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Dopo queste elezioni: superare l’irrilevanza con una vera costituente comunista
di Alessandro Mustillo
Ha ragione chi tra gli osservatori politici, analisti, giornalisti ha commentato che a vincere queste elezioni è stata la stabilità. Una sorta di conferma, in alcuni casi quasi plebiscitaria, del potere costituito tanto a livello nazionale quanto locale, il cui vero significato va ben al di là di una semplice consultazione elettorale. Un dato quindi che dovrebbe farci riflettere come preludio di una potenziale via d’uscita dalla crisi in atto, a tutto vantaggio del capitale.
Ma procediamo per passi. Ad uscire rafforzato dal voto è certamente l’asse di governo. La spallata annunciata da parte del centrodestra fallisce in Puglia e Toscana. La vittoria del Sì al referendum cementa l’asse della maggioranza PD con i Cinque Stelle, blindando il Governo fino alla fine della legislatura, salvo macroscopici imprevisti, e tramutando definitivamente i cinque stelle in parte del campo di centrosinistra che si contrappone alla destra Salvini-Meloni. Difficile pensare ad elezioni politiche data la situazione generale, la pandemia, le scadenze istituzionali tra cui l’elezione del Presidente della Repubblica. Difficile pensarci anche a causa di quella forza centripeta rappresentata dalla consapevolezza della futura diminuzione del numero dei Parlamentari che trasforma i deputati di Cinque Stelle, Italia Viva, e di Forza Italia, nei più feroci avversari di ogni scioglimento delle Camere.
L’Italia si avvia così a discutere l’ennesima legge elettorale, risultando pressoché l’unico Paese al mondo a modificare il sistema elettorale quasi ad ogni legislatura da trent’anni a questa parte, sintomo evidente della crisi latente che però trova sempre una sua stabilizzazione. Il PD incassa la modifica degli equilibri interni alla maggioranza e passerà all’attacco sul MES/Recovery Fund e sulle riforme, rompendo l’ormai inesistente resistenza grillina.
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Perchè il PD non ha perso
di Leonardo Mazzei
«Il voto dà respiro al governo», questo il titolone del Corriere della Sera di ieri. Una sintesi ineccepibile dell’ennesimo paradosso italiano. Le forze di governo tracollano in voti rispetto alle precedenti elezioni regionali, ma siccome l’attesa era per una disfatta ancor più grande, il generale arretramento diventa una vittoria.
In realtà questo paradosso ne contiene altri due. Il primo è che, salvo la Liguria, i due principali alleati di governo erano invece avversari nelle regioni. Il secondo è che l’illusione ottica del grande successo governativo è esattamente il frutto della stupidità degli avversari, quelli che prevedevano la famosa “spallata”, il “cappotto” del sei a zero ed altre amenità.
Simbolo di questa inarrestabile avanzata delle truppe salvinian-meloniane avrebbe dovuto essere la Toscana. Chi scrive aveva segnalato per tempo quanto fosse improbabile un simile scenario. (Tra parentesi: le quattro previsioni finali lì avanzate si sono realizzate al gran completo, peccato che la Snai non quoti certe cose…).
Alcuni dati
Non intendiamo qui perderci nei mille dati da decifrare di ogni elezione, ma qualche numero può essere utile. In termini di regioni “conquistate”, al posto del sei a zero salviniano c’è stato un tre a tre che in realtà non era difficile prevedere. Della Toscana si è detto, ma scontato (e alla grande) era il risultato in Campania, mentre più incerto appariva quello in Puglia. Ma se si comprendono le nobili ragioni del successo di De Luca e delle sue 15 (quindici) liste campane (nulla a che fare col clientelismo, ci mancherebbe!), non sarà difficile capire quelle del De Luca light pugliese, al secolo Michele Emiliano, anche lui accompagnato da 15 liste.
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Il grande reset dopo la pandemia
di Aldo Zanchetta
«Cari compagni e compagne: siamo nel pieno di un naufragio della civiltà.
Dobbiamo organizzare il salvataggio -non solo delle persone,
ma anche delle idee e dei valori».
Jorge Riechmann
Preambolo
Mi sento come nel mezzo del guado di un torrente impetuoso qual è la transizione epocale che stiamo vivendo, nella quale è difficile fare pronostici: “Io speriamo che me la cavo” fu il titolo di una gustosa raccolta di elaborati scolastici di bambini napoletani di alcuni anni addietro. Dicendo “Io” però intendo la mia specie, quella dell’homo sapiens, perché queste acque impetuose o si attraversano tenendosi forte per mano o si affoga. Insistendo con le metafore, di fronte alla realtà presente mi sento come di fronte ad una scatola contenente le tessere di un immenso puzzle, che da solo non riuscirò certamente a ricomporre per intero, ma del quale posso ricomporre alcuni pezzi, ed è quello che vorrei tentare di fare. Per intuire almeno a grandi linee il disegno complessivo. Le 3 grandi tessere sono:
– La Pandemia causata da un virus inopportuno (ma forse non tanto, anche senza pensare a complotti: di necessità talora si fa virtù, e nel male esso può a qualcuno può essere servito).
– Il Panottico digitale, iniziato con un lock-down, giustificato da ragioni di sicurezza rese necessarie di fronte a tale imprevisto, accompagna da un perentorio “Restate in casa”.[1]
– Il Grande Riaggiustamento, The Great Reset, annunciato nel giugno scorso dal World Economic Forum (WEF) e subito riecheggiato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). In realtà più che di un “riaggiustamento” si tratta, parole loro, di una vera e propria Grande Trasformazione.
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Le tecnologie dell'industria 4.0 e l'assorbimento del lavoro improduttivo
di Barbara Ambrogio*
Industria 4.0, Smart factory, Advanced manufacturing, Internet industriale, sono tutti sinonimi per descrivere il modello produttivo che poggia sull’integrazione di strumenti digitali e di intelligenza artificiale nei sistemi di automazione dei processi produttivi di merci e servizi. Può essere definita come parte del processo di approfondimento dell’automazione industriale attraverso le tecnologie digitali.
