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Pensare il 68
di Pier Paolo Poggio
Pensare il 68 a cinquant'anni di anni di distanza presuppone la messa a fuoco di alcune considerazioni preliminari sul 68 come oggetto storico. Le elenco in ordine sparso: esiste una storiografia sul 68 ? E se sì con quali caratteristiche, a livello nazionale-italiano, ovvero internazionale, o locale. Quali che siano le risposte un primo tema parrebbe essere il bilancio della storiografia sul 68; il che però si collega subito a uno dei topos più ricorrenti: quanto è durato il 68, quando iniziato e quando finito? Cosa che rimanda alle diverse partizioni spaziali di cui sopra, tenendo presente che una delle interpretazioni che vanno (andavano ?) per la maggiore sostiene che il 68 è il primo evento storico globale ( rischiando di dimenticare la Seconda guerra mondiale e l'inaugurazione dell'era atomica).
Una volta stabilito che il 68 c'è stato, quale che ne fosse la consistenza, l'importanza, l'estensione, le cause e le conseguenze, bisogna individuare quali sono stati gli attori del 68. Qui ci sono state forse più analisi sociologiche che storiche, in ogni caso è uno dei terreni cruciali, anche perché è un tema, a suo tempo, fortemente influenzato dalle ideologie degli attori in campo. In ogni caso mi sembra ineludibile inserirlo nel progetto di pensare il 68, individuando l'esistenza (o meno) di tale tipo di indagine e per quali aree e contesti.
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Moriremo ordoliberisti?
di Mauro Poggi
Le Monde Diplomatique pubblica un buon articolo sull’ordoliberismo, l’ideologia socioeconomica neoliberista di matrice teutonica che sta alla base del sistema europeo e ne conforma tutta la logica. È un articolo piuttosto lungo, anche a volerlo riassumere come ho cercato di fare. Nonostante ciò, è una lettura che raccomando: conoscere quali sono i postulati in base a cui ci vengono imposte oggi le politiche che riguardano il nostro quotidiano può essere un buon tonico per rinvigorire il nostro spirito critico, infiacchito dalla lunga crisi che quelle stesse politiche hanno prodotto.
Inoltre, è sempre utile constatare che i sostenitori del pensiero unico, quelli che rimproverano agli irriducibili del primato della politica di voler risolvere i problemi di oggi con strumenti culturali vecchi di mezzo secolo, alla fin fine propongono soluzioni basate su teorie nate novant’anni fa.
“Se c’era ancora bisogno della prova del pericolo che i referenda rappresentano per il funzionamento delle democrazie moderne, eccola“. (Der Spiegel, il 6 luglio 2015, commentando la vittoria dell’OXI al referendum greco).
Questa reazione esprime il contrasto fra due concezioni di governo: la prima, propriamente politica, per cui il suffragio popolare dovrebbe prevalere sulle regole contabili e il potere eletto dovrebbe poter scegliere di cambiare le regole se è questo che il popolo gli chiede; la seconda, tecnico-burocratica, che al contrario subordina l’azione di governo e la volontà popolare alla stretta osservanza di un ordine.
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"I misteri della sinistra" di Michéa
di Alessandro Visalli
Jean-Claude Michéa, “I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto”
Il piccolo libro del filosofo francese Jean-Claude Michéa è di quelli che disturbano le nostre abitudini e ci costringono a riconsiderare il nostro modo di vedere il mondo. La tesi è chiara e semplice: il movimento socialista non è, e non è mai stato “di sinistra”.
Prima di spiegare a cosa si riferisca Michéa in particolare consideriamo un poco di quadro: con alcune letture, come l’ultima, di Honneth che riflette sulla crisi dell’idea di “socialismo” nella sua evoluzione storica, arrivando a proporne una integrale riscrittura in direzione più comunitaria, o di Richard Sennett, in “Insieme”, che pone il tema della socialità e dell’esistenza di “due sinistre” nello sviluppo del movimento del socialismo, o, ancora, di Leonardo Paggi e Massimo d’Angelillo, che su un piano più storico e più limitato tematicamente e geograficamente si interrogano sulle ragioni della crisi dell’ideale socialista nel caso italiano, e con il largo quadro interpretativo fornito da Karl Polanyi, per restare solo ad alcuni nodi di discorso recentemente mobilitati, abbiamo cercato di avviare una riflessione sulla questione del senso del movimento socialista in una chiave prevalentemente di riflessione retrospettiva. Ci sono alcune letture di cui nell’immediato sarà dato conto e confluiscono in questo campo problematico, sono: il libro di Barba e Pivetti, “La scomparsa della sinistra in Europa”, un aggressivo atto di accusa al repentino piegarsi alle ragioni ed alla forza del liberismo da parte dei movimenti socialdemocratici europei e delle loro cause; il libro-testamento di Bruno Trentin, “La città del lavoro”, in cui con toni anche autocritici vengono ripercorsi alcuni scivolamenti nella fase che va dagli anni settanta ai novanta in Italia e riletti in questo senso anche classici come Antonio Gramsci, rintracciandone insufficienze e debolezze di analisi; la proposta pragmatista di Richard Rorty, in “Una sinistra per il prossimo secolo”, che pur datato come si vede bene dal titolo, conserva degli spunti di riflessione.
