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L’università in scatola
Intervista a Federico Bertoni
In Sudcomune. Biopolitica Inchiesta Soggettivazioni, n. 1-2, 2016 (Ed. Deriveapprodi)
L’intervista a Federico Bertoni, in occasione della pubblicazione del suo importante lavoro Universitaly. la cultura in scatola, è stata condotta nell’ambito dell’inchiesta sugli studenti e le trasformazioni dell’Università che l’Associazione sudcomune e il “Laboratorio sulle transizioni, i mutamenti sociali e le nuove soggettività” dell’Università di Roma 3 hanno iniziato nel corso del 2016. Universitaly è un libro che coglie nel segno, che descrive chiaramente “dall’interno” i principali elementi della crisi universitaria (ossia della formazione dell’università neoliberale in Italia) ed offre le categorie adeguate alla sua comprensione, nonché diversi spunti critici per il suo superamento.
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SUDCOMUNE: La lettura di Universitaly è importante per diversi motivi, tra cui il fatto che le trasformazioni indotte dalle recenti riforme universitarie sono lette dall’interno, da un prof. che ama il suo lavoro e vorrebbe “mettere in comune” il suo sapere. In «Cominciò tutto così», uno dei primi paragrafi del libro, si legge che quando hai cominciato a insegnare, ai primi anni del 2000, «il ’68 era ormai lontano come il giurassico. Stava iniziando l’era dell’eccellenza». Più in avanti nel testo, a proposito del corpo docente scrivi: «Siamo in piena mutazione: ci stiamo trasformando a tutti gli effetti in amministratori, ingranaggi della macchina ed esecutori solerti di ingiunzioni burocratiche, azioni che compiamo in gran parte attraverso i dispositivi informatici (…) Non vogliamo capire che l’evoluzione del sistema universitario ha cambiato la natura stessa delle responsabilità: il nostro compito primario non è più contribuire al progresso della conoscenza e condividerla con gli studenti, ma reagire puntualmente alle ingiunzioni ed eseguire i comandi in modo rapido, completo e preciso».
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Riflessioni su "Addio al lavoro?" e note a margine sul concetto di classe-che-vive-di-lavoro
di Bollettino Culturale
Le trasformazioni nel mondo del lavoro hanno influenzato la sua forma di essere, raggiungendo dimensioni oggettive e soggettive dei soggetti collettivi o della classe-che-vive-di-lavoro, come suggerisce l'autore. Il punto di riferimento di questo testo sono gli anni '80, un periodo in cui il libro “Addio al lavoro? Le metamorfosi e la centralità del lavoro” sottolineava che gli effetti non erano limitati al mondo sottosviluppato, ma abbracciavano anche il mondo sviluppato. La rottura degli schemi produttivi ha portato con sé un inasprimento dei livelli di degrado dei soggetti, rendendoli flessibili, allo stesso tempo ha portato allo smantellamento delle organizzazioni sindacali, che si basavano sul modello tradizionale di accumulazione, in cui il lavoro aveva ancora un certo potere contrattuale nell'ambito industriale e una relativa partecipazione ai profitti aziendali. Antunes presta particolare attenzione alla contraddizione strutturale tra capitale-lavoro, tenendo conto di come il nuovo regime di accumulazione ha ridefinito le forme di sfruttamento, nonché indebolito le forme tradizionali di lotta.
Grazie al suo lavoro è possibile osservare come il taylorismo-fordismo ha cessato di essere il principale modello di organizzazione del lavoro, iniziando a fondersi con forme più flessibili di accumulazione, a cui vengono assegnate varie denominazioni, come: "neofordismo", "neo-taylorismo", "postfordismo".
Diverse sono le caratteristiche di questo nuovo modello: specializzazione flessibile; deconcentrazione industriale; nuovi modi di controllare la forza lavoro; rottura o flessibilizzazione di ogni vincolo; controllo della qualità totale…
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La discussione entro Nuova Direzione
Osservazioni sulle note di Riccardo Bernini
di Alessandro Visalli
Nell’ultimo mese, in vista della seconda assemblea di Nuova Direzione, è stato avviato un dibattito che per ora ha visto un primo intervento di Carlo Formenti[1] e di Alessandro Visalli[2], ed una replica nel merito e molto articolata di Riccardo Bernini[3].
Il pezzo di Formenti, che apre la discussione, ricostruisce sinteticamente il contesto nel quale aveva preso forma il progetto organizzativo di Nuova Direzione, il cui scopo era di tentare di addensare le varie forze che nel quinquennio dal 2014 al 2019 avevano via via sviluppato una critica alla arrendevole posizione delle sinistre italiane ed internazionali verso la mondializzazione e i progetti di governance sovranazionale (sopra tutti l’Unione Europea). Ovvero di proporre una piattaforma che muovesse dalla sovranità costituzionale, superando anche le esitazioni e compromessi della piattaforma di “Patria e Costituzione” che, pure, alcuni dei protagonisti, come i due primi scriventi, avevano contribuito attivamente a promuovere[4]. Nuova Direzione era, insomma, solo l’ultimo anello di una catena di tentativi, variamente prodotti entro diverse associazioni, per ricostituire nel paese un punto di vista socialista, orientato alle ‘periferie’ (ovvero al mondo del lavoro debole, agli ambienti sociali periferici e alle relative soggettività), e potenzialmente egemonico[5].
