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Il Medio Evo secondo i marxisti
di Paolo Tedesco
Le società classiste non cominciarono con il capitalismo: anche il mondo antico e quello medievale avevano sistemi di sfruttamento. Il cui funzionamento ‒ e anche la loro scomparsa ‒ potrebbe rivelare qualcosa sul futuro che ci attende
In qualità di storici, Karl Marx e i suoi seguaci si occuparono in primo luogo dell’ascesa del capitalismo, della sua diffusione nel mondo e dei modi in cui lo si sarebbe potuto volgere a conclusione. Allo stesso tempo, però, essi tentarono di spiegare lo sviluppo delle società precapitalistiche alla luce del materialismo storico e dei suoi concetti principali; così facendo, cercarono di individuare le condizioni che permisero la formazione delle società di classe, prima che le contraddizioni interne ne causassero il collasso.
Le loro originali reinterpretazioni della teoria marxista hanno permesso di leggere queste affascinanti epoche storiche nei termini loro propri, anziché presentarle come semplice anticamera all’ascesa del capitalismo. Quest’ultimo approccio aveva infatti l’effetto, paradossale per i marxisti, di far apparire il capitalismo una fase naturale dello sviluppo sociale.
In quest’articolo discuterò la tradizionale visione marxista del mondo precapitalistico e i suoi problemi. Darò poi un breve resoconto delle proposte alternative elaborate da tre dei maggiori storici marxisti contemporanei: Chris Wickham, John Haldon e Jairus Banaji.
Marx e il Medioevo
L’interesse principale di Marx per le società del passato scaturiva dalla sua esigenza di identificare un meccanismo generale per tutti i processi di trasformazione sociale che aiutasse a spiegare tanto l’avvento del capitalismo quanto la sua prevedibile crisi. Marx presentava la storia come una progressione di fasi, dall’antichità al feudalesimo al capitalismo e infine al socialismo.
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A quale costo il sistema capitalistico può oggi riprodursi?
di Alessandra Ciattini
Il sistema capitalistico potrebbe sopravvivere all’attuale crisi sistemica, accentuata dalla pandemia e dalla guerra, ma pesante sarà per noi il costo della sua riproduzione
Secondo l’eminente studioso britannico David Harvey, non si può escludere del tutto che il capitale [1] possa sopravvivere alle diciassette contraddizioni che egli ha dettagliatamente esaminato nel suo libro intitolato appunto Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, pubblicato nel 2014. In questa sede ovviamente non illustreremo tutte le contraddizioni indagate da Harvey, per cui rimandiamo il lettore al suo interessante libro; ci interessa sottolineare, invece, come il capitale sia stato finora in grado di superare gli ostacoli che il suo stesso sviluppo con l’obiettivo dell’accumulazione senza fine ha generato, e come potrebbe esser possibile che superi anche la crisi scatenata dalla pandemia e dall’attuale scontro tra gli Stati Uniti, con il loro strumento armato rappresentato dalla Nato, e la Russia. Crisi che si palesa, inoltre, nel contesto delle enormi difficoltà che il sistema capitalistico incontra per riprodursi, sia pure con inevitabili trasformazioni.
Ricordo, tuttavia, che per Harvey, le contraddizioni pericolose – non fatali – per il capitale sono costituite dall’accumulazione esponenziale senza fine (o la mera ricerca del profitto), la relazione del capitale con la natura, la generalizzata alienazione dell’uomo nella società capitalistica. Scrive sempre lo studioso britannico che il capitale potrebbe riuscire ancora una volta a farla franca con l’aiuto di una élite oligarchica che si preoccupasse di sterminare gran parte della popolazione superflua e per questo eliminabile, schiavizzando il resto dell’umanità e rinserrandosi in luoghi protetti e sorvegliati, per difendersi dalla rivolta della natura e degli esseri umani ridotti a uno stato subumano (Harvey, v. Contraddizione diciassettesima).
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Denaro senza valore e rapida dissoluzione di un mondo
di Fabio Vighi
L’accelerazione del paradigma emergenziale cui assistiamo dal 2020 ha come scopo – semplice, ma ampiamente disconosciuto – il mascheramento del collasso socioeconomico in atto. Nel metaverso le cose sono l’opposto di ciò che sembrano. Inaugurando Davos 2022, Kristalina Georgieva, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, ha incolpato Virus & Putin per la ‘confluenza di calamità’ che si si sta abbattendo sull’economia mondiale. Nulla di particolarmente originale. Davos infatti non è un covo di perfidi complottisti, ma il megafono di reazioni sempre più disperate a fronte di contraddizioni sistemiche ingestibili. Ai davosiani oggi non resta che nascondersi dietro goffe bugie da ragazzini imbarazzati. L’insistenza con cui ci raccontano che la recessione in arrivo è effetto di avversità globali che hanno colto il mondo di sorpresa (da Covid-19 a Putin-22), nasconde l’amara consapevolezza dell’esatto contrario: è la crisi economica a causare scientemente queste “disgrazie”. Quelle che ci vengono vendute come catastrofiche minacce esterne sono in realtà la proiezione ideologica del limite interno della modernità capitalistica, e della sua decomposizione in atto. In termini sistemici, la funzione dello stato d’emergenza è mantenere artificialmente in vita il corpo comatoso del capitalismo. Il nemico non è più costruito per legittimare l’espansione dell’Impero del dollaro; piuttosto, serve a nascondere la bancarotta di un mondo che affonda nei debiti e nella svalutazione monetaria.
Dalla caduta del muro di Berlino in poi, lo sviluppo della globalizzazione ha minato le condizioni di possibilità del capitale stesso. La risposta a questa parabola implosiva è stata lo scatenamento di una serie di emergenze globali a stretto giro di posta, e integrate da iniezioni sempre più massicce di paura, caos, e propaganda.