Nel dibattito politico e accademico viene per lo più presentata come uno sviluppo autopoietico delle trasformazioni tecnologiche, progresso ineluttabile e sostanzialmente positivo, rispetto al quale i sistemi politici possono intervenire a posteriori per raccogliere il massimo dei vantaggi possibili. In questo modo si tralascia di affrontare i conflitti sottesi a questa ondata di innovazione tecnologica, e le tensioni che l’hanno stimolata.Dall’analisi preliminare di una mole di informazioni sulle modalità di funzionamento delle tecnologie dell’industria 4.0, emerge l’ipotesi che i costi del lavoro improduttivo sono quelli su cui si prova a intervenire in modo sostanziale verso una loro riduzione e sostituzione. Si tratta di una problematica assente nella letteratura politica e scientifica.
L’impatto di tali tecnologie sul lavoro improduttivo può essere colto ai tre livelli in cui nel capitalismo si sono storicamente configurate le relazioni tra attività produttive e non produttive di valore: l’organizzazione del processo produttivo industriale, il settore terziario e le supply chains.
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Un’economia vulnerabile: i risultati economici della prima presidenza Trump
di John Komlos, Salvatore Perri
La crisi economica legata al Covid-19, come tutti gli eventi negativi di carattere globale, tende ad essere classificata come imprevedibile e sganciata da ogni possibilità di prevenzione. In realtà, anche se l’evento è di per sé impronosticabile, le condizioni dei sistemi economici in termini di vulnerabilità agli shocks dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione nei periodi così detti “normali”. Nel 21esimo secolo, eventi economici di portata catastrofica come la “bolla informatica”, l’11 settembre e la crisi finanziaria globale del 2008, si sono verificati in media ogni 5 anni se consideriamo anche le gravi crisi internazionali a carattere regionale. Pertanto, l’obiettivo di rendere le società moderne più “robuste” in termini di fondamentali economici, e meno vulnerabili agli shocks (Taleb 2009), dovrebbe essere comunque prioritario anche rispetto ai risultati economici di breve termine. La domanda da porsi, per valutare correttamente l’operato dell’amministrazione Trump, è se la sua politica economica prima della crisi pandemica abbia reso l’economia statunitense più forte strutturalmente oppure no.
Donald Trump ha affermato pubblicamente più volte che la sua amministrazione ha raggiunto risultati economici eccezionali, mai ottenuti prima, e tali risultati sarebbero ascrivibili ai provvedimenti di politica economica intrapresi da quando è stato eletto.
Questa opinione, rilanciata anche da altre autorevoli fonti[1], ha fatto breccia nell’opinione pubblica, nazionale ed internazionale, tanto da essere ripresa anche in Italia per corroborare alcune proposte di politica economica allo stato prive di evidenze empiriche favorevoli[2]. Al netto della propaganda elettorale, i dati raccontano un’altra realtà, molto più problematica, che getta pesanti ombre sul futuro economico degli Stati Uniti.
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Settembre 1920. L'occupazione delle fabbriche e i suoi insegnamenti
di Concetto Solano
«Ogni discussione è inutile», affermò il capo della delegazione padronale, avvocato Rotigliani. «Gli industriali sono contrari alla concessione di qualunque miglioramento. Da quando la guerra è finita essi hanno continuato a calare i pantaloni. Ora basta, cominciamo da voi».
Era il 13 agosto 1920. Davanti i padroni avevano una delegazione dei sindacati metallurgici. Questa risposta chiudeva ogni possibilità di dialogo, auspicato dalla Fiom, e apriva il fronte di uno scontro durissimo tra padroni e lavoratori.
Tutto iniziò qualche mese prima, in uno scenario che sembrava destinato a restare limitato ad un ambito strettamente rivendicativo e sindacale.
Il memoriale varato dai dirigenti riformisti della Fiom, nel mese di maggio, puntava, infatti, a mantenere le relazioni con la Federazione industriale sul piano del confronto, evitando di inasprire la contrapposizione e di dare spazio alle spinte più radicali.
Le richieste presentate erano tutte attinenti rigorosamente a questioni sindacali, inserite entro il sistema di relazioni della contrattazione nazionale. I dirigenti sindacali si erano detti disposti ad attendere «sereni e fiduciosi, senza impazienze e senza movimenti impulsivi l’esito delle trattative»,1 in modo da arrivare ad una soluzione pacifica.
Le aspettative riformiste – come anticipato all’inizio – vennero smentite dalla reazione dei padroni. Secondo loro «sia per la portata sia per la forma delle richieste, queste vulnerano talmente gli attuali patti di lavoro da costituire una sostanziale denuncia» e ignorano «una valutazione reale delle condizioni delle industrie».2
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Come fare la storia della filosofia contemporanea?
di Lucio Cortella
È il confronto/scontro con la filosofia hegeliana che ha governato lo sviluppo della filosofia contemporanea: a sostenerlo è Lucio Cortella nell'appena pubblicato “La filosofia contemporanea. Dal paradigma soggettivista a quello linguistico” (Laterza, 2020). Ne pubblichiamo la presentazione, per gentile concessione dell'editore e dell'autore, che ringraziamo
Il problema con cui si scontra ogni esposizione del pensiero contemporaneo è la mancanza di uno standard condiviso in grado di stabilire priorità e gerarchie fra i vari pensatori e fra le scuole filosofiche. Le epoche precedenti non soffrono di questa assenza, dato che si sa – più o meno – quali sono i filosofi maggiori e le linee di sviluppo che conducono dalla filosofia antica fino alla stagione dell’idealismo tedesco. Con il pensiero contemporaneo non disponiamo ancora di un “canone” analogo, il che produce quella percezione diffusa, spesso disorientante, di un panorama filosofico attraversato da una pluralità di concezioni e proposte teoriche non solo assai differenziate ma apparentemente prive di relazioni e di coerenza. Sembra perciò realizzarsi anche sul piano storico-oggettivo quello che molti fra i protagonisti del pensiero contemporaneo hanno poi perseguito nel loro modo di concepire la pratica filosofica, vale a dire il rifiuto dell’idea di sistema e di ordine razionale. In realtà un tratto fondamentale della storia della filosofia, cui neppure quella contemporanea si sottrae, è quello per cui ogni proposta teorica è sempre una reazione a problemi irrisolti di precedenti teorie, l’aggiunta di un argomento mancante, la conclusione di un ragionamento rimasto interrotto. Proprio per questi motivi la storia del pensiero manifesta una coerenza sotterranea ben più sostanziale di quanto non appaia in superficie.
