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Ma quanti governi contiene il governo Renzi?
nique la police

Come si sa, a meno di non essere in preda ad una delle tante forme esistenti di complottismo, non esistono governi organici. Ogni governo è, dal punto di vista politico, un incrocio di complessità e di instabilità, di imprevisti che ritroviamo, in sottofondo, anche nelle dittature. Il governo Renzi sembra proprio, nonostante il marketing, essere fin troppo attraversato da complessità e instabilità, per non parlare degli imprevisti.
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Democrazia autoritaria
di Elisabetta Teghil
La Repubblica rifondata sulla sicurezza interna è una scelta dello Stato e dell’iper-borghesia o borghesia imperialista contro la conflittualità sociale e dettata dalla necessità di realizzare compiutamente il neoliberismo. Quest’ultimo è un’ideologia nel senso più compiuto del termine come visione onnicomprensiva della società. E’ l’approdo inevitabile dell’autoespansione del capitale così come l’iper-borghesia è l’autovalorizzazione di una borghesia transnazionale.
Il neoliberismo ha bisogno dello smantellamento delle situazioni economiche marginali e di sussistenza, l’iper-borghesia dell’emarginazione sociale ed economica di tutti gli altri strati della borghesia. Da qui le guerre neocoloniali e il rovesciamento di governi asimmetrici a questo progetto. Ed, altresì, il depauperamento di ampi strati della popolazione nei paesi occidentali.
La così detta crisi non è qualche cosa di inatteso o di correggibile con questa o quella formula, ma è un momento costitutivo della società neoliberista.
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Europeismo, euroscetticismo e sovranità nazionale
di Enrico Grazzini
La sinistra vuole un'altra Europa, una Europa rifondata: ma prima occorre prendere coscienza che per realizzarla è necessario smantellare l'attuale architettura dell'Unione Europea e demolire i presupposti alla base dell'unione monetaria. Riformare i vigenti trattati europei è un tentativo nobile. Ma è anche una missione pressoché impossibile perché occorre l'unanimità del voto di tutti i 28 paesi UE per modificare il trattato di Maastricht. Anche per innovare lo statuto della Banca Centrale Europea occorre l'assenso dei 28 paesi. Basterebbe l'opposizione di un solo stato, di un solo governo, per bloccare ogni tentativo di riforma! E' più facile ripudiare o abolire i trattati che modificarli!
Sul piano politico, è improbabile riformare la UE in senso progressista dal momento che i governi europei che contano, con l'eccezione della Francia socialista, sono conservatori (Gran Bretagna), di centrodestra (Spagna) o di larghe intese (Germania, Italia). Per costruire un'Europa socialmente e ambientalmente sostenibile occorrerebbe però (condizione necessaria ma certo non sufficiente) che nei maggiori paesi della UE, Germania compresa, nel giro di pochi anni andassero al potere governi di sinistra. Tuttavia lo spostamento a sinistra dell'Europa è davvero molto difficile. E' già arduo riuscire a eleggere un governo di sinistra in un solo paese, figuriamoci nella maggioranza dei 28 paesi!
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La socializzazione degli investimenti: contro e oltre Keynes
Riccardo Bellofiore
Le note che seguono sono nient’altro che appunti, incompleti, sulla ‘socializzazione degli investimenti’: espressione che compare, in modo cruciale, nell’ultimo capitolo della Teoria generale di Keynes. Il termine, negli anni a noi più vicini, è diventato di moda, soprattutto in una certa sinistra (quella che non si sa più come chiamare: alternativa, radicale; certo non di classe). Come di consueto, ciò è avvenuto in modo generico e acritico, all’interno di una troppo confusa ripresa di Keynes. Essendo stato tra quelli che la socializzazione degli investimenti la avevano, per così dire, nel proprio codice genetico da decenni, ma in un senso non poco diverso dalla lettera dell’economista cantabrigense, ciò che proporrò qui è un percorso di lettura (spesso costituito da pure e semplici citazioni, parafrasi), che aiutino ad orientarsi. Seguirà un breve richiamo agli usi che ne ho proposto in passato, ben prima della nuova vulgata in formazione, e qualche considerazione più strettamente teorica e politica.