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Il sistema del dollaro in un mondo multipolare
di James K. Galbraith
Il mondo finanziario multipolare è qui. Gli Stati Uniti possono sopravvivere, ma solo con grandi cambiamenti politici ed economici in patria. È ora di iniziare a pensare a cosa devono essere
Come sottolinea Costabile (2022), il dollaro è ormai di fatto da oltre cento anni il principale asset di riserva mondiale, in primo luogo a causa della preminenza statunitense nella detenzione dell’oro e della sua posizione creditoria rispetto ai belligeranti europei nella Grande Guerra. Nel 1944 la potenza militare e industriale degli Stati Uniti, presto sostenuta, nell’ombra, da un monopolio sulla bomba atomica, furono le basi del gold exchange standard stabilito a Bretton Woods.
Una breve storia dell’era neoliberista
Il 15 agosto 1971 cala il sipario sul gold-exchange standard e si alza – anche se allora non lo sapevamo e pensavamo diversamente – sull’era neoliberista. Svalutazione, controlli sulle esportazioni, congelamento dei prezzi salariali e stimolo fiscale all’estero : queste erano misure keynesiane e persino in tempo di guerra che sembravano segnalare una conversione di massa della cerchia di Richard Nixon verso la piena occupazione, la stabilità dei prezzi e il commercio gestito. Mio padre, John Kenneth Galbraith, il capo del controllo dei prezzi della seconda guerra mondiale, è stato chiamato dal Washington Post per un commento. “Mi sento come la camminatrice di strada”, ha risposto, “a cui è stato appena detto che non solo la sua professione è legale, ma la più alta forma di servizio municipale”.
L’impressione è rimasta durante l’anno di crescita esplosiva del 1972, assicurando la rielezione di Nixon con la piena occupazione al salario medio reale più alto di tutti i tempi. Ma andò in pezzi nel 1973 quando lo stimolo terminò, i controlli furono indeboliti o scaduti, i prezzi del petrolio aumentarono e l’inflazione generale risultante fu accolta da alti tassi di interesse, stimolando una nuova crisi nel 1974.
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La parabola dell’economia politica
Parte IV: Marx, la caduta tendenziale del saggio del profitto
di Ascanio Bernardeschi
Nella spietata competizione fra capitali, ognuno cerca di abbassare i propri costi per vincere la concorrenza introducendo innovazioni che risparmiano lavoro. Così facendo il capitale, che si può valorizzare solo attraverso l’eccedenza di lavoro, il pluslavoro, va incontro, sia pure fra alti e bassi, alla caduta del saggio del profitto e al proprio declino. Qui la parte I, qui la parte II, qui la parte III.
Il plusvalore, che ha nel lavoro l’unica fonte, è limitato dal numero di lavoratori impiegati e dalla durata della giornata lavorativa, che ovviamente non può superare le ventiquattro ore; anzi dura molto meno, viste le ovvie necessità fisiologiche dei lavoratori. Se si rapporta questa grandezza, che ha dei limiti oggettivi, al lavoro incessantemente crescente già oggettivato in passato nel capitale impiegato, possiamo già intuire l’esistenza di una tendenza alla diminuzione del saggio del profitto che consiste proprio nel rapporto tra queste due grandezze (il plusvalore e il valore del capitale impiegato).
Marx evidenzia già nei Grundrisse che il capitale tende da un lato, con l’introduzione di metodi e tecnologie sempre più prestanti, a ridurre il tempo di lavoro necessario, mentre deve misurare il valore in termini di tempo di lavoro. In un passaggio profetico sul macchinismo, sottolinea come questa tendenza avrebbe ridotto il ruolo del lavoro a misera cosa rispetto alla potenza produttiva delle macchine. E tuttavia questa contraddizione fra la progressiva diminuzione del tempo di lavoro necessario in rapporto al capitale costante impiegato e il bisogno del capitale di estrarre plusvalore, di “succhiare” lavoro vivo, per valorizzarsi, avrebbe condotto al superamento della legge del valore e a una società in cui il benessere sia dato non dal tempo di lavoro, ma dal tempo libero di cui ogni uomo possa disporre grazie ai servizi delle macchine. Questo sbocco è tuttavia impossibile all’interno del modo di produzione capitalistico e infatti, dopo la parentesi di alcune conquiste della classe lavoratrice, la tendenza è quella di un inasprimento di orari e ritmi di lavoro, proprio per la fame crescente di plusvalore.
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Interventismo, malattia congenita del Fascismo
di Valerio Romitelli
“La domanda qui è se sia riscontrabile una qualche analogia interessante tra il Mussolini del 1914 e il Draghi del 2022”
Pandemia poi guerra ucraina hanno fatto trascurare se non dimenticare del tutto un centenario che in altri tempi avrebbe forse suscitato maggiori interessi e dispute: quello della “Marcia su Roma” che consacrò l’irreversibilità dell’ascesa al potere del fascismo. É stato dunque in controtendenza che il Maggio filosofico di quest’anno ha scelto proprio questo centenario come tema privilegiato delle quattro serate in programma. Il titolo di tutta la rassegna, opportunamente provocatorio: Retromarcia su Roma. Perché “retromarcia”? Ben pochi dei nostri abituali lettori non avranno subito pronta la risposta. Ma per non far torto a nessuno diciamo che per capire il senso di questo titolo basta riconoscere che il succedersi di “stati di emergenza” imposti dai nostri più recenti governi da Conte a Draghi, nonostante la loro nulla legittimità elettorale, non può essere solo un caso. Né può essere una semplice reazione istituzionale all’eccezionalità delle circostanze imposte dal destino prima pandemico poi bellico. Che una tale insistente eccezionalità non sia politicamente innocente, che suo tramite si stia avvenendo una più profonda svolta regressiva dello Stato italiano: questa è l’evidenza che ci ha fatto vedere il centenario del 1922 come una buona occasione per ripensare alcuni dei nodi più di tutta la storia del nostro paese, la cui massima notorietà – non dimentichiamolo – è dovuta appunto all’invenzione perversa e disastrosa del fascismo. Di quel fascismo – non dimentichiamo neanche questo – che ha infettato molte parti del mondo (soprattutto la Germania!) e che è divenuto sinonimo universale del male politico assoluto.