Il tentativo che ho voluto perseguire con questo volume è stato quello di dare contorni un po’ più definiti a quell’immagine sfocata, imprecisa e a volte contraddittoria del pensiero contemporaneo cui non sanno sottrarsi neppure i manuali migliori. È un’esigenza maturata nel corso della mia lunga esperienza didattica con gli studenti universitari, ai quali volevo fornire una mappa e un quadro coerente all’interno del quale collocare le più importanti teorie filosofiche contemporanee.
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Rossanda ci ha lasciati, Hillary c'è ancora. “Il manifesto”, dal 1969 al 2020: daje ai nemici delli americani!
di Fulvio Grimaldi
Referendum: un sì contro la democrazia e per Mario Draghi (miei interventi video)
https://www.youtube.com/c/VOXITALIA intervista sulle votazioni fattami da Francesco Toscano di Vox Italia TV. Il mio intervento parte da 1h 13’ 22”
https://www.youtube.com/watch?v=BbKu7NQYDY4 mio intervento alla Maratona sulle votazioni di Byoblu, da 21’15”
Per restare nell’attualità più bruciante metto in testa al pezzo sulla scomparsa di Rossana Rossanda e sulla natura del “manifesto”, due miei interventi su webtv relativi all’esito del voto per il referendum sul taglio dei parlamentari e alle prospettive che si evidenziano.
Il “quotidiano comunista” che piace ai padroni
Il Manifesto, un giornale la cui esistenza è assicurata da una curia con papessa, da una congrega di amici del giaguaro e da una zoccolante processione di utili idioti, non ha la benchè minima giustificazione per occupare quella sua striminzita. ma vociferante e citatissima presenza sul mercato. I suoi redattori fanno lì lo stage per potersi iscrivere, dopo 18 mesi, all’albo dei pubblicisti o, addirittura a quello dei giornalisti. Ma soprattutto per guadagnarsi subito la fiducia dei Poteri che si solevano chiamare occulti, ma che con il turbocapitalismo finnziario, la globalizzazione, le piattaforme, il digitale, il Covid, Davos e Bilderberg, sono usciti allo scoperto col botto. Questo apprendistato serve ai meno impediti linguisticamente, una volta conquistata quella fiducia, a fare il salto nelle case di piacere dei media di massa.
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L’ultima Metamorfosi di Proteo
di Raffaele Picarelli
I fondi europei per la ripresa post Covid-19 sono destinati quasi esclusivamente a creare un ambiente favorevole all’aumento dei profitti. Ne fanno la spesa i contratti nazionali di lavoro, il lavoro stabile, la legalità e il carattere dell’istruzione pubblica
La marcia di avvicinamento
Nel maggio scorso la Commissione europea propose al Consiglio l’adozione di un «bilancio rafforzato dell’UE per contribuire a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia da coronavirus, dare avvio alla ripresa e preparare un futuro migliore per la prossima generazione».
La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen così si espresse al termine dei lavori: «Con il piano per la ripresa [Next Generation EU] trasformiamo l’immane sfida di oggi in possibilità, non soltanto aiutando l’economia a ripartire, ma anche investendo nel nostro futuro: il Green Deal europeo e la digitalizzazione stimoleranno l’occupazione e la crescita. La risposta UE alla crisi si protrarrà fino al 2027 concentrandosi nei primi anni cruciali della ripresa. Next Generation EU [Recovery Fund] si articolerà su tre pilastri [per] mobilitare investimenti in un’Europa verde, digitale, resiliente [...]. Gli investimenti pubblici rivestono un ruolo fondamentale per una ripresa equi-librata e sostenibile. La maggior parte dei finanziamenti NGEU, oltre l’80%, sarà pertanto destinata a sostenere investimenti pubblici e riforme strutturali fondamentali negli Stati membri».1
Occorre poi «un’azione urgente per una ripresa guidata degli investimenti privati in settori e tecnologie fondamentali. Tali investimenti sono imprescindibili per il successo delle transizioni verde e digitale. La Commissione stima che nel periodo 2020-2021 il fabbisogno di investimenti ammonterà ad almeno 1500 miliardi di euro. Gli investimenti in settori e tecnologie fondamentali, dal 5G all’intelligenza artificiale, dall’idrogeno pulito alle energie rinnovabili [...], rappresentano la chiave del futuro dell’Europa».
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Un altro finale di partito
di Paolo Gerbaudo
C'è bisogno di ripensare una forma organizzativa adatta alle mutate condizioni del presente, ragionando sui limiti ma anche sulle opportunità delle pratiche adottate dai «partiti digitali» in questi ultimi anni
Parlare della necessità di un partito politico oggi a sinistra in Italia sembra da nostalgici: un tema che si addice più ai vecchi reduci del partito comunista e delle sue tante litigiose diaspore che alle nuove generazioni. Del resto il cadavere mal seppellito del Partito comunista italiano, quello che nell’immaginario della sinistra italiana è ancora oggigiorno il «partito» per antonomasia, e la sconfitta storica del movimento operaio, continuano a pesare come un incubo sul cervello dei vivi, facendo sembrare ogni tentativo di riorganizzazione politica nel tempo presente un’operazione di piccolo cabotaggio, farsesca e fuori tempo.
Eppure per dare rappresentanza alle classi popolari che oggi si affidano di volta in volta al meno peggio, e sempre più spesso non vanno a votare, è necessario tornare a confrontarsi con questa questione. Non per un feticismo del partito come risposta a tutti i mali. Ma per un dato di realtà: il partito è stato, a partire dall’inizio della modernità, il mezzo attraverso cui le classi popolari hanno riunito le loro energie altrimenti disperse, e trasformato la loro debolezza individuale in forza collettiva, per sfidare il potere concentrato delle oligarchie economiche e politiche.
Questa necessità organizzativa, che come sosteneva Robert Michels è alla base del partito politico come «aggregato strutturale», è oggigiorno forse più evidente di quanto fosse a fine Ottocento e inizio Novecento, agli albori dei partiti di massa della sinistra europea. Viviamo in un mondo in cui la disuguaglianza ha toccato punte inedite, sia a livello globale che nazionale.