Il principale elemento diagnostico che mosse quella serie di tentativi era che si era aperto, con la crisi del 2008-13, in tutto il mondo occidentale, un “momento Polanyi” nel quale lo scollamento tra i luoghi più dinamici dell’economia e i relativi ceti internazionali privilegiati e la grande maggioranza si era reso manifesto e provocava ormai una divaricazione non contenibile.
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Tanti auguri Rosa Luxemburg
di Marcello Musto
Rosa Luxemburg nasceva 150 anni fa. Si sentiva a casa sua «in tutto il mondo, ovunque ci siano nubi e uccelli e lacrime umane», innovò il marxismo e capì che la classe operaia doveva lottare contro la guerra e la militarizzazione della società
Quando nell’agosto del 1893, al Congresso di Zurigo della Seconda internazionale, dalla presidenza dell’assemblea fu menzionato il suo nome, Rosa Luxemburg si fece spazio senza indugiare tra la platea di delegati e militanti che riempivano la sala stracolma. Era una delle poche donne presenti al consesso, ancora giovanissima, di corporatura minuta e con una deformazione all’anca che la costringeva a zoppicare sin dall’età di cinque anni. Nei presenti, il suo apparire sembrò destare l’impressione di trovarsi dinanzi a una persona fragile.
La questione nazionale
Stupì tutti, invece, quando, dopo essere salita su una sedia, per farsi ascoltare meglio, riuscì ad attirare l’attenzione dell’intero uditorio, sorpreso dall’abilità della sua dialettica e affascinato dall’originalità delle sue tesi. Per la Luxemburg, infatti, la rivendicazione centrale del movimento operaio polacco non doveva essere la costruzione di una Polonia indipendente, come veniva ripetuto all’unanimità. La Polonia era ancora tripartita tra gli imperi tedesco, austro-ungarico e russo; la sua riunificazione risultava di difficile attuazione, mentre ai lavoratori andavano prospettati obiettivi realistici che avrebbero dovuto generare lotte pratiche nel nome di bisogni concreti.
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Draghi, il Principe all’inizio degli anni ’20
di Rodolfo Ricci
Le élites, non sono necessariamente di destra o di sinistra. L’importante è che stiano sopra. Stando in alto possono mediamente osservare con imparzialità ideologica da che parte conviene pendere. La funzione delle élites è quella di riprodurre se stesse, cioè di riconfermare la dimensione sintetica dell’Alto e quella del Basso. E di proiettarla in avanti nel tempo con strumenti di diversa natura, nonché variabili rispetto ai mutevoli contesti; per questa proiezione sono preferibili strumenti egemonici, fondati su qualità riconosciute o riconoscibili, per esempio sull’autorevolezza, piuttosto che quelli quantitativi (forza, denaro, ecc.) o normativi o prescrittivi, che costituiscono sempre possibilità di ultima istanza.
L’ egemonia della scolastica capitalistica è stata fondamentalmente il denaro e il suo gioco infinito di accumulazione inteso come grazia che designa i suoi possessori e interpreti; non è detto che esso debba continuare ad essere il mezzo preferibile in un contesto oscillante e declinante di sistema. Alla fine, ciò che le élites debbono preservare è la dimensione di potere e di dominio, non lo strumento che ad esse serve per raggiungerlo.
Un concetto più interessante, da questo punto di vista, perché ancora più neutro e naturale, è quello della “competenza”, che rimanda all’antica qualità sciamanica di intercettare le forze superiori. Nella sua versione laica, legata alla scienza e alla sua manipolazione, si tratta di un concetto scalabile, a prima vista, non legato per forza alla finanza, né all’appartenenza a uno specifico settore sociale o confraternita, quindi non appare attaccabile, se non in seconda istanza, come “di parte”.
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Il complesso rapporto tra storia ed evoluzione
di Francesca Romana Capone
Il saggio Storia ed evoluzione di Edmund Russell, offre lo spunto per ragionare, in termini più ampi, sull’intreccio che ha legato l’evoluzione biologica e quella culturale sin dalla comparsa delle idee di Darwin. Proprio un “eretico” di inizio Novecento, Pëtr Kropotkin, con il suo Il mutuo appoggio, di recente ripubblicato in italiano, aiuta a mettere in evidenza alcuni nodi problematici nella relazione di “scambio” tra storia e biologia evoluzionistica
È la natura che guida la storia?
“Unificare le conoscenze di storia e biologia all’interno della storia evoluzionistica ci permette di comprendere il passato meglio di quanto non possano fare le due discipline prese singolarmente”1 . È questa la principale conclusione del saggio Storia ed evoluzione. Un nuovo ponte tra umanesimo e scienza di Edmund Russell, pubblicato di recente da Bollati Boringhieri. Un testo che si offre soprattutto come un programma di ricerca: partendo dal presupposto che l’uomo non solo è effetto, ma anche causa di processi evolutivi (si pensi, ad esempio, ai batteri resistenti agli antibiotici, oltreché alle specie vegetali e animali consapevolmente selezionate), Russell si propone di far convergere gli strumenti dello storico e dell’evoluzionista nell’analisi della storia umana. È infatti convinzione dello studioso che uno sguardo capace di cogliere aspetti quali la coevoluzione delle specie o la diversa velocità dell’evoluzione genetica e culturale, sia in grado di offrire spiegazioni più profonde di alcuni fenomeni storici.
