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Marx, moneta e capitale
Paolo Davoli e Letizia Rustichelli intervistano Lapo Berti
Questa mattina Effimera ripropone la lettura di una intervista davvero interessante all’economista Lapo Berti, che ha fatto parte del collettivo redazionale della rivista Primo Maggio e dell’area del postoperaismo italiano, realizzata da Paolo Davoli e Letizia Rustichelli. Ringraziamo il collettivo di ricerca indipendente Obsolete Capitalism, di cui i due autori dell’intervista fanno parte, nonché Obsolete Free Press e Rizosfera Edizioni per la possibilità di ripubblicare il testo (che potete scaricare in pdf qui:Marx_moneta_e_capitale-_intervista_con_Lapo Berti). Diamo con ciò avvio a una collaborazione con OC allo scopo di favorire fruttuosi scambi di materiali e la loro diffusione.
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L’intervista con Lapo Berti che qui presentiamo è parte del volume collettivo «Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire. Nietzsche e la politica accelerazionista in Deleuze, Foucault, Guattari, Klossowski» pubblicato per Obsolete Capitalism Free Press lo scorso luglio 2016. La ricerca sulla moneta ha accomunato, certo in modo diverso, gli autori rizosferici francesi degli anni ‘60 e ‘70. Lo strumento «moneta» è stato da loro considerato come il dispositivo centrale utilizzato dalle economie di mercato del capitalismo avanzato per avviare à grande vitesse quella profonda trasformazione del regime produttivo fordista in una nuova forma di produzione altamente tecnologizzata, nonché dislocata, finanziarizzata e internazionalizzata. Non solo la Rizosfera francese ha saputo cogliere chiaramente questo cambio di paradigma economico nello stesso momento in cui si stava compiendo, ma è anche riuscita ad effettuare analisi efficaci e originali dello strumento «moneta» fin dal suo apparire nelle terre anatoliche dell’VIII secolo a.c. e nelle città greche del VII e VI secolo a.c.. La moneta, per i filosofi rizosferici, è dunque il dispositivo «accelerazionista» per eccellenza della politica di «dominio rapido» instaurato dalle nuove economie di mercato mondializzate e finanziarizzate.
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Andando incontro alla tempesta, senza mappe e bussole, litigando, in un vascello di cui non abbiamo il timone
di Pierluigi Fagan
1. Tra coloro che si trovano nella poco invidiabile condizione espressa nel titolo, c’è un gruppo di persone che nella loro vita hanno desiderato, sognato, immaginato un modo di stare al mondo in cui all’interno dei gruppi umani, grandi e piccoli, la differenza umana non si ordinasse attraverso una gerarchia fissa, il dominio sistematico di alcuni umani su altri. Questo sentimento sociale che chiamiamo sentimento d’uguaglianza, ha preso varie forme nella storia: piccole comunità religiose, produttive, militari, politiche, guidate dal principio d’uguaglianza. Nella grandi comunità, è stato molto più difficile trovare la forma che tende all’uguaglianza del potere sociale tra individui e la sua ricerca, ha preso per lo più la forma della rivolta a qualche odiosa condizione di sudditanza. Molte di queste rivolte sono poi state soffocate o normalizzate. In qualche raro caso, sono arrivate a conseguire il potere generale della comunità ma purtroppo, hanno poi subito una trasformazione che le ha portate a replicare, magari cambiando i segni della rappresentazione sociale sul solo piano formale, il potere dei pochi su i molti.
Questo sentimento di uguaglianza è non solo esteso a tutto il tempo umano ma anche a tutto il suo spazio, lo si può dire con cautela su i precisi confini della sua consistenza, forse, un universale. Probabilmente, si basa su un dispositivo di logica individuale naturale.
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Rottamare Maastricht
di Militant
Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Rottamare Maastricht, di A. Barba, M. D’Angelillo, S. Lehndorff, L. Paggi, A. Somma
Da qualche anno Derive Approdi sta rispondendo ad un’esigenza culturale e politica di confronto d’alto profilo sulla natura della crisi del capitalismo e sulle possibili vie d’uscita. Invece di sposare una posizione, ne mette sostanzialmente due a confronto: da una parte il filone foucaultiano-biopolitico dell’analisi del/sul potere liberale dei nostri giorni; dall’altra l’analisi marxista della crisi, le sue origini, le sue conseguenze economiche e politiche. Le due impostazioni sembrano trovare un terreno di confronto comune sull’Unione europea. E’ inevitabile che sia così: la Ue è la concretizzazione politica, economica ma anche culturale e “valoriale” che il capitalismo liberista assume nell’Europa oggi. Parlare di potere e di crisi non può che condurre ad una riflessione sulla costruzione europeista. E’ in questa direzione interpretativa che va inserita la pubblicazione di questo Rottamare Maastricht, un libro breve (186 pagine), composto di più saggi, che si offre come strumento per la comprensione delle storture dell’Unione europea intesa come progetto politico-economico fallato dalle sue fondamenta. L’obiettivo è dato sin dal titolo: rottamare i trattati europei, a cominciare da quello più cogente/coercitivo: Maastricht. Sul come, si aprono le interpretazioni più diverse, e i saggi proposti non arrivano (forse giustamente) a sintesi. Non è però questo che si chiede ad uno strumento di comprensione del presente. La soluzione non potrà che arrivare da un processo collettivo che imporrà una sintesi politica autorevole alle diverse interpretazioni dell’Unione europea. Dal nostro punto di vista, questa non potrà che passare dalla rottura qualsiasi essa sia della Ue, ma sul tema c’è ancora fermento a sinistra.