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La critica dell'economia politica in Étienne Balibar
di Bollettino Culturale
Nell'opera di Étienne Balibar, Cinq études du matérialisme historique, del 1974, ci troviamo di fronte a un contributo alla critica dell'economia politica che mira a riprendere la specificità della teoria scientifica marxista, a rettificare le sue deviazioni nell'ambito della teoria sociale e i suoi rispettivi sviluppi politici. Questo era uno sforzo comune della cosiddetta scuola althusseriana, di cui faceva parte il filosofo francese in questione. Per quanto riguarda l'economia politica (critica) marxista, questa scuola ha enfatizzato la dimensione politica del processo produttivo, ha privilegiato i rapporti di produzione rispetto alle forze produttive e ha cercato, così, di costruire un concetto ampio di modo di produzione capitalistico, comprese le dimensioni dello sfruttamento e il dominio di classe. In questo senso, Althusser ha detto:
"La lotta di classe è l’''anello decisivo” per la comprensione del Capitale ... Spieghiamo in poche parole il principio essenziale della tesi di Marx. Non c'è produzione economica "pura", non c'è circolazione (scambio) "pura", né c'è una distribuzione "pura". Tutti questi fenomeni economici sono processi che avvengono nell'ambito di relazioni sociali che sono, in ultima analisi, sotto le loro apparenze, relazioni di classe e relazioni di classe antagonistiche, cioè relazioni di lotta di classe."
Il ricorso alla scuola althusseriana, che si dice sia morta intorno agli anni '70 e per decenni oggetto di vile diffamazione, non è un movimento aleatorio, ma fa parte di una significativa ripresa di questo campo di riflessione marxista. In concreto, sottolineiamo come Balibar, attraverso i classici del marxismo e la “problematica althusseriana”, colleghi il processo di produzione alla valorizzazione del capitale e alle classi sociali (in lotta) come chiave per comprendere il marxismo.
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“L’Europa non è cambiata: il ritorno dell’austerità renderà inutile il recovery fund”
Daniele Nalbone intervista Antonella Stirati
A partire dalla crisi economica, “aggravata e non scatenata dalla pandemia”, intervista ad Antonella Stirati, professoressa ordinaria di Economia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università Roma Tre e autrice del libro “Lavoro e salari - un punto di vista alternativo sulla crisi”.
* * * *
La prima domanda è diretta e, diciamo così, generale: che autunno ci aspetta?
Partiamo da una considerazione: la pandemia non è finita e occorre prudenza nella nostra quotidianità. Questa estate, per la stanchezza dei difficili mesi che ci siamo lasciati alle spalle, ci siamo sentiti tutti un po’ più liberi. Ora dobbiamo fare più attenzione. Parto da una considerazione non economica perché credo che questa sia comunque una priorità Sul fronte economico è necessario fare un passo indietro: l’economia italiana aveva gravi problemi ben prima della pandemia. O meglio, i veri problemi li avevano i cittadini italiani. L’Italia non si è mai ripresa veramente dal doppio shock della crisi del 2008 seguita al crollo finanziario americano e della successiva crisi ‘degli spreads’ della zona euro. Dopo la crisi finanziaria, le politiche di austerità hanno causato un’ulteriore profonda caduta della nostra economia, basta guardare al pil e ai dati dell’occupazione per rendersene conto. In ogni caso, da una grande recessione come è stata quella del 2008 non si esce se non ci sono politiche finalizzate alla ripresa. Politiche che i paesi della “periferia europea”, con gravi problemi di debito di bilancio pubblico sulle spalle, non hanno potuto attuare. Anzi sono stati spinti dalle scelte di politica economica nell’Eurozona a fare politiche che hanno prima molto accentuato la recessione e poi ostacolato la ripresa.
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Qanon, su fenomeni e mentalità oggi emergenti
di Pierluigi Fagan
Allego l’inchiesta sul fenomeno QAnon fatta dal collettivo bolognese Wu Ming. Lo stesso, con nome collettivo di Luther Blisset, pubblicò nel 1999 il romanzo storico Q (Einaudi), poi tradotto in ben 14 lingue. Vi sono parecchi indizi sul fatto che il fenomeno QAnon possa esser nato proprio su ispirazione del romanzo in questione, non è certo ma tra il possibile ed il probabile. L’inchiesta mi pare molto interessante.
La prima parte è sul corpo delle teorie che compongono questa strana narrazione americana della destra alternativa radicale, oggi divenute molto popolari e non solo negli USA. La seconda è più riflessiva ed attinente al titolo del post. Si tratta di una riflessione sul funzionamento mentale secondo quanto ormai indagato a fondo dalle scienze cognitive e quindi patrimonio culturale a cui attingono anche gli esperti del (neuro) marketing, commerciale e politico. Ma ci sono anche spunti culturali interessanti su modelli di interpretazione della realtà che hanno longeva storia risalendo al Medioevo ed alla formazione del canone occidentale, anche se quello alternativo all’ufficialità.
Tale alternatività, se è stata maltrattata del potere culturale ufficiale, è sempre però stata molto più popolare dei suoi giudici, il che ha rilievo politico. Si giunge infine anche all’Italia, inclusa una precisa parte delle galassia dell’informazione alternativa, molto frequentata ed amplificata anche qui su facebook. Non è una lettura veloce, consiglio di archiviare a prendersi in seguito il tempo necessario alla lettura ed alla riflessione. Vi sono anche molti link per ulteriori ricerche ad albero. Consiglio di farlo perché ne vale la pena. Il tono dell’indagine, infatti, è problematico nel senso che s’immerge nel fenomeno che sembra conoscere molto bene, per indagarne i meccanismi prima di sparare scomuniche, giudizi definitivi e confortanti ostracismi.