Lo studioso affronta in via preliminare alcuni aspetti più o meno noti della teoria evoluzionistica: dai diversi tipi di selezione già ipotizzati da Darwin (naturale, metodica, inconscia, sessuale)2, al problema dell’estinzione, dall’impatto dell’uomo sulle altre specie, fino alla coevoluzione dell’essere umano e delle piante e animali che condividono il suo ambiente. Fin qui si tratta di mettere insieme considerazioni già abbastanza note, legate all’importanza della domesticazione o al devastante impatto umano sulla biodiversità cioè, in ultima analisi, agli effetti dell’evoluzione antropogenica – ovvero determinata dall’uomo – sul nostro mondo.
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Assalto al cielo (e ritorno). Sulla teologia politica di Mario Tronti
di Federico Battistutta
Mario Tronti, si sa, ha sempre avuto il coraggio di muoversi in partibus infidelium, tentando di avanzare sul terreno nemico, appropriandosi del suo pensiero per rovesciarlo in un’altra direzione. In questo percorso, a partire dagli anni Ottanta, inizia quello che Federico Battistutta definisce il «terzo momento» della sua ricerca, cioè lo sviluppo del filone teologico-politico. È comprendendone i motivi e gli scopi che possiamo leggere le riflessioni trontiane sullo spirito libero – uno spirito che nulla a che vedere con le pappette del cuore new age: «stare in pace con sé, oggi, vuol dire entrare in guerra con il mondo». Oppure sulla profezia, vale a dire la capacità di vedere e dire quello che gli altri non vedono e non dicono: non la visione idealizzata dell’utopia, bensì la forza sovvertitrice di un realismo rivoluzionario; non un pensiero rivolto al futuro, ma l’anticipazione di un altro presente possibile. In questo percorso Tronti è sempre guidato dal suo sguardo irriducibilmente unilaterale, dalla parzialità del punto di vista – non quello degli ultimi, ma di chi rifiuta di esserlo; non il grido di debolezza delle vittime, ma l’urlo di guerra di una forza collettiva; non l’interesse generale di salvare il mondo, ma l’interesse di parte di metterlo sottosopra. In questo cammino trontiano, più che ricercare cesure nette, è meglio provare a osservare la misteriosa curva della sua retta.
Consigliamo di accompagnare il saggio con la lettura di M. Tronti, Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009.
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Per preghiera, dovete intendere qualcos’altro rispetto al canto nella Chiesa cristiana: pregando si grida, si geme, si prende d’assalto il cielo.
Jacob Taubes
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L’alternativa c’è
Leandro Cossu intervista Pino Cabras
Abbiamo intervistato Pino Cabras, deputato sardo eletto nel 2018 col MoVimento Cinquestelle, “dissidente” della fiducia al Governo Draghi e fondatore della componente del gruppo misto “L’Alternativa c’è”.
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Il voto della fiducia al governo Draghi non è di certo il primo che vede lei e gli altri “dissidenti” prendere una posizione non allineata rispetto al resto del gruppo parlamentare ma di sicuro più coerente al programma del MoVimento Cinque Stelle per le elezioni del 2018. Penso, per esempio, alla riforma del MES votata a metà di dicembre dello stesso anno. L’espulsione a seguito del voto contrario al Governo Draghi è stato il culmine di un processo di snaturamento del MoVimento iniziato da quando è diventato partito di governo?
Il M5S ha esaurito assai più presto del previsto la propria spinta propulsiva che derivava dagli anni in cui era il “partito della crisi”, ossia la forza politica che rappresentava milioni di cittadini sommersi da quel che definisco l’Europeismo Reale e che premevano per un’alternativa al rigorismo dei “dittatori dello spread”. Il problema è che assieme a una retorica che suonava rivoluzionaria, il M5S non esprimeva anche una progettualità altrettanto coraggiosa e intransigente rispetto al cuore delle decisioni, ossia la politica economica. In un certo senso ci si accontentava di governare i milioni di euro, ma i miliardi li governava lo stato profondo: cioè le tecnostrutture burocratiche, una cinghia di trasmissione fra Bruxelles e Francoforte e le opache decisioni economiche di quei palazzi romani inaccessibili alla classe dirigente grillina, concentrata sulla “scatoletta di tonno” di Montecitorio, in parte già svuotata.
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Chi ha paura di Jacques Camatte?
di Federico Corriente
Il lettore potrà rendersi conto che l’invarianza dichiarata-proclamata all’inizio, quella della teoria del proletariato, è già inclusa in un’altra assai piú vasta: la ricerca di una comunità umana, il cui complemento è la messa in risalto della distruzione delle antiche comunità e l’addomesticamento degli uomini e delle donne cosí come la lotta contro di esso, una delle condizioni storiche perché il tentativo di fondare una comunità umana possa realizzarsi. («Communauté et devenir», 1994)
I. Inizi di Jacques Camatte nella sinistra comunista italiana e prime opere. Rottura con il pc-int
Gli inizi di Camatte si trovano nel Partito Comunista Internazionale (PC-Int), uno tra gli eredi del Partito Comunista Italiano originale, che l’Internazionale Comunista finí per espellere intorno all’anno 1928. In quanto ai dati biografici, è curioso che quasi non ve ne siano: Camatte è riuscito a rendersi molto piú «anti-spettacolare», di Guy Debord, ad esempio. Il poco che sappiamo è che nacque vicino a Marsiglia nel 1935 e che lavorò come professore di Scienze della Vita e della Terra in varie località del sud della Francia (Tolone, Brignoles e poi Rodez) fino al 1967. Quanto alla sua iniziale militanza nella Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale, entrò nel gruppo di Marsiglia nel 1953. Un paio d’anni piú tardi, conobbe a Napoli Bordiga (che visse fino all’anno 1970), con il quale concorderà un gran numero dei suoi primi testi.
