loro lezioni all’università si sparava».
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Chi parte da sè fa per tre
L'inutile fatica di essere se stessi nel capitalismo contemporaneo
di Giovanni Di Benedetto
Nell’Ottobre del 2014 si svolse ai Cantieri Culturali alla Zisa, a Palermo, un seminario di studi che provava a mettere a fuoco la connessione sempre più stringente fra sofferenza psichica, disagio sociale e totalitarismo dell’universale capitalistico. Da quell’incontro seminale, col quale anche la redazione di Palermograd ha provato a confrontarsi (si vedano gli interventi di Calogero Lo Piccolo qui e Salvatore Cavaleri qui), è nato adesso un volume che raccoglie i contributi, rielaborati, dei relatori di quell’incontro. L’inutile fatica: soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo, è questo il titolo del libro pubblicato da Mimesis Edizioni (2016) e curato da Salvatore Cavaleri, Calogero Lo Piccolo e Giuseppe Ruvolo, un testo che prova a impiantare, riuscendoci brillantemente, un dialogo transdisciplinare tra attivisti sociali, psicoterapeuti, filosofi e psicologi.
Il punto di partenza della riflessione è dato dalla constatazione di quanto sia stata devastante l’incidenza della crisi economica, e dei dispositivi di potere del capitalismo che l’ha generata, sulla precarizzazione esistenziale delle soggettività. La nostra è l’epoca dell’ideologia competitiva e concorrenziale del mercato. Da qui scaturiscono vissuti esistenziali catturati in una rovinosa spirale depressiva imposta dalla pretesa sempre più saturante all’autosufficienza. Nella società della competizione narcisistica il desiderio, trasfigurato in incessante istanza di godimento, viene reificato e oggettivato.
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Gli attentati, la crisi, i fallimenti e i tradimenti
di Piotr
E' una questione di logica elementare fare il secondo passo in più e cercare di capire gli obiettivi dei padrini degli attentati
1. Vi ricordate Beppe Braida e le sue notizie a Zelig sui contrattempi di Berlusconi, che esposti in un crescendo di esagerazioni dai vari telegiornali finivano col TG5 che decretava immancabilmente: "Attentato! Trattasi di attentato!"?
Il mainstream sta facendo un percorso inverso e partendo da veri, orrendi attentati dove persone reali, come me e come voi, hanno perso tragicamente la vita, in un retro-crescendo di panzane finisce per sminuire, volutamente, l'origine e il significato degli attentati di Bruxelles.
Sembra ad esempio che ci sia uno sforzo per reprimere una serie di domande del tutto naturali: Come mai mentre l'Europa sta discutendo se e come intervenire in Libia "contro l'ISIS", il suo centro nevralgico viene provocato con un sanguinoso attentato? È una coincidenza? O è fatto per impaurirci? Per dirci di non provarci? O, al contrario, per spingerci a lasciar perdere la prudenza e intervenire?
In compenso il fatto che i fratelli Bakraoui, oggi indicati come i responsabili dell'attentato all'aeroporto di Bruxelles, fossero noti ai servizi segreti ma siano lo stesso riusciti a entrare in zone sorvegliatissime senza nemmeno tentare di camuffarsi, desta la solita meraviglia e il solito stupore che vediamo in bocca agli "esperti" ad ogni attentato.
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Quando la guerra non c’era
La questione si potrebbe riassumere nei seguenti termini: l'uomo sarebbe un lupo per l'uomo, e lo stato di natura corrisponderebbe ad uno stato di guerra permanente. La guerra di tutti contro tutti, insomma. In questo si può riconoscere l'antropologia pessimista di Hobbes e la sua opera principale, il Leviatano. In contrapposizione a questo pregiudizio troviamo la visione irenica di un Rousseau, per il quale, al contrario, l'uomo è naturalmente buono ma viene corrotto dalla società.
Sembra quasi che si debba scegliere, in una linea che parte da Hobbes ed arriva a Rousseau, dove piazzare il cursore. Ma, davvero, la violenza e lo stato di guerra sono sempre esistiti? Cosa ne pensano gli archeologi e gli studiosi di preistoria, come ad esempio Marylène Patou-Mathis, la quale sull'argomento ha scritto un libro, « Préhistoire de la violence et de la guerre » (Odile Jacob 2013).
