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sinistra 

La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna

di Antonio Pagliarone1

Introduzione al volume La lotta di classe nell'epoca della finanza moderna, Asterios editore, Trieste 2022

ISBN LA LOTTA DI CLASSELa pubblicazione di questi articoli, come COVID-19 e la catastrofe del debito delle corporation in arrivo di Joseph Baines e Sandy Brian Hager, La lotta di classe nell’epoca della finanza moderna di Julius Krein un commentatore che pubblica regolarmente su America Affair, è utile per introdurre nel dibattito una immagine del capitalismo moderno degli Stati Uniti che non viene assolu­tamente presa in considerazione dalla stragrande maggioranza degli osservatori del vecchio continente anche da quelli ritenuti più affidabili. Sin dai primi anni del nuovo millennio sono stati fatti dei tentativi per stimolare una riflessione su quella che a suo tempo alcuni di noi, pochissimi in effetti, definivano la “finanza speculativa”. Uno dei primi studiosi che hanno analizzato la di­namica dello Speculative Capital fu Nasser Saber, che pubblicò nel 1993 con questo titolo il primo di una serie di volumi per le edizioni Financial Times Management. Naturalmente non esiste alcuna traduzione dall’inglese dei suoi lavori ma essi si rivelarono utilissimi per poter approfondire in maniera empirica la trasfor­mazione del capitalismo verificatasi in maniera intensiva dopo il 20011 2, anno che rappresenta lo spartiacque tra due ere: quella del capitalismo classico e quella del capitale speculativo che ha pro­dotto i suoi guai peggiori con la Great Recession del 2007-2008 dalla quale a quanto pare non riusciamo assolutamente ad uscirne. Krein presenta un quadro della cosiddetta “finanziariz­zazione” che risulta interessante nelle sue caratteristiche generali, ma i presupposti avanzati per spiegare la dinamica della finanza speculativa non sono così precisi anche se il risultato d’insieme è efficace.

Egli non ci spiega perché sono declinati gli investimenti in capitale fisso nel settore delle corporation non finanziarie, ne prende atto e lo spiega con la mania del riacquisto dei titoli azio­nari da parte delle società quotate per farne aumentare il valore. Il fenomeno è reale ma il quadro presentato deve essere invertito, infatti il riacquisto delle azioni societarie non è la causa ma la con­seguenza del declino degli investimenti. Il grafico sottostante preso da Lazonick indica la dinamica crescente del riacquisto delle azioni a partire dai primi anni ‘80.

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Riacquisizioni di azioni (RP) e dividendi di cassa (DV) in dollari (2012) e come percentuale delle entrate nette (NI) di 251 aziende presenti nello S&P 500 a Gen­naio del 2013, resi pubblici dal 1981 al 2012.

Dal grafico risulta poi estremamente evidente l’aumento del va­lore delle azioni rappresentato dall’andamento in crescita dell’In­dice S&P 500 e dall’aumento dei dividendi per gli azionisti derivato dalle politiche adottate dalle corporation descritte feli­cemente da Krein e Lazonick. Krein afferma che gli utili prove­nienti dal riacquisto vengono reinvestiti nel settore finanziario per cui siamo di fronte ad uno “spreco” di capitale che porta alla crisi del settore produttivo, l’unico in cui si possono realizzare profitti che rientrerebbero nel settore facendo crescere l’accumulazione. Egli quindi vede nell’aumento degli investimenti, grazie all’intervento dello stato, la possibilità di tornare ad un capitali­smo “normale”, una speranza condivisa con Lazonick che è stato tra i primi a descrivere la trasformazione finanziaria del capitali­smo americano e non solo3. Una pia illusione.

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Grafico US. NFC. Trend non lineari del saggio di profitto, Massa dei pro­fitti (Indice 1936=0,01) e quota di accumulazione 1936-2014.

In realtà ciò che bisogna osservare è l’aumento della massa dei profitti accumulati dalle Corporation non finanziarie a partire dagli anni ‘80, come si nota nella figura soprastante dove vengono rappresentati contemporaneamente gli andamenti del saggio di profitto e della quota di accumulazione di capitale.