Nel 1957 il gruppo francese della Sinistra Comunista Internazionale cominciò a pubblicare la rivista Programme Communiste, sotto la direzione di una donna, Suzanne Voute — germanista e traduttrice di gran parte dell’opera di Marx per le edizioni Gallimard e La Pléiade, in collaborazione con Maximilien Rubel — che arrivò da Parigi per stabilirsi nel Sud e farsi carico della direzione del gruppo. A quanto sembra, segnò subito la personalità di Camatte (non è azzardato supporre che Camatte abbia imparato il tedesco da lei). Suzanne Voute precedentemente aveva animato la Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale sino agli anni 1949–1950, quando il suo compagno sentimentale, l’ex membro del POUM Albert Masó («Véga»), portò la grande maggioranza della FFGCI nelle file di «Socialisme ou Barbarie».
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Il governo di unità militare
di Andrea Turco
La nomina a commissario per l'emergenza del generale Figliuolo rinnova il mito per cui l'unica organizzazione efficace è quella militare, cioè autoritaria. E per le forze armate il Covid si conferma un affare che aumenta finanziamenti e visibilità
In una scena famosa del film Vogliamo i colonnelli – feroce satira di Mario Monicelli che immagina un colpo di Stato in Italia sull’esempio del regime greco a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta – un gruppo sgangherato di nostalgici fascisti e vecchi arnesi dell’esercito si ritrova ad arringare giovani uomini bianchi che nelle intenzioni dovrebbero costituire la manovalanza del golpe. Il più esagitato è l’onorevole Giuseppe Tritoni, interpretato da Ugo Tognazzi. Le sue parole, a distanza di quarant’anni, risultano paradigmatiche:
Ordine, Obbedienza, Disciplina! Basta con l’anti-storica uguaglianza. Ma che vuol dire? Ma perché un ingegnere deve essere uguale a un muratore… madonna di un dio! Soltanto i coglioni sono uguali l’uno all’altro.
Di quel film, zeppo di riferimenti nemmeno troppo velati al principe Junio Valerio Borghese e alla destra del Movimento Sociale Italiano, quella appena riportata è una delle battute invecchiate meglio. Alla pari dell’invocazione del titolo. Nel dibattito pubblico, almeno in quello mainstream, di fronte alla millantata indisciplina del popolo italiano si finisce prima o poi fatalmente per invocare l’esercito. Ancor di più nell’era Covid che stiamo vivendo. Il governo Draghi ha accelerato questo processo. Il fatto più emblematico in questo senso è il recente affidamento della gestione dell’emergenza Coronavirus al generale di corpo d’armata Francesco Paolo Figliuolo, dal 2018 comandante logistico dell’Esercito italiano.
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Covid-19: liberarsi dall’immaginario capitalista?
Naïm Kharraz (*) intervista Isabelle Stengers
Isabelle Stengers, filosofa che studia la produzione del sapere, in questa intervista rilasciata all’Atelier des Droits Sociaux [sotto il testo originale, in francese] sviluppa il modo in cui l’immaginario capitalista mette in pericolo scienze, democrazia e ambiente. Spiega come quest’immaginario abbia potuto provocare risposte nate nel panico più assoluto durante la pandemia del Covid 19. E ci ricorda che è essenziale continuare a sviluppare la nostra capacità di immaginario solidale per contrastare ciò che provoca le catastrofi, oggi la pandemia e disastri ecologici futuri.
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Durante il confinamento, tutta una serie di persone è stata dimenticata. Possiamo citare i-le lavoratori-trici del sesso, i senzatetto, i-le migranti… Questa dimenticanza é volontaria? È il risultato di un’ideologia? O questa dimenticanza è inevitabile in tutte le società organizzate come la nostra?
«Non credo affatto che sia un problema legato ad una società che possa rendere inevitabile qualcosa. Ci sono molti modi di costruire una società. Quello che è stato fatto ai nostri anziani per esempio, con il pretesto che erano vulnerabili, sarebbe del tutto inconcepibile in società più tradizionali, dove si rispettano gli anziani. E rispettarli non significa rinchiuderli. Ma in ogni caso penso che la parola “dimenticare” sia quella giusta perché questo confinamento deve essere capito partendo da una reazione di panico. E quando c’è panico, si dimenticano molte cose! Si reagisce sotto l’influenza di un’emergenza che impedisce di pensare.
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Lo “sconfittismo” di G. La Grassa funzionale al neoliberismo
di Salvatore Bravo
Fallimenti e ricostruzioni teoriche
Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è il constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita.
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Ancora su specialismo e competenze. Una replica opportuna
di Francesco Coniglione
Questo articolo replica a quello pubblicato ieri di Di Remigio e Di Biase, Il primato della teoresi
Ringrazio innanzi tutto Paolo Di Remigio e Fauste Di Biase per il loro intervento, che pone in modo intelligente alcune questioni che nel mio articolo erano rimaste sottintese e che non avevo avuto modo di approfondire visto la sua destinazione primaria (ricordo che era nato come un post su Facebook, poi ripubblicato come tale su Roars). E devo anche dire che se per un aspetto l’articolo citato richiede delle precisazioni da parte mia, per il resto non posso che essere d’accordo con i due autori nella critica che loro fanno alla “barbarie pedagogica” e alla necessità di rivendicare il ruolo della “teoresi”. E in merito potrei citare diversi miei articoli (pubblicati anche su Roars – basta scorrerne l’indice), in cui ho rivendicato le stesse cose.