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A proposito di femminismo
Risposta ad Antiper
Coordinamenta Femminista e Lesbica
Il vostro articolo del 25 novembre scorso è pieno di citazioni e grandi affreschi.
Forse, se una critica si può fare, si potrebbe notare che, pretendendo di mettere tanta diversa carne al fuoco, l’articolo finisce per bruciare tutto e lasciare ben poco da mettere sotto i denti.
La critica rivolta al nostro gruppo femminista “coordinamenta femminista e lesbica” sembra un buon esempio di questi errori “di cottura”. La critica che ci rivolgete è di poco conto, ma la scelta di esercitarla in un paragrafo in cui si prende di mira (a ragione!) il femminismo della differenza finisce per farle assumere ben altra rilevanza.
Perché fare il nome di un gruppo politico femminista che si oppone, da ben prima di voi, al pensiero innatista che accomuna ormai il femminismo di regime e molte femministe compagne? Perché utilizzare la coordinamenta come esempio di cattiva declinazione del femminismo (addirittura come esempio di articolazione prettamente formale della lotta) quando siamo uno dei pochi collettivi di compagne (l’unico romano) che ha preso pubblicamente parola contro la giornata del 26, opponendosi con forza a questa meschina manovra che sta minando da dentro le fondamenta del femminismo rivoluzionario per consegnarlo, attraverso la sua riduzione a lotte categoriali perfettamente compatibili con il capitalismo, nelle mani, non della borghesia tout court, ma della borghesia neoliberista?
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La nozione di popolo in Marx, tra proletariato e nazione
Isabelle Garo
La questione europea ha rilanciato i dibattiti, in seno alla sinistra radicale, sull’internazionalismo. Si è progressivamente affermata la necessità di ripensare a un internazionalismo concreto, il quale rifiuti l’alternativa disastrosa tra il nazionalismo razzista dell’estrema destra e l’internazionalismo del capitale incarnato dall’Unione europea, rinunciando altresì alle semplificazioni di un internazionalismo astratto.
Quest’ultimo postula, proprio in ragione dell’internazionalizzazione del capitale, che sarebbero state risolte le questioni strategiche dell’articolazione degli spazi – locali, nazionali e internazionali – nella definizione di un progetto di rottura anticapitalista, e dell’appartenenza nazionale del proletariato. È a quest’ultimo problema, in particolare, che tenta di rispondere Isabelle Garo nel testo seguente, discutendo il concetto di popolo in Marx e le sue prese di posizione riguardo ai movimenti di liberazione nazionale.
* * * *
La questione del popolo in Marx è complessa, a dispetto delle tesi troppo nette che spesso gli vengono attribuite in proposito. A una prima lettura, in effetti, si è portati a pensare che Marx costruisca la categoria politica di proletariato proprio in contrapposizione a quella classica di popolo, eccessivamente inglobante e soprattutto omogeneizzante, la quale, inoltre, occulterebbe i conflitti di classe.
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Lotteremo da una generazione all’altra*
di Sandro Moiso
David Gilbert, AMORE E LOTTA. Autobiografia di un rivoluzionario negli Stati Uniti, a cura di Giacomo Marchetti e Nora Gattiglia, MIMESIS 2016, pp. 400, € 26,00
Ho appena finito di leggere il libro di Gilbert e un brivido di commozione e, forse, di rabbia mi percorre tutto dalla nuca al resto del corpo. E’, senza ombra di dubbio, una delle testimonianze più sincere e commoventi che sia mai uscita dalla penna di un rivoluzionario. Rivoluzionario inteso nel senso più ampio del termine e, per giunta, condannato alla detenzione ben oltre la fine dei suoi giorni.
Condannato a settantacinque anni di reclusione il 6 ottobre 1983, quando aveva 39 anni, David dovrebbe infatti finire di scontare la sua pena nel 2058, all’età di 115 anni. Basterebbe questa sola considerazione a dimostrare quanto folle, oltre che iniquo, sia un sistema giudiziario, quello statunitense, che si vorrebbe equo e moderno. Ma che nei fatti non lo è e che si dimostra ancora una volta crudele (ai limiti del sadismo oppure addirittura superando gli stessi), classista, razzista e inumano oltre ogni dire.
Condanna arrivata a seguito di una rapina finita male, molto, con alcuni militanti, una guardia giurata e due agenti di polizia uccisi, messa in atto dal BLA (Black Liberation Army) il 20 ottobre 1981 e di un processo che definire “farsa” sarebbe ancora troppo poco. Fatti che costituiscono la trama degli ultimi, terribili otto capitoli delle memorie dell’autore e che hanno segnato in maniera drammatica la sua vita e le sue scelte, non solo politiche.