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La meccanica quantistica, la realtà fisica, la mente umana
All’esplorazione di Helgoland, l’ultimo libro di Carlo Rovelli.
di Paolo Pecere*
Con Helgoland (Adelphi) Carlo Rovelli ritorna agli albori eroici della meccanica quantistica: all’isola di Helgoland, dove il giovanissimo Werner Heisenberg gettò i fondamenti della nuova teoria. Rovelli ne racconta, col suo stile accattivante, le prime formulazioni, mette a fuoco le sorprendenti novità teoriche e i problemi – senza entrare in troppi dettagli tecnici –, per poi dar conto delle strategie principali con cui gli scienziati hanno provato a trarne una teoria pienamente soddisfacente. Ma il libro è solo in piccola parte un racconto delle discussioni del passato. Rovelli vuole indicare una soluzione: presenta la sua “interpretazione relazionale” della meccanica quantistica, sostenendo che essa permette di sfuggire ai paradossi e alle difficoltà della teoria meglio delle strategie alternative, e riflette sulle implicazioni di ampio respiro che questa interpretazione può avere per la nostra comprensione della realtà fisica e della mente umana, addentrandosi sempre più decisamente nel campo delle ipotesi filosofiche.
La storia della meccanica quantistica è stata raccontata molte volte, e continua ad esserlo – da storici, filosofi e scienziati – per buone ragioni: non soltanto perché è fatta di idee geniali e scoperte rivoluzionarie, una saga della fisica contemporanea che non ha più avuto eguali, ma anche perché il finale della storia sembra ancora aperto. La meccanica quantistica fa previsioni di una esattezza senza precedenti, finora mai smentite dagli esperimenti, e ha avuto fondamentali applicazioni tecnologiche. Nello stesso tempo, fin dall’inizio, è stata una teoria controversa: per alcuni, come lo stesso Einstein che introdusse l’ipotesi dei quanti di luce (i fotoni), si trattava di una teoria efficace come strumento matematico per descrivere i fenomeni, ma fondamentalmente incomprensibile e sbagliata, destinata a farsi sostituire da una teoria migliore; per altri, come Werner Heisenberg e Niels Bohr, era invece portatrice di una verità che poteva essere compresa e accettata soltanto con l’abbandono di intuizioni e pregiudizi molto radicati.
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Riaprire le università?
di Tommaso Gazzolo
1. Sembra che, tra i professori, sia unanime la convinzione che riaprire le università, ricominciare lo svolgimento regolare delle lezioni in presenza, costituisca una necessità imprescindibile. Giorgio Agamben ha avuto il merito di porre la questione al livello cui merita di essere pensata. E con la radicalità che merita: «i professori che accettano – come stanno facendo in massa – di sottoporsi alla nuova dittatura telematica e di tenere i loro corsi solamente on line sono il perfetto equivalente dei docenti universitari che nel 1931 giurarono fedeltà al regime fascista». Ma, allo stesso tempo, egli è costretto ad ammettere che «di ogni fenomeno sociale che muore si può affermare che in un certo senso meritava la sua fine ed è certo che le nostre università erano giunte a tal punto di corruzione e di ignoranza specialistica che non è possibile rimpiangerle». Si può, si deve, convenire con Agamben su due punti essenziali. Il fatto che le università siano state, in Italia, le prime a chiudere e le ultime – forse – a riaprire, che si vi sia stata l’introduzione della “didattica a distanza” o del cd. blended learning, è indicativo della funzione che, oggi, è ad essa riconosciuta da parte del potere politico.
Ma se l’università ha potuto essere “digitalizzata”, se per un semestre la didattica on line ha sostituito quella in presenza – senza che sostanzialmente ne abbiano risentito gli obiettivi “aziendali” delle università: produzione di “crediti”, lauree, etc. – è solo perché essa aveva già raggiunto, aveva già in sé le condizioni che hanno reso possibile questa sostituzione. Non occorre ripercorrere, ora, la storia dell’università moderna, il conflitto che l’attraversa dall’interno, il suo costante essere in “crisi”. È sufficiente mettere in rilievo un aspetto: che se la “didattica a distanza” può essere adottata, è solo perché l’insegnamento è già pensato come “trasmissione” di un sapere codificato, comunicazione di informazioni.
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Caffè e il primato della politica
di Giuseppe Amari
Interpretando lo spirito della Costituzione l’economista scriveva: “L'ideale è quello di costruire un mondo in cui lo sviluppo civile e sociale non sia il sottoprodotto dello sviluppo economico ma un obiettivo coscientemente perseguito”. L’opposto della teoria ordoliberista, secondo cui è la società che deve conformarsi al funzionamento del mercato
Come è noto, Federico Caffè svolse un ruolo fondamentale ai tempi della Costituente. Ricordo brevemente il suo impegno in Banca d'Italia, insieme a Paolo Baffi, con i Governatori Vincenzo Azzolini, Donato Menichella, Luigi Einaudi; come l' «economista più ferrato» (Leo Valiani) del gruppo dossettiano; come giovane economista diffusore della «nuova economia keynesiana» e a conoscenza dell'esperimento laburista di Attlee e Bevan che seguiva da Londra con «simpatia non scevra di adesione ideologica»[1]; come componente della Commissione economica per la Costituente; ma, soprattutto, accanto a Meuccio Ruini, il vero motore dei lavori costituenti e ministro prima dei Lavori pubblici con il secondo Governo Bonomi e poi della Ricostruzione con il Governo Parri. Ruini, era anche a capo del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica a cui contribuivano, in diverse sezioni, i maggiori studiosi e operatori economici del tempo, a cominciare Luigi Einaudi, Costantino Bresciani Turroni, Gustavo Del Vecchio, Giovanni Demaria[2].
Dalla testimonianza diretta di un giovanissimo giornalista parlamentare, ancora attivo, sappiamo di Caffè che, quando poteva, ascoltava ammirato il grande dibattito costituente che si sviluppava in quell'aula[3]. Si considerava un economista «passionate» e in lui si può riconoscere lo spirito che animava le madri e i padri costituenti. Si capisce così meglio la sua frase, di fine anni settanta, che possiamo ancora, e a maggior ragione, ripetere oggi: «Si va alla ricerca nominalistica di un «nuovo modello di sviluppo» e si dimentica che nelle sue ispirazioni ideali si trova nella prima parte della Costituzione, nelle condizioni tecniche nei lavori della Commissione economica della Costituente»[4].
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Di monaci in battaglia e di comunismo orante
di Marcello Tarì
«…Voce del monaco nella battaglia. Voci di tutti gli oppressi del mondo: infinite voci qui raccolte nella voce di un orante attraversato da tutte le passioni.»