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La sinistra occidentale e il fardello dell’uomo bianco
di Antonio Castronovi
Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco
E ricevi la sua antica ricompensa:
Il biasimo di coloro che fai progredire,
L’odio di coloro su cui vigili –
Il pianto delle moltitudini che indirizzi
(Ah, lentamente!) verso la luce:
«Perché ci ha strappato alla schiavitù,
La nostra dolce notte Egiziana?»
(Il fardello dell’uomo bianco. Rudyard Kipling)
Questo poema, composto da Kipling nel 1899 allo scoppio della guerra per imporre il dominio statunitense sulle Filippine nell’Oceano Pacifico, è passato alla storia come il Manifesto dell’imperialismo e del colonialismo anglosassone. Nel contesto e nell’ottica odierni può essere letto come il Manifesto delle Guerre di Civiltà per la democrazia liberale e per i diritti umani, il manifesto del valore positivo della occidentalizzazione del mondo come progresso dei popoli, alla base anche della propaganda ideologica attuale contro la Russia e la Cina e in generale contro il dispotismo orientale.
L’Occidente è stato anche lo spazio sociale, politico e culturale della teoria socialista e della lotta di classe contro il capitalismo. L’Uomo Nuovo aveva le sembianze dell’uomo occidentale, e la sua universalizzazione sembrava naturale. Da qui le posizioni ambigue nei confronti del colonialismo del movimento socialista e operaio, “con tutti i socialisti francesi più importanti, da Proudhon a Louis Blanc a Pierre Leroux che supportavano la causa coloniale..” (Thierry Drapeau, Le radici dell’anticolonialismo di Karl Marx, in Jacobin Italia 1/4/2019 ).
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La NATO, un amico pericoloso
di Valeria Poletti
In seguito all’invasione russa dell’Ucraina, dopo duecento anni di neutralità la Svezia e dopo più di 70 anni la Finlandia, entrambe si candidano ad entrare nell’Alleanza Atlantica, aprendo la strada ad un aumento della presenza di truppe NATO nelle regioni del Nord Europa1. La neutralità come status cessa di avere una sua posizione all’interno del diritto internazionale. I piccoli Paesi e quelli meno armati tendono a schierarsi, all’interno dell’antagonismo Est-Ovest, con uno dei blocchi ricostituitisi, dopo la fine della Guerra Fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica, in un gioco pericoloso nell’Atlantico e nell’Indo-Pacifico.
Un pericolo che viene da lontano
Nel 1999, la NATO ha bombardato la Serbia per sottometterla alla secessione del Kosovo. La guerra contro la Jugoslavia è stata la prima diretta a cambiare gli equilibri regionali e a mettere in crisi l’ordinamento degli Stati nazionali, è stata la prima in cui l’Occidente capitalista ha scelto di promuovere il conflitto settario – quello portato avanti dai musulmani di Bosnia e del Kosovo – e farsene strumento per disintegrare l’unità nazionale di un Paese e annullarne la sovranità.
Dopo di allora, nell'aprile 2009 l'Albania e la Croazia hanno completato il processo di adesione alla NATO e lo stesso è avvenuto per il Montenegro nel 2017. Attualmente sono in corso le procedure per l’adesione all’Alleanza della Bosnia Erzegovina. Anche il Kosovo, che ospita la base KFOR2 di Camp Bondsteel (la più grande base statunitense nei Balcani), ha recentemente chiesto di entrare come membro del Patto atlantico: secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, «per la presidente del Kosovo Vjosa Osmani, la crisi e il conflitto in Ucraina potrebbero estendersi alla regione balcanica, e per questo è importante che la Nato acceleri il processo di adesione all’Alleanza in primo luogo di Kosovo e Bosnia- Erzegovina.
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Le 10 volte che i manager dell'impero ci hanno mostrato che vogliono controllare i nostri pensieri
di Caitlin Johnstone
L'unico aspetto più trascurato e sottovalutato della nostra società è il fatto che persone immensamente potenti lavorano continuamente per manipolare i pensieri che elaboriamo sul mondo. Che tu la chiami propaganda, psyops, gestione della percezione o pubbliche relazioni, è una cosa reale che accade costantemente e succede a tutti noi.
E le sue conseguenze modellano il nostro intero mondo.
Questo dovrebbe essere al centro della nostra attenzione quando esaminiamo notizie, tendenze e idee, ma non viene quasi mai menzionato. Questo perché la manipolazione psicologica su vasta scala sta avendo successo. La propaganda funziona solo se non sai che sta succedendo.
Per essere chiari, non sto parlando di una sorta di stravagante teoria del complotto infondata qui. Sto parlando di un fatto di cospirazione.
Che subiamo la propaganda da persone che hanno autorità su di noi non è seriamente contestato da nessun attore in buona fede ben informato ed è stato ampiamente descritto e documentato per molti anni.
Inoltre, i gestori dell'impero centralizzato statunitense che domina l'Occidente e gran parte del resto del mondo ci hanno mostrato chiaramente che ci propagandano e vogliono propagandarci di più.
Qui ci sono solo alcune di quelle volte.
