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Il morbo neoclassico
di Sandro Moiso
Steve Keen, L’economia nuova. Moneta, ambiente complessità. Pensare l’alternativa al collasso ecologico e sociale, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 220, 18 euro
Al contrario di quanto riguarda il Covid 19 e altri virus e morbi manifestatisi sul pianeta negli ultimi decenni, vi è un morbo altrettanto pericoloso, e forse ancor più devastante dal punto di vista sociale, di cui si può affermare con certezza che si è diffuso a partire dai laboratori universitari, in questo caso americani, nel corso degli ultimi cinquant’anni: quello dell’economia cosiddetta neoclassica.
Steve Keen, professore di Economia alla Western Sidney University e Distinguished Research Fellow alla University College di Londra, importante critico della scienza economica convenzionale e uno dei pochi economisti ad aver previsto la crisi economica del 2007-2008, in questo testo appena uscito per Meltemi, nella collana «Rethink», cerca di dimostrarne l’infondatezza soprattutto sulla base dell’attuale e più che evidente cambiamento climatico di cui la suddetta teoria non ha mai tenuto sufficientemente conto.
Il giudizio espresso dall’autore sull’insieme degli assiomi del paradigma neoclassico è netto e tagliente:
Ripensando ai cinquant’anni trascorsi da quando mi sono reso conto dei difetti dell’economia neoclassica, il termine che esprime al meglio i miei sentimenti a riguardo è, come Marx disse del proto-neoclassico Jean-Baptiste Say, “insulsa” (Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica,1857). Al meglio, il capitalismo è visto come un sistema che evidenzia l’armonia dell’equilibrio, dove ognuno viene pagato il proprio giusto salario (secondo il suo “prodotto marginale”), la crescita procede senza intoppi secondo un tasso che massimizza nel tempo l’utilità sociale e tutti sono mossi dal desiderio di consumare, invece che dall’accumulazione e dal potere, perché, per citare Say, “i produttori, benché abbiano tutti l’aria di chiedere soldi in cambio dei loro prodotti, in realtà vogliono scambiarli con altri prodotti” (Say, Catechisme d’economie politique, 1821, capitolo 18).
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La censura militare israeliana vi nasconde la verità
di Thierry Meyssan
Era l’informazione più importante dell’operazione “Diluvio di Al Aqsa”, eppure ci è sfuggita. L’attacco a Israele non è stato sferrato dagli jihadisti di Hamas, ma da quattro formazioni armate. È la prima volta dopo cinquant’anni che i palestinesi di Gaza si uniscono.
Lo si voglia o no, i lunghi anni d’indifferenza occidentale alla sorte dei palestinesi finiscono. Si dovrà cominciare ad applicare il Diritto internazionale
Contrariamente a quanto ho scritto la scorsa settimana basandomi su dispacci di agenzia occidentali e arabi, filtrati dalla censura militare israeliana, l’attacco a Israele del 7 ottobre 2023 (operazione “Diluvio di Al Aqsa”) non è stato sferrato unicamente da Hamas. È stato deciso da un nucleo operativo unitario delle forze della Resistenza palestinese. Hamas, la formazione di gran lunga più rilevante, ha fornito la parte essenziale delle truppe, ma vi hanno partecipato altri tre gruppi:
• la Jihad islamica (sunnita e khomeinista);
• il Fronte popolare di liberazione della Palestina (marxista);
• il Fronte popolare di liberazione della Palestina-Comando generale (FPLP-CG).
La stampa occidentale ha dato conto dei barbari crimini commessi da alcuni assalitori, ma non del rispetto di altri. La verifica ha dimostrato che le accuse di stupri e di decapitazione di neonati [1] sono propaganda di guerra. Un giornalismo miope e bugiardo che non deve più stupirci.
Questa precisazione modifica l’interpretazione dell’accaduto. Non è un’operazione jihadista dei Fratelli Mussulmani, ma un attacco unitario dei palestinesi di Gaza. Solo Al Fatah di Cisgiordania che si tiene a distanza dai gruppi citati e il cui presidente Mahmoud Abbas è gravemente malato non vi ha partecipato.
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Fermare la spirale della violenza
di Mario Pezzella
È difficile “schierarsi” – come si diceva una volta – da una parte o dall’altra nei conflitti che avvengono in questi anni; perché, tramontata ogni forma di internazionalismo, si tratta per lo più di scontri fra nazionalismi autoritari ed estremi, quando non tra diverse sfumature di fascismo, luogotenenti del nulla. Così, se è impossibile solidarizzare con la deriva violenta di Hamas, non si può provare alcuna simpatia per il governo israeliano che ha pesantissime responsabilità nella terribile situazione attuale. Sono già stati ricordati in questo giornale il procedere della colonizzazione israeliana in Cisgiordania, le condizioni di vita a Gaza, l’apartheid a cui sono sottoposti ovunque i palestinesi, la provocatoria dichiarazione di Gerusalemme come capitale di Israele, le uccisioni e le aggressioni nei villaggi palestinesi. Vorrei aggiungere qualcosa su un fenomeno più generale e cioè l’abbandono di qualsiasi tentativo di coesistenza e convivenza tra i due popoli e il procedere di un processo di colonizzazione diffuso, che ha provocato quegli effetti misti di padronanza, umiliazione e risentimento intollerabile, che Fanon aveva messo in rilievo nel secolo scorso.