Ma veniamo al merito del principale rimprovero fattomi: io avrei confuso competenza e specializzazione scientifica, sicché ho trattato “il rapporto tra conoscenza e competenza come se coincidesse con il rapporto tra conoscenza universale e conoscenza particolare”. L’impressione che io abbia confuso questi due aspetti potrebbe derivare dal fatto che non li ho esplicitamente distinti, ritenendo tale opportuna differenziazione implicitamente data. Pertanto non ritengo tale omissione particolarmente grave: in fondo la conoscenza specialistica è la condizione necessaria per avere delle competenze, anche se da sola non è sufficiente.
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Controlli ai flussi di capitali: un’opzione eretica?
di Matteo Di Lauro
Nel suo ultimo libro Emiliano Brancaccio evoca spesso la limitazione della libera circolazione di capitali come strumento per prevenire la destabilizzazione delle economie da parte di capitali esteri[1]. Come spesso è accaduto nella storia recente, è stata la libera circolazione di capitali e merci che ha portato a crisi della bilancia dei pagamenti. Ne è un esempio la crisi del debito sovrano che, nonostante il nome fuorviante, è stata invece causata da forti squilibri nella bilancia dei pagamenti all’interno dell’Eurozona.
Ma torniamo alla libera circolazione dei capitali. È un’ipotesi estremista e priva di esempi storici?
In realtà è vero l’esatto opposto, la storia dell’economia moderna si è quasi sempre caratterizzata da un controllo sui capitali da parte degli stati e gli ultimi 30 anni nella storia europea costituiscono un’eccezione a un diritto da sempre esercitato da parte degli stati di controllare i flussi di capitale. Per quanto la vulgata tenda a farci credere che viviamo in una situazione di normalità, questa è solo un’illusione. Qui mi limiterò a parlare delle misure atte alla limitazione della circolazione dei capitali in Europa, e di quanto, fino a pochi anni fa, fossero ampiamente praticate dalla maggior parte degli stati occidentali.
L’architettura monetaria di Bretton Woods concepiva esplicitamente l’introduzione di controlli ai flussi di capitale e gli stati europei dopo la Seconda guerra mondiale erano particolarmente avversi alla liberalizzazione dei flussi di capitali in quanto questi avrebbero influenzato il tasso di cambio e costretto in alcuni casi a dover far fronte a pressioni esterne al tasso di interesse.
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Pandemia, ricerca e miopia
di Lucio Russo
Nel 1963 Giuseppe Saragat dette il via a una feroce campagna di stampa contro Felice Ippolito che, dirigendo il CNEN, aveva osato spendere danaro pubblico nella ricerca nucleare, portando l’Italia a livelli competitivi in questo settore. L’11 agosto di quell’anno, in un articolo sul “Corriere della Sera”, Saragat si chiedeva: “Perché non aspettare che questa competitività sia realizzata da paesi che hanno quattrini da spendere?”
È ben noto che Saragat vinse su tutta la linea: Ippolito fu processato e condannato a 11 anni di carcere per reati risibili (dalla concussione per avere un giorno accompagnato il figlio a scuola con l’auto del CNEN al versamento allo stato di una grossa somma senza avere ottenuto preventivamente la prescritta autorizzazione) e la ricerca nucleare applicata italiana fu azzerata [1]. Parallelamente al processo Ippolito fu celebrato il processo contro Domenico Marotta, che aveva diretto l’Istituto Superiore di Sanità portandolo a livelli mai più raggiunti (si può darne un’idea ricordando che nel 1947 il biochimico svizzero Daniel Bovet lasciò la direzione dell’Istituto Pasteur di Parigi per venire a lavorare a Roma presso l’ISS, dove svolse le ricerche che nel 1957 gli avrebbero fruttato il premio Nobel, e nel 1948 lo raggiunse il biochimico tedesco naturalizzato britannico Ernst Boris Chain, che il premio Nobel l’aveva già ricevuto).
Non voglio qui cercare le cause profonde di quell’attacco vincente alla ricerca applicata italiana, di cui paghiamo ancora le conseguenze (l’ho fatto altrove); qui mi limito a sottolineare l’argomento che Saragat riteneva fosse condivisibile dal pubblico: perché spendere danaro per fare ricerca invece di usufruire gratis della ricerca altrui?
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I molteplici significati del Recovery Fund
di Fulvio Bellini
Premessa: le parole sono importanti
Il termine “Recovery Fund” in Italia è sulla bocca di tutti. Politici, giornalisti, imprenditori di questo paese si stanno rendendo conto che si è ormai raggiunto il fondo di una crisi strutturale che è iniziata negli anni novanta dello scorso secolo. Tuttavia, quando le soluzioni a mali lasciati crescere per decenni non si intravedono, è uso della classe dirigente invocare lo “stellone italico”, versione laica della “divina Provvidenza” che tanto ruolo ha avuto nella nostra millenaria cultura cattolica, una “volontà superiore” cioè che ridia speranza per il futuro. Nell’era della Pandemia da Covid-19 lo “stellone italico” si chiama “Recovery Fund”. Ma siccome la nostra classe dirigente è notoriamente provinciale, anche se usa con dovizia locuzioni inglesi, riesce a mistificare definizioni espresse nelle lingue straniere. In Italia, il fondo UE lo si chiama “Recovery Fund” ma la sua denominazione ufficiale è “Next Generation EU”: questa spontanea trasformazione lessicale da parte della nostra informazione di regime cela un retro pensiero che è opportuno evidenziare. In italiano “Recovery Fund” significa “fondo di ripresa o di recupero”; “Next generation EU” significa “prossima generazione dell’Unione europea”. Vogliono dire la stessa cosa? Ufficialmente sì, ma a ben pensarci ci si può scorgere un dettaglio rivelatore. La classe dirigente italiana intende il Recovery fund come qualcun altro che metta tanti soldi per riparare i danni che il liberismo in salsa italica ha causato negli ultimi trent’anni.