Cominciamo dal concetto di guerra, e diciamo da subito che la guerra, definita come uno stato di conflitto armato fra più gruppi politici costituiti, all'epoca dei cosiddetti "cacciatori-raccoglitori" semplicemente non esisteva! Se la definizione di "guerra" può variare a seconda dell'autore, lo spirito rimane il medesimo: è un atto di violenza che ha come sua caratteristica essenziale quella di essere metodica ed organizzata, ed è volta a costringere l'avversario ad eseguire la nostra volontà. Nel caso delle guerre cosiddette "tribali" si tratta allora di un "modo di risolvere una crisi intervenuta durante la conduzione di transazioni pacifiche, ossia come sostituto", e vanno distinte le "guerre sia difensive degli agricoltori che quelle offensive dei pastori - e quelle punitive nel nome del sovranno contro i vassalli refrattari".
Sappiamo dalle ricerche archeologiche che "nel corso del paleolitico, fra molte centinaia di ossa umane esaminate, solamente due attestano atti di violenza volontari". E sono stati perpetrati dall'uomo moderno (homo sapiens)".
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Contro il "politicamente corretto"
di Costanzo Preve
Riteniamo utile pubblicare un denso testo del compianto Costanzo Preve pubblicato nel 2010 dall'editrice Petite Plaisance. Il saggio comparve con questo titolo: «Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante».
Preve aveva visto giusto.
Il "politicamente corretto", nato in certa sinistra liberal nordamericana, è diventato la neolingua ufficiale, quindi prescrittiva, degli oratores (clero) e degli apologeti della modernizzazione capitalistica. Si prescrive infatti non solo come dire e nominare le cose, ma quali cose non si debbono né nominare né dire, pena la scomunica, l'interdizione dal dibattito pubblico.
Lasciamo alla lettura i nostri lettori.
* * *
1. La teoria marxiana dei modi produzione, e del modo di produzione capitalistico in particolare, è generalmente intesa in forma spaziale-topologica, e cioè con un sopra e con un sotto.
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Bruxelles: per un mea culpa dell’Occidente
di Marco Alloni
Mi dispiace essere disfattista, ma parlare di “misure di sicurezza” per scongiurare futuri attentati terroristici in Europa equivale a suggerire di sorvegliare gli ingressi delle scuole per contrastare il traffico di droga internazionale. Una scemenza sia sul piano logico che su quello politico. Allo stesso modo temo che obbligare il dibattito all’attualità – con il risibile argomento che, essendo assediati, saremmo perciò stesso obbligati a misure d’urgenza – equivalga a presumere che le grandi psicopatologie che si manifestano in età adulta non abbiano origine in un’infanzia assai remota.
Agli analisti di queste ore, di proposte “usa-e-getta”, suggerisco dunque di tenere presente, oltre all’implicito insegnamento di Freud – secondo cui esiste un’infanzia anche simbolica dietro ogni sintomo del presente – quello di ogni elementare spirito analitico: il bubbone che sta esplodendo in Europa ha radici antiche. E solo comprendendolo nell’ampio raggio delle sue determinazioni pregresse e secolari è possibile sottoporlo a una qualche forma di cura. Ogni provvisoria e isterica terapia di tamponamento non leva linfa al suo perpetuo riprodursi e, soprattutto, al suo possibile estendersi. In altre parole, non si cura il terrorismo global-jihadista con le miserrime “misure di sicurezza” dalle parvenze di tamponi-cerotti apposti frettolosamente sul bubbone, ma interrogandosi sulle sue remote scaturigini.
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Come i morti anche le mode ogni tanto ritornano
di Antonio Pagliarone e Paolo Giussani
Antonio Pagliarone ci segnala, dopo aver letto l'intervento di Guglielmo Carchedi recentemente pubblicato qui e con cui concorda pienamente, questa critica ad Enzo Modugno sul keynesismo militare, da lui scritta nel 2004 insieme a Paolo Giussani e tuttora pienamente attuale