Keynes
L’ultimo capitolo del libro del 1936 si apre con la affermazione, comprensibile ma limitata e discutibile, che i limiti principali della società economica in cui viviamo son costituiti dall’incapacità di dar vita al pieno impiego (senza l’intervento attivo dello Stato) e da una distribuzione inegualitaria della ricchezza e del reddito (se non vi sono interventi correttivi).
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Nessun appello per le scienze umane
di Annalisa Andreoni
L’appello di Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito e Ernesto Galli della Loggia in difesa delle discipline umanistiche uscito su una rivista autorevole come il Mulino (6/2013) ha la singolare capacità di far fare al dibattito sulla crisi culturale in corso un incredibile salto all’indietro di alcuni decenni. L’assunto di fondo è che in questa fase storica stia avvenendo un ripudio dell’umanesimo a favore della scienze dure, a partire dagli insegnamenti scolastici. Gli studi umanistici sarebbero gli unici che “assicurano il legame con la specificità della dimensione storica della vita”, mentre le discipline scientifiche sarebbero ovunque le medesime e tenderebbero a esprimersi tutte in una medesima lingua, l’inglese.
Il declino degli studi umanistici si rifletterebbe sulla crisi del “politico” che oggi abbiamo di fronte: ciò in particolare in Italia, perché “l’elemento più intrinseco della cultura letteraria e filosofica italiana è costituito proprio da quest’anima politica”, dato il ruolo quasi di supplenza esercitato in Italia dalla cultura storica, letteraria e filosofica, rispetto alla mancata unità politica. I tre intellettuali tracciano un breve profilo storico-ideologico su questa linea, tutta desanctisiana, che mette in fila Dante, Machiavelli, Sarpi, Campanella, Vico, Cuoco, Foscolo, Manzoni (e Cattaneo) e concludono che, se il politico è la chiave interpretativa della cultura italiana, la soluzione sta nel recuperarlo e nel rimettere il ruolo e le ragioni della politica al di sopra di quelle dell’economia, che negli ultimi anni è stata prevaricante.
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La trappola del Fiscal compact
di Thomas Fazi
Per mezzo dell’invenzione del bilancio strutturale, il Fiscal compact prima, il six pack e il two pack poi, hanno eliminato definitivamente anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di Maastricht. Condannando così l’Europa all’austerità permanente
Si parla tanto del Fiscal Compact ma pochi sanno come funziona veramente. E non solo in Italia. Nei corridoi di Bruxelles la voce che gira è che il testo completo del patto “l’hanno letto in 10 e capito in 3”. Quanto c'è di vero, dunque, su quello che si sente in giro?
Tanto per cominciare, c’è da dire che il Fiscal Compact di nuovo introduce molto poco. Il testo poggia in buona parte sul Trattato di Maastricht (1991) e sul patto di stabilità e crescita (1999) – le tavole su cui sono incise le sacre regole di bilancio dell’Ue –, e poi riprende e integra un insieme di disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-11 e per la maggior parte già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come il Patto per l’euro e in particolare il six-pack e il two-pack.
Com’è noto, il Trattato di Maastricht – successivamente rafforzato dal Patto di stabilità e crescita – si componeva di due “regole d’oro”:
a. Il divieto per gli stati membri di avere un deficit pubblico superiore al 3% del Pil. Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivo (Pde) obbligava i paesi “in difetto” a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
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Pasolini al «Corriere della Sera»
di Valerio Valentini
1. La «rivoluzione antropologica in Italia»
Voler comprendere a pieno l’esperienza giornalistica di Pier Paolo Pasolini al «Corriere della Sera» implica necessariamente il tener conto anche di quelle che furono le reazioni agli articoli che lui scrisse in quegli anni. Gli Scritti corsari e le Lettere luterane1 sono la testimonianza di un dialogo che Pasolini intessé con l’intera società a lui contemporanea: ascoltare un solo protagonista di quel colloquio, costringerlo ad una monologante ripetitività, rischia di svilire lo spessore di un intellettuale che, solo se studiato tenendo conto della pluralità delle voci che con lui dibatterono, può essere adeguatamente compreso.
Non solo. Rileggere gli interventi di Pasolini nel contesto generale del panorama giornalistico di quegli anni, rivela un altro importante elemento. E cioè come il modo di lavorare, da parte di Pasolini, fu enormemente condizionato dagli atteggiamenti assunti dai suoi colleghi in reazione ai suoi articoli, e come il confronto che egli volle instaurare con i suoi interlocutori gli risultò funzionale a collocare in una particolare posizione – estrema e controversa – la propria figura di intellettuale all’interno del dibattito politico contemporaneo.