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Il lavoro e i piani bellicosi del Governo Draghi
di coniarerivolta
Ancora non ci sono certezze su quella che sarà la politica economica e sociale del governo Draghi. Allo stato attuale, l’esecutivo guidato dall’ex Presidente della BCE non ha ancora adottato provvedimenti tali da indicare quelle che saranno le sue mosse, sebbene alcune nomine di consiglieri economici non facciano dormire sonni tranquilli. Ben presto, però, ne sapremo di più.
Blocco dei licenziamenti e integrazioni salariali: si avvicinano le scadenze
Tra circa un mese, infatti, scadrà il blocco dei licenziamenti, da ultimo prorogato dalla Legge di bilancio fino al 31 marzo. Lo stesso giorno, inoltre, è il termine ultimo di copertura della cassa integrazione ordinaria con causale Covid-19, mentre per la cassa integrazione in deroga la scadenza è prevista, attualmente, per il 30 giugno. In entrambi i casi, però, il periodo massimo di cassa integrazione è fissato in dodici settimane.
Ricordiamo brevemente che cos’è la cassa integrazione. Si tratta di un meccanismo di integrazione salariale, pensato per garantire ai lavoratori un sostegno economico nel momento in cui, a causa delle ridotte esigenze produttive delle imprese presso le quali sono stati assunti o durante fasi di riorganizzazione e di crisi aziendale, vengono lasciati a casa per alcuni periodi, o il loro orario lavorativo si riduce. Durante questi periodi, ai lavoratori viene versato un trattamento economico che ammonta all’80% della retribuzione globale che sarebbe loro spettata per le ore di lavoro non prestate.
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An-archē e Indifferenza: Tra Giorgio Agamben e Reiner Schürmann
di Malte Fabian Rauch
Il saggio di Malte Fabian Rauch An-archē and Indifference: Between Giorgio Agamben and Reiner Schürmann sarà pubblicato dalla, e consultabile sulla, rivista Philosophy Today, 65:3 (Summer 2021). Questo saggio pionieristico di Rauch tocca uno degli assi di ricerca più fecondi e cari al Laboratorio di Archeologia Filosofica — la relazione tra il pensiero di Giorgio Agamben e quello di Reiner Schürmann — tentando di esortare chi legge al confronto nonché alla rielaborazione (in) comune di questo nesso cruciale e, tuttavia, ancora largamente inesplorato. Di seguito, in anteprima, la traduzione annotata a cura di F. Della Sala e F. Guercio.
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Nelle ultime pagine de L’uso dei corpi di Giorgio Agamben, il concetto di ‘vera anarchia’ si rivela come il punto di fuga politico dell’intero progetto Homo sacer[1]. Reiner Schürmann, il quale era sembrato finora solo un riferimento molto occasionale, appare qui improvvisamente come uno degli interlocutori decisivi di Agamben. Alcuni dei lettori più attenti di quest’ultimo, Jean-Luc Nancy ed Étienne Balibar, hanno sottolineato l’importanza di questo riferimento[2]. E tuttavia nella trattazione generale dell’opera di Agamben tale connessione ha ricevuto per lo più scarsa attenzione. Prova ne è che, per avvicinarsi alla nozione agambeniana di anarchia, seppur l’opera di Schürmann è stata utilizzata, non si è però fatta menzione della sua discussione esplicita[3]. Questo saggio è un tentativo di chiarire l’importanza di questo rapporto – sia per l’effetto che ha avuto sul lavoro di Agamben, sia per la leggibilità del lavoro di Schürmann nel presente.
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Squilibri della bilancia commerciale: il vero tallone d’Achille della MMT?
di Thomas Fazi
In un suo paper Imbalances, what imbalances? A dissentig view il prof. Randall Wray sosteneva, correttamente, che gli squilibri finanziari si equilibrano e che il problema è semmai da ricercare nel fatto che questi "squilibri" segnano, piuttosto, dei rapporti di forza di natura asimmetrica. E' anche su questa premessa che bisognerebbe ragionare ogni qualvolta ci approcciamo all'argomento riguardante gli "squilibri commerciali". In tale ottica riceviamo e con piacere pubblichiamo un articolo di Thomas Fazi che, attraverso una puntuale disamina, tenta di fare chiarezza sulla questione partendo dal punto di vista della MMT. Argomento già affrontato su questo sito a più riprese nel corso degli anni passati (si veda l'articolo "La MMT e i vincoli esterni" e la video intervista al prof. Wray "Lo squilibrio della bilancia dei pagamenti", "Deficit commerciale e debito estero", "Il cambio flessibile è sempre conveniente?").
Thomas con questo lavoro si pone in prima battuta in un'ottica 'oggettiva', analizzando gli aspetti sotto la lente tecnico-economica, per arrivare a concludere correttamente, come anche noi sosteniamo da sempre, che in ultima analisi l'aspetto focale da prendere in considerazione è quello strettamente correlato alle dinamiche afferenti la sfera politica.