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La volontà d’impotenza
di Pier Paolo Dal Monte
I paesi che fanno parte del sedicente “mondo libero” (quelli che esportano la democrazia, per intenderci) sono teatro, negli ultimi tempi, di un esperimento sociale, su scala mai intrapresa in precedenza. L’avvento della cosiddetta “pandemia” ha costitito la scusa perfetta per mettere a punto ed attuare limitazioni delle libertà, personali e sociali, che, fino a poc’anzi, erano date per scontate, nonché sancite dai vari ordinamenti costituzionali. Accanto a questo, dato che la tecnologia è neutra (risate), sono stati messi a punto dispositivi di controllo che, potenzialmente, sono in grado di costituire, a tutti gli effetti, un carcere virtuale, per i cittadini, le cui avvisaglie si sono manifestate nello stato di eccezione permanente che si è instaurato nel corso degli ultimi due anni.
Questa situazione non pare essere modificabile tramite gli strumenti politici a disposizione delle democrazie parlamentari, le quali, peraltro, sono state sospese. Dato l’indiscutibile carattere autoritario che il sistema ha assunto, si sente, sempre più sovente, paragonare questi tipi di dispotismo tecnocratico ad altri regimi del passato, ovvero a quelli che con denominazione alquanto semplicistica furono chiamati “totalitarismi”.
Questo è il retaggio di quella sciocca ermeneutica, costituita da ragionamento comparativo, secondo cui, ogni fenomeno per il quale non esiste una descrizione immediata, deve essere giocoforza ricondotto in un alveo lessicale conosciuto e, pertanto, comparato a qualcosa di noto o, come in questo caso, identificato o, per ciò che riguarda i fenomeni storici, a qualcosa di già accaduto.
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Il sistema di credito sociale e l'ID digitale in Cina e nel mondo
di Flavia Manetti
Da tempo la narrazione che imperversa, anche tra molti sinistri, è che il “democratico e liberale” Occidente si stia apprestando a copiare i modelli distopici della Cina in fatto di Id digitali e sistemi di credito sociale. Eppure, sono anni che non è WeChat ma i social media che usiamo come la “democratica e libera” Wikipedia, Twitter, Facebook e You Tube a decidere cosa liberamente pubblicare o censurare: chi oscurare e chi no, cosa è giusto pensare o cosa no. Ci si stupisce delle telecamere di riconoscimento visivo che la Cina ha applicato, in alcune città durante i lockdown ma è sicuramente altrettanto allarmante quello che è successo a maggio a Roma: alla stazione della Metro Anagnina, dove è andata in onda l’esercitazione militare “antiterrorismo” del sistema Dexter (Detection of explosives and firearms to counter terrorism) , finanziata dalla NATO, per prevenire attacchi con armi, bottiglie molotov o esplosivi in metropolitane, stazioni ferroviarie, aeroporti ma anche piazze e spazi affollati…Un “guardian angel” hi-tech che servirà allo Stato per controllare, reprimere, arrestare tutti i coloro che riterrà disubbidienti.
Il nostro prossimo futuro distopico, sospeso tra ID e Crediti sociali, era già stato studiato a Washington e non a Pechino. R. Kurzweil, uno dei “guru” di Google scriveva, già nel 1999, in “The Age of Spiritual Machines” : la singolarità tecnologica ci permetterà di superare le limitazioni dei nostri corpi e cervelli biologici. Saremo artefici del nostro destino. La mortalità sarà nelle nostre mani. Saremo capaci di vivere quanto vogliamo”.
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Paura 1/3. Filosofia e politica della paura
di Aldo Meccariello
“La paura è il dolore provocato dalla rappresentazione di un male imminente” (Aristotele)
1. Prologo
«Qualche volta bisogna cercare di sottrarsi al rumore, al rumore incessante delle notizie che ci arrivano da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, inaspettato. Parlerò sia pure brevemente del presente, e perfino un poco del futuro. Ma ci arriverò partendo da lontano».[1]
Guardare di sbieco il presente o guardarlo a distanza è forse questa la chiave che prendiamo a prestito dallo storico C. Ginzburg per leggere questo nostro tempo pandemico, difficile, inatteso, segnato dalla tirannide occulta e silenziosa del Covid-19. Se c’è un sentire diffuso oggi, questi è la paura, il male oscuro, insidioso da cui tutti vorremo stare lontani, l’emozione arcaica che spinge l’essere umano ad agire d’istinto dinanzi a una situazione di pericolo per badare alla sua sopravvivenza.
Per l’umanità stanno aumentando i rischi di catastrofe: prima le guerre di ieri e di oggi, poi il devastante inquinamento ambientale, ora le pandemie. Dinanzi a questi rischi e ai connaturati danni irreversibili, regna la paura. Il Covid-19 ha provocato la più grave crisi economica, politica, sociale e sanitaria dalla fine della seconda guerra mondiale. La percezione è che l’umanità sia ri-precipitata davvero in tempi bui.[2]
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“Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica”
Letture.org intervista Gaspare Nevola
Prof. Gaspare Nevola, Lei è autore del libro Luci e ombre di una democrazia antifascista. Viaggio nella Repubblica edito da Carocci. L’antifascismo rappresenta un “canone” politico-identitario della nostra Repubblica: come ha resistito tale canone di fronte ai cambiamenti e alle fratture sociali, politiche e culturali che ne hanno segnato la storia?