All’aumento progressivo della massa dei profitti corrisponde un declino progressivo della quota di accumulazione che, raggiunto il picco massimo all’inizio del 1980, continua a cadere fino al 2014 (e lo fa tuttora). Quindi il progressivo declino dell’accumulazione in capitale fisso viene alla fine evidenziata dalla crescita della fi­nanza speculativa che provoca una divaricazione fra l’andamento del saggio del profitto e quello del saggio di accumulazione.

Il saggio del profitto dopo il continuo declino a partire dalla fine degli anni ‘60 raggiunge il minimo nel 1990 e poi inizia a ripren­dersi. Se osserviamo la figura soprastante che mostra in partico­lare solo l’andamento del saggio del profitto netto nelle corporation NF si nota l’inversione di tendenza piuttosto decisa a partire dal 1990.

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Saggio del profitto del settore produttivo USA. 1946-2017.

Quindi risulta chiaro che la trasformazione dell’economia e so­prattutto la crisi derivata dalla Great Recession non è stata cau­sata dal crollo del saggio del profitto, come affermano alcuni marxisti che ne hanno fatto una ideologia, ma da qualcosa d’altro che occorre indagare. Ciò che risulta evidente è un aumento della liquidità a disposizione delle imprese in seguito alla fine del pe­riodo del boom postbellico con l’inizio della crisi degli anni 70, che ha colpito tutti i paesi capitalisti, che porta ad una fragilità economica estremamente grave tanto da provocare enormi diffi­coltà alle imprese di ogni settore. Nel contempo si assiste ad un livello estremamente basso del valore delle azioni e poiché la stra­grande maggioranza delle corporation è costituita ormai da so­cietà per azioni, di vario genere, matura la tendenza verso fusioni e acquisizioni, con il conseguente aumento della concentrazione di capitale, che fa scattare in alto gli indici di borsa, e da qui, verso l’inizio degli anni ’80, comincia lo spostamento del capitale mo­netario dalla sfera produttiva a quella finanziaria-speculativa. Si genera così un circolo vizioso per cui i profitti generati nella pro­duzione e nella finanza rimangono intrappolati nella dinamica speculativa in un maelstrom vorticoso che coinvolge le corpora­tion produttive, protagoniste indiscusse della trasformazione. Il vortice è talmente intenso che l’assorbimento continuo di capitale nella sfera speculativa porta le corporation anche ad indebitarsi continuamente ed è proprio questo continuo innalzamento del debito che fa aumentare la probabilità di nuovi crack altrettanto gravi quanto l’ultima Great Recession. In queste condizioni una crescita economica di qualche rilevanza la possiamo solo sognare.

In una situazione del genere, maturata a partire dai fatidici anni ‘80, si manifesta sempre più una divaricazione dei redditi con la conseguente disuguaglianza divenuta ormai il brend del capitale speculativo. Come sottolinea Paolo Giussani in un suo vecchio scritto4 “La contrazione dell’accumulazione prima e l’outsourcing e il trasferimento all’estero di grossi segmenti produttivi poi, at­traverso l’aumento dell’esercito di riserva, tendono a distruggere il potere contrattuale dei lavoratori salariati e mettono in moto un movimento di deintegrazione, diametralmente opposto a quello dominante dalla seconda metà del secolo XIX in poi. Quello che fu il cosiddetto movimento operaio sparisce dalla scena della storia mentre l’intensità della lotta concorrenziale di tutti contro tutti raggiunge livelli mai visti. L’esercito di riserva tende ovunque ad accrescersi e a moltiplicare le sue forme”.

La “guerra di classe” assume di conseguenza dei connotati nuovi rispetto ai tanto mitizzati anni ‘70, infatti il prodotto di questi tempi è la lotta contro ogni forma di sottoproletariato del proprio paese e straniero proprio per la paura che hanno i lavoratori di “scivolarci dentro” ma soprattutto perché li considerano, assieme ai dipendenti statali, dei parassiti che sottraggono reddito e be­nefit (anche sotto forma di welfare) a coloro che “faticano per sbarcare il lunario”. Ormai la lotta contro il capitale è limitata a sporadiche reazioni oppure viene confusa con l’idea assurda di riuscire a spuntare aumenti salariali dalla lotta contro le tasse al pari di un qualsiasi bottegaio.