Dunque un articolo esauriente e interessante di cui ne consigliamo vivamente la lettura. Complimenti![CSEPI]
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Quando si parla di teoria monetaria moderna (modern monetary theory, MMT), una delle obiezioni più comuni in cui capita di imbattersi, anche tra chi condivide l’assunto di fondo della teoria – ovverosia che uno Stato che dispone della sovranità monetaria (cioè che emette la propria valuta e non vincola quest’ultima a un tasso di cambio fisso) non è sottoposto a vincoli finanziari di alcun tipo in quanto può letteralmente creare tutta la moneta che vuole –, è che la MMT trascurerebbe, o almeno tenderebbe a sottovalutare, la questione dei saldi commerciali.
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Il documento degli ex M5S “L’ Alternativa c’è”
di *******
Primo manifesto di "L'alternativa c'è"
I nostri principi
● Ci sentiamo ancora collegati al programma elettorale col quale siamo stati eletti nel marzo 2018 nel M5S di allora e per il quale i cittadini ci hanno accordato la loro fiducia e riposto in noi la speranza di un cambiamento. Vogliamo restare fedeli a tutto questo e considerare il programma del 2018 come base di partenza per ogni ulteriore sviluppo.
● La nostra azione nasce in opposizione al governo Draghi, ma esprime una più generale opposizione ai governi ‘tecnici’ e al ‘vincolo esterno’ dietro cui si nascondono politiche neoliberiste che applicano il darwinismo sociale all’economia e alla vita delle persone.
● Mettiamo al centro della politica la persona, la comunità e l’ambiente, non il mero profitto. La politica, e dunque il controllo democratico, deve tornare a governare la cosa pubblica.
● La nostra collocazione è oltre gli schieramenti di destra e sinistra storicamente determinati, che non bastano più a interpretare la realtà, la cultura e i processi economici e sociali, né la geopolitica. Non ci interessano le vecchie etichette e le finte contrapposizioni che nascondono compromessi, interessi trasversali e grandi ammucchiate. Vale ancora il concetto: “Un’idea non è di destra né di sinistra. È un’idea, buona o cattiva”. Il nostro programma ha come riferimento il popolo sovrano – che è il primo attore dell’articolo 1 e dell’articolo 3 della Costituzione – e crede in un forte intervento dello Stato nella sfera economica e sociale.
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Il declino italiano e san Draghi
di Leonardo Mazzei
Le cifre del declino italiano sono tante e tutte convergenti. La caduta del Pil nel 2020 (-8,9%) non ha precedenti nel dopoguerra. Un vero tracollo, che non è stato però un fulmine a ciel sereno, bensì il picco negativo di una decadenza iniziata vent’anni fa. Ce lo ricorda un pezzo del Sole 24 Ore del 25 febbraio.
L’articolo di Gianni Trovati – Il gelo italiano lungo 20 anni – si basa su un’elaborazione dei dati ufficiali della Commissione europea. Il fine è quello di mettere a confronto l’andamento dell’economia italiana con quello dell’intera Eurozona. Il risultato è impressionante. Dal 2001 al 2020 l’Italia ha perso oltre il 18% rispetto all’insieme dell’area euro. Una vera catastrofe, ma ovviamente il quotidiano di Confindustria si guarda bene dal chiedersi cosa sia successo di particolare 20 anni fa.
I numeri del Sole non lasciano comunque spazio a troppe discussioni sulla drammatica decadenza del nostro Paese. Leggiamo:
«La lunga stagnazione italiana ha ridotto del 18,4% il peso del nostro Paese sul complesso della produzione cumulata dall’Eurozona nei suoi confini attuali. Oggi il Pil italiano vale il 14,5% di quello dell’area euro, contro il 17,7% coperto nel 2001, all’interno di un quadro che negli anni a cavallo del 2000 era piuttosto stabile».
Quale la conseguenza sul reddito medio degli italiani è presto detto:
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Il vaccino come arma geopolitica
di Lorenzo Battisti
Fin dall’inizio questa pandemia è stata anche (e sopratutto) una questione economica e geopolitica (almeno nel mondo occidentale). Lo si è visto quando i paesi colpiti erano solo due, Italia e Cina (inizio e fine della nuova Via della Seta), trattati come appestati e condannati all’isolamento commerciale internazionale: gli altri paesi vedevano nella diffusione del virus a questi paesi un modo per rubare loro clienti sui mercati internazionali. Inoltre era un modo per bloccare il piano cinese OBOR che permetteva a questo paese di uscire dal nascente blocco americano (il Pivot to Asia di Obama). In sostanza, nessuna cooperazione o solidarietà, ma competizione.
Il gioco oggi rimane lo stesso. Sono solo cambiati i termini del problema. Ora che la malattia è diventata pandemica, ora che questa si è diffusa a tutto il globo, il primo blocco economico che ne esce approfitta della situazione per prendere spazi economici ai blocchi che non sono riusciti a uscirne. In sostanza, prima si riesce a vaccinare tutta la popolazione e più si possono perlomeno limitare i danni economici e sociali.
In questo contesto diventa centrale la vaccinazione di massa della propria società. Da qui deriva la corsa di tutti al vaccino. Facciamo quindi il punto sulle vaccinazioni e sui vaccini per capire cosa sta succedendo.