Il 10 giugno 1974 il «Corriere della Sera» pubblica in prima pagina Gli italiani non sono più quelli. Si tratta dell’intervento che, più d’ogni altro, affronta in maniera programmatica quello che è il vero filo conduttore di tutta la saggistica corsara e luterana: la mutazione antropologica degli italiani.
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Dai territori dell’Europa orientale
Catene produttive, lavoro migrante, finanza
Intervista con Devi Sacchetto
Euronomade: Tu hai lavorato molto sull’Europa dell’Est e in almeno due direzioni: la prima concerne i flussi migratori e la composizione della forza lavoro; la seconda, mi sembra di poter dire, riguarda i processi di riorganizzazione del comando di impresa. Ci puoi dare qualche impressione di quadro?
Seguo le vicende dei paesi dell’Europa orientale da più di quindici anni. Mi pare che la situazione sia oggi molto articolata. Dal punto di vista spaziale si tratta di un’area che è attraversata contemporaneamente da processi di emigrazione (e talvolta ritorni), immigrazioni, rilocalizzazione e anche di ulteriore ri-rilocalizzazione. Questi fenomeni hanno assunto dimensioni di massa, basti pensare da un lato alle migrazioni dei romeni, dei polacchi o anche dei lituani e dall’altro lato agli investimenti produttivi nella Repubblica ceca, in Polonia, Ungheria, ma anche in Romania. L’area dell’Europa orientale è stata etichettata come la maquiladora dell’Europa occidentale dedita prevalentemente all’esportazione. È uno spazio però nel quale le stratificazioni sono ben visibili sulla base sia delle condizioni storiche sia anche dei nuovi processi che si sono sviluppati negli anni più recenti.
Per quello che riguarda le emigrazioni esse oggi si articolano in modo assai diverso da come gli studi solitamente presentano questi movimenti, mettendo a soqquadro le categorie di circolarità, permanenza, pendolarità.
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Vecchi e nuovi soggetti sociali critici e antagonisti in Europa
di Alfonso Gianni
L’ ora più buia è sempre quella
prima dell’alba, si sta facendo
mattino, e io so che possiamo
ancora avere giorni cantati
Pete Seeger
In una intervista rilasciata al Manifesto (1), Etienne Balibar ha affermato che in Europa “c’è bisogno di resistenza e di protesta ma sfortunatamente la possibilità più visibile è quella offerta dalla destra e dall’estrema destra, anche se non siamo agli anni ’30, la storia non si ripete, non c’è un forte partito fascista, ma siamo di fronte a una crisi morale che può favorire derive molto pericolose nell’opinione pubblica. I socialdemocratici si accorgeranno troppo tardi di non avere fatto nulla per combattere questo”. E’ difficile trovare un’analisi più lucida e puntuale, per di più riassunta in poche parole, con una rapida pennellata verrebbe da dire, sulla questione politica europea.
A distanza di pochi mesi dal rinnovo del Parlamento europeo sono in diversi a preconizzare l’incremento tra quei seggi di rappresentanti del populismo di destra antieuropeo e antieuro (ovviamente le due cose non collimano concettualmente, ma spesso di fatto sì). Lo si vede in modo evidente ovunque si guardi, a Ovest come a Est, a Sud come a Nord, in lungo e largo per il Vecchio Continente. Ma Balibar giustamente, e questo è un punto da tenere ben fermo, ci mette in guardia dalla retorica del pericolo imminente di un ritorno del fascismo, ben consapevole che l’agitare un simile spauracchio è esattamente una delle giustificazioni delle politiche delle grandi coalizioni.
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Gli smemorati: Riflessioni (amare) sulla crisi italiana
di Sergio Bologna
La memoria corta è un tipico difetto italico. Pronti a entusiasmarci per il nuovo arrivato sulla scena politica che promette quello che tutti, prima di lui, hanno promesso e nessuno ha realizzato, ci dimentichiamo allegramente le vicende, di cui tutti siamo corresponsabili, che ci hanno portato a questo punto: a una crisi che, al di là di quello che ci raccontano e ci raccontiamo, è crisi di sistema, che richiede, appunto, un cambiamento di sistema. Davvero viviamo in tempi oscuri, come scriveva tanti anni fa un grande poeta tedesco dimenticato, e l’umore non può essere che nero, come quello di Sergio Bologna. Ma ricordare fa sempre bene.