1. Keynes Redux ?
L’articolo di Enzo Modugno “Il prodotto interno lordo della guerra” apparso sul Manifesto del 17 marzo 2004, in cui si trova ripetuta una tesi vecchia come Noé sul rapporto fra spese militari e capitalismo, è un concentrato di luoghi comuni, tanto diffusi quanto difficili da scardinare. Sarebbe assai bello se gli scritti e le critiche servissero a spingere gli appartenenti agli ambienti dell’ultrasinistra verso l’analisi dei fenomeni e la ricerca di prove su cui basare i punti di vista. Sarebbe una gran bella cosa ma è un augurio totalmente cretino. L’ultrasinistra non è che il cascame della politica e della cultura ufficiali, il precipitato evolutivo di un passato narcisisticamente irrilevante potentemente affetto dall’inveterato vizio di costruirsi e presentare “analisi” fatte delle medesime spiegazioni offerte dal senso comune e diffuse dai media (una tempo etichettati “borghesi”) solo rivestite del solito vieppiù intollerabile linguaggio da guru.
Secondo Modugno, che ritiene di riprendere una tesi espressa nel Capitale monopolistico di Paul Sweezy, il settore militare, in particolare quello statunitense, svolgerebbe la funzione di “indispensabile sostegno al capitalismo”. Modugno in particolare asserisce che le 85.000 aziende che compongono il cosiddetto Complesso Militare Industriale USA sono “il vero motore dell’economia”. Considerando che l’economia USA è composta da circa 6,5 milioni di aziende, sembra bizzarro che di tutte queste esista uno speciale 1.3% che possa fare da sostegno e da “vero motore” al restante 98.7%.
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Chi sono i terroristi suicidi?
Marco Belpoliti
Qualcuno ricorda il nome di Ahmad Al Mohammad, il suo viso, appena incorniciato da una barba rada, il bel volto di ragazzo? E Bifal Hadf, vent’anni, cappelli ricci e radi peli sul mento, chi è? E Mohammed Al Mahmoud, faccia triste nella foto, ma così giovane anche lui? E ancora: chi sa qualcosa di Ibrahim Abdeslam trentenne francese, barbetta e occhi scuri? O di Salah Abdeslam, volto tondo, sguardo ambiguo, di anni 26? E infine chi conosce Abdelhamid Abaaoud, il più sbarazzino di tutti, sorridente, cappello di cotone in testa, quasi un rapper? Se non li ricordate: i primi tre sono quelli che si sono fatti esplodere vicino allo stadio; degli altri tre: uno si è fatto esplodere a Boulevard Voltaire, uno è scappato ed è stato preso, il terzo è stato ucciso in un blitz a St Denis. I loro nomi sono legati all’assalto al Bataclan, alla strage nei ristoranti, allo stadio di Parigi. In poco tempo anche i nomi degli uomini che spingevano il carrello all’aeroporto di Bruxelles, quelli con il guanto, sono stati identificati.
Perché l’hanno fatto, perché lo fanno, perché lo faranno ancora? Secondo gli studiosi del fenomeno del terrorismo suicida – di questo si tratta – non esisterebbe una teoria in grado di spiegare in maniera esaustiva le cause di queste campagne. A leggere i libri dedicati all’argomento, ad esempio quello di Francesco Marone, La politica del terrorismo suicida (Rubettino 2013), non c’è neppure unanimità nel definire il terrorismo in generale.
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L’economia mondiale nel vortice della crisi
Lorenzo Procopio
Mentre il governo italiano sventola ai quattro venti gli ultimi dati Istat strombazzando che l’Italia è finalmente fuori dalla recessione, grazie al fatto che l’economia italiana è cresciuta nel 2015 di un misero 0,6%, dopo un quinquennio di contrazione del Pil, i mercati borsistici di tutto il mondo hanno fatto registrare il peggior inizio anno della storia finanziaria del moderno capitalismo. Il crollo degli indici azionari delle principali piazze borsistiche mondiali nelle prime sei settimane dell’anno in corso è stato nettamente il peggiore tra quelli finora registrati, ancor più negativi di quelli fatti registrare nel 1931 e nel 2009, gli anni immediatamente successivi alle due grandi crisi finanziarie del 1929 e del 2008.