Il libro è una sorta di viaggio attraverso le diverse stagioni politiche e culturali della Repubblica, ruota attorno al tema dell’identità politica della Repubblica e al canone della memoria pubblica che vi si intreccia: l’identità politica e il canone della memoria sono quelli di una democrazia antifascista. Le feste civili della Repubblica (25 aprile, 2 giugno, 4 novembre), la loro nascita, il loro persistere e il loro mutare di accenti nei decenni esprimono le luci e le ombre della nostra democrazia antifascista. Questi rituali civici, pur con i loro conflitti, polemiche o appannamenti dei sentimenti collettivi, sono riusciti a riproporre il canone politico-identitario dell’antifascismo. Tuttavia, come evidenzio nel libro, tale canone è pervaso da “fratture”: come un vaso di porcellana che si presenta intero e però si mostra corroso dalle crepe. Le fratture hanno indebolito il canone dell’antifascismo, tuttavia non hanno mai portato alla sua distruzione o archiviazione. L’epos e l’ethos della Resistenza e della Liberazione hanno fin dall’inizio offerto un’incarnazione plastica dei valori di libertà e di giustizia che ispirano il canone politico-identitario della nostra democrazia antifascista. Il canone antifascista è sigillato nella stessa Costituzione, trova costante espressione nei discorsi celebrativi delle alte cariche dello Stato, di uomini politici e intellettuali; si riverbera nella società anche attraverso la scuola, i nomi delle strade e delle piazze, i musei e i monumenti e, last but not least, attraverso i mezzi di comunicazione di massa.
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Draghistan: “il sonno della ragione genera mostri”
di Luca Busca
Vedi anche: Luca Busca: Draghistan: cronache di un paese sull’orlo di una crisi di nervi
Come osservò qualche hanno fa Andrea Camilleri “la logica, il buon senso, la sincerità non hanno più corso legale in Italia”. L’intuizione razionale elementare, quella che dà vita al buon senso comune, è andata persa. A scomparire è stata la logica semplice, fondata sui principi elementari di fisica, non ancora stravolti dalla meccanica quantistica, in cui all’origine di un effetto c’è sempre una causa. Quella logica secondo la quale di fronte ad un fuoco viene istintivo soffiare se lo si vuole alimentare, soffocarlo con la sabbia o l’acqua se lo si vuole spegnere. Quella logica basilare che facilita la vita quotidiana, ad esempio con l’uso di una leva, per sollevare un peso, e l’utilizzo di un piano inclinato per spostarlo, preferibilmente usato nel senso in cui agisce la forza di gravità. Ad essersi dissolta è quella logica secondo la quale, una volta stabilito un obiettivo, si ragiona e si lavora per raggiungerlo. Se il fine è rimuovere un “effetto” indesiderato, la logica impone di studiare le cause che lo hanno determinato per poterle poi rimuovere. Se, invece, per raggiungere l’obiettivo prefissato si pensa di alimentare le cause che generano il fenomeno, il risultato, nella quasi totalità dei casi, sarà l’amplificazione dell’effetto indesiderato. La logica, infatti, determina in modo inequivocabile che “versare benzina sul fuoco” causa inevitabilmente un incendio. Esiste un unico caso in cui la logica consente l’utilizzo delle cause al fine di rimuovere l’effetto prodotto, quello in cui si vuol portare tale effetto ai suoi massimi livelli in modo che deflagri auto estinguendosi. Il sistema ha un’altissima percentuale di successo. Il problema generalmente viene individuato nell’impossibilità di controllare gli “effetti collaterali” generati dalla deflagrazione che spesso conducono all’estinzione di innumerevoli “fenomeni” connessi.
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La tempesta perfetta
di Salvio Lanza, Rosario Patalano
1. Introduzione
La guerra in Ucraina ha posto drammaticamente il problema della nostra indipendenza energetica che, per un paese dotato di insufficienti fonti proprie, non significa immediata autarchia, ma intelligente diversificazione dei canali di approvvigionamento (vedi tabella 1 su tassi di dipendenza nell’Unione Europea, come percentuale delle importazioni nette di prodotti energetici sul consumo interno lordo, con l’Italia che si colloca all’ottanta per cento, vedi tabella 2, per la percentuale di produzione nazionale e le tabelle 3,4 e 5 per le quote di importazioni EU di carbone, petrolio e gas, per paesi fornitori)[1]. Ovviamente questa diversificazione richiederà tempi lunghi e una decisa azione diplomatica verso i paesi in grado di fornire risorse energetiche. Nel lungo periodo, tuttavia, la piena indipendenza energetica, potrà essere affrontata solo con l’implementazione di centrali nucleari (costose e con problemi irrisolti di sicurezza) o con imponenti investimenti in energie rinnovabili[2]. Entrambe le scelte mobiliteranno ingenti risorse per la realizzazione e soprattutto richiederanno una chiara scelta del modello di sviluppo e di governance da seguire. Inoltre, e non è un problema secondario, il tema energetico si interseca inevitabilmente con quello del futuro ruolo dell’Unione.
Tab. 1. Tassi di dipendenza energetica EU 27 (% importazioni nette sul consumo interno lordo) 2020
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Il nuovo disordine mondiale / 15: Follow the money!
di Sandro Moiso
Il nemico non è, no non è
oltre la tua frontiera;
il nemico non è, no non è
al di là della tua trincea
(Il monumento – Enzo Jannacci, 1975)
Nonostante la versione patinata di stile hollywoodiano della guerra fornita dalla propaganda occidentale, che continua a parlare di vittoria di Kiev e della NATO, ballando una sguaiata rumba sia sulla pelle dell’orso russo (non ancora acquisita, però, come trofeo) che su quella delle vittime civili e militari di entrambi i fronti in guerra, i fatti degli ultimi giorni, se non delle ultime ore, rivelano uno scenario ben diverso da quello così superficialmente descritto. Soprattutto per quanto riguarda le alleanze economiche, politiche e militari che gravitano intorno agli Stati Uniti e all’Europa e che vanno man mano disfacendosi lungo i confini orientali di quest’ultima,
Un’immagine che potrebbe riassumere per tutte lo stato delle cose sul campo è quella della parziale resa e ritirata dall’acciaieria Azovstal di Mariupol dei buona parte dei difensori.