Ricevo le newsletter che vanno per la maggiore, lavoce.info, sbilanciamoci, nel merito.com ed altre, leggo ogni tanto Huffington Post, mi capita anche eccezionalmente di buttare l’occhio sui quotidiani, navigo su Reuters, Bloomberg, l’Economist, FT e chissà perché alla fine ho sempre la sensazione che manchi qualcosa nei ragionamenti sulla crisi italiana, qualcosa di grosso, non un dettaglio. Ed allora provo a ricominciare daccapo, mettendo in fila gli avvenimenti, per vedere se sono i miei occhiali che non funzionano più oppure quelli dei validissimi esperti, 95% dei quali economisti, docenti universitari, che redigono con abnegazione le suddette fonti con il nobile intento di far capire alla gente dove andremo a finire. Un vero servizio sociale fornito gratuitamente, un esempio di encomiabile volontariato. Ma che rischia di essere inutile.
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Fassina: un passo avanti e due indietro
Sergio Cesaratto
Pubblico una breve e sgrammaticata cronaca dell'incontro alla Camera dei deputati, il sonoro è qui. Segue una traccia del mio intervento (letto solo in parte). Infine una postilla su ciò che penso.
Cronaca dell’evento
Il mio intervento ha un audio pessimo, colpa mia che ho parlato con troppa veemenza e vicino al microfono. Non è molto importante. Un commento più serio riguarda gli interventi finali. Mentre D'Antoni è stato più problematico Guerrieri è stato di nuovo totalmente arroccato nella difesa non solo dell'Europa (passi) ma dell'euro. Fino a che mi si dice che una rottura sarebbe complicata e rischiosa sono d'accordo, ma una difesa sperticata dell'euro con argomenti triti (cosa farebbero 17 piccoli paesi con la Cina lupo cattivo... come se non si potesse ricostituire una forma di unità europea senza euro con cambi fissi ma aggiustabili ecc.) Fassina che ci aveva promesso il piano B ha anche parlato di una rottura dell'euro come sconfitta storica, che se si rompe si sfascia tutto, il baricentro del mondo si è spostato, insomma il trito e ritrito.
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Una risposta a proposito del M5s
di Aldo Giannuli
Esaurite le scadenze che mi hanno tenuto maggiormente occupato, lasciando che si accumulassero “sulla scrivania” del sito molte questioni, mantengo la promessa di intervenire sui temi di cui mi si era fatta richiesta. Intanto, ringrazio sia Angelo che Lorenzo per avere introdotto la discussione, rispettivamente, su Venezuela e Ucraina come meglio non si sarebbe potuto; dirò anche la mia su queste due questioni, prima però mi tocca occuparmi del M5s, e delle sue “purghe” interne, dato che qualcuno mi ha accusato di doppiopesismo. Nessun doppio peso: vengo al merito della questione.
Il riferimento ovviamente è alle espulsioni in corso dal gruppo parlamentare. Che io sia –per usare un eufemismo- fortemente perplesso su certe procedure sommarie, si sarebbe potuto capire anche dalle due righe di post scriptum al pezzo “Buone notizie per la lista Tzipras”. Ma, sfogliando indietro le pagine di questo blog, è facile rinvenire diversi pezzi sulla stessa questione (ad esempio “Grillo perché vuoi rovinare tutto?”), per cui la mia posizione in merito non credo possa far nascere dubbi in chiunque sia in buona fede. Ma cerchiamo di approfondire la questione.
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Haavelmo e la crescita impossibile nel 2014
Francia, Italia e la recessione "competitiva"
di Quarantotto
Come suggerito da Arturo , laddove si vede incidenza di competitività di prezzo e dei tassi di cambio reali. Come dire: l'euro in sè.
La Francia è messa malino per il futuro immediato? Di più, a rigore, la Francia non ha un futuro nell''euro, dato che attualmente è impegnata, con Hollande in piena "svolta Hartz" , a correggere lo squilibrio delle partite correnti con l'uccisione della domanda interna. Come dire che si piegano alla Merkel mentre fanno la voce grossa con Putin. Ma come si fa quando ci si priva della domanda estera, grazie al cambio folle dell'euro (tranne che per la Germania) e non si può ricorrere alla domanda pubblica? Non si fa.