La colonizzazione – riteneva Fanon – comporta la radicale reificazione del colonizzato. I coloni, in questo caso gli israeliani estremisti che hanno espanso continuamente il loro potere anche nelle aree destinate in teoria a uno stato palestinese, non sono solo i proprietari di beni materiali e di armi micidiali: si ritengono e si affermano detentori di un modello identitario, che è l’unico a essere veramente “umano” di fronte all’esistenza animalesca dei colonizzati, “belve” da tenere a freno.
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Putin dice no alla moneta unica dei Brics: non faremo la fine dell’Euro
di Megas Alexandros (alias Fabio Bonciani)
L’errore più grande che può fare chi scrive articoli, non sotto dettatura, ma all’interno di quella che è la missione fortemente sentita di informare correttamente il lettore: è quello di pensare di avere la verità in tasca. Non per questo dobbiamo privarci del fatto che, operando con professionalità ed onestà intellettuale, si possa anche giungere al risultato di veder certificate prospettazioni più volte ribadite.
Sul tema moneta unica dei BRICS+, da tempo vengono riempite le pagine dei principali mezzi di informazione, direi quasi a cadenza quotidiana se a livello temporale consideriamo l’inizio del conflitto in Ucraina.
Una moneta unica, per di più legata a oro o metalli preziosi, da usare per gli scambi internazionali tra i paesi appartenenti ai BRICS+, è quello che il mainstream, ci ha prospettato in questi anni e forse ci prospetterà ancora, non appena andranno nel dimenticatoio le parole pronunciate dal presidente russo Vladimir Putin, pochi giorni fa nel corso del Valdai Club meeting, tenutosi a Sochi.
Chi vi scrive ha sempre manifestato, attraverso i vari articoli redatti, forti dubbi su questa prospettazione a dir poco insistente da parte dei mezzi di informazione occidentali, vuoi perché i fatti e le dichiarazioni ufficiale dei vari leader più influenti del mondo dei BRICS+ andavano nella direzione opposta, vuoi perché fermamente convinti, dai dettami della dottrina economico-monetaria, dei disastri che si materializzano sui popoli, quando a sistemi economici diversi viene imposto l’uso di una stessa moneta. Costringendoli a vivere in quella che è la ben nota – gabbia dei cambi fissi – propedeutica a far accettare quello che ormai possiamo tranquillamente definire un crimine contro l’umanità, ovvero la frode sulla scarsità della moneta. [1]
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I maiali dell’informazione
di Dante Barontini - Redazione
I.
Siamo abituati da sempre alle menzogne dell’informazione di regime. E sapevamo bene che in tempi di guerra ci saremmo trovati davanti a un muro di merda spacciata per “notizie verificate”.
Un anno e mezzo di guerra in Ucraina hanno dimostrato fin troppo bene la verità di questo assunto. Ogni parola di Kiev è stata presa per oro colato. Persino gli attacchi in territorio russo o gli attentati a Mosca sono stati inizialmente “passati” come “azioni dei russi contro se stessi”.
Resta indelebile l’esempio dell’attacco al ponte di Kersh, in Crimea, rivendicato solo dopo un anno dal regime ucraino e solo allora registrato anche dai media occidentali tra i “successi” di Kiev.
Ma è con la guerra su Gaza che i media stanno dando il peggio di sé. Perché Israele deve essere “angelicata” anche e soprattutto quando commette evidenti crimini di guerra.
Nei giorni scorsi avevamo centrato l’attenzione su singoli casi, enormi per la copertura mediatica ricevuta da queste parti. Per esempio il caso dei “40 bambini decapitati” che nessun testimone terzo ha mai visto, con Netanyahu a spargere improbabili foto in giro e le scuse della Cnn per avergli dato inizialmente credito.
Oppure quello della donna e i due bambini rilasciati dai miliziani di Hamas già nelle prime ore dopo il clamoroso attacco nel sud di Israele.
O ancora quello di un’altra donna fuggita dal rave nel deserto, finita in un kibbutz sotto attacco e infine tornata libera, che narra come sono andate le cose dal suo punto di osservazione.
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Da questa parte per il genocidio, Signore e Signori
di Chris Hedges - Scheerpost
Ho visto la guerra urbana in El Salvador, Iraq, Gaza, Bosnia e Kosovo. Una volta che combatti strada per strada, appartamento per appartamento, c'è solo una regola: uccidi tutto ciò che si muove. I discorsi sulle zone sicure, le rassicurazioni sulla protezione dei civili, le promesse di attacchi aerei “chirurgici” e “mirati”, la creazione di vie di evacuazione “sicure”, la fatua spiegazione secondo cui i civili morti sarebbero rimasti “in mezzo al fuoco incrociato”, l’affermazione che le case e i condomini ridotti in macerie dalle bombe fossero la dimora di terroristi o che i razzi erranti di Hamas fossero responsabili della distruzione di scuole e cliniche mediche, fa parte della copertura retorica per effettuare massacri indiscriminati.
Gaza è un’area così piccola – 25 miglia di lunghezza e circa 5 miglia di larghezza – e così densamente popolata che l’unico risultato di un attacco terrestre e aereo israeliano è la morte di massa di quelli che il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant chiama “animali umani” e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu li definisce “bestie umane”. Il membro della Knesset israeliana Tally Gotliv ha suggerito di lanciare “armi apocalittiche” su Gaza, ampiamente visto come un appello per un attacco nucleare. Il presidente israeliano Isaac Herzog venerdì ha respinto le richieste di proteggere i civili palestinesi. "C'è un'intera nazione là fuori che è responsabile... questa retorica sui civili non consapevoli, non coinvolti, non è assolutamente vera", ha detto Herzog. “Avrebbero potuto ribellarsi, avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza con un colpo di stato”. Ha aggiunto: “Gli spezzeremo la spina dorsale”.