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La sinistra non la si ricostruisce solo sul no-euro
F. Giusti e F. Gabriellini intervistano Sergio Cesaratto
Sergio Cesaratto, economista, ordinario all'università di Siena, autore di Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi (e come superarla), Imprimatur, 2016. Lo abbiamo intervistato per Controlacrisi.org in occasione del presentazione del suo libro tenutasi a fine novembre a Pisa a cura del municipio di beni comuni e dei delegati\lavoratori indipendenti
Nel 2012 hai scritto un libro con Massimo Pivetti dal titolo Oltre l'austerità. Ce ne vuoi parlare soffermandoti sui risultati di queste politiche in Italia e in Europa?
Nel 2012 il libro pubblicato on line da Micromega fu una prima testimonianza contro le politiche europee. Naturalmente tutto quello che scrivemmo lì si è avverato soprattutto nei riguardo degli anelli più deboli dell’eurozona, Grecia, Portogallo, Italia. Le cose vanno apparentemente meglio in Spagna al costo di una riforma del mercato del lavoro ancora più feroce di quella italiana in cambio della quale Madrid ha però ottenuto una certa tolleranza per i suoi disavanzi pubblici. Così da anni è concesso a quel Paese di sforare i parametri europei e ciò spiega la sua maggiore crescita. Sospettiamo anche che la finanza internazionale, la Deutsche Bank in primis, abbiano l’ordine di servizio di continuare a finanziare quel Paese così virtuoso. Ciò non è concesso all’Italia, che il capitale tedesco vuole schiacciare distruggendo la nostra industria. La devastazione che l’austerità europea sta imponendo al Paese è enorme. Il pericolo maggiore è l’assuefazione al degrado.
Sei lezioni di economia nascono da un colloquio immaginario con i tuoi studenti, quesiti che scaturiscono dai tuoi corsi universitari come nasce l'idea del libro e come si è sviluppata?
La lettrice (o lettore) immaginario non è necessariamente uno studente.
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Governare con la crisi
di Pierre Dardot e Christian Laval
Pierre Dardot e Christian Laval dopo la pubblicazione di La nuova ragione del mondo e Del comune pongono ora alla nostra attenzione Guerra alla democrazia, da poco uscito in italiano per DeriveApprodi. Qui ne pubblichiamo il primo capitolo, per gentile concessione della casa editrice, che ringraziamo
È una storia greca. Una storia che getta una luce singolarmente viva sul nostro presente. Più precisamente, è una commedia di Aristofane andata in scena nel 388 a.C. e intitolata Pluto. Colui che viene indicato con questo nome non è nient’altro che il dio della ricchezza e del denaro1. Che qui si presenta nelle sembianze di un vecchio coperto di stracci, accecato da Zeus, errante per le strade. Mentre in genere Pluto è raffigurato come un cieco, perché distribuisce ricchezza in funzione del caso, sui ricchi come sui poveri, il personaggio della commedia di Aristofane riserva le proprie buone azioni solo ai ricchi, preferendo tra questi truffatori e malfattori. Guarito della propria infermità dalle cure del dio Asclepio, a tutti promette abbondanza. Penia (la povertà) ha un bel da fare nell’obiettare che se i poveri diventassero ricchi, nessuno più lavorerebbe: la promessa della ricchezza universale ha comunque la meglio. Così si festeggia la guarigione di Pluto e la commedia si chiude con «un’apoteosi rovesciata»: una processione solenne si reca all’Acropoli, ritmata da una danza e illuminata dalle torce, per insediare Pluto nell’abside del tempio di Atena e della polis.
Oligarchia contro democrazia
Nel trionfo di Pluto la commedia rivela un vero e proprio «mondo a rovescio».
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Tecno-scienza e tardo-capitalismo
Sette tesi per una discussione inattuale
di Franco Piperno
Nella nostra epoca, quella del tardo-capitalismo,pressoché tutte le forme dei saperi propriamente scientifici sono stravolte: l’originaria “filosofia della natura” coltivata nelle università da piccoli gruppi di ricercatori, se non da singoli individui, si è via via dislocata all’interno del complesso militare-industriale, divenendo appunto “Big Science”: una vera e propria fabbrica di innovazioni tecnologiche caratterizzata dai costi immani e da decine e decine di migliaia di ricercatori che lavorano in un regime di fabbrica di tipo fordista.
Si può affermare che il Progetto Manhattan, ovvero la costruzione della bomba atomica americana, costituisca il punto di non ritorno che separa la scienza moderna da quella tardo-moderna, la “Big Science” appunto.
A dispetto di una opinione tanto fallace quanto diffusa, non esiste né può esistere un “capitalismo cognitivo”; semmai v’è,in formazione, un “capitalismo tecnologico”, un modo di produzione che promuove una furiosa applicazione della scienza alla valorizzazione del capitale — applicazione che genera continue innovazioni di processo e di prodotto, ma queste non hanno alcun significativo rapporto con l’accumularsi delle conoscenze.
Infatti, per loro natura, le scoperte scientifiche non possono essere né promosse né tanto meno programmate, perché esse sono in verità risposte a domande mai formulate –come accade nei viaggi o nei giochi.