Simbolo dell’”eroismo” e della “resistenza” ucraina1 nel corso dei primi 82 giorni di una guerra destinata a durare ed allargarsi negli anni a venire, paradossalmente, è stato anche il primo contingente militare ucraino ad entrare, seppur parzialmente, in conflitto con Zelensky e il suo governo, proprio per il tentativo di quest’ultimo, molto simile a quello di Hitler con le truppe tedesche assediate a Stalingerado nell’inverno tra il 1942 e il 1943, di elevare i militari ad eroi destinati al martirio senza tentare di far alcunché, nemmeno sul piano delle trattative per cercare di salvarne almeno un certo numero.
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Oltre l’Ucraina, le segrete cause materiali della guerra
di Emiliano Brancaccio
Post di Emiliano Brancaccio, docente di politica economica presso l’Università del Sannio
La narrazione della guerra è ormai polarizzata su due opposte retoriche. Putin e i suoi giustificano l’aggressione all’Ucraina con l’urgenza di denazificare il paese e salvaguardare il diritto di autodeterminazione delle popolazioni filo-russe. Il governo USA e gli alleati NATO, invece, sostengono sia doveroso partecipare più o meno direttamente alle operazioni belliche per tutelare la sovranità di un paese libero e democratico aggredito. Queste due propagande, pur contrapposte, risultano dunque uguali nel richiamarsi continuamente ai diritti, alla lealtà, all’ideologia, all’integrità delle nazioni, alla protezione dei popoli. Come se nelle stanze del potere si discutesse solo di tali nobili argomenti. Mai d’affari.
Che in un tale bagno di idealismo affondino i rozzi propagandisti che vanno per la maggiore non suscita meraviglia. Più sorprendente è il fatto che nel medesimo stagno si siano calati anche studiosi interpellati dai media: filosofi, storici, esperti di geopolitica e di relazioni internazionali, economisti mainstream. La ragione di fondo, a ben guardare, è di ordine epistemologico. I più sembrano infatti accontentarsi di una metodologia di tipo aneddotico. Ossia, una serie di fatti giustapposti, una concezione della storia come fosse banalmente costituita dalle decisioni individuali dei suoi protagonisti, una sopravvalutazione delle spiegazioni ufficiali di quelle decisioni. E sopra ogni cosa, una espressa rinuncia: mai pretendere di ricercare “leggi di tendenza” alla base dei conflitti militari. Da Allison Graham a Etienne Balibar, nessuno osa oggi parlare delle “tendenze” su cui invece indagavano i loro grandi ispiratori, da Tucidide ad Althusser. [1]
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Dialettica dell’irrazionalismo
Lukács tra nazismo e stalinismo
di Enzo Traverso
Il saggio «Dialettica dell’irrazionalismo» di Enzo Traverso (ombre corte, 2022), appena arrivato in libreria, è uscito l’anno scorso in inglese come introduzione alla nuova edizione di «The Destruction of Reason» di György Lukács, per la Verso. La traduzione è stata curata da Gigi Roggero, rivista e aggiornata dall’autore. In occasione della sua pubblicazione per ombre corte pubblichiamo qui l’Introduzione. Ringraziamo l’autore e l’editore per la disponibilità.
Sono molte le ragioni che suggeriscono oggi, a settant’anni dalla sua prima pubblicazione, una rilettura di La distruzione della ragione di Lukács. Per i filologi e gli storici della filosofia sono ovvie: si tratta di riscoprire una delle opere più ambiziose di uno dei grandi pensatori del Novecento. Ce ne sono altre, altrettanto ovvie, che derivano dall’interesse intrinseco di questo libro, profondamente contestabile ma ricco di idee. Tutti riconoscono che dei legittimisti fanatici come Joseph de Maistre e Donoso Cortés, un filosofo fascista come Giovanni Gentile, dei pensatori conservatori compromessi col nazismo come Martin Heidegger e Carl Schmitt, meritano di essere letti e meditati. Perché non dovremmo riservare un analogo trattamento a Lukács?
Si possono ricavare delle lezioni utili dalle opere dei cattivi maestri, ma per questo bisogna saperli leggere, non per seguirne l’insegnamento, ma andando oltre la semplice condanna che nasce da un’interpretazione angusta e sterile. L’apologia dello stalinismo che permea La distruzione della ragione, pubblicata a Berlino per i tipi di Aufbau Verlag nel 1953, appare oggi indegna e colpevole, ma va spiegata e compresa nei suoi significati. Non per giustificarla o “perdonarla” – come faceva Hannah Arendt nel 1970, rievocando i trascorsi nazisti di Heidegger – ma perché non è aneddotica; essa getta luce su una tappa fondamentale del percorso del suo autore e anche, al di là di Lukács, del marxismo e della cultura di sinistra durante gli anni più bui della guerra fredda. Bisogna insomma, per usare la formula di Leo Strauss, imparare a “leggere tra le righe”, interpretando un’opera come La distruzione della ragione non soltanto come un manifesto ma anche come un sintomo. È questo l’esercizio che cercherò di compie- re nelle pagine che seguono.
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Credere, obbedire e …far combattere gli altri
di Giancarlo Scarpari
Nella lunga intervista rilasciata a Federico Rampini (Kosovo, gli italiani e la guerra, Milano, Mondadori, 1999), Massimo D’Alema presentava l’intervento della Nato contro la Serbia – 79 giorni di bombardamenti, 23.614 bombe e missili sganciati (tra cui 355 bombe a frammentazione e altre all’uranio impoverito), più di 500 morti e 8.000 feriti tra i civili, con l’ambasciata cinese colpita e la sede della televisione di Belgrado semidistrutta, con 16 morti tra giornalisti e tecnici, ecc. – come un’azione di forza volta «a garantire i diritti umani e civili per decine di migliaia di profughi in fuga dalle città e dai villaggi del Kosovo e a riaprire, una volta conseguito questo obiettivo prioritario, il dialogo per giungere a una pace giusta che ponga fine a quel conflitto».