D.M. Turoldo
Nel suo testo Lontano da dove Fabio Milana ci dice cose di grande rilievo, alcune così profonde da scoraggiare qualsiasi considerazione frettolosa. A dispetto del suo titolo mi sento molto vicino allo spirito dello scritto, tuttavia c’è un passaggio nel suo ragionamento in cui riconosco una differenza di sensibilità che vorrei discutere, rischiando delle semplificazioni e consapevole di praticare un terreno non facile. Si tratta di qualcosa che forse rientra nelle difficili relazioni tra il campo della politica e la dimensione spirituale ma, nello specifico, vorrei parlare del modo di intendere il comunismo e del suo rapporto col cristianesimo. Quando si trattano queste questioni appaiano sovente differenze di prospettive e incomprensioni le quali, a loro volta, si riflettono in valutazioni discordanti circa le medesime realtà.
L’incomprensione quasi sempre deriva dalle diverse esperienze di vita, ma se si instaura un dialogo non è insormontabile. Si può infatti sperimentare la stessa cosa, la stessa verità, in tempi diversi con strumenti diversi e con disposizione d’animo diverso, ne risulterà spesso una disarmonia nel significato che gli si dà. Per provare a venire a capo di un’incomprensione di questo tipo bisogna dunque confrontarsi in amicizia, tenendo ben fermo il riferimento a quella stessa verità dalla quale si sono comunque generati i diversi cammini. La differenza di prospettiva la riferisco più in generale al nodo ingarbugliato di ciò che sta attorno ai ragionamenti su fede e politica, spiritualità e politica e così via, un nodo che credo affondi in un grande malinteso che caratterizza la storia d’Occidente e che, se un giorno venisse chiarito, potrebbe aiutare a illuminare le aporie che Milana segnala nel suo testo, pure se dubito possa essere mai sciolto.
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La lotta al razzismo negli Usa nel complicato rapporto col proletariato bianco
di Michele Castaldo
Prendiamo spunto da un corposo documento pubblicato da Ill Will Editions negli Usa, tradotto e pubblicato dai blog Noi non abbiamo patria e Il pungolo rosso, a seguito della lotta dei neri negli Usa provocata dall’assassinio di George Floyd, per tentare di mettere a fuoco la complicata storia del rapporto tra proletariato di colore e bianco negli Usa e in tutto l’Occidente in un momento cruciale di passaggio da una fase all’altra del modo di produzione capitalistico.
Lo scritto ospitato cerca di focalizzare la questione delle questioni che è emersa nel corso di mesi di scontri del proletariato di colore: il rapporto con i bianchi e più precisamente col proletariato bianco.
Gli autori scrivono: «Se la rivoluzione è all’orizzonte, la nostra strategia deve tenere conto dei bianchi». Perché e in che modo?
«La prima e più ovvia ragione è che essi», cioè i bianchi, «costituiscono una parte gigantesca della popolazione. Secondo lo US Census, questo paese è per il 60,1% composta da bianchi europei. Rendiamocene conto. Il secondo gruppo più numeroso è quello dei latinos, che costituiscono il 18,5%, seguiti dai neri e dagli afroamericani con il 13,4%. Seguono gli asiatici al 5,9% e gli indigeni all’1,3%. Per quanto l’idea che i bianchi siano immutabilmente razzisti sia comprensibile, rimane però senza risposta il problema di come fare i conti con questo enorme segmento della società – a meno che la risposta non sia quella delle guerre razziali o della balcanizzazione razziale che finirebbero solo per rafforzare il dominio bianco e il genocidio dei neri, degli indigeni e delle altre persone di colore».
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Crisi capitalistica, socializzazione degli investimenti e lotta all’impoverimento
di Riccardo Bellofiore e Laura Pennacchi
Introduzione all’edizione italiana di Ending Poverty. Jobs not Welfare. In: Hyman P. Minsky, Combattere la povertà. Lavoro non assistenza, traduz. di Anna Maria Variato, Ediesse, Roma, 2014, pp. 11-44
Il pensiero di Hyman P. Minsky è tornato d’attualità con l’approssimarsi e poi lo scoppio della crisi finanziaria dell’estate del 2007, la cosiddetta crisi dei subprime, sin dai primi mesi di quell’anno [1]. Era già capitato almeno un paio di volte nel decennio precedente: Paul McCulley di PIMCO aveva evocato un Minsky moment a proposito della crisi russa del 1998 e George Magnus di UBS aveva ripreso il termine nella prima metà del 2007. I più attenti erano stati i bloggisti e gli analisti finanziari. La crisi era giunta come una sorpresa per i più. In realtà, essa covava da tempo, e le sue ragioni tutto avrebbero dovuto apparire meno che misteriose.
La Grande Recessione
La sequenza degli avvenimenti è stata classica. Lo sgonfiamento della bolla immobiliare nel 2005 ha generato, prima, la crisi del mercato dei subprime, con annessi e connessi: fallimento di hedge fund, blocco di leveraged buy out, crisi di banche di investimento. Poi sono venuti i segnali di illiquidità e di stretta creditizia, che hanno fatto temere che l’illiquidità si mutasse in insolvenza. Il castello delle relazioni di debito-credito è andato in fibrillazione, le banche hanno cessato di farsi credito l’un l’altra e la preferenza per la liquidità e per i titoli di Stato si è innalzata drasticamente, così come il premio per il rischio. Il bisogno di un intervento delle banche centrali quali prestatori di ultima istanza è divenuto parossistico, e la spinta ad una riduzione dei tassi di interesse irresistibile. Una successione nota, ma che ha visto stavolta qualche novità nei protagonisti, gli strumenti finanziari che hanno costruito il castello della speculazione.
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«Non è bene che l'uomo sia solo»
di Il Pedante
Se il clima culturale di un momento, se la visione di una frazione maggioritaria o egemone fossero un terreno fertile, assisteremmo a un prodigio botanico: che tutti i semi che vi si gettano partorirebbero la stessa pianta. Se fossero uno spartito, gli eventi ne eseguirebbero il tema con ogni timbro, ma sempre fedeli alla parte. C'è una simmetria perfetta tra l'illusione che i fatti plasmino le civiltà e la realtà, che siano invece le civiltà a produrre i fatti e che li digeriscano e li raccontino, li invochino e persino li fabbrichino per vestire le proprie visioni. Che, in breve, gli avvenimenti siano «epocali» se esaudiscono le aspettative di un'epoca.