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La morte di Fidel Castro e il surrealismo di Saviano
di Domenico Losurdo
Oltre che dai presunti «dissidenti» di Miami, la morte di Fidel Castro è stata celebrata in modo scomposto da Roberto Saviano che ha scritto: «Morto Fidel Castro, dittatore. Incarcerò qualsiasi oppositore […] Giustificò ogni violenza». Naturalmente, nulla viene detto dell’interminabile embargo o blocco con cui l’imperialismo ha cercato di condannare alla capitolazione o alla morte per inedia un popolo «oppositore», e nulla viene detto degli innumerevoli tentativi della Cia di assassinare il leader cubano, il dissidente per eccellenza nei confronti dell’Impero. Saviano preferisce identificarsi con gli assassini dando lezioni di democrazia e di nonviolenza alle loro vittime e ai loro bersagli. Ne scaturisce un testo all’insegna del surrealismo, il surrealismo dell’ideologia dominante. È un surrealismo da me denunciato in due libri dai quali riprendo alcuni estratti (ringraziando gli Editori) [D.L.].
Chi coltiva la violenza?
«Newsweek», riferisce degli innumerevoli tentativi di assassinare Fidel Castro. Vi si sofferma a lungo, concentrandosi soprattutto sui particolari tecnici o sugli aspetti più o meno pittoreschi: gli «agenti tossici» da utilizzare, i «sigari preferiti» dalla vittima, il «fazzoletto trattato con batteri», il ruolo affidato alla «mafia», la somma da versare al sicario. Ma in queste pagine invano si cercherebbe un giudizio di condanna morale sul ricorso all’arma del terrorismo: è il termine stesso ad essere bandito; esso appare chiaramente sconveniente allorché si tratta di definire gli assassini perpetrati o tentati dai servizi segreti statunitensi. Questi, tra gli anni ’50 e ’60, elaborano piani ingegnosi per neutralizzare o eliminare fisicamente Stalin in Unione Sovietica, Arbenz in Guatemala, Lumumba nel Congo, Sukarno in Indonesia, e dirigenti politici e militari di altri paesi. I vertici della Cia partono dal presupposto – riferisce il libro senza alcuna distanza critica – che ogni mezzo è lecito allorché si tratta di sbarazzarsi di «cani rabbiosi» [1].
Nel corso della guerra fredda entrambe le parti si sono impegnate in operazioni, tentativi e progetti che è difficile non definire terroristici.
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L’anarco-capitalismo e la Grateful Dead economy
Andrea Fumagalli
Pubblichiamo un estratto da Andrea Fumagalli, Grateful Dead Economy (Agenzia X)
Le posizioni libertarian sono variegate e molteplici. Vi si può trovare un po’ di tutto. Dalle posizioni che perorano l’abolizione del monopolio di emissione della moneta grazie alle nuove opportunità tecnologiche offerte dalla moneta elettronica (criptocurrency) a quelle di stampo neoluddista, che vedono nell’informatica e nella figura del cyborg il rischio di un sopravvento del macchinico sulla natura umana (modello Matrix), fino a quelle cyberpunk. Non ci soffermiamo sulle prime ma sulla controcultura cyberpunk, che anche in Italia ha svolto un ruolo importante all’interno dei movimenti antagonisti dagli anni ottanta in poi.
Il filone cyberpunk è quello che maggiormente ha raccolto l’eredità politica del movimento hacker seguendo una direzione opposta al naturalismo e alla tecnofobia della generazione precedente (e dei neoluddisti).
Nel manifesto del movimento – l’antologia Mirrorshades pubblicata nel 1986 – Bruce Sterling rivendica una sorta di nuova alleanza tra tecnologie e controculture, mettendo in evidenza quella sorta di eccedenza “fuori controllo” evocata da Kevin Kelly. Nelle parole di Sterling:
La struttura attuale di potere, le istituzioni tradizionali hanno perso il controllo della velocità del cambiamento. E improvvisamente una nuova alleanza sta diventando evidente: un’integrazione di tecnologie e controculture degli anni ottanta. Una Non Santa Alleanza del mondo tecnologico e del mondo del dissenso organizzato: il mondo underground della cultura pop, dell’incostanza visionaria e dell’anarchia da strada.
E poco più avanti:
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Le privatizzazioni e l'arretramento del perimetro pubblico[1]
di Roberto Artoni
Pubblichiamo col permesso dell'autore un bell'articolo del prof. Roberto Artoni (originariamente in Riforma del capitalismo e democrazia economica, a cura di L. Pennacchi e R. Sanna, Ediesse 2015). Attualissimo il passo di Guido Carli citato all'inizio: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”.
Dopo oltre venti anni non è inopportuno tentare un bilancio della politica di privatizzazione seguita nel corso dell’ultimo decennio del secolo scorso. Si devono cioè chiarire, sia pure in termini molto sintetici in questa sede, i presupposti delle politiche allora intraprese, individuarne i limiti e delinearne gli effetti che si sono progressivamente manifestati.