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«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»
Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi
di Domenico Losurdo
«Una delle qualità fondamentali dei
bolscevichi […], uno dei punti
fondamentali della nostra strategia
rivoluzionaria è la capacità di
comprendere ad ogni istante quale è
il nemico principale e di saper
concentrare tutte le forze contro questo
nemico».
(Rapporto al VII Congresso
dell’Internazionale Comunista)
1. Democrazia e pace?
Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).
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Trump e le parole dimenticate dalla sinistra
Antonio Lettieri
Il carattere demagogico della campagna elettorale di Donald Trump ha scandalizzato la stampa americana ed europea. Ma l'accusa di populismo è un alibi tendente a mascherare la crisi sociale e politica dei regimi democratici
1. Forse il 2016 sarà ricordato come l'anno in cui ha trionfato il populismo su entrambe le sponde dell'Atlantico, negli Stati Uniti, con l'elezione di Donald Trump e in Gran Bretagna con la Brexit. E il 2017 potrebbe essere l'anno in cui, varcando la Manica, il populismo approderà sulle coste del continente, approfittando dei prossimi appuntamenti elettorali nei Paesi Bassi, in Francia, Germania e, probabilmente, in Italia.
Il populismo è sempre più utilizzato come una chiave universale per interpretare la crisi delle democrazie occidentali. Non a caso, la vittoria di Donald Trump in America e la Brexit sono spiegate come una deriva populista dei rispettivi regimi democratici. La stessa chiave è utilizzata per spiegare l'avanzata del Fronte Nazionale di Marine Le Pen in Francia, di Podemos in Spagna o del Movimento Cinque Stelle in Italia. In realtà, l’alibi del populismo maschera problemi più profondi che riguardano aspetti della crisi che attraversa le democrazie occidentali. Rivediamo brevemente il sorprendente successo di Trump.
Il discorso d’insediamento di Donald Trump può essere considerato una sintesi del suo approccio demagogico ai problemi degli Stati Uniti e del mondo. Il tono non è stato diverso da quello utilizzato durante la campagna elettorale. Più che rivolgersi al Congresso, il suo discorso era indirizzato a quelli che considera normali cittadini americani."Washington - ha detto - è rifiorita, ma la gente non ha condiviso la sua ricchezza". Una dichiarazione che, in effetti, avrebbe potuto fare qualsiasi nuovo presidente, repubblicano o democratico, senza suscitare sorpresa.
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Axel Honneth, “Reificazione”
di Alessandro Visalli
Un libro del filosofo tedesco, erede della Scuola di Francoforte, Axel Honneth di cui abbiamo fino ad ora letto “Il diritto della libertà” e “L’idea di socialismo”, analizza il concetto di “reificazione” come proposto da Lukacs nel 1923 nella raccolta “Storia e coscienza di classe”. E’ esattamente lo stesso anno in cui Marcel Mauss in Francia pubblica il suo “Saggio sul dono”. Tra le opere, che non hanno apparenti punti di contatto sembra esserci un filo.
Nell’area tedesca il tema della “reificazione” (concetto alquanto sfuggente, come vedremo) era in quegli anni al centro della scena. Il tema emergeva dall’osservazione della reazione che relazioni sociali contraddistinte da un tono freddo e calcolatore suscitavano in un paese sconvolto da disoccupazione e crisi economiche. Le vignette dell’epoca mostrano imprenditori senza scrupoli e banchieri con cappello a tuba e monocolo che spremono cittadini ignari.