Ho scritto qui, qui e più in generale anche qui che l'oggetto di questi mesi, una malattia che starebbe cambiando il mondo, è diventata essa stessa il cambiamento, la metafora a cui il mondo si affida per raccontarsi la direzione intrapresa, fingerne la necessità ed evitarsi così lo spavento di smascherarne i pericoli. Con le parole della medicina scrive il proprio mito rifondativo e lo fa in tempo reale, senza cioè darsi il tempo di distinguere l’allegoria dalla cosa.
Il «distanziamento sociale» è insieme uno dei precetti più radicali, apparentemente inediti e rivelatori di questa trasfigurazione sanitaria. L'espressione è in sé già curiosa nel suo proporsi come esempio raro di sineddoche inversa, dove cioè il tutto indica una parte. Se all'atto pratico vi si intende infatti prescrivere una piccola distanza fisica tra le persone per evitare la trasmissione di un un microbo, non è chiaro in che modo debbano perciò risultarne distanziati i rapporti di una società i cui membri già normalmente agiscono tra di loro da luoghi lontani e solo in casi particolari de visu.
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Crisi pandemica e passaggi di fase
di Raffaele Sciortino
“… alienati dalla natura, e quindi infelicissimi”
Leopardi, Zibaldone
"Non le cose turbano gli uomini ma i giudizi che gli uomini formulano sulle cose"
Epitteto, Manuale
Probabilmente solo questo autunno-inverno, a fronte di una nuova ondata pandemica o del suo affievolirsi, si capirà qualcosa in più sulla natura del covid dal punto di vista “medico-scientifico” (terreno spinosissimo questo del rapporto non lineare tra tecnoscienza, potere, capitale, informazione…). Ciò non toglie che, anche dovesse sperabilmente confermarsi la relativamente bassa letalità del virus sull’insieme delle popolazioni, il suo impatto è un fenomeno sociale di primaria grandezza legato al quadro di insicurezza strutturale dell’esistenza dentro il capitalismo globale, di cui le percezioni soggettive di paura, come sull’altro versante di scetticismo o negazione, sono manifestazione oggettiva. La pandemia - crisi sociale non solo globale ma simultanea - si sta rivelando infatti un notevole acceleratore delle particelle già discretamente impazzite del capitalismo a più di dieci anni dallo scoppio della crisi globale. Al tempo stesso è un potente rivelatore delle patologie del capitalismo all’altezza della sussunzione reale e un catalizzatore di reazioni sociali profonde. Reazioni che manifestano all’oggi tendenze contraddittorie compresenti che in parte si scontrano, in parte si intrecciano, con esiti politici indeterminati. Qui di seguito, per punti, alcune valutazioni in corso d’opera e qualche ipotesi interpretativa.
§ 1. Doppia crisi: deglobalizzazione o crisi della globalizzazione? Usa/Cina; cambio di passo UE; keynesismi selettivi
Ad un’analisi impressionistica il coronavirus può apparire uno shock esogeno: in realtà, non solo il sistema economico globale era a inizio 2020 già sotto notevole stress, ma l’intreccio tra crisi economico-finanziaria e sconvolgimenti in senso lato ambientali andrebbe oramai considerato a pieno titolo un fattore endogeno.
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Il grado zero della politica
di Geminello Preterossi
Lo Stato-nazione è il luogo dove nasce la democrazia rappresentativa moderna (con molte contraddizioni e grazie a dure lotte per rendere effettiva l’uguaglianza). Se si tiene alla democrazia e al primato degli interessi collettivi su quelli privati, è necessario tener ferma la centralità dell’organizzazione statuale della politica e del principio costituzionale della rappresentanza, intesa innanzitutto come rappresentatività delle istituzioni democratiche. Senza Stato e sovranità democratico-rappresentativa, prevalgono i poteri indiretti dell’economia. Così che lo stesso costituzionalismo novecentesco deperisce, svuotandosi di fatto il suo nucleo più innovativo ed emancipante: i diritti sociali come precondizione dell’inclusione delle masse nella cittadinanza e della stessa partecipazione popolare alla determinazione dell’indirizzo politico.
Bisogna quindi stare molto attenti a liquidare la rappresentanza. E’ del tutto evidente che i parlamenti hanno perso centralità, e che il circuito della rappresentanza è più o meno in crisi in tutto l’Occidente. Ma innanzitutto bisognerebbe chiedersi perché, producendo un’analisi meno superficiale della polemica contro la Casta. Non sarà forse perché la definizione dell’agenda è largamente sottratta ai parlamenti e le decisioni sono prese nel circuito esecutivi-lobbies-tecnocrazia? Ad esempio, in Italia oggi la dialettica non è più tra governo e parlamento, ma tra governo e UE. In generale, gli interlocutori degli esecutivi sono le tecnocrazie finanziarie globali. Ciò è compatibile con la democrazia? E fino a dove potrà spingersi il processo di delegittimazione strisciante delle istituzioni politiche che ne deriva? Piuttosto che stracciarsi le vesti di fonte al “popolo” recalcitrante che non capisce le mirabolanti ricette dei riformisti delle controriforme, o credere ingenuamente che sia tutto un problema di buone intenzioni, sarebbe il caso di scendere in profondità, di sforzarsi di elaborare un’analisi un po’ più strutturale.
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Chi ha sbagliato le strategie antivirus
di Antonio Lettieri
Le diverse risposte politiche nella lotta contro le conseguenze economiche della pandemia. I casi della Cina, del Giappone e degli Stati Uniti. Le decisioni europee e il discutibile approccio in Italia e Spagna
La pandemia generata dal coronavirus ha messo in crisi paesi sparsi in tutto il pianeta. L’allarme suscitato non può stupire. Si sono verificate altre epidemie nel corso dell’ultimo secolo, ma in generale hanno avuto un impatto geograficamente limitato. La pandemia del nuovo coronavirus ha secondo gli esperti un solo devastante precedente nella crisi che colpì l’intero pianeta con l’infezione che fu definita “Spagnola” benché non fosse originata in Spagna ma negli stati Uniti. Si trattò in ogni caso di un'immane tragedia. L’epidemia causò fra cinquanta e cento milioni di morti in un tempo i cui gli abitanti del pianeta erano intorno a due miliardi, circa un quarto degli attuali.