Il fatto è che questo problema è generale in UEM.
E ce lo dicono sia alla BCE che alla Commissione UE: solo che per loro non cambia nulla, mentre cambia molto per i popoli coinvolti...che è l'ultima delle loro preoccupazioni. E infatti la BCE azzarda mirabolanti previsioni di crescita dell'Eurozona che non stanno nè in cielo nè in terra.
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L’insostenibile rimborso del debito
Giorgio Gattei, Antonino Iero
L’economia italiana deve convivere con la presenza ingombrante di un debito pubblico che ha ormai superato il 130% del prodotto interno lordo. Non è l’unico e, forse, neanche il più grave dei problemi che assillano il nostro sistema produttivo. Tuttavia, vista la rigida dipendenza dai mercati finanziari che l’adesione alla moneta unica europea ci ha imposto, la questione del debito pubblico assume una valenza particolarmente importante poiché foriera di rilevanti ricadute su tutto il quadro economico nazionale (dalla solidità del sistema bancario al flusso di credito verso le imprese, fino al livello dei tassi di interesse applicati al sistema economico).
Il contenimento del debito
In questo contesto, la strada intrapresa dai governi italiani per gestire l’enorme peso del debito pubblico è stata quella del perseguimento di importanti avanzi primari, con attivi spesso di dimensione non indifferente. Così, dopo il picco toccato nel 1994 (121,2% del Pil), il debito pubblico italiano aveva imboccato un sentiero in discesa fino al minimo locale di 103,3% nel 2007, ma poi lo scoppio della bolla immobiliare Usa, poi rovesciatasi sull’economia reale, ha dato luogo ad una pesante fase recessiva dalla quale i bilanci pubblici sono usciti malconci, sia per la riduzione delle entrate, legata alla contrazione delle attività economiche, che per l’aumento delle uscite, connesso con l’attivazione degli ammortizzatori sociali.
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“Postmodernità”, “pensiero debole” e “nuovo realismo”
Ovvero inconsistenza e miseria della filosofia italiana contemporanea
di Gianfranco Bosio*
Da qualche tempo non si sentiva più tanto parlare di “pensiero debole”, di “postmodernità” e simili, o meglio, tutto quello che se ne diceva e se ne scriveva passava inosservato. La moda che con tanto entusiasmo e con tanta invasività aveva fatto irruzione nella pubblicistica filosofica italiana dei nostri giorni, fino al suo arrivo trionfale sui palcoscenici massmediatici dei vari “festival” della filosofia italiana, sembrava essere entrata in una fase di stanca e di riflusso. Meno male che ci ha pensato Maurizio Ferraris con il suo Manifesto del nuovo realismo, i cui principi sono apparsi per la prima volta sul quotidiano “La Repubblica” (8 agosto 2011). L’esposizione completa è del 2012. E’ stato più di un sasso gettato nello stagno. Ha prodotto un vero sconquasso.
Tutto si è rianimato e i discorsi sui benefici di liberazione e di emancipazione del “postmodernismo” e del “pensiero debole” sono risorti e rifioriti come per incanto. Se fossi un “complottista” mi verrebbe da pensare che le due parti in contesa si siano messe d’accordo, fingendo di litigare per poi spartirsi le glorie della scena editoriale e della ribalta della cultura (un po’ come fanno anche i politici, che però si spartiscono molto di più).
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Ucraina: da “periferia” a frontiera di guerra
Nicola Casale, Raffaele Sciortino
Non è facile prevedere l'evoluzione dello scontro in Ucraina. Da un lato, si è visto all’opera il meccanismo ben oliato del regime change impulsato da Occidente non per via militare ma grazie alla mobilitazione di una parte della popolazione sulla base di uno scontento reale (a scanso di complottismi). Accompagnato dal pervasivo dispositivo della comunicazione sul cui terreno le postdemocrazie occidentali sono semplicemente imbattibili: il popolo ucraino sovrano ha scelto, Putin è l’aggressore… Quale anima democratica (o fan delle Pussy Riot)1 potrebbe nutrire dubbi? Se poi i russi di Crimea vogliono il referendum per la loro, di sovranità… infrangono il diritto internazionale.