Ecco l’amara realtà alla quale si affianca il divario socio-econo­mico all’interno del quadro presentato da Krein in cui “La vera guerra di classe è compresa tra lo 0,1% e il 10% (al top), o, più pre­cisamente, tra le élite che dipendono principalmente dalle plu­svalenze e quelle che dipendono principalmente dal lavoro professionale”. Questo strato di “declassati” rappresentati se­condo Krein dalle nuove, ormai desuete, figure professionali della Silicon Valley, gli associati e gli avvocati stipendiati che lavorano nei mega-studi legali delle grandi metropoli, fino agli impiegati di Uber e WeWork per non tralasciare i tecnici professionalizzati delle imprese High-tech. Questa nuova classe sottoposta alle pres­sioni generate dalla struttura e dalle dinamiche dello speculative capital teme non solo per il posto di lavoro come o forse più di un operaio comune ma soffre in maniera pesante la disuguaglianza che genera sempre più insicurezza per se e per le nuove genera­zioni in quanto “sono rapidamente aumentati i costi per trasferire lo status di élite ai propri figli” ossia i costi per un’istruzione di alto livello. Questa condizione della “classe medio alta” porta di conseguenza ad una sua “radicalizzazione”, rispetto al conserva­torismo che essa ha sempre sostenuto in passato. Questo strato sociale è andato via via sostituendo la classe dei lavoratori nei con­sensi e nell’attivismo a favore dei democratici arrivando ad assu­mere posizioni più radical dello stesso establishment del partito. Non facciamoci illusioni non sarà certo questo ceto medio declas­sato a creare le condizioni per il superamento di un sistema de­generato dalla speculazione in ogni sua manifestazione, possiamo quindi concludere che la crisi non ha risolto né cancellato nulla, l’indebitamento resta altissimo e continua ad essere elevata la probabilità di nuovi crolli finanziari.

Nell’ultimo decennio, il debito globale ha raggiunto i 250 trilioni di dollari (dagli 84 trilioni nel 2000 e i 173 trilioni nel 2008) pari al 320% del PIL globale, il 50% in più rispetto al decennio prece­dente. Il debito pubblico globale è aumentato del 77%, il debito delle corporation globale del 51% per cui nessuno che abbia un po’ di cervello può credere che questo debito verrà mai ripagato. Al contrario, continuerà a crescere, poiché molte imprese e go­verni devono prendere in prestito per pagare gli interessi sul loro vecchio debito. Ecco perché è indispensabile che i tassi di inter­esse siano mantenuti più bassi possibile.

Dieci anni fa il debito interno della Cina era pari solo al 18,8% del PIL cinese e da allora è quasi triplicato raggiungendo il 51%. Il debito delle corporate è salito al 65% del PIL, il più rapido au­mento di tutte le principali economie. Nel frattempo, i profitti sono crollati. Nell’anno precedente la Great Recession, l’utile complessivo netto dell’economia cinese era di 726 miliardi di dol­lari. Dieci anni dopo, il suo bilancio mostrava una perdita di 34 miliardi. Ancor prima che si diffondesse la pandemia, in Cina sembrava quasi inevitabile un’ondata di fallimenti.

Negli Stati Uniti il quadro appare in qualche modo un po’ di­verso, infatti anche in questo caso, sia il debito pubblico che il deb­ito delle corporation non finanziarie sono più che raddoppiati. Tuttavia, negli Stati Uniti, il saggio di profitto in questo decennio è aumentato, in parte grazie al ristagno dei salari, ma questo au­mento è dovuto quasi esclusivamente al successo delle corporation al top del 10%, mentre i margini di profitto delle imprese nella metà inferiore sono rimasti per lo più in territorio negativo come dimostra l’articolo di Joseph Baines e Sandy Brian Hager. Resta il fatto che i bilanci aziendali sono pericolosamente fragili ed in tutte le principali economie, sono aumentate le preoccupazioni relative all’aumento del debito societario. Negli Stati Uniti, sullo sfondo di un accesso decennale a denaro a buon mercato, le corporation non finanziarie hanno visto i loro debiti più che raddoppiare, passando da 3,2 trilioni di $ nel 2007 a 6,6 trilioni di $ nel 2019.