Il confronto ci aiuta a realizzare il rischio che comporta una pandemia che si estende a livello globale senza che si sia in grado di conoscere con precisione la natura del virus e il modo di eradicarlo. Tuttavia, le speranze di averne ragione non mancano. In Russia e in Cina si proclama l’individuazione di un vaccino già in corso di sperimentazione con risultati promettenti. Altri vaccini si annunciano sulla base delle ricerche in corso in Europa e Stati Uniti.
Cina e Stati Uniti
Quale che sia l’auspicabile futuro di un vaccino efficace, il coronavirus ha già provocato conseguenze economiche, sociali e umane disastrose. I governi hanno messo in atto interventi poderosi, sia pure con esiti finora diversi. Il caso della Cina, la prima essere colpita, è significativo. Sia pure accusata di aver colpevolmente rivelato in ritardo la natura del virus all’origine della pandemia, la Cina ha mostrato una capacità d’intervento che per l’intensità e la rapidità, ha consentito di fermare in meno di tre mesi la pandemia a Wuhan, nella provincia di Hubei dove per prima è comparsa provocando la perdita di circa 5000 vite umane.
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La banda unica in Italia: come si espropria un bene comune
di Andrea Fumagalli
Ha trovato una scarsa eco sui media l’accordo tra Tim e Cassa Depositi Prestiti (Cdp) per la creazione di un’unica società che gestisca la banda larga in Italia, ovvero l’acceso a Internet[1]. La notizia è circolata solo il giorno (27 agosto 2020) in cui il governo ha dato parere positivo e il via libera alla creazione di una newco che avrà il controllo della rete unica. Il 1° settembre 2020 i CdA di Tim e di Cdp hanno contemporaneamente approvato il piano e siglato una lettera di intenti per arrivare a primavera 2021 alla creazione della nuova società, che si chiamerà AccessCo.
Per raggiungere tale scopo, Tim farà affidamento a FiberCop (la società che cura l’ultimo miglio della rete, quello dagli armadietti in strada alle case), a cui sarà conferita la rete secondaria di Tim sulla base di un valore d’impresa di circa 7,7 miliardi di euro (per un valore azionario minore, pari a 4,7 miliardi di euro: il che fa presagire un aumento futuro del valore delle azioni per la gioia degli azionisti).
In FiberCop entra anche il fondo d’investimento privato americano Kkr con il 37,5% (1,8 miliardi) e Fastweb che acquisisce il 4,5%. Ne consegue che Tim deterrà il 58% della nuova società.
Secondo fonti informate, si prevede che FiberCop avrà un profitto lordo (Ebidta) di circa 0,9 miliardi (pari al 19% del valore azionario, livello assai alto) con un cash-flow positivo a partire dal 2025 e non richiederà quindi iniezioni di capitale da parte degli azionisti.
Solo successivamente alla creazione della nuova FiberCop, entra in gioco l’accordo tra Cdp e Tim per la messa in opera della rete unica, non oltre il primo trimestre 2021.
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Il lavoro. Quale, fatto da chi, per chi e per che cosa
di Dino Greco
Editoriale del n. 2 2020 della rivista Su la testa
Il capitalismo sta morendo”, recitava l’ottimistico refrain di una scolastica marxista conquistata alla credenza di un prossimo, necessario tramonto del sistema imperniato su rapporti capitalistici di produzione. La stupefacente capacità del vecchio mondo di risorgere dopo ogni crisi si è incaricata di dimostrare l’infondatezza di meccanicistiche profezie “crolliste” e il capitalismo, nella sua vocazione polimorfa, ha saputo di volta in volta mettere in atto misure antagonistiche che lo hanno reso capace di sopravvivere alle crisi più acute da cui è stato attraversato. Del resto, mai Marx aveva autorizzato l’illusione di un epilogo evoluzionistico verso il socialismo dei rapporti sociali, avendo non a caso dedicato l’intera sua vita all’organizzazione del partito comunista. E da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci fu subito chiaro che il capitalismo non se ne sarebbe andato da solo.
Colonialismo, imperialismo, inaudita concentrazione del potere, globalizzazione, iperfinanziarizzazione dell’economia, misure non convenzionali di politica monetaria, innovazione tecnologica, organizzazione del lavoro, sino al ricorso allo sfruttamento umano spinto a limiti estremi e – non ultima ratio – il ricorso alla guerra, sono lì a dimostrare che la piovra ha saputo trovare e trova in se stessa mille risorse ed artifizi per riprodursi.
La crisi sistemica del capitale
Cionondimeno, il sistema retto sul rapporto di capitale è entrato in una crisi sistemica, andando progressivamente a sbattere contro quello che Marx definì un suo limite “interno”, un limite che rende via via decrescente la remunerazione del capitale in rapporto all’investimento fisso. Comunque la si pensi a questo riguardo, è un fatto difficilmente contestabile che la crescita rallenta da decenni in tutto l’Occidente sviluppato e che lo stesso vale per il saggio di profitto, ovunque in tendenziale diminuzione.
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E.Bertinato - F. Mazzoli: Aquiloni nella tempesta
Autori Vari: Sul compagno Stalin

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A cura di Aldo Zanchetta: Speranza
Tutti i colori del rosso
Michele Castaldo: Occhi di ghiaccio

Qui la premessa e l'indice del volume
A cura di Daniela Danna: Il nuovo volto del patriarcato

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Luca Busca: La scienza negata

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Salvatore Bravo: La contraddizione come problema e la filosofia in Mao Tse-tung

Daniela Danna: Covidismo
Alessandra Ciattini: Sul filo rosso del tempo
Davide Miccione: Quando abbiamo smesso di pensare

Franco Romanò, Paolo Di Marco: La dissoluzione dell'economia politica

Qui una anteprima del libro
Giorgio Monestarolo:Ucraina, Europa, mond
Moreno Biagioni: Se vuoi la pace prepara la pace
Andrea Cozzo: La logica della guerra nella Grecia antica

Qui una recensione di Giovanni Di Benedetto
















