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Il ritorno di Gaza al Medioevo, Israele e il sostegno dell’Occidente ai crimini contro l’umanità
di Alberto Bradanini
Davanti alle tragedie in corso in Medio Oriente i popoli dovrebbero imporre ai loro governi il rispetto del criterio filosofico, prima ancora che politico, della logica dialettica: la critica – lo affermava anche Mao Zedong – va fatta prima, e non, comodamente, dopo che gli eventi hanno avuto corso[1].
In una sintetica riflessione, Jonathan Cook[2], audace analista britannico[3] della Palestina, una terra dove ha trascorso vent’anni, getta uno sguardo dissonante su quanto accade. Va subito rilevato, tuttavia, che l’irriflessivo sostegno dell’Occidente alla politica di Israele, e alla distruzione di Gaza e dei suoi abitanti, costituisce il punto di caduta di fattori strutturali che meritano una preliminare attenzione.
Sia chiaro che nell’analisi che segue la religione non vi ha posto alcuno. La tragedia sofferta dal popolo ebraico nel secolo scorso per mano dei nazisti tedeschi (e non solo) resterà scolpita per sempre nella nostra memoria e nei nostri cuori. Tanto meno trova posto la nozione di etnia ebraica, anch’essa turpe manipolazione dei mestatori di un razzismo che si spera consegnato per sempre alla spazzatura della storia. Israeliani e Israele stanno dunque a designare i cittadini e lo stato da essi abitato, che persegue fini politici talvolta condivisibili, altre volte no. Quanto precede è banale, oltre che scontato, ma non si sa mai. Sono molti gli episodi di persone accusate di antisemitismo (che poi dovrebbe essere semmai antigiudaismo), per aver espresso critiche politiche allo stato di Israele.
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Gaza sarà la tomba del progetto sionista israeliano?
di Giacomo Marchetti
La reazione israeliana all’operazione Diluvio d’Al-Aqsa, lanciata da Hamas ed appoggiata da tutte le forze della Resistenza palestinese, sta scatenando un conflitto su scala regionale dalle implicazioni internazionali e dagli esiti quanto mai incerti per Israele, proprio come fu nel 1948, nel 1967 e nel 1973.
La dirigenza israeliana che guida il nuovo Governo di Unità Nazionale e che sta attuando l’escalation, porta per intero sulle proprie spalle la responsabilità di un conflitto da cui potrebbe però uscire con le ossa rotte a livello interno, regionale e internazionale.
L’imperialismo euro-atlantico che in questi decenni – dalla firma degli Accordi di Oslo in poi – ha assecondato totalmente la politica dello Stato d’Israele è co-responsabile della situazione che si è creata, perché non ha neanche lontanamente prefigurato uno sbocco positivo alla questione palestinese, ma ha invece contribuito al suo “politicidio”, derubricandola a questione secondaria.
Ora influenti attori del mondo multipolare, come la Russia e la Cina, hanno rimesso sul tappeto l’ipotesi di una risoluzione comprendente la costituzione di uno Stato palestinese, secondo la formula dei “due Stati”.
La causa palestinese è oltretutto fortemente sostenuta dal nuovo “fronte del rifiuto” (Algeria, Iran, Iraq, Siria), pronto forse ad intervenire anche manu militari in questa nuova tappa del conflitto arabo-israeliano, a cominciare dall’Iran e dall’arco della forza della Resistenza della cosiddetta “Mezzaluna sciita”, Hezbollah in primis.
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Il neo-nazionalismo morale occidentale
di Pierluigi Fagan
L’argomento è complicato e si debbono usare termini carichi di stratificazioni storiche e ideologiche, termini spesso imprecisi che coltivano fraintendimenti, lo spazio è breve e le mie capacità limitate, tuttavia sento l’esigenza forte di trattarlo ugualmente. Partiamo dalla presentazione della tesi: in Occidente, si va formando un sentimento identitario di appartenenza meta-nazionale, basato sulla superiorità morale. Trattiamo qui Occidente come una macro-nazione coincidente nei bordi con la sua definizione di civiltà. Civiltà, tuttavia, è una definizione storico-analitica, nessuno ha mai provato sentimenti per l’appartenenza a una civiltà, a una “nazione” sì.
Il concetto di nazione (o il precedente “popolo”) ha dato storicamente vita a due sentimenti, uno debole come auto-identificazione di appartenenza, l’altro forte come ideologia che dal difensivo (noi siamo diversi da loro) passa facilmente all’offensivo (noi siamo superiori a loro e abbiamo diritti su di loro in base a tale superiorità). Da coloro che partono dal “sangue comune” fino a chi pensa che il concetto di nazione sia una pura tradizione inventata, c’è un ampio dispiegarsi di posizioni. Mondato il concetto di ogni sentimento e ideologia, di per sé, si possono rinvenire gruppi umani che hanno una certa coerenza interna più di quanto il loro stare assieme abbia con l’esterno. Se li analizzate stando al loro interno e rivolgendovi a questo, sembreranno anche troppo vari e disomogenei per ritenere il concetto sostenibile. Se però li analizzate dall’esterno in contesti più ampi dove ci sono altri gruppi di diversa storia e tradizione, effettivamente l’appartenenza a una certa nazionalità è congruente, distinguente, “emerge” dalla comparazione. Dire se per cultura o natura è ereditare una falsa dicotomia, insostenibile in biologia e storia.