In queste condizioni risulta sempre meno possibile una crescita economica di una qualche rilevanza, come stiamo sperimentando continuamente, ma men che meno si può ristabilire una nuova fase speculativa, oppure potrebbe verificarsi solo riproducendo condizioni peggiori di quelle esistenti. Mentre rivedo queste note è scoppiato il dramma della Pandemia che, come il cacio sui mac­cheroni, contribuirà inevitabilmente a peggiorare, e di molto, la situazione di crisi perdurante trasformandola probabilmente nella più Grande Depressione della storia. L’OCSE prevede che i paesi ricchi si addosseranno un debito pubblico aggiuntivo di almeno 17 trilioni di dollari, un aumento del 28% sul PIL rispetto alla Great Recession del 2007. Mentre combattono le conseguenze economiche della pandemia si verificherà contemporaneamente, ed inevitabilmente, un enorme calo delle entrate fiscali che ridur­ranno le misure di stimolo messe in atto per contrastare la grave situazione economica e sociale che si sta delineando5. “Non è in­sensato pensare che una seconda scossa del tipo e magnitudo di quella sorta con la Great Recession possa produrre grandissime sorprese”. Il modo di produzione capitalistico potrebbe fallire de­finitivamente per dar vita ad uno nuovo6, altrimenti saremo co­stretti a vivere un lunghissimo periodo di povertà e disperazione in un sistema che potrebbe addirittura regredire.

Col rallentamento dell’accumulazione di capitale negli ultimi anni in Cina, le lotte portate avanti dai lavoratori iniziano a spostarsi geograficamente e subiscono una trasformazione delle loro forme. Sulla base di analisi empiriche dettagliate l’articolo di Zhun Xu e Ying Chen Lo spostamento nel territorio delle lotte dei lavoratori in Cina: prove ed implicazioni” pone in evidenza un evidente trasferimento territoriale dei conflitti del lavoro dalle re­gioni costiere a quelle interne. Nel frattempo, la repressione delle lotte sta diventando sempre più aggressiva e violenta e quindi ci troviamo di fronte alla fine del breve periodo di attivismo nell’età dell’oro delle regioni costiere.


Note 
1 This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.. Milano, Gennaio 2020.
2 Non è un caso che questo è l’anno dell’11 settembre (vedi il mio Contractors pub­blicato da Sedizioni nel 2008).
13 Vedi William Lazonick “Profitti Senza Prosperità: come le riacquisizioni delle azioni manipolano il mercato e rendono più povera la maggioranza degli ameri­cani” pubblicato in Countdown studi sulla crisi n 2 Colibrì Marzo 2016.
4 Paolo Giussani “Il capitalismo è morto” paper del Novembre 2010.
5 Ancora una volta, possiamo fare tesoro delle lezioni dal Giappone. Il primo mi­nistro Abe è famoso per lo stimolo economico, il suo mandato ha comportato due aumenti dell’imposta sui consumi, dal 5 all’8% nel 2014 e poi al 10% lo scorso ot­tobre. In entrambe i casi gli aumenti hanno portato l’economia giapponese alla recessione mentre il rapporto debito/PIL ha raggiunto il 240% provocando non poche preoccupazioni per l’economia mondiale.
6 A tale proposito faremo uscire prossimamente una raccolta di Countdown studi sulla crisi dedicata specificamente all’Economia dei Liberi Produttori Associati.

Comments

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AlsOb
Tuesday, 24 May 2022 07:50
Lo scritto, che è una utile introduzione e riassunto, ha il merito di affrontare e proporre una inerpretazione del processo di finanziarizzazione delle economie, cioè di affermazione del capitalismo del capitale fittizio secondo le coordinate del fascismo neoliberale, sulla base di un convinto e robusto punto di vista, per il quale la causa principale sarebbe da attribuirsi all'aumento della liquidità delle imprese e suo spostamento dalla sfera produttiva a quella finanziaria speculativa, in un crescendo vorticoso.