Tale crollo non è stato ovviamente un fulmine a ciel sereno, come qualche prezzolato commentatore vorrebbe far credere per nascondere le reali difficoltà del sistema capitalistico internazionale; infatti, i primi scricchiolii si erano già manifestati nell’estate scorsa quando la borsa di Shangai ha fatto registrare pesanti perdite anche a causa del rallentamento nella crescita della produzione cinese e dell’eccessiva crescita della bolla speculativa sui mercati finanziari della stessa Cina. L’attuale crisi finanziaria è globale e per la prima volta nella storia del capitalismo la propagazione degli effetti dello scoppio della bolla speculativa all’intero sistema internazionale è avvenuta con la velocità della luce. Ciò rappresenta un vero salto qualitativo che differenzia questa crisi di molto non solo da quella del 1929, quando gli effetti del crollo di Wall Street si propagarono sul piano internazionale soltanto nell’arco di qualche anno, ma anche rispetto a quella più recente del 2008 durante la quale i tempi di dilatazione globale degli effetti dello scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime sono stati nell’ordine di alcune settimane o addirittura di mesi.
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Argentina a 40 anni di distanza, cosa resta della dittatura
di Gennaro Carotenuto
Quando il 24 marzo 1976 il colpo di stato civico-militare in Argentina diviene realtà, per molti, questo appare come l’unica soluzione al caos nel quale verserebbe il paese. E’ il quarto colpo di Stato in ventuno anni, dal 1955, da quella cosiddetta “Rivoluzione liberatrice” che le classi dirigenti e le Forze Armate realizzano sempre con lo stesso obiettivo: cancellare dal paese quel fenomeno complesso che è il peronismo, che mescolano e confondono con il marxismo. Questo continua ad avere l’egemonia dell’identificazione delle classi popolari che vedono nel “Giustizialismo” la fine di uno stato escludente quando non apertamente razzista e la costruzione di uno stato sociale avanzato. Il nome del partito di Perón è spesso traslato in maniera inesatta in italiano per identificare la richiesta di giustizia spiccia verso la partitocrazia ma non ha nulla a che vedere con l’accezione argentina.
Sono almeno due i fattori che concorrono all’idea del caos in quell’Argentina di metà anni ‘70. Il primo è la situazione economica. In quella che fino agli anni Cinquanta è stata tra le prime dieci economie del mondo e che ancora nei primi anni Settanta vive la quasi piena occupazione, il modello dirigista instaurato tanto dal peronismo classico nel dopoguerra, come dalle forze liberal-conservatrici che al peronismo si opposero con vari colpi di stato dal 1955 in avanti, è a fine corsa. L’inflazione, per dare solo un numero, nei 12 mesi prima del golpe, è del 566%. Per chi vive di salario è drammatico ma sarà solo quindici anni dopo che il problema troverà soluzione.
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Perché gli arabi non ci vogliono in Siria
di Robert Kennedy jr
Dal sito Politico.eu, vale davvero la pena di riportare la traduzione integrale del lungo e dissacrante articolo (di cui abbiamo già parlato qui) in cui Robert Kennedy jr riassume agli americani ipnotizzati (e agli alleati europei) il “disgustoso” contesto storico, a partire dalla seconda guerra mondiale, in cui si inserisce la terribile guerra siriana dei nostri giorni e la creazione dell’Isis da parte della Cia, a protezione del cartello del petrolio
In parte perché mio padre è stato assassinato da un arabo, ho fatto uno sforzo per comprendere l’impatto della politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e in particolare i fattori che motivano a volte le sanguinarie risposte del mondo islamico contro il nostro paese. Concentrando l’attenzione sull’ascesa dello Stato islamico e andando alla ricerca delle cause originarie della barbarie che ha portato via così tante vite innocenti a Parigi e San Bernardino, sarebbe meglio andare al di là delle spiegazioni di comodo sulla religione e l’ideologia. Dovremmo invece esaminare le logiche più complesse della storia e del petrolio – e renderci conto che spesso esse chiamano in causa le responsabilità del nostro paese.