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Stato di Israele, niente è eterno
di Michele Castaldo
Il clamore che sta suscitando l’azione di Hamas in territorio israeliano ha dell’incredibile, la stampa occidentale si mostra sgomenta e meravigliata per l’improvvisa azione di un gruppo di persone con rudimentali mezzi ma con tanta rabbia in uno Stato fra i più potenti al mondo dal punto di vista militare. Verrebbe da dire: signori ma che vi aspettavate? Zagare profumate e pasticcini? Chi semina vento raccoglie tempesta e come sempre i fatti si pongono all’attenzione dell’individuo che è chiamato a schierarsi secondo i suoi interessi e le sue inclinazioni. Una legge che vale per tutti. Titolo queste brevi note «niente è eterno» volendo affermare da subito che lo Stato di Israele è entrato ormai in un cuneo obbligato della storia che lo porterà alla dissoluzione. Capisco che questa affermazione può provocare anche ilarità, ma la storia ha leggi proprie e se ne frega dei fessi che si lasciano abbagliare dalla potenza delle sembianze del momento. Proprio il clamore suscitato dall’azione di Hamas è uno dei sintomi del destino ormai segnato della sua dissoluzione.
Faccio mia la tesi di fondo di Gilles Kepel, che a tutta pagina sul Corriere della sera di martedì 10 ottobre, cioè immediatamente dopo i fatti del 7 ottobre, dice «l’offensiva di Hamas è un colpo sferrato contro tutte le potenze occidentali». Com’è possibile si chiede lo scettico che un gruppo di poche migliaia di palestinesi, in nome del suo popolo, sia in grado di lanciare una sfida di portata storica a tutto l’Occidente? Questa diffidenza è dovuta all’ignorantitudine, (il lettore mi perdonerà per il “neologismo” ovvero per l’abitudine all’ignoranza), legata a non capire le ragioni storiche che fecero sorgere in quella precisa area geografica e in quel preciso momento storico lo Stato di Israele.
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Una stagione di pensiero militante
di Sergio Bologna
Il seguente testo di Sergio Bologna, tratto dal volume, a cura di Alberto Magnaghi, La rivista «Quaderni del territorio». Dalla città fabbrica alla città digitale. Saggi e ricerche (1976-1981), edito da DeriveApprodi nel 2021, ripercorre le intuizioni teoriche della rivista connesse ai processi di ristrutturazione produttiva compiutisi in quegli anni: dal decentramento produttivo nel quadro di una nuova divisione internazionale del lavoro all’utilizzo della flessibilità come metodo di gestione della forza-lavoro; dalla terziarizzazione – e al suo stretto rapporto con il processo industriale – alla precarizzazione della forza-lavoro. Percorsi di ricerca sviluppati poi negli anni successivi e che spiegano l’importanza ricoperta dalla rivista nel pensiero operaista.
* * * *
«Quaderni del Territorio» comincia a nascere nel 1972-73 con i progetti di ricerca che troveranno spazio nel primo numero. Un anno decisivo il 1973, un anno di svolta, che per certi versi rappresenta il punto più alto raggiunto dalle lotte iniziate con il ciclo del ’68 e al tempo stesso il punto di rottura di quel ciclo, provocato da un evento che avrebbe scosso il mondo capitalistico di tutto l’Occidente: la cosiddetta «crisi petrolifera» (ottobre 1973). In aprile si era conclusa la lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, deludente sul piano degli aumenti di salario (erosi in anticipo da circa 200 ore di sciopero) ma importante per il peso che finalmente veniva dato alla questione ambientale, per l’inquadramento unico operai-impiegati e soprattutto per la conquista del diritto allo studio (150 ore).
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La questione palestinese tra totem e tabù
di Alessandro Mantovani
L’attacco palestinese contro il territorio israeliano iniziato il 6 ottobre è stato paragonato alla vittoria dei nativi indiani al Little Big Horn nel 18761. In questa similitudine, le brigate Ezzedin Al-Kassam legate ad Hamas e le altre formazioni militari della resistenza palestinese coinvolte nelle incursioni rappresentano i gloriosi guerrieri di Toro Seduto e di Cavallo Pazzo; Netanyahu e i vertici dell’esercito e dell’intelligence della Stella di David la stupida e razzista sottovalutazione dell’avversario da parte del generale Custer; l’operazione “Tempesta Al-Aqsa" una splendida vittoria incapace però di mutare la realtà di una sconfitta storica. Vediamo.
Si tratta in ogni caso di un episodio destinato a rimanere scolpito negli annali, e come tutti i fatti di tale portata, il colpo scoccato (non solo da Hamas, ma sotto la sua egemonia) pone problemi teorici e politici complessi, che richiedono un’analisi scevra di pregiudizi, e non limitata al presente.
Prevalgono invece, non è cosa nuova, forti emozioni, reazioni contrapposte e ricadute in totem e tabù. Da noi, in Occidente, al vomitevole coro mainstream contro i “terroristi” palestinesi e di solidarietà con lo Stato razzista e colonialista israeliano (e chi obietta è tacciato al minimo di anti semitismo!) si contrappone, nel ben più ristretto ambiente della sinistra “radicale”, il ritornello di appoggio “incondizionato” alla resistenza palestinese; dal quale si dissocia, nell’ambito di una sinistra ancor più minoritaria (e che si pretende più rivoluzionaria) l’altra litania, quella dell’indifferenza, che sdegna la rivendicazione nazionale palestinese perché “le questioni nazionali sono questioni borghesi”, buone tutt’al più, se mai lo furono, nelle rivoluzioni democratiche del passato capitalismo nascente, impossibili e superate ormai nell’epoca dell’imperialismo.