Nel 1923 la grande guerra è finita da pochi anni e la Germania è nel pieno del caos, dall’ottobre 1918 al 1919 si sussegue una guerra civile a bassa intensità nella quale trovano la morte Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, il governo andò ai socialdemocratici moderati di Ebert che vinsero le elezioni del 19 gennaio 1919, formando la Repubblica di Weimar.
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Idiozie euriste
di Leonardo Mazzei
Leonardo Mazzei risponde punto per punto agli argomenti di Luciano Fontana e Riccardo Sorrentino
Siccome i nodi stanno venendo al pettine, i propagandisti del fronte eurista hanno solo due opzioni: o arrendersi, o rilanciare ad un volume ancora più alto le balle di sempre. Inutile dire che scelgono sistematicamente la seconda strada, che altro non sanno fare. Il che ha l'effetto secondario di costringerci, ogni tanto, a dirgliene quattro.
Prendiamo qui in esame due esempi assai significativi. Il primo è quello della risposta ad una lettera («Tutti felici senza euro? Non raccontiamoci bugie») del direttore del Corsera, Luciano Fontana. Il secondo è un articolo di Riccardo Sorrentino sul Sole 24 Ore («E' l'euro il problema? Cinque miti dei "no-euro" da sfatare»).
Iniziamo dal Fontana, che parte da una premessa il cui acume è pari solo all'originalità. Secondo questo fenomeno della natura chiunque critichi a vario titolo l'euro «prende come bersaglio un nemico esterno per sfuggire alle proprie responsabilità». Oh bella! Mai che quelli come il Fontana parlino invece delle loro responsabilità, quelle di aver condotto il Paese nelle condizioni in cui si trova. Tema che, chissà perché, per questa bella gente non è mai quello principale.
Dopo una siffatta premessa, e dopo aver detto di striscio, quasi si trattasse di un dettaglio, che «L'Unione va rifondata» (ma come ovviamente non si sa), il direttore passa ad elencarci le meraviglie dell'euro: tassi di interesse stabili, mutui vantaggiosi, accesso al mercato unico, facilità dei pagamenti e dei viaggi.
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Appunti politici (4): “Comunismo” di F. Fortini
di Ennio Abate
Commento a "Comunismo" di Franco Fortini(6° punto), articolo apparso su “Cuore”, supplemento de “L’Unità”, 16 gennaio 1989):
Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.
Il «comunismo in cammino»? È chiaro o no che il comunismo non c’è, non è percepibile e descrivibile come un *oggetto*?
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E' tempo che i marxisti ricomincino a pensare
di Gianfranco La Grassa
1. Nella Prefazione al Capitale, in un passo già da me citato, Marx ricorda che egli “tratta delle persone soltanto in quanto sono la personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti”. Gli uomini concreti, in tutta la loro complessità, sono dunque lasciati da parte onde considerarli solo quali maschere di rapporti sociali. Questo il punto di vista fondamentale. I rapporti sociali d’insieme che si stabiliscono tra gli individui sono certamente assai ricchi di sfaccettature, di sfumature, di angolazioni molteplici. E, per quanto considerati nella loro più ampia multilateralità, mai esauriranno la complessità indefinita della “realtà” sociale. I rapporti sociali di produzione, fulcro del concetto di modo di produzione, sono però assai più semplici: nel capitalismo, e secondo Marx, essi riguardano essenzialmente gli individui in quanto portatori delle funzioni concernenti la proprietà dei mezzi di produzione e la prestazione di forza lavoro venduta come merce. E’ come se la “realtà” fosse strutturata secondo una serie di livelli dei rapporti sociali: il livello della trama, a maglie molto larghe, che “regge” tuttavia diversi livelli di ordito a maglie via via più strette. Il modo di produzione, il concetto centrale della scienza marxiana, si interessa del primo, del livello della trama.
Gli uomini che entrano fra loro in relazione nei rapporti di produzione non sono quelli dotati di tutte le loro prerogative di individui umani. Questi ultimi non sono necessariamente a una dimensione, alienati, puramente schiavi di una società dello spettacolo, e tutta una serie di altre considerazioni unilaterali elaborate da “filosofi” sociali che sinceramente mi appaiono lontane dalla “realtà”.
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L'Italia hub del gas
Una scelta disastrosa di politica energetica
di Enrico Duranti
Strategia energetica nazionale e Sblocca Italia
Le opere energetiche sono state una delle priorità degli ultimi governi italiani, secondo i quali esse ricoprono un ruolo prioritario e strategico per il Paese. L’esecutivo Monti ha elaborato la Strategia energetica nazionale (Sen), mentre Renzi ha continuato il lavoro approvando il cosiddetto Sblocca Italia. Due leggi basate su un’eventuale riforma del titolo V della Costituzione, tentativo fallito per la sconfitta registrata al referendum costituzionale di dicembre.