Presupposti
All’origine della drastica riduzione della presenza pubblica nell’economia si può collocare una lettura per così dire strutturale degli effetti del progressivo rafforzamento dell’Unione europea: questo rafforzamento trovava o doveva trovare espressione nella creazione del Mercato unico, che sanciva la libertà di movimento di merci, lavoro e capitali, oltre al perseguimento di un generalizzato contesto concorrenziale. Un’espressione esemplare degli effetti che l’Unione europea avrebbe prodotto sull’economia italiana si ritrova in un intervento di Guido Carli: “L’Unione europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi”[2].
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Il capitalismo finirà, o può essere riformato?
di Michael Roberts
Questo mese sono arrivati due nuovi libri sul capitalismo. Il primo è di Wolfgang Streeck ed è intitolato "How will capitalism end?" (Come finirà il capitalismo?). Wolfgang Streeck è il direttore emerito del Max Planck Istitute per la Ricerca Sociale, a Colonia, ed è professore di Sociologia all'Università di Colonia. È anche membro onorario della Society for the Advancement of Socio-Economics e membro della Berlin Brandenburg Academy of Sciences oltre che dell'Academia European. Insomma, il punto di vista di Streeck ha un qualche peso, sufficiente per essere recensito da Martin Wolf sul Financial Time.
La tesi di Streeck, come suggerisce il titolo, è quella che il capitalismo è un sistema che sta arrivando alla fine e che la sua scomparsa non è poi così lontana. Il libro comincia riferendosi ad un altro libro, intitolato "Does capitalism have a future?" (Il capitalismo ha un futuro?), in cui viene espresso il punto di vista di altri cinque scienziati sociali; Immanuel Wallenstein, Randall Collins, Michael Mann, Georg Derluguian e Craig Calhoun. Come dice Streeck, tutti questi studiosi concordano sul fatto che il capitalismo si sta dirigendo verso una crisi finale, sebbene ciascuno apporti ragioni diverse.
Wallenstein ritiene che il capitalismo si trovi alla fine di un ciclo di Kondratiev da cui non può più riprendersi (per una molteplicità di ragioni, che hanno a che fare soprattutto col declino dell'ordine mondiale sotto l'egemonia degli Stati Uniti).
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#Ciaone
di Militant
Non coglieremmo il senso di questo referendum se restringessimo la visuale su Renzi o la Costituzione. A dispetto dell’ideologia tecnocratica che vorrebbe disattivare il significato politico dei processi rappresentativi – elettorali o meno – ogni elezione è un’elezione politica, nel suo senso più profondo e generale. Ogni scontro particolare racchiude una frattura fra una sinistra e una destra, fra una visione del mondo e un’altra. La sconfitta del management renziano piddista non è (solo) una battuta d’arresto nel processo di revisione istituzionale del paese, ma l’ennesimo atto di rifiuto popolare verso il potere liberista, qualsiasi forma questo prenda e sotto qualsiasi veste questo si presenti. La vittoria del No è allora in scia del No al referendum greco del 2015; della vittoria della Brexit la scorsa estate; della vittoria di Trump il mese scorso. E, più in generale, dell’affermazione dei populismi di destra, come il Front national in Francia; di “centro”, come il M5S in Italia; o di “sinistra”, come Podemos in Spagna o il temporaneo successo di Bernie Sanders negli Usa. E’ un mondo della rappresentanza e delle istanze della politica che si sta trasformando davanti ai nostri occhi, lasciando la sinistra sempre più spaesata, succube di riferimenti politici ormai completamente disattivati. E’ la forza delle masse che hanno reciso ogni forma “ordinaria” della partecipazione politica, che si esprimono a volte non votando, altre mandando un segnale dirompente di rifiuto dell’establishment politico-economico, qualsiasi forma questo prenda, di destra o di “centrosinistra”.
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Vinta una battaglia, la guerra continua
di Redazione Contropiano
E anche Renzi è stato rottamato. La vittoria del NO alla controriforma costituzionale, pur in qualche modo prevista, ha assunto subito dimensioni straordinarie, tale da rendere impossibile qualsiasi tentativo di restare al comando di una compagine governativa che aveva ormai assunto l'aspetto e i comportamento di una banda di rapinatori-piazzisti.
Lo stesso discorsetto d'addio ha dipinto plasticamente la nullità del personaggio, che ha ammesso soltanto di non aver saputo vendere il prodotto – la riforma costituzionale – che qualcun altro (Napolitano) aveva malamente confezionato.
Siamo felici di aver attivamente partecipato a questa battaglia vincente con uno sciopero generale riuscito al di là delle pur ambiziose speranze, una manifestazione nazionale – il 22 ottobre – che aveva dato volto e corpo al NO SOCIALE, e poi centinaia di iniziative, volantinaggi, lavoro di strada… Fino al festoso “assedio” di Palazzo Chigi di domenica sera, in cui ha brillato l'assenza dei “Comitati per il NO” ufficiali, rimasti al chiuso delle sedi ad attendere un risultato che non si aspettavano, lontani – come sempre – da chi è costretto a subire le conseguenze delle scelte politiche e antipopolari.
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La grande marea dei NO ripudia l'Agenda Renzi
di Pino Cabras
Chi voleva manomettere in profondità la Costituzione è stato pesantemente sconfitto da un grande voto popolare. Prepariamoci a un grande movimento
Il progetto di Renzi fallisce e viene ripudiato dalla Repubblica Italiana.