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Calvino è stato marxista. In memoriam
di Roberto Fineschi
Presento qui, in occasione della ricorrenza del centenario della nascita e in forma estremamente schematica, alcune idee che sto sviluppando in uno studio di carattere organico sulla “filosofia” di Italo Calvino che uscirà l’anno prossimo
Italo Calvino è stato un grande intellettuale comunista e marxista. Se nella seconda fase della sua vita si allontanò da quelle posizioni, permanevano tuttavia importanti linee di continuità che permettono di ricondurlo nell'alveo di quella tradizione filosofica, politica, civile e morale.
* * * *
1. Italo Calvino, sanremese cui “capitò” di nascere a Cuba, è stata una figura di intellettuale tra le più grandi della storia italiana recente, tra i pochi con un ampio respiro internazionale e universalmente apprezzato per originalità e profondità. Viaggiatore del mondo, parigino di adozione, ebbe notoriamente forti legami con il territorio toscano: oltre a morire infaustamente proprio a Siena nel 1985, amò profondamente il litorale prossimo a Castiglion della Pescaia, scenario di alcune delle sue opere; vi passò per molti anni l’estate nella sua residenza immersa nella pineta di Roccamare e scelse la cittadina toscana come luogo per la propria sepoltura.
Al di là della memorialistica locale, mero pretesto per avviare il discorso, è altro il ricordo che vorrei rievocare. Se sempre viene a ragione ricordato il periodo della sua militanza politica diretta come membro del Partito Comunista Italiano - interrotta con le dimissioni del 1957 in seguito ai fatti ungheresi e alla timidezza con cui il PCI procedeva con la destalinizzazione -, meno frequentemente tale esperienza viene collegata a ragioni teoriche e filosofiche - oltre che, ovviamente, pratiche - che lo spinsero a questa adesione e che restarono vive ben al di là del fatidico ‘56.
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La questione palestinese tra multipolarismo e decolonizzazione
di Nico Maccentelli
Piaccia o no ai nostri commentatori, veri aedi del suprematismo occidentale, gli eventi di questi giorni in Palestina collocano il conflitto israelo-palestinese dentro le dinamiche internazionali odierne. Le misure fasciste prese da Macron in Francia, che vietano le manifestazioni pro Palestina, punibili con l’arresto, dimostrano che le classi governanti atlantiste stanno comprendendo che il declino dell’impero americano davanti alle potenze emergenti in Asia e a modelli economico-sociali alternativi come in America latina, nel contesto dell’affermazione dei BRICS e dei processi di decolonizzazione come in Burkina Faso, Mali e Niger, ha forti ricadute in tutta la catena imperialista.
Piaccia o no a lor signori, e al netto di fatti specifici accaduti o esagerati o addirittura inventati nell’attacco della Resistenza palestinese nel Diluvio di Al Aqsa, Hamas e le organizzazioni di Resistenza rappresentano le aspirazioni alla liberazione dal colonialismo di insediamento razzista, suprematista e nazista del regime sionista, spacciato per “democratico” dai media occidentali e dagli agenti sionisti in Occidente. Una democrazia infatti è tale se tutta la popolazione che vive in un medesimo territorio ha i medesimi diritti, servizi e possibilità nella vita quotidiana e politica di un dato paese. Ma sappiamo bene che gli arabi non ce l’hanno né in Israele, né in quel simulacro di autorità palestinese che negli anni ha esercitato solo il compito di collaborazionista con i sionisti.
E proprio questo è il nodo della questione palestinese. L’esperienza di tre Intifade (1987, 2000 e 2015), del fallimento degli accordi di Oslo del 1993, lo sprezzante rifiuto di ottemperare alle risoluzioni ONU (1) e il conseguente stillicidio dell’oppressione su un intero popolo, hanno portato all’unica soluzione oggi possibile in quel contesto.
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Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”
di Sandro Moiso
Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro
Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.
Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nakba (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.
Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.
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Elogio dei reietti
di Martina Bastianello
I Magnifici 7: 1. La Lezione frontale, 2. Il Libro-libro, 3. I Contenuti (volevo solo insegnare i Fenici…), 4. L’Alfabeto, 5. Distillati, 6. La Cartina muta, 7. W “I Mona”! (senza certificazione)
1. La Lezione frontale.
Non potevo che iniziare da Lei. Da oltre vent’anni – da quando, in buona sostanza, ho iniziato le prime supplenze – Lei viene bistrattata, offesa, vituperata, considerata fonte di sciagure: alla stregua della bella Elena – responsabile d’aver scatenato la guerra di Troia – la Lezione frontale pare abbia inflitto infiniti lutti… non agli Achei, questa volta, ma a generazioni di sfortunati studenti. Sembra che tutti, insomma, siano convinti che sia arrivato, oggi, il momento di liberarsi definitivamente della scellerata: la maggioranza dei genitori, dei docenti, dei formatori, degli opinionisti, delle aziende e dei rappresentanti del Miur forma un nutrito quanto deciso plotone di esecuzione.
Ma con chi/con cosa se la prende chi se la prende con la Lezione frontale?
“Se la prende con un fantoccio, uno spettro, un nemico costruito appositamente per poterlo combattere”, mi sono risposta – sempre più allibita – nel corso degli anni. Forse è arrivato il momento di condividere la mia risposta, sperando che a essa si unisca un nutrito coro di risposte affini.