Il disgustoso record americano di interventi violenti in Siria – poco conosciuto dal popolo americano ma ben noto ai siriani – ha seminato un terreno fertile per il jihadismo islamico violento che ora complica una qualsiasi risposta efficace del nostro governo per affrontare la sfida dell’ISIL. Finché l’opinione pubblica e i politici americani non si rendono consapevoli di questo passato, ulteriori interventi rischiano solo di aggravare la crisi. Questa settimana il Segretario di Stato John Kerry ha annunciato un cessate il fuoco “provvisorio” in Siria. Ma dal momento che il potere di influenza e il prestigio degli Stati Uniti in Siria sono al minimo – e il cessate il fuoco non include combattenti importanti come lo Stato islamico e al Nusra – nel migliore dei casi è destinato ad essere una tregua piuttosto precaria. Allo stesso modo, l’intensificazione da parte del presidente Obama dell’intervento militare in Libia – attacchi aerei degli Stati Uniti la scorsa settimana hanno preso di mira un campo di addestramento Stato islamico – è probabile che rafforzi, piuttosto che indebolire, gli esponenti più radicali.
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A proposito di «post-umano»
di Astro Calisi
Un breve articolo di Stefano Rodotà apparso recentemente sulla rivista Micromega,1 riguardante gli inediti scenari etici e giuridici prospettati dall’applicazione delle nuove tecnologie al corpo umano, offre l’occasione per alcune considerazioni sul concetto di post-umano (o trans-umano).
«Post-umano» è un termine utilizzato per indicare una nuova concezione dell’uomo, secondo la quale la scienza e le sue applicazioni tecnologiche ci mettono, per la prima volta nella storia, nella condizione di superare i nostri limiti biologici, compresi quelli che riguardano le capacità cognitive. La possibilità di integrare e potenziare l’intelligenza umana che – secondo alcuni – sarebbe offerta dalle nuove tecnologie informatiche e, più in generale, dalla cosiddetta intelligenza artificiale, rappresenta indubbiamente uno degli aspetti più rivoluzionari del progresso scientifico. Nelle teorizzazioni più spinte si arriva addirittura a prevedere una “ibridazione” stabile tra esseri umani e sistemi artificiali, tesa a realizzare dei cyborg, dove le capacità motorie, le capacità percettive e la stessa intelligenza vengono accresciute a dismisura. Si arriverebbe così a superare i limiti imposti all’uomo dalla sua natura biologica, proiettandoci verso traguardi che fino a poco tempo fa sembravano essere riservati alla narrazione fantascientifica, compresa la capacità di collegarsi e interagire in modo istantaneo con altre menti o di raggiungere una sorta di immortalità registrando tutti i ricordi e le attitudini di un individuo su potenti chip di memoria, da innestare su sistemi robotici appositamente costruiti.
Nell’articolo in questione, Rodotà si interroga sui rischi connessi alla creazione di sistemi dotati di un’intelligenza capace non soltanto di dar vita a «nuove simbiosi tra uomo e macchina», ma anche di arrivare un giorno a «sopraffare e sottomettere l’intelligenza umana».2
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Roma può salvarsi!
Riflessioni su una manifestazione riuscita
di ccw
A Roma ci sono due anni di buoni motivi per scendere in piazza e pretendere democrazia: è dal 2014, all'epoca del cosiddetto Salva-Roma, che regna un commissariamento di fatto. Da qualche mese è poi seguito un commissariamento di diritto, con l'insediamento del super-prefetto Tronca che riunisce in sé il potere del Sindaco, della Giunta e dell’Assemblea Capitolina.
Ma le buone e sacrosante ragioni spesso non bastano, soprattutto in una fase di tale scoraggiamento e disaffezione verso la politica da parte delle maggior parte dei cittadini. Aver quindi saputo portare 15.000 persone in piazza è un dato tutt'altro che scontato, ed è merito dei movimenti romani aver risposto alle minacce di sgombero che incombono sui loro spazi provando ad allargare il fronte dell'opposizione sociale, piuttosto che arroccandosi a difesa della propria situazione particolare. La svendita del patrimonio pubblico, che mette in discussioni esperienze decennali di occupazioni che hanno spesso trasformato edifici abbandonati in luoghi di socialità e cultura, è infatti solo la scintilla di una rabbia che doveva (deve) prima o poi esplodere e prendere voce. Il Documento Unico di Programmazione varato da Tronca e prima di esso il piano di rientro di Marino, prevedono tanto altro, anche di peggio: continui tagli ai salari dei dipendenti capitolini, la privatizzazione di alcune aziende municipali, l'ulteriore riduzione dei servizi.