Questa volta, però, l’incedere oramai parossistico della marcia imperialista (si può dire o urtiamo i diritti umani?) – sotto il nobelpremiato Obama: Libia, poi Siria, forse Venezuela, senza contare quanto avviene in Africa centrale o si prepara in Asia ai danni della Cina – è arrivato ai confini della Russia. E se l’attivismo di innesco di Berlino pare ora voler frenare, viste le possibili conseguenze in Europa, Washington invece provoca, la Clinton paragona Putin a Hitler (inquietante refrain già sentito…), Obama sbava di rabbia e vorrebbe, una volta per tutte, coalizzare il mondo contro la Russia.
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Piccola storia della WertKritik
Franco Senia
Sono ormai passati quasi trent'anni, da quando la Scuola della Wertkritik (critica del valore) ha cominciato a sviluppare il suo progetto di terza teoria critica, pertinente alla terza rivoluzione industriale, a partire dalla relazione fra teoria e crisi. Quando la crescita del capitale - o, più precisamente la socializzazione del valore (Wertvergesellschaftung) - inizia a fermarsi, anche se lo fa solamente per un breve periodo, questo non equivale solo ad una crisi "economica", ma anche ad un'incipiente decomposizione di tutta la "pseudo-natura" che si è storicamente costituita intorno alla forma-valore ed all'espansione di tale forma immanente. Le crisi pertanto coinvolgono il lavoro, la politica, le nazioni, l'arte, la ragione e tutte le categorie della metafisica realizzata. Se poi la crescita raggiunge quello che è il suo limite assoluto, allora questo significa che tutte le categorie summenzionate sono condannate e si trovano, a lungo termine, al di là di ogni possibilità di salvezza. E, cosa più importante di tutte, non sono in grado di fornire alcun tipo di orientamento che possa contribuire alla ricerca di una via d'uscita.
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“La lezione del caso Electrolux”
di Guido Viale
Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiuderla, o di trasferirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli operai, o per poter inquinare l’ambiente senza tante storie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requisire l’azienda (i sindaci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pubblico) e impedirgli di portar via i macchinari. Poi bisognerebbe bloccargli i conti e farsi restituire i fondi che, 90 probabilità su 100, ha già ricevuto dallo Stato sotto forma di contributi a fondo perduto, credito agevolato, sconti fiscali e contributivi (ma qui dovrebbero intervenire anche altre istituzioni: Governo e magistratura). A maggior ragione questo vale se l’imprenditore in questione pone delle condizioni inaccettabili per “restare”: per esempio dimezzare i salari, come all’Electrolux.
Ma quello che non bisognerebbe assolutamente fare è cercare un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo italiano finge di affrontare le situazioni di crisi (sul tema sono aperti al ministero dello Sviluppo economico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “imprenditore” o un gruppo disposto a rilevare l’impresa alle condizioni esistenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo.
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Tsipras? L’Europa e la Nazione
di Luca Michelini
Luca Michelini interviene nel dibattito dopo l’incontro con Guido Viale di venerdì 21 febbraio alla Cascina Massée. Leggi nel seguito il testo integrale dell’intervento diffuso con la mailing list Democrazia economica
1. Sono tra i firmatari per la lista Tsipras e, se le condizioni lo permetteranno, rimarrò nel comitato organizzativo provinciale della lista. Ho ascoltato all’assemblea di presentazione di Como la conferenza programmatica che ha tenuto Guido Viale, tra i promotori di questa nuova aggregazione. Ma di che cosa si tratta, esattamente? E come valutarla?
Le riflessioni che propongo vorrebbero costituire una focalizzazione di problematiche, piuttosto che un grido di battaglia propagandisco, a cui non sono aduso e che ritengo del tutto controproducente.
Del resto, sono osservazioni problematiche per un motivo preciso: perché sarà solo il corso degli avvenimenti futuri a determinare le scelte di voto e di militanza. Gli scenari sono in così rapida evoluzione che sarà anche solo il mero istinto di sopravvivenza a dettare l’agenda di ciascuno. A questo, purtroppo, ci ha ridotti la politica italiana e coloro i quali, da posizioni dominanti sul piano economico e sociale e istituzionale, la dirigono.