Primo: la Frontalità è un valore che solo i valorosi riconoscono come tale e proteggono. Per stare di fronte a qualcuno (agli studenti, nel nostro caso) ci vuole coraggio perché ci stai solo, tutto intero, con quel poco che ti sembra di sapere e quell’oceano di non-sapere che ti circonda e preme da ogni lato. Ci stai con il tuo corpo (faccia struccata, calvizie incipiente, rughe, pancetta da birra, calze smagliate, patta semiaperta…); ci stai con la tua voce che è lo strumento (scordato, stridente, tremulo, sfiancato) che racconta storie, snocciola dati, propone metafore, presenta teorie, richiama, rimprovera, elogia, interroga, grida e sussurra.
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Contro l’idea della vittoria
di Alfonso Gianni
"Deve essere sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (…) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che 'domani' il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere “domani” il mondo comporta la domanda preliminare se 'domani' vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirino alla sua fine”1
Con una modifica certamente non irrilevante, di parole e di senso, rispetto al sacro testo da cui è estrapolato,2 si potrebbe riproporre il celebre interrogativo: “Sentinella a che punto è la guerra?” e la risposta sarebbe “In stallo”. Naturalmente se si guarda il campo di battaglia. La pluriproclamata controffensiva ucraina ha dato scarsi e deboli segnali di sé e soprattutto nessun successo sostanzioso. D’altro canto l’avanzata russa si è fermata a consolidare le posizioni fin qui raggiunte. Naturalmente non tutte le narrazioni sono concordi, come sempre succede in tempo di guerra per ogni guerra. Il segretario della Nato Jens Stoltenberg non perde occasione di magnificare le possibilità di vittoria finale dell’Ucraina esaltando i passi in avanti fin qui fatti. In una visita improvvisata a Kiev lo scorso 28 settembre, parlando in una conferenza stampa congiunta con Volodymir Zelensky, ha affermato con enfasi che le forze ucraine starebbero “gradualmente guadagnando terreno … ogni metro che le forze ucraine guadagnano è un metro che la Russia perde”.3
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L’economia di guerra parziale russa “tiene”, mentre l’Eurozona rallenta e la Germania scende in recessione
di Andrea Vento*
Negli ultimi mesi Mosca sta evidenziando un ciclo economico in ripresa, ordinativi industriali in aumento e un regime di cambio controllato, al cospetto di una lieve ripresa dell’inflazione, un rialzo dei tassi e una riduzione del saldo commerciale.
* * * *
L’economia russa dopo la moderata, rispetto alle catastrofiche previsioni iniziali (-8,5%), recessione del -2,1% del 2022 e le prospettive di crescita per l’anno in corso dell’Outlook Fmi di luglio del 1,5% (tabella 1), grazie e non solo a un surplus commerciale positivo seppur in diminuzione (tabella 2), sembrerebbe evidenziare, benché non priva di criticità, una sostanziale tenuta, sia per l’anno in corso che nei due successivi.
Tabella 1: previsioni e dati definitivi in % anni 2022, 2023 e 2024 degli Word Economic Outlook Fmi
Tipologia di dati | Previsioni 2022 | Previsioni 2022 | Definitivo 2022 | Previsioni 2023 | Previsioni 2023 | Previsioni 2023 | Previsioni 2024 |
Economic Outlook Fmi emesso a: | Aprile 2022 | Ottobre 2022 | Luglio 2023 | Gennaio 2023 | Aprile 2023 | Luglio 2023 | Luglio 2023 |
Economia mondiale | 3,6 | 3,2 | 3,5 | 2,9 | 2,8 | 3,0 | 3,0 |
Russia | -8,5 | -3,4 | -2,1 | 0,3 | 0,7 | 1,5 | 1,3 |
Stati Uniti | 3,7 | 1,6 | 2,1 | 1,4 | 1,6 | 1,8 | 1,0 |
Germania | 2,1 | 1,5 | 1,8 | 0,1 | -0,1 | -0,3 | 1,3 |
Italia | 2,3 | 3,2 | 3,7 | 0,6 | 0,7 | 1,1 | 0,9 |
Cina | 4,4 | 3,2 | 3,0 | 5,2 | 5,2 | 5,2 | 4,5 |
India | 8,2 | 6,8 | 7,2 | 6,1 | 5,7 | 6,1 | 6,3 |
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Sogni algoritmici di intelligenze disincarnate
di Diego Viarengo
Una riflessione sul rapporto tra macchine, corpo, esperienza e limiti dell’IA
Ad Hollywood sceneggiatori e attori erano in sciopero: oltre che per questioni economiche, hanno protestato contro l’uso indiscriminato dell’intelligenza artificiale nel cinema e nelle arti. Ciò che rivendicavano è il ruolo del corpo nel lavoro creativo, un ruolo minacciato dagli algoritmi. Sostituire il corpo, parti del corpo, è infatti il cuore del concetto di intelligenza artificiale. Anzi, come scrive il filosofo Daniel Dennett in Dai Batteri a Bach (2018), è il suo assunto operativo classico:
L’assunto operativo classico dell’intelligenza artificiale è sempre stato che ogni organo vivente è in realtà soltanto un sofisticato dispositivo basato sul carbonio che può essere rimpiazzato, un pezzo alla volta o tutto insieme, da un sostituto non vivente che ha lo stesso profilo di input e output – fa tutte le stesse cose e solo quelle con gli stessi input e nello stesso tempo senza perdite di funzionalità.
Se ogni parte del corpo umano può essere sostituita da un analogo non vivente con almeno pari prestazioni, la parte più interessante – e più difficile – da sostituire è il cervello. Del resto se il cervello è come immagina Dennett un “elaboratore di informazioni”, l’informazione è indifferente alla propria consistenza, “neutrale rispetto al mezzo” che la esprime. Una delle idee popolari nella nostra epoca è che il cervello faccia quello che fa un computer, solo che è costruito di materiale organico. Per esempio Richard Masland, neurobiologo specializzato negli organi della vista, ha pochi dubbi e in Lo sappiamo quando lo vediamo (2021) si fa portavoce della comunità scientifica: “io, come quasi tutti gli scienziati, penso che il cervello sia un computer”.