D’Alema, il 5 marzo, venti giorni prima che iniziasse la guerra, era andato (convocato?) negli Usa e, ricevuta l’assicurazione da Clinton che si sarebbe fatta «qualunque cosa per riparare» all’ingiusta assoluzione dei piloti responsabili della strage del Cermis, aveva poi parlato della guerra in preparazione e appreso che, se Milosevic non si arrendeva dopo i primi bombardamenti, la Nato li avrebbe proseguiti a oltranza: la promessa sarebbe rimasta senza seguito, la previsione si sarebbe invece concretizzata sul campo.
L’Italia partecipò alla guerra con la messa a disposizione delle basi e l’invio di 52 aerei.
Nell’intervista i due non sembrano interessati a valutare la compatibilità, o meno, di tale scelta con l’impegno stabilito dall’art.11 della Costituzione, visto che non ne parlano proprio.
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Il punto sul momento
di Michele Castaldo
A oltre tre mesi dal 24 febbraio, cioè dall’inizio dell’« Operazione militare speciale » della Russia in Ucraina proviamo a fare il punto su quello che finora è accaduto fra le parti, cioè fra la Russia e l’insieme dell’Occidente sul campo di battaglia e fuori e a quali possibili scenari si va incontro. Premettendo di fare lo sforzo di analizzare i fatti fra selve di bugie e chiacchiere strumentali, in modo particolare nel nostro Occidente, specialisti di vanagloria dei nostri valori e nello spendere fiumi di sprezzanti aggettivi nei confronti del nemico del momento, Putin e la Confederazione russa. Un elenco lunghissimo di editorialisti e commentatori si sono alternati sui maggiori quotidiani italiani e nei programmi televisivi, con conduttori e conduttrici rigorosamente schierati alla bisogna fino all’indecenza di mandare in onda, durante gli stacchi pubblicitari, l’immagine dell’”eroe” Zelensky e la colonna sonora dell’inno dedicato al Comandante Che Guevara, ovvero di mettere sullo stesso piano un eroe vero dell’antimperialismo antioccidentale e un servo dell’Occidente a dirigere il secondo tempo dello scontro tra gli Usa e la Federazione russa in terra d’Ucraina.
Di contro una Federazione russa che il 9 maggio manda in onda la parata per la ricorrenza della vittoria sul nazifascismo. Va detto che mentre Zelensky osannato e corteggiato da tutto l’Occidente appare sempre in splendida solitudine, in Russia c’è stata una manifestazione di 2 milioni di persone nella sola Mosca e 20 milioni per tutta la nazione. Dove compariva spesso il simbolo della ex Urss con falce e martello. Nella stessa Mariupol, in Ucraina, una enorme bandiera rossa con lo stesso simbolo veniva retta da alcune centinaia di manifestanti.
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La biotecnologia statunitense ha contribuito a creare COVID-19?
di Neil L. Harrison e Jeffrey D. Sachs
Pur incolpando la Cina esclusivamente per l’apparente comparsa del COVID-19 a Wuhan, le autorità statunitensi hanno soppresso le indagini sul ruolo che gli istituti di ricerca scientifica statunitensi potrebbero aver svolto nel creare le condizioni per la pandemia. Eppure, se il coronavirus è davvero arrivato da un laboratorio, la colpevolezza degli Stati Uniti è quasi certa
Quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiesto alla United States Intelligence Community di determinare l’origine del COVID-19, la sua conclusione è stata notevolmente sottovalutata ma comunque scioccante. In un riassunto di una pagina , l’IC ha chiarito che non poteva escludere la possibilità che SARS-CoV-2 (il virus che causa COVID-19) fosse emerso da un laboratorio.
Ma ancora più scioccante per gli americani e il mondo è un ulteriore punto su cui l’IC è rimasto muto: se il virus è davvero il risultato di ricerche e sperimentazioni di laboratorio, è stato quasi sicuramente creato con la biotecnologia e il know-how statunitensi che erano stati messi a disposizione di ricercatori in Cina.
Per conoscere la verità completa sulle origini del COVID-19, abbiamo bisogno di un’indagine piena e indipendente non solo sull’epidemia di Wuhan, in Cina, ma anche sulla ricerca scientifica statunitense, sulla divulgazione internazionale e sulle licenze tecnologiche in vista alla pandemia.
Recentemente abbiamo chiesto un’indagine del genere negli Atti dell’Accademia Nazionale delle Scienze . Alcuni potrebbero respingere le nostre ragioni per farlo come una “teoria del complotto”. Ma cerchiamo di essere chiarissimi: se il virus è emerso da un laboratorio, lo è quasi sicuramente accidentalmente nel normale corso della ricerca, probabilmente non è stato rilevato a causa di un’infezione asintomatica.
Ovviamente è anche ancora possibile che il virus abbia un’origine naturale. La linea di fondo è che nessuno lo sa. Ecco perché è così importante indagare su tutte le informazioni rilevanti contenute nei database disponibili negli Stati Uniti.