Chi voleva manomettere in profondità la Costituzione è stato pesantemente sconfitto da un grande voto popolare. Nella marea di voti che sommerge Matteo Renzi e gli avventuristi che aveva coinvolto in una campagna referendaria estremamente scorretta, i giovani hanno contato in modo trascinante: hanno contributo con più forza a rottamare un arnese già vecchio come il sedicente Rottamatore. Matteo Renzi ha subito una grande sconfitta campale nel suo progetto di rafforzamento del governo come architrave di un nuovo sistema politico. Renzi voleva riorganizzare efficacemente il blocco sociale conservatore dopo che era crollata l'analoga funzione di Berlusconi, e voleva farlo salvaguardando una fetta ancora molto elevata del suo elettorato tradizionale proveniente da sinistra. Una specie di DC 2.0 che si riprendeva le percentuali del PCI nelle regioni rosse, schiacciava l'opposizione a cinque stelle e dunque tentava di dare l'impronta decisiva alla Terza Repubblica, pur presentandosi dinamico e riformatore: cosa che attrae sempre un po' di politicanti cinici nel paese del Gattopardo, oltre a una quota instancabile di "militonti", tetragoni a ogni evidenza.
Renzi ha sopravvalutato la presa degli incantatori di serpenti volgari e ignoranti che aveva mobilitato, assieme alle clientele, per imbrogliare un Paese affezionato alla propria Costituzione.
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Referendum: si aspettava una tempesta, ma è uno tsunami
Ora presentare il conto al Pd
di Aldo Giannuli
C’è poco da interpretare: il risultato parla da solo. Quasi il 60% degli italiani hanno respinto l’orribile proposta di riforma costituzionale e, insieme, hanno bocciato il governo Renzi rottamandolo. La cosa più rilevante è l’alta (altissima, dati i tempi) soglia di partecipazione al voto che ha segnato il ritorno di molti elettori alle urne dall’area dell’astensione. Come dire “Io non voto, ma se si tratta di mandare a casa quel cialtrone, ci sono”.
In questo confluiscono molte ragioni: in primo luogo il montare della rivolta elettorale del ceto medio dopo 8 anni di crisi, che ha portato alla vittoria di Brexit e di Trump, il crollo del bluff di Renzi dopo il successo iniziale (che aveva ubriacato il suo protagonista), anche l’attaccamento di una parte degli italiani ad una costituzione non inventata ma prodotta da grandi processi storici e che ha retto questo paese per quasi 70 anni.
Un grazie speciale lo dobbiamo all’elettorato giovanile (quello da 18 a 34 anni) che è quello che ha trainato il risultato con quasi un 70% di No. Da diversi anni ho la sensazione che questa generazione sia molto promettente e valga la pena di spendercisi per farla maturare. E’ l’unica in cui possiamo sperare. Vice versa le generazioni dei sessanta-ottantenni sono state quelle che hanno fatto un ultimo regalo con un 51% del si (a quanto pare): decisamente passano alla storia come le peggiori del secolo, le più spregevoli.
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Il salto nel buio
Una riflessione sulla politica contemporanea
di Guido Mazzoni
1. Parole e metafore
Quello che è successo l’8 novembre era in larga misura inevitabile. È accaduto nel centro politico, economico e simbolico della Western way of life, e proprio per questo ci colpisce particolarmente; ma se non fosse accaduto negli Stati Uniti, sarebbe prima o poi successo in un altro grande paese occidentale. È un segno dei tempi e una frattura: occorre capire quanto sia profonda. Se ne possono isolare i tratti specifici e riflettere sull’ascesa delle nuove destre o la si può considerare nel quadro di una metamorfosi più larga che ha cambiato negli ultimi cinque anni l’assetto politico dell’Occidente. La Lega e il Movimento 5 Stelle in Italia, il Front National in Francia, Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, la destra in Olanda, Austria e Germania, il referendum sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, l’elezione di Trump negli Stati Uniti sono fenomeni politici molto diversi fra loro e forme di uno stesso evento.
Da quando la crisi ha cominciato ad avere effetti sulla vita quotidiana, una parte crescente delle classi popolari e delle classi medie ha cominciato a votare contro la logica politica ed economica che ha governato l’Europa occidentale e gli Stati Uniti negli ultimi decenni con un consenso largamente maggioritario.
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I movimenti delle donne nel mondo contemporaneo
Dalla rivoluzione sessuale alla deriva post-moderna del femminismo
Quelli che seguono sono gli appunti per la relazione introduttiva su cui è stato realizzato il terzo incontro di approfondimento storico-politico (IASP) del Ciclo di incontri sui movimenti delle donne di domenica 13 novembre dal titolo I movimenti delle donne nel mondo contemporaneo. Dalla rivoluzione sessuale alla deriva post-moderna del femminismo introdotto da Giulia
Il primo incontro si intitolava Le donne tra due rivoluzioni. Dalla Rivoluzione francese alla rivoluzione d'Ottobre. Siamo partiti dalla Rivoluzione francese perché prima di essa le donne erano apparse sempre e solo protagoniste passive degli eventi
“[…] la storia è stata solo storia al maschile e per lunghi secoli le donne non sono state raccontate; per meglio dire, non hanno potuto raccontarsi” [1]
Per la prima volta la Rivoluzione francese porta le donne alla ribalta sociale anche se le contraddizioni restano profondissime
“Nella Francia rivoluzionaria infatti andavano via via instaurandosi dei veri e propri Club femministi con posizioni anche molto differenti tra di loro […] L'impegno delle donne fu comunque vano in quanto esse non ottennero nessuno dei diritti rivendicati e fu persino negato loro il diritto di associazione: tutti i Club femminili furono sciolti.