Il primo fattore da considerare è l’ostilità alla vaccinazione. Quello che, da un punto di vista individuale, è un diritto da esercitare o meno, da un punto di vista collettivo è un’arma da utilizzare contro i concorrenti economici. In questo i “complottisti” e i “negazionisti”, lungi dall’essere più intelligenti degli altri (come danno a credere e come sembrano convinti di essere) funzionano da utili scemi dei blocchi economici concorrenti. Altroché patriottismo e sovranismo.
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L’economia ha bisogno della complessità
Nella factory degli economisti underground.
di Stefano Lucarelli
Dani says
Sei anni fa Dani Rodrik ha pubblicato per Oxford University Press un saggio che, in modo responsabile, affronta una serie di riflessioni scomode circa lo stato in cui si trova la teoria economica[1]. Smarcandosi dall’idea che la scienza economica sia un campo di confronto fra scuole diverse, Rodrik prende sul serio le manifestazioni di insoddisfazione provenienti soprattutto dagli studenti. L’economista turco – oggi professore alla John Kennedy School of Governance dell’Università di Harvard – presta attenzione in particolare al Report della Post-Crash Economics Society[2] e alla grave accusa in esso contenuta: l’economia, così come è insegnata agli studenti nei corsi universitari diffonde vedute ristrette e lo fa rigettando il pluralismo e trascurando di fatto l’etica, la storia, la politica. Come se gli studenti fossero stati folgorati dallo spirito di Schumpeter, il quale, come è noto, ormai al termine della sua carriera accademica americana, scrisse all’interno della sua History, pubblicata solo dopo la sua morte: “Essi [i miei studenti americani] mancano del senso storico che nessuno studio pratico può dare. Questa è la ragione per cui è molto più facile farne dei teorici che degli economisti.”[3]
Per Rodrik la rappresentazione che i critici fanno della scienza economica sarebbe viziata proprio dal modo in cui l’economia viene insegnata, ma non risponderebbe a quanto accade all’interno della disciplina, nel mondo della ricerca: “Il problema, dal punto di vista degli studenti, è che molto di ciò che si insegna in un corso propedeutico di economia è un inno al mercato.
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Luci e ombre di un sogno neogiacobino
L’assalto al cielo mancato di Podemos
di Carlo Formenti
Il libro di Francesco Campolongo e Loris Caruso, Podemos e il populismo di sinistra. dalla protesta al governo (appena uscito per i tipi di Meltemi), è un buon viatico alla comprensione di un fenomeno politico che, agli occhi di molti militanti delle sinistre radicali europee (e anche, mi sembra di poter dire, agli occhi dei due autori) è probabilmente l’unico esempio di esperimento riuscito di populismo di sinistra nel Vecchio Continente. Come i lettori scopriranno, il mio parere è meno ottimista, ma di questo più avanti. Il lavoro di Campolongo e Caruso è un ibrido in cui convivono le caratteristiche del reportage (ospita una robusta massa di dati, notizie e informazioni), della ricerca accademica (molti i riferimenti scientifici, che ritroviamo nella ricca bibliografia finale) e della discussione teorica politicamente impegnata. Per estrarne gli spunti che considero utili all’approfondimento del tema, articolerò la mia esposizione in due parti: nella prima, mi limiterò a sintetizzare il racconto delle origini, della storia e dell’evoluzione di Podemos contenuto nei capitoli dal secondo al settimo compresi; nella seconda discuterò le tesi interpretative degli autori esposte nel primo ottavo e nono capitolo (anche se qualche annotazione critica verrà anticipata nella prima parte, attraverso brevi incisi). Ho scelto questa soluzione perché si presta a evidenziare come l’accurata descrizione del fenomeno Podemos offertaci da Campolongo e Caruso si presti a diverse interpretazioni.
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Dopo un anno di pandemia. Siamo ostaggi di Big Pharma?
di Ernesto Burgio
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato che i decessi da Covid hanno superato oggi (15/01/2021) i 2 milioni su oltre 94 milioni di casi accertati, con un indice di letalità superiore al 2% (in Italia sfiora il 3,5%: un indice molto alto, simile a quello ipotizzato per la Spagnola1 e circa 30 volte superiore a quello dell'influenza stagionale2). Eppure, è evidente che a fronte di Paesi che hanno registrato un numero di casi e tassi di letalità e mortalità altissimi (Belgio, Italia, Perù, Messico, Gran Bretagna, Brasile…) ce ne sono altri che hanno saputo affrontare adeguatamente la situazione, fermando immediatamente la pandemia (Vietnam, Cambogia, Australia, Nuova Zelanda, Cuba, Islanda). Dovrebbe essere chiaro, quindi, che soltanto il rafforzamento della medicina territoriale e la tempestiva messa in campo di sistemi efficaci di isolamento dei casi e di tracciamento e monitoraggio dei contatti potrebbe ridurre la circolazione del virus e di conseguenza il temuto incremento delle sue mutazioni adattative alla nuova specie e che sarebbe necessaria ed urgente, una riorganizzazione complessiva dei sistemi sanitari occidentali, con potenziamento della medicina territoriale e dei dipartimenti di medicina preventiva. E questo anche in prospettiva futura, dato che la pandemia non è un evento accidentale e imprevisto, ma un dramma lungamente annunciato e che potrebbe ripetersi, essendo il prodotto di una crisi ecosistemica e soprattutto microbio-ecosistemica monitorata da decenni e causata dalla nostra guerra irresponsabile contro la Natura: deforestazioni, agricoltura e allevamenti intensivi, inquinamento dell’intera ecosfera (atmosfera, idrosfera, biosfera e catene alimentari), urbanizzazione e crescita senza freni di immense megalopoli eco-insostenibili.
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