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Per un nuovo ordine mondiale multipolare
di Alessandro Valentini
Riceviamo e volentieri pubblichiamo la relazione al seminario di Roma del 18 maggio e del seminario di Oristano del 21 maggio
Con la guerra tra Russia e Ucraina siamo a un tornante della storia. Uno di quelli che si presentano una o due volte al massimo nel corso di un secolo. Un tornante destinato a segnare le sorti dell’umanità per i prossimi decenni. Allora è poco interessante discutere qui tra noi se Putin ha fatto bene o ha sbagliato a intraprendere questa operazione militare; se la radicalizzazione del conflitto, sfociato in scontro militare aperto, poteva essere evitato e come poteva essere evitato. Voi tutti sapete qual è la mia opinione ma non è questo il tema al centro del nostro seminario. Noi sappiamo che da almeno un decennio l’amministrazione americana, prima con Obama e poi con Biden, con la parentesi di Trump che si è scagliato prevalentemente contro la Cina, ha condotto una politica di allargamento aggressivo della Nato ad est, inglobando tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia e alcune repubbliche ex sovietiche. L’Ucraina è un altro fondamentale tassello di questa politica, e anche il tentativo di destabilizzare la Bielorussia, con la ennesima “rivoluzione colorata”, rientrava in questo disegno. Ma nel contempo oramai da anni si è consolidato un asse strategico russo-cinese, che si è manifestato in molte occasioni di crisi, nel corso di questi anni, nei rapporti con l’Occidente. Un asse strategico dunque che non nasce dalla reciproca convenienza del momento, ma ha basi strutturali molto solide. Le sanzioni dell’Occidente alla Russia, a dire la verità in questi anni sempre portate avanti con determinazione, ma che ora non hanno precedenti nella storia, hanno accelerato un processo che era in atto, evidenziando drammaticamente lo scontro tra Russia e Cina con l’Occidente, in particolare con gli Usa.
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L’ideologia dell’infosfera
di Roberto Finelli
1. A “massive information process”
L’immagine più diffusa con la quale il mondo tendeva a concepire se stesso, prima della pandemia, e attraverso la quale verosimilmente tornerà a pensarsi, ancor di più, superata la pandemia, è quella che può sintetizzarsi nel brutto termine di “infosfera”. L’infosfera è la concezione del mondo come scambio e messa in rete continua di informazioni, più precisamente come un luogo unificato e globalizzato da un processo permanente di accumulazione, calcolo e trasmissione di informazioni.
Tale rappresentazione per la quale il mondo fisico, naturale, materiale viene ad essere sempre più attraversato, abitato e dominato da una società cosidetta della conoscenza, trova ovviamente il suo fondamento nella diffusione gigantesca delle macchine informatiche, dei computer, e della crescita esponenziale del loro potere computazionale, della loro capacità cioè di immagazzinare, confrontare, elaborare e calcolare informazioni. Tale capacità enorme di “processare”, resa ormai esterna e indipendente dalla mente umana (inaugurata e messa in opera dalla geniale macchina di Touring), concluderebbe, si afferma, una dimensione antropologica del conoscere, fondata sulla centralità della mente umana, per inaugurare un tipo di sapere che dipenderà sempre più da dispositivi automatici, da intelligenze e memorie artificiali, in grado di produrre metodologie di ricerca e interpretazioni di ogni aspetto del mondo e della vita.
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La perdita di fiducia è stata ampiamente meritata
di Jeffrey Tucker*
Qui, Jeffrey Tucker si pone una serie di domande sugli ultimi due anni, arrivando alla conclusione che la questione del Covid è stato un problema profondamente politico. Ovvero, un problema che ha a che fare con la gestione dello stato. In questo caso, i vari organi dello stato sono andati avanti per conto loro, senza che nessuno riuscisse, e nemmeno volesse, controllarli. Non è stato un “complotto,” perlomeno non nel senso che si da normalmente al termine. E’ stata la convergenza di interessi di una serie di individui, ditte, partiti politici, burocrati, e altre sezioni della società che hanno trovato utile spaventare la gente per i loro scopi. E ora ci troviamo con uno stato dove l’apparato burocratico è completamente fuori controllo e che gestisce l’apparato della comunicazione pubblica (detto anche la “propaganda”) in modo completamente autonomo, seguendo gli interessi particolari delle varie lobby. Purtroppo, non si vede come fare a rimediare a questa situazione che, anzi, tende a peggiorare mentre, in parallelo la sfiducia generalizzata nelle istituzioni (incluso la divinizzata “Scienza”) cresce in continuazione. La faccenda non promette bene. (Prof. Ugo Bardi)
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La società è stata distrutta a molti livelli, e anche l’economia. Siamo di fronte a una crisi di salute mentale tra i giovani dopo due anni di sconvolgimenti educativi e sociali senza precedenti. L’inflazione più alta nella vita della maggior parte delle persone ha gettato la gente nel panico per il futuro, e questo si combina con una strana e imprevedibile penuria.
E ci chiediamo perché. Pochi osano chiamarlo per quello che è: il risultato di chiusure e controlli smodati che hanno compromesso diritti e libertà essenziali. Questa scelta ha sconvolto il mondo come lo conoscevamo. Non possiamo semplicemente andare avanti e dimenticare.
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Per fare conricerca – Prefazione
di Gigi Roggero
È appena stato pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi il volume Per fare conricerca di Romano Alquati. Frutto di un ciclo di lezioni da lui tenuto all’inizio degli anni Novanta per studenti e militanti, il testo è un formidabile strumento formativo, un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una «macchinetta», non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare. Pubblichiamo la Prefazione scritta da Gigi Roggero.
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A quel che è accettato / dagli il fuoco del tuo odio. Paul Éluard
Per fare conricerca è il frutto di un ciclo di lezioni tenuto da Romano Alquati per il seminario sui «comunicanti» svoltosi nei primi anni Novanta alla facoltà di Scienze politiche di Torino, a cui parteciparono studenti e militanti dell’ex movimento della Pantera e dell’allora neonata Radio Blackout, emittente creata dai centri sociali del capoluogo piemontese. Nelle intenzioni originarie, le lezioni erano finalizzate all’impostazione di un percorso di conricerca sul nodo della comunicazione e dei comunicanti. Indipendentemente dagli sviluppi successivi, a noi resta un volume fondamentale, edito per la prima volta dalla Calusca nel 1993 e che oggi riproponiamo, non casualmente, nella collana di DeriveApprodi dedicata alla formazione politica. Per fare conricerca, infatti, è innanzitutto uno straordinario strumento formativo, unico nel suo genere. È un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una macchinetta, non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare.
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