La cosa che colpisce è che questa chiusura avviene proprio all'epoca della Convenzione guidata dai Giacobini, il che mostra la permanenza di grandi limiti sul tema delle donne anche nella borghesia rivoluzionaria” [2]
Con la Rivoluzione industriale di fine ‘700 - inizio ‘800 e la conseguente massiccia introduzione di macchine, donne e fanciulli cominciano a seguire gli uomini nelle fabbriche
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Le parole chiave del saccheggio. Il Mose
di Gianni Belloni e Antonio Vesco
In periodi di grande caos sistemico come quello attuale, capita spesso di leggere affermazioni che esprimono un plauso incondizionato per una fideistica osservanza del rispetto delle regole o delle leggi. Qualunque regola e qualunque legge, perfino quando essa contraddice in modo palese le ragioni del buon senso o il senso della misura. È uno dei molti casi in cui risulterebbe di grande utilità una pur sommaria rilettura della vicenda del Mose. Sia chiaro, non stiamo parlando di una storia di politici corrotti ma del più grande e complesso sistema di corruzione dell’Italia repubblicana. Un sistema tanto efficiente e raffinato da riuscire a corrompere, tra le altre cose, ogni livello di controllo: Magistrato alle Acque, Corte dei Conti, Guardia di Finanza, politica. Ecco, il più eclatante esempio italiano dell’impossibilità di distinguere con nettezza lo Stato dalla criminalità, la più “alta scuola” nostrana di corruzione, è nato e si è avvalso di una legge votata, con tutti i crismi, dal parlamento repubblicano, la legge n. 798 del 1984 (la legge speciale bis). Quello del Mose, come racconta in sole sette parole chiave questo prezioso articolo, è stato inoltre forse il primo sistema corruttivo che non ha “investito” semplicemente per acquisire un permesso o una commessa, ma per convincere l’opinione pubblica del proprio operato
Attorno alla laguna di Venezia è stato eretto il più grande e complesso sistema corruttivo della storia repubblicana. Di questo scandalo molto si è detto, ma pensiamo possa valere la pena sottolineare in questa sede alcune parole chiave di quel sistema che, in qualche modo, trascendono la vicenda legata al Consorzio Venezia Nuova (CVN) e alla costruzione delle paratoie mobili erette per difendere Venezia e la sua laguna dalle acque alte.
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Lepre o papera?
Esercizi di percezione prima del referendum
di Walter Tocci
La percezione di un oggetto dipende da ciò che il soggetto ha in mente, come mostrano le figure gestaltiche. Qui sotto, chi cerca proprio una lepre riesce a vederla, ma se cambia lo sguardo si accorge che è una papera.
Tutti gli argomenti portati dal SI nel referendum possono essere visti in modo diverso e perfino opposto.
Rapidità-Lungaggine
Si è promessa una semplificazione, ma si realizza un bicameralismo farraginoso e conflittuale. È il paradosso della revisione costituzionale. Se fosse un vero Senato delle autonomie, i senatori dovrebbero attenersi all'indirizzo della propria Regione. Invece non hanno alcun vincolo di mandato, proprio come i deputati, e di conseguenza si iscrivono ai gruppi di partito anche a Palazzo Madama. Il Senato è prevalentemente un’assemblea politica, e può capitare che abbia una maggioranza ostile a quella della Camera. Infatti, non essendo mai sciolto potrebbe conservare un orientamento politico che invece alle elezioni viene ribaltato nell'altro ramo.
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Il terrorismo psicologico, gli italiani all’estero e De Luca
Come il Pd sta facendo campagna referendaria
di Aldo Giannuli
Ieri ho tenuto l’ultima lezione del corso di questo anno, al termine della quale, come al solito ho risposto agli interventi dei miei studenti. Fra loro uno ha detto di essere stato convinto a votare No, ma di aver nutrito dubbi da ieri, dopo che l’azienda per la quale lavora il padre, ha inviato un sms, nel quale dice che forse non potrà confermare l’incarico di lavoro per l’anno prossimo, perché due aziende (una di Abu Dhabi e l’altra cinese) hanno comunicato di sospendere le rispettive ordinazioni sino al risultato del referendum per cui, l’ordine è da intendersi revocato in caso di vittoria del no. Quanti altri sms del genere stanno arrivando in queste ore attuando una campagna di terrorismo psicologico?