Tuttavia alcuni legami non appaiono perfettamente logici, la lotta di classe sembra infatti ridotta o a una guerra tra poveri perdenti e ignoranti del meccanismo di funzionamento del sistema neoliberale, o a un dissidio tra le due classi al vertice della piramide. Inoltre, sulla stessa fragile linea, viene sostanzialmente esclusa una possibilità di intervento del governo e dello stato a rettificare maldestre classiste decisioni e legislazioni (come per esempio suggerito da Lazonick, in relazione ai buyback). Se è vera la constatazione che la crisi del 2007-08, (contrariamente a ciò che molti possono credere), non ha modificato di una virgola il processo di fascistizzazione neoliberale, il quadro raffigurato è piuttosto di meraviglia e impotenza, simile a quello dei paesi del terzo mondo o in via di terzomondizzazione, dove, se piove un giorno di più o uno in meno, il risultato sono sempre i medesimi ripetitivi e “inattesi” disastri, alluvioni e siccità.

La classe dominante imperiale (e per effetto le subordinate) negli anni 70 ha radicalmente mutato il paradigma economico, sociale e istituzionale di riferimentio, per ritenere troppo pericoloso e rivoluzionario un capitalismo minimamente "democratico" in crescita, con tasso di salario di sussistenza marxiano. Perciò, con un esplicito passo indietro verso un modello dispotico neofeudale, ha imposto un tasso di salario ricardiano, una cultura e sistema di istruzione che favorissero ilindottrinamento e mistificazioni, una marcata riduzione del ruolo dello stato e welfare (mediante il metodo dello starving the beast) e un [degenerato] capitalismo di stampo fascista neoliberale basato sulla più estremistica pseudo-metafisica neoclassica, per la quale l'offerta crea la domanda, vige la teoria monetarista della quantità di moneta e i mercati, tra cui soprattutto quelli finanziari a cui devono ssere fatte affluire la maggioranza delle risorse, esprimono ottimalità, armonia e autoregolazione.

Come hanno osservato persino W. Buffett e H. Paulson, una violenta guerra di classe c'è stata, però a senso unico.

Svuotati e indeboliti lo stato e il welfare, divulgato l’immaginativo Consenso di Washington, addomesticati e catturati i partiti di sinistra, attuate le privatizzazioni, realizzate modifiche legislative ad hoc, promossi la disintermediazione bancaria, l'imperialismo del dollaro e l'arbitraggio salariale, il neoliberalismo ha canalizzato grossi flussi di liquidità derivanti dai profitti (incrementati dal tasso di salario ricardiano) e da un complesso di risparmi liberi o automatici e forzati, tra cui le pensioni, verso istituzioni private, che secondo la pseudo -metafisica neoclassica garantirebbero l'impiego razionale e ottimale delle risorse.. Logicamente l'accumulazione capitalistica è diventata soprattutto accumulazione finanziaria, mercificazione di ogni aspetto di vita economica e umana, esplosione di intermediari non bancari e indebitamento, creazione endogena innovativa e parossistica di vari tipi di moneta o quasi moneta.



Altrettanto logicamente il sistema capitalistico del capitale fittizio e del fascismo neoliberale non solo ha concentrato la ricchezza finanziaria in una sottile fetta della popolazione e trasferito trenta trilioni di dollari a tre soli amministratori istituzionali, diventando marcatamente oligarchico plutocratico, ma ha pure acquisito una più accentuata congenita instabilità, elevando ordine e frequenza delle crisi Se i sedicenti partiti di sinistra, arruolati e ridotti a propagandisti neoliberali, non se ne sono accorti, la classe dominante imperiale ha silenziosamente e pragmaticamente preso spunto da R. Luxemburg e H. Minsky (quindi Marx) per adottare politiche non convenzionali (cioè non appartenenti alla pseudo- metafisica) e per esempio il compito della banca centrale si è esteso alla stabilizzazione, nella misura del raggiungibile, di un instabile sistema finanziario, nel quale la primaria e più delicata o controversa forma di creazione di moneta sono diventati i repo.

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