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Nuovi cieli e nuova terra
di Lanfranco Binni
In Siria non è andata come doveva andare. La spartizione neocoloniale del paese è rinviata a tempi migliori. Contrordine: va interrotta l’evacuazione forzata della popolazione civile e bisogna promuovere il rientro, forzato, dei profughi; via dall’Europa, compatibilmente con le esigenze tedesche di capitale umano di qualità; i campi di concentramento in Turchia saranno aree di transito per il rientro in Siria, mentre al governo turco è stato concesso di lucrare sui profughi con finanziamenti europei. La Nato passa al piano B: consolidare la Turchia come avamposto dell’Occidente contro la Russia (la guerra ai curdi siriani e irakeni, la feroce repressione della società turca, sono effetti collaterali da «comprendere»), spostare il focus degli interventi militari dalla Siria alla Libia, all’intero continente africano. Il cambio di strategia comporta la dislocazione nell’area libica di quello che resta dell’Isis, indebolito dalla sconfitta militare in Siria e da conflitti crescenti con la galassia del jiadismo, in primo luogo con le reti di al Qaeda.
Nella notte del terrorismo tutte le vacche sono grigie, ma le semplificazioni non aiutano certo a capire quanto sta accadendo nel continente africano: un intreccio caotico di «islamizzazione della radicalità» sul retroterra delle lotte anticoloniali degli anni sessanta del Novecento e delle esperienze del nazionalismo, del socialismo, del panarabismo e del panafricanismo.
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Dialogo sopra un minimo sistema dell'economia
A proposito della concezione di Sraffa e degli “economisti in libris” suoi discepoli
Gianfranco Pala e Aurelio Macchioro
Questo articolo, Dialogo sopra un minimo sistema dell’economia – a proposito della concezione di Sraffa e degli “economisti in libris” suoi discepoli, fu messo insieme, sistemato e redatto da Gianfranco Pala, per la rivista Marxismo oggi, 3, Milano 1993. La parafrasi del Dialogo galileiano qui scelta trae spunto da una serie di circostanze. Innanzitutto, è da considerare in maniera un po’ sarcastica l’esagerata importanza che, per seguir le mode, negli anni trascorsi fu data all’opera di Sraffa che, conseguentemente è stata qui definita come “sistema minimo” dell’economia; all’opposto, ma forse proprio per quell’esagerazione pregressa, è altrettanto ingiustificata la dimenticanza in cui essa è stata poi gettata, tanto più se la si compara con le “nuove” mode dell’economia neoliberista dai “tratti demenziali”, come la connoterebbe Brecht. Tuttavia, l’abbandono e la successiva sedimentazione del dibattito intorno a Sraffa può oggi costituire un elemento vantaggioso per riparlarne post festum (e post mortem).
In secondo luogo, per ciò che interessa maggiormente i comunisti, vi è da soppesare il ruolo, che è stato attribuito alla teoria di Sraffa e alla “sraffologia” in genere, da giocare contro il marxismo in un supponente “superamento” o “approfondimento” o “rafforzamento” o “miglioramento” di quest’ultimo; e quel ruolo, in quanto assegnato allo sraffismo nei caldi anni 1960\70 in Italia, ha da essere guardato con legittimo sospetto, in quanto l’ideologia dominante, mascherata a sinistra, cercava di accreditare così la presunta “crisi del marxismo”, epperò presentandola dal di dentro di quella che veniva suggerita come una delle possibili letture del “marxismo-senza-Marx”.
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'Caos', 'errori' e informazioni mancanti. Dove va l'Impero?
di Piotr
Offriamo alla vostra lettura un lucido saggio che rilegge in modo spregiudicato gli ultimi cinque anni della crisi sistemica e le premesse delle prossime mosse
1. Le vicende nel Vicino Oriente impongono di riflettere sulle modalità e le categorie con cui cerchiamo di interpretare la realtà.
Una di queste categorie, "caos", è tra quelle che devono essere maggiormente chiarite. Di questa necessità mi sento un po' responsabile perché sono stato uno dei primi a farne uso
Questo termine viene sempre di più utilizzato per descrivere situazioni incomprensibili nei termini di una strategia razionale da parte dell'impero statunitense.