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Tempesta sul Medio Oriente
di Enrico Tomaselli
Un primo tentativo di analisi del riaccendersi del conflitto in Palestina, pur nel pieno dell’azione ancora in corso, ed in particolare soffermandosi su tre aspetti: la mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi; la capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco; il senso politico e militare dell’operazione in generale.
* * * *
Come un sasso in piccionaia, l’attacco portato dalle Brigate Ezzedin al-Qassam il 7 ottobre, ha sorpreso e sconvolto tutti, gli osservatori e – ovviamente – gli stakeholders. Essendo l’operazione al Aqsa Flood ancora in corso, non è al momento possibile farne una analisi chiara ed esaustiva; ciò nonostante, alcune riflessioni possono essere già fatte. E di alcune, anzi, si avverte decisamente l’urgenza.
In particolare, sono tre gli aspetti su cui soffermarsi. La mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi. La capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco. Il senso politico e militare dell’operazione in generale.
Prima di entrare nel merito, ed esaminare specificamente questi tre aspetti, è importante aggiungere una ulteriore premessa, di ordine più generale. Purtroppo, talvolta anche in ambienti presumibilmente identificabili come alieni dalla propaganda mainstream, si insinua un pericoloso bias complottista, che tende a vedere – nelle varie articolazioni statuali del potere occidentale – una sorta di moloc invincibile, e che pertanto, quand’anche si ritrova dinanzi ad una palese sconfitta di questo potere, ai suoi clamorosi errori, rifiuta di farsene convinto, e tende a immaginare oscure manovre e occulti disegni, in base ai quali la realtà apparente sarebbe in effetti l’opposto di ciò che è fattualmente.
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Se gli Stati Uniti scaricano l’Ucraina sull’Europa
di Gianandrea Gaiani
Al vertice Ue di Granada il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha usato mezzi termini per definire l’attuale situazione. Preso atto dei “tornado politici” che scuotono un’America ormai travolta da una aspra campagna elettorale in vista delle presidenziali del novembre 2023, secondo Zelensky “l’Europa deve essere forte, non abbassare le vele in attesa della fine della tempesta” perché gli europei non possono permettersi il lusso della stanchezza, o di abbandonare l’Ucraina o di accettare un congelamento del conflitto con la Russia. Se lo facessimo secondo il presidente ucraino, saremmo tutti in pericolo poiché nel 2028 l’Europa rischia un altro “momento critico” con la Russia pronta ad attaccare altri obiettivi.
Si può esprimere qualche dubbio sul fatto che la Russia (dipinta in Occidente come una “potenza imperialista”) abbia davvero intenzione o interesse a invadere un pezzo di Europa tra cinque anni e non può certo stupire che Zelensky cerchi di scongiurare il rischio, sempre più concreto, che l’Occidente abbandoni la causa ucraina o rallenti decisamente il flusso dio aiuti. L’America lo farebbe per ragioni elettorali e perché tradizionalmente gli Stati Uniti, specie quando gli americani vengono chiamati al voto, decidono che i conflitti in cui sono invischiati non sono più “la loro guerra”.
L’Europa lo farebbe perché non ha più nulla da dare a Kiev in termini di armi e munizioni, perché tradizionalmente segue gli USA come un fedele vassallo nel coinvolgimento e nel disimpegno dai conflitti e poi anche perché la guerra che a dire di molti leader europei doveva logorare la Russia sta invece distruggendo la nostra economia e mina la nostra stabilità politica e sociale.
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In risposta a una lettera aperta
di Bruno Steri
Seguo con una certa continuità quello che pubblicano i compagni e le compagne di marx21. In particolare, sulla prima pagina del loro sito, mi è stato segnalato (con richiesta di risposta) un impegnativo contributo di Fausto Sorini: una lettera aperta, come l’ha definita lo stesso autore, il cui titolo esemplifica bene l’argomento: Sulla condizione dei comunisti in Italia. Che fare? Note per una discussione aperta. Certamente, per chi nel nostro Paese è comunista non è purtroppo difficile riconoscere la condizione di marginalità politica in cui oggi si trova a operare, “la palude in cui siamo immersi, tutti”: una palude - annota Sorini – che rischia di vanificare il sacrificio di tanti militanti, impegnati in “gruppi, associazioni, reti, istanze partitiche comuniste, che a tale militanza sacrificano tanta parte della loro vita”. Di qui la proposta, rivolta “a tutte le compagne e i compagni italiani”, di un Forum di discussione tra comunisti, tra quanti ritengano “del tutto insoddisfacente la situazione attuale” e conseguentemente vedano l’urgenza di indagare a fondo le sue cause e le prospettive per un eventuale ripresa. Beninteso, l’autore si affretta a escludere, nominandola esplicitamente, qualunque pretesa di creare con questa sua iniziativa “nuovi cenacoli”, qualunque scorciatoia organizzativa di breve periodo. Dovrebbe trattarsi al contrario di un percorso da impostare – egli dice – “come processo storico-politico di lunga durata”.
Raccogliamo la sollecitazione e seguiamo il ragionamento proposto. Prima di arrivare al cuore di tale ragionamento, quello sul “che fare”, è bene procedere a una verifica dei suoi “fondamentali” politici, caratterizzati dalla critica nei confronti dell’involuzione che ha condotto dal Pci all’attuale PD, con la connessa “mutazione genetica”.