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Ucraina e Venezuela: chi sono gli invasori?
di Redazione
Esiste ancora (o è mai esistito) il “totalmente buono” e il “totalmente cattivo” quando si parla di poteri, di geografie di interessi e di prove di forza? Possono essere così semplicisticamente riconoscibili il male e il bene? Può aiutare uno spirito critico a tutto campo, sanamente “anarchico” o, per dirla con una parola che fa (forse) meno paura, sanamente laico? Il Cambiamento ha scelto di proporre ai lettori l’analisi che Silvestro Montanaro fa di ciò che sta accadendo in Ucraina e Venezuela. Montanaro è giornalista scomodo, faceva una trasmissione scomoda, “C’era una volta”, sulla Rai.
Aspro, ruvido, diretto, disincantato, a volte destabilizzante. Silvestro Montanaro nell’analisi che vi vogliamo proporre si discosta sostanzialmente dai toni e dal merito che si sono rincorsi in queste settimane sui media “convenzionali”. Va dritto, nessun giro di parole, il suo pensiero è chiaro, per alcuni potrà apparire persino irritante perché può destabilizzare. Così come per tanti altri potrà essere illuminante. Chiamiamo i lettori al confronto, commentate, condividete con noi le riflessioni che questi scritti vi sollecitano. Il confronto arricchisce.
«La Crimea è russa. Lo è storicamente, culturalmente, economicamente. Fa parte intimamente della leggenda della Grande Madre Russia. E' sul suo sangue, nella resistenza durata quasi un anno, all'invasione nazista che si decidono le sorti della Seconda Guerra Mondiale, della stessa Russia e della libertà nel mondo.
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Felici e sorvegliati
di Carlo Formenti
Le preoccupazioni per l’uso intensivo dei media digitali come strumenti di sorveglianza pervasiva sono aumentate esponenzialmente dopo le rivelazioni della “gola profonda” Edward Snowden sulle pratiche di spionaggio messe in atto dai suoi ex datori di lavoro, la maggiore agenzia di sicurezza Usa, la NSA, ai danni dei cittadini americani e di tutti gli altri Paesi, nonché di capi di stato (anche alleati) e imprese pubbliche e private.
A mano a mano che Snowden rendeva noti nuovi documenti che denunciavano tali pratiche – intercettazioni di conversazioni telefoniche, email e quant’altro – i media sfoderavano gli immancabili riferimenti al romanzo 1984 di Orwell, o al Panopticon di Bentham, utilizzato da Michel Foucault come emblema di una modernità assurta a regno della sorveglianza e del controllo. Ora un libro a quattro mani di David Lyon e Zygmunt Bauman (si tratta di una conversazione a distanza, realizzata attraverso lo scambio di email) dal titolo “Sesto Potere. La sorveglianza nella modernità liquida” (Ed. Laterza) suggerisce una prospettiva diversa.
Lyon, da sempre attento analista dei problemi della sorveglianza, e Bauman, il filosofo che ha sostituito il concetto di “modernità liquida” alla categoria di postmodernità, ribaltano gli scenari orwelliani e foucaultiani di cui sopra ai quali contrappongono quattro tesi di fondo:
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Potere, sinistra e media
La “shock disinformation” che sdogana il peggiorismo
Stefano Santachiara
Coloro i quali, per formazione culturale o predispozione, non appartengono alla categoria degli economisti che primeggiano nei media generalisti, nelle università e nei consessi esclusivi – talvolta contemporaneamente – potranno rilevare la particolare natura dei progetti di Matteo Renzi e le sofisticate tecniche di comunicazione di massa con cui si stanno dispiegando. Non possedendo il completo ventaglio di elementi per una valutazione approfondita delle infinite variabili insite nelle politiche economiche e monetarie, consiglio la lettura di studiosi di ogni orientamento per accrescere la propria consapevolezza. Credo però che ognuno debba infischiarsene della conditio sine qua non degli addetti ai lavori e possa contribuire al dibattito condividendo il proprio patrimonio di competenze, siano essere storiche, giuridiche, scientifiche o umanistiche. Sotto l’aspetto dell’informazione il veteroblairismo del giovine premier, terzo esemplare della tecnocrazia priva di legittimazione elettorale, è abilmente occultato sotto una miscela pirotecnica di annunci, finte provocazioni, specchietti per le allodole. Soltanto analizzando questa sfera fondamentale è possibile sviluppare un ragionamento compiuto sul vero obbiettivo di questa nuova generazione della politica con la p minuscola, la cui debolezza rispetto al potere economico affonda le radici nella mutazione antropologica e culturale, oltrechè di etica civile, della sinistra italiana.