La vittoria alleata in Europa nel 1945 non ha prodotto caos. La "mission accomplished" (in Iraq) di Bush sulla portaerei Lincoln nel 2003 segnò invece l'inizio dell'impressionante caos mediorientale oggi sotto i nostri occhi. Parimenti, il rovesciamento violento di Gheddafi non ha portato a un cambio di governo favorevole all'Occidente, bensì ha gettato quello sventurato paese nel caos più orrendo. Lo stesso destino che attendeva la Siria se l'Esercito Arabo Siriano e le milizie curde, infine con l'aiuto della Russia, non si fossero eroicamente opposti all'aggressione jihadista diretta e sostenuta dagli USA e dai suoi alleati (fra cui l'Italia).
A distanza di cinque lustri, l'Afghanistan "de-talebanizzato" persiste ad essere in una situazione caotica.
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Perché il neoliberismo appare inarrestabile?
Il “punto di vista del lavoratore” in Foucault
di Valerio Romitelli
Sono passati oramai quasi quarant’anni da quando Foucault con straordinaria lungimiranza teneva il famoso seminario (Nascita della biopolitica. 1978-79[1]) nel quale proponeva una genealogia del neoliberalismo, letto come fenomeno epistemologico e “governamentale” emergente, ma di sicuro avvenire. Già dal 1973 in Francia era stato infatti precocemente annunciato l’imminente tramonto di quell’”età d’oro” delle politiche keynesiane, da Stato provvidenziale, che erano invalse nei paesi capitalisti dal dopoguerra fino appunto alla metà degli anni ’70[2].
1. Ascesa ed apogeo
Quanto ne è seguito non ha fatto che confermare questa previsione.
Impugnato come bandiera da Reagan e dalla Thatcher, coi loro famigerati slogan “meno stato, più mercato”,”no alternative!”, il neoliberalismo si è trovato a cavalcare da conquistatore la stagione segnata dal crollo del muro di Berlino, il disfacimento dell’Urss e la conversione capitalistica della Cina. Uscita trionfante da tali prove, questa dottrina ha quindi iniziato a impiantarsi ovunque nel mondo, influenzando a suo modo le più clamorose novità intervenute tra il secondo e terzo millennio: dalla “globalizzazione dei mercati”alla “rivoluzione informatica”, dalla “finanziarizzazione dell’economia” all’ unificazione monetaria di buona parte dell’Europa, dal nuovo sviluppo di paesi già “arretrati” (i cosiddetti Bric) al progressivo approfondirsi della povertà su tutto il pianeta. E così via.
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Dell'origine della disuguaglianza
Com’è che nati liberi finimmo in catene
di Pierluigi Fagan
Due secoli e mezzo fa, il filosofo ginevrino J.J. Rousseau, partecipando ad un concorso indetto dall’Accademia di Digione, presentò il suo lavoro: Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes – 1755, conosciuto anche come Secondo Discorso per chi è pratico della messa a fuoco critica dell’intera opera dell’Autore o Discorso sull’ineguaglianza[1]. Non vinse il concorso, aveva vinto quello precedente in cui aveva inaspettatamente risposto negativamente al quesito se il progresso delle scienze e delle arti avessero apportato benefici all’umanità, ma la sua opera rimase nei secoli lì ad occupare in bella solitudine lo spazio dell’indagine sull’ineguaglianza sociale. Prima ancora che nella argomentata risposta di Rousseau, il bello stava già nella domanda in quanto essa stessa dava per scontato che ci fosse una origine della diseguaglianza, che non fosse stato sempre così nella storia umana come i più sono oggi portati a credere. Rimanendo attoniti davanti al fatto che a metà del XVIII° secolo ci fossero accademie che stanziavano borse per premiare elaborati su tali questioni, abbiamo tenuto lì a memoria l’indagine dello svizzero come mappa per avventurarci, anche noi ed ancora una volta[2], sullo stesso sentiero.
La prima cosa che abbiamo scoperto, è che le orme di Rousseau sono ancora ben leggibili, a distanza di tanto tempo, nei lavori di altri che hanno percorso la stessa incerta strada. L’opera ha quindi una sua attualità per quanto possa averla un’opera su fatti indagati a lume di ragione e quindi senza il conforto di tutto il registro paleo-antropologico, antropologico comparativo, archeologico, storico, sociologico, biologico molecolare successivamente prodotto.
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