Le ipotesi sono due: o l’imprenditore si è inventato tutto perché è un galoppino del Pd ed, a suo modo, fa così campagna elettorale, oppure la notizia è vera e questo peggiora ancor di più il giudizio sul Pd. Come si ricorderà, tutta la campagna elettorale è stata segnata sin dall’inizio da una martellante serie di appelli delle istituzioni finanziarie europee sui rischi di una vittoria del No simile a quella condotta sul referendum per la Brexit. Quello che è grave è che il governo, lungi dal respingere queste interferenze in difesa dell’indipendenza nazionale e dell’immagine economica del paese, se ne è giovato ed ha soffiato sul fuoco, ingigantendo ulteriormente gli allarmi.
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Referendum costituzionale, le ragioni del No
Luigi Ferrajoli
Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. La Costituzione di Renzi, invece, è una costituzione che divide, non essendo neppure di maggioranza
Le ragioni del No al referendum sull’aggressione in atto alla nostra Costituzione investono sia il metodo con cui la riforma è stata approvata, sia i suoi contenuti.
Anzitutto le ragioni di metodo. Questa riforma, cambiando 47 articoli su 139, non è una “revisione” dell’attuale costituzione, ma un’altra costituzione, diversa da quella del 1948. Ma la nostra Costituzione non consente l’approvazione di una nuova costituzione, neppure ad opera di un’ipotetica assemblea costituente che pur decidesse a larghissima maggioranza. Il solo potere ammesso dall’articolo 138 della Costituzione è un potere di revisione, che non è un potere costituente ma un potere costituito. Di qui il primo profilo di illegittimità: l’indebita trasformazione del potere di revisione costituzionale previsto dall’articolo 138 in un potere costituente non previsto dalla nostra Costituzione e perciò anticostituzionale ed eversivo.
In secondo luogo questa nuova costituzione, per il modo in cui è stata promossa e approvata, è un oltraggio non tanto e non solo alla Costituzione del 1948, ma al costituzionalismo in quanto tale, cioè all’idea stessa di Costituzione. Le costituzioni sono patti di convivenza. Stabiliscono le pre-condizioni del vivere civile, idonee a garantire tutti, maggioranze e minoranze, e perciò tendenzialmente sorrette da un consenso generale quale fu quello con cui fu approvata la Costituzione del ’48. Servono a unire, e non a dividere, dato che equivalgono a sistemi di limiti e vincoli imposti a qualunque maggioranza, di destra o di sinistra o di centro, a garanzia di tutti.
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2016, Odissea sulla terra
Riflessioni a partire dal libro di D. Moro Globalizzazione e decadenza industriale
di Marco Palazzotto
Globalizzazione?
Il concetto di globalizzazione viene sempre più utilizzato per descrivere vari fenomeni tipici del capitalismo contemporaneo. Lo stesso concetto viene poi declinato all’interno delle diverse correnti politiche onde sostanziare le rispettive letture della realtà.
L’obiettivo di questo breve contributo vorrebbe essere quello di chiarire alcuni aspetti del dibattito a sinistra, partendo dalla lettura del recente testo di Domenico Moro Globalizzazione e decadenza industriale. L'Italia tra delocalizzazioni, «crisi secolare» ed euro (Imprimatur, 2015).
Se vogliamo partire da una definizione accettata comunemente, secondo l’enciclopedia Treccani online per ‘globalizzazione’ s’intende l’insieme di fenomeni che a partire dagli anni Novanta ha stimolato la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo. In economia, per quanto riguarda i mercati, si assiste ad una unificazione a livello mondiale grazie anche alla diffusione delle innovazioni tecnologiche. Scompaiono le differenze nei gusti dei consumatori, che si unificano alle preferenze guidate dalle multinazionali. Le imprese sono in grado di sfruttare meglio le economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing, praticando politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti mercati.
Spesso il concetto viene usato come sinonimo di liberalizzazione.
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La scomparsa della sinistra in Europa
Paolo Di Remigio
Il libro di Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa (Imprimatur, 2016), rappresenta un contributo molto importante alla riflessione sul nostro tempo. Pubblichiamo una bella recensione di Paolo Di Remigio, e ci torneremo (M.B.)
Oltre alla straordinaria padronanza della materia, ciò che colpisce nella ‘Scomparsa della sinistra in Europa’ è la volontà dei suoi autori di conservare un tono pacato. Proprio per questo la storia che il libro racconta ha un effetto ancora più inquietante: è la storia degli ultimi quarant'anni, in cui la sinistra, la rappresentanza dei lavoratori, è diventata esecutrice di politiche economiche contro i lavoratori. I fautori della svolta neoliberale l'hanno scelta perché i lavoratori se ne fidavano; il suo nuovo protagonismo era lo strumento ideale per paralizzarne le reazioni. Così è stata la sinistra a far credere che la svolta verso la nuova politica economica, l'economia dal lato dell'offerta, avrebbe permesso il superamento della fase critica degli anni ’70 e avrebbe avviato l'economia mondiale verso una crescita stabile. L'economia dal lato dell'offerta non poteva fare però nulla di tutto questo.
Lo aveva dimostrato proprio il pensatore più importante della sinistra, Karl Marx, distinguendo tra mercato in generale (sistema mercantile semplice) e mercato capitalistico. Il mercato in generale è lo scambio di equivalenti tra proprietari privati, il mercato capitalistico mette insieme lo scambio di equivalenti tra proprietari e lo scambio ineguale tra capitalista e lavoratore.
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