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La guerra dei settant’anni, ultima puntata (per ora)
di Paolo Arigotti
Non ci soffermeremo sull’evoluzione dei fatti e/o sull’andamento della situazione bellica in Medio Oriente, non tanto perché sarebbe meglio lasciare il compito ad analisti ed esperti di strategia militare - quelli veri s’intende - ma perché siamo consapevoli che qualunque cosa dicessimo o scrivessimo al riguardo rischierebbe di essere ben presto superata. Lo stesso discorso si potrebbe fare per qualunque cifra o bilancio su numero o entità degli attacchi e/o di vittime, feriti e sfollati, numeri circa i quali è lecito attendersi, purtroppo, una rapida crescita.
Tanto meno ci soffermeremo sulle reazioni del cosiddetto Occidente, che ha dato sfoggio del solito campionario di slogan o frasi di circostanza; stessa riflessione si potrebbe fare per molti dei cosiddetti professionisti dell’informazione.
Bisogna riconoscere, senza per questo voler giustificare nessuno, che parlare in questo paese della conflittualità arabo israeliano non è affatto semplice: nel caso di narrazione non allineata si rischia, bene andando, di essere etichettati o messi all’indice da coloro che non tollerano di ascoltare voci dissonanti.
Una piccola lezione di stile la potrebbero fornire alcuni media insospettabili.
Cominciamo con Gideon Levy, cittadino israeliano e firma storica del quotidiano progressista Haaretz, che ha addebitato al premier Benjamin Netanyahu (Bibi per gli amici) la colpa dell’accaduto, concludendo il suo intervento con queste parole: “Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale ritiene che Israele sia una democrazia liberale e condivida gli stessi valori dell’Occidente, ma ciò non può essere del tutto vero se nel suo cortile sul retro mantiene in vigore una brutale tirannia.
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“Terza via” e rifondazione della sinistra nel pensiero di Lucio Magri
Fra la tradizione comunista italiana e la novità del ’68
di Mattia Gambilonghi*
Ricordare la figura di Lucio Magri a dieci anni dalla sua scomparsa è non solo un atto politico dovuto e obbligato, in quanto volto a preservare e onorare la memoria di un dirigente politico dotato di una profondissima cultura politica e di un’elevatissima capacità analitica e progettuale; ma è, soprattutto, un atto utile e necessario politicamente, per noi tutti e per la più ampia comunità della sinistra italiana: se un futuro e una capacità propositiva ed egemonica per questa disastrata sinistra possono essere immaginati, ciò può avvenire proprio ripartendo da figure dotate della statura di Lucio Magri, raccogliendo la sua eredità intellettuale e tentando di metterla a frutto nell’oggi.
E’ evidente come non sia facile scegliere – vista l’ampiezza delle tematiche affrontate da Lucio e degli spunti di riflessione che nella sua esperienza politica più che cinquantennale ci ha lasciato – da quale nodo e da quale questione partire e muoversi al fine di ragionare sull’oggi e sulle prospettive future della nostra area politica (quella della sinistra).
In maniera forse un po’ ardita, cercherò di ragionare sulla macro-tematica che forse le ingloba tutte, e che proprio per questo ha rappresentato la costante, il grande filo rosso della riflessione teorica di Magri e della sua attività di dirigente politico. Mi riferisco al tema e al nodo (insieme teorico, strategico e politico) che nella storia del PdUP per il comunismo ha preso il nome di “terza via”: il tentativo, cioè, di individuare un nuovo paradigma della trasformazione sociale e della transizione al socialismo
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Moneta privatizzata: analisi e alternative
di Enrico Grazzini
La moneta viene creata dalle banche commerciali ma la privatizzazione del denaro genera debito e crisi. Perché è necessario emettere una moneta digitale pubblica e libera dal debito
Da dove nasce la moneta? Chi crea il denaro? La grande maggioranza dell’opinione pubblica e anche molti economisti credono che la moneta sia creata dallo Stato o dalla sua banca centrale, e che sia “neutrale”, che cioè sia emessa dalle autorità pubbliche a beneficio, almeno in linea di principio, di tutti i cittadini e di tutti gli operatori economici. Non è così. Pochi sanno che circa il 95% della moneta che normalmente utilizziamo viene creata ex nihilo dalle banche commerciali, e viene creata per il loro profitto. La moneta dunque non è neutrale. In effetti le banche centrali per conto dello Stato emettono banconote e monete che valgono solo per le piccole spese quotidiane, cioè per il 5% circa del valore totale delle transazioni. Il denaro vero è creato dalle banche – che, nella stragrande maggioranza, almeno in Occidente (ma non in Cina, per esempio) sono banche private. Le banche commerciali non si limitano a prestare il denaro che i risparmiatori depositano: creano moneta dal nulla. Come hanno dichiarato ufficialmente Bank of England, Bundesbank e la FED, le banche creano esse stesse moneta ogni qualvolta concedono un credito ai loro clienti (per es: per mutui, credito al consumo, per i pagamenti a fornitori e dipendenti, ecc). È Bank of England (boe), la più antica banca centrale del mondo, che ci spiega autorevolmente da chi e come viene creata la maggior parte della moneta:
La realtà di come viene creato il denaro oggi differisce dalla descrizione che si può trovare in alcuni libri di testo di economia: le banche non prestano soldi risparmiati e depositati dalle famiglie ma creano loro stesse i depositi con i loro prestiti. Ogni volta che una banca fa un prestito genera immediatamente un deposito di valore corrispondente nel conto bancario del debitore creando così nuovi soldi1.
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