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L’impatto dell’euro sulle economie nazionali*
di Spartaco A. Puttini
Innanzitutto, ai fini della questione che dobbiamo affrontare, sono indispensabili alcune premesse.
Nonostante nel linguaggio comune Unione europea ed Europa vengano utilizzati come sinonimi, in realtà l’Unione europea non è l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona non è che una parte della Ue.
Mentre per quanto riguarda la costruzione degli Stati nazionali la spinta era venuta da quella che Renan definiva “la coscienza di aver costruito insieme cose importanti nel passato e la volontà di continuare a costruirle insieme in futuro”, il processo di integrazione europeo ha avuto come molla la paura dell’irrilevanza in cui il vecchio continente era precipitato in seguito all’esito del secondo conflitto mondiale e all’ascesa degli Usa e dell’Urss come attori di primo piano sulla scena internazionale. E’ stata questa irrilevanza all’ombra dell’equilibrio del terrore termonucleare tra le due superpotenze che ha garantito per alcuni decenni la pace sul vecchio continente e non il processo di integrazione.
Il processo di integrazione europeo è stato accompagnato da suggestioni federaliste e ipotesi unitarie. Quella più nota è la spinta verso gli Stati uniti d’Europa, formulata da Altiero Spinelli. Abbastanza nota è anche la propensione delle forze d’ispirazione democratica cristiana alla costruzione di un’Europa unita, intesa come terza forza tra le due superpotenze. Ma non furono solo forze democratiche, laiche o cattoliche, a definirsi europeiste.
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La questione di classe è una questione di genere*
Giovanna Vertova
Gli attacchi al mondo del lavoro, da parte del capitalismo globale finanziario, non hanno gli stessi effetti su lavoratori e lavoratrici. Inoltre, per comprendere il fenomeno, occorre distinguere i fenomeni esogeni, che hanno portato all’instaurazione di questo nuovo modello capitalistico, ed i fenomeni endogeni, economici ma anche politicamente voluti e controllati. Per esempio, la trasformazione della Cina e dei paesi del blocco sovietico in paesi ormai capitalistici ha avuto come effetto un raddoppio della forza lavoro mondiale, permettendo così un dumping sociale su scala globale. Questo è stato un fatto esogeno. Al contrario, la finanziarizzazione dell’economia è il risultato di scelte anche politiche. La finanziarizzazione è nata anche perché politicamente si sono permesse “innovazioni” degli strumenti finanziari, la nascita dei derivati, etc. L’amministrazione Clinton ha cancellato il Glass-Stegall Act – la legge bancaria del 1933, introdotta a seguito della crisi del 1929, che prevedeva una netta separazione tra l’attività bancaria tradizionale e quella di investimento – seguendo la logica della de-regolamentazione del settore bancario-finanziario. Anche la liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata politicamente fortemente voluta. L’integrazione europea con questo tipo di euro è il risultato di scelte politiche.
Fatta questa premessa, va sottolineato che l’attacco al mondo del lavoro da parte di questo “nuovo” modello capitalistico avviene in un modo diretto ed in uno indiretto.
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Femminismo materialista
Sogni…disincanto…fessure…….
di Elisabetta Teghil
Gli anni del femminismo sono stati gli anni del desiderio. Di fronte alla “miseria” offerta dal trascinamento dal femminista al femminile, l’accento sul femminismo e sulla nostra liberazione si presenta come altro, come una scommessa, un impegno oltre il presente. Momento attuale che pretende di annullare il conflitto e la ribellione e di piegare tutte/i rassegnate/i al dominio della merce.
E, a questo progetto, rinnovato ma sempre uguale, di oppressione su di noi, a questa dissipazione della libertà e dell’esistenza, le complici tendono a negare le loro responsabilità.
Anzi, chiamandosene fuori, se ne rendono, proprio in questo modo,attive e partecipi anche e, soprattutto, nel banale dispiegamento della vita quotidiana.
In prima fila ci sono le femministe riformiste, socialdemocratiche, le ortopediche del “politicamente corretto”, psicologhe, assistenti sociali, psichiatre, poliziotte “buone”…direttore di carceri… piddine e le loro appendici e similari e annesse e connesse…
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