Se da una lato la Strategia energetica nazionale punta al rilancio degli stoccaggi di metano e della rigassificazione, lo Sblocca Italia rende le opere per l’approvvigionamento e il trasporto del gas di carattere strategico e prioritario. All’art. 37 di quest’ultimo si legge: “Al fine di aumentare la sicurezza delle forniture di gas al sistema italiano ed europeo del gas naturale, anche in considerazione delle situazioni di crisi internazionali esistenti, i gasdotti di importazione di gas dall’estero, i terminali di rigassificazione di GNL (Gas Naturale Liquefatto, n.d.a.), gli stoccaggi di gas naturale e le infrastrutture della rete nazionale di trasporto del gas naturale, incluse le operazioni preparatorie necessarie alla redazione dei progetti e le relative opere connesse, rivestono carattere di interesse strategico e costituiscono una priorità a carattere nazionale e sono di pubblica utilità, nonché indifferibili e urgenti”.
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Stupido è chi povero è
Disuguaglianze cognitive, una minaccia per la democrazia?
di Jan Mazza
Il tema delle disuguaglianze è tornato prepotentemente di attualità nel dibattito politico ed economico, dopo decenni di prolungato torpore. La rivoluzione monetarista anglo-sassone dei primi anni Ottanta, via di fuga economica e ideale per un Primo Mondo preda di sempre maggiori rivendicazioni politiche e salariali delle classi lavoratrici e dell’esaurimento della spinta propulsiva keynesiana, è stato un vero e proprio cambio di paradigma (Hall 1993), maggiore responsabile di questa rimozione collettiva. Non l’unico: il crollo dell’impero sovietico e la conseguente diaspora ideale di partiti comunisti e socialisti, il contagioso innesto di democrazie liberali ed economie di mercato su una sempre più ampia parte di mondo, l’illusione di una Terza Via capace di conciliare gli interessi di capitale e lavoro su una piattaforma progressista. Passaggi cruciali, non sul viale del tramonto della storia come a molti è piaciuto pensare, bensì verso un tornante oscuro di cui oggi appena si intravedono le forme.
La fine del primo decennio del Duemila ha coinciso con l’implosione del capitalismo finanziario statunitense, ergo mondiale, a suggellare la fine di quella Great Moderation equivalente economico della fine della storia. Il tema delle disuguaglianze è quindi tornato, improvvisamente, in auge: non più indispensabile corollario di un sistema capace, nel medio periodo, di beneficiare tutti come la famosa marea che solleva sia zattere che velieri; ma attributo intrinseco di un modello di produzione e distribuzione basato su iniquità non (solo) legate a differenze di valore aggiunto né destinate a livellarsi nel corso del tempo.
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Repubblica Italiana e ideologia del vincolo esterno
di Agenor
L’idea di risolvere i conflitti interni di un paese ricorrendo ad aiuti esterni è tipica dei paesi in via di sviluppo, o di quelli di recente costruzione, o comunque poco coesi. Non è chiaro quanto questo metodo sia davvero utile allo sviluppo dei paesi, tuttavia con il progresso economico e sociale le caratteristiche che li rendono fragili tendono gradualmente ad attenuarsi di pari passo con il rafforzamento delle istituzioni democratiche e della struttura produttiva. L’Italia è una nazione relativamente giovane, unita 150 anni fa quando ancora però c’erano da “fare gli italiani”. Passata attraverso due guerre mondiali, prende forma come Repubblica solo 70 anni fa. L’Italia repubblicana ha sempre conosciuto una qualche forma di vincolo esterno, a cominciare da una fase iniziale di relativa prosperità, guidata dalla ricostruzione post bellica sostenuta dagli Stati Uniti. Con la fine del sistema di Bretton Woods, l’Italia cerca di ritrovare un aggancio esterno, prima con il sistema monetario europeo e poi – dopo il suo fallimento – con l’unione monetaria europea. Questi vincoli diventano sempre più stringenti, poiché la liberalizzazione dei movimenti di capitali, assieme alla rigidità del cambio, alla perdita della politica monetaria e ai limiti alla politica fiscale, limiteranno fortemente la capacità di condurre le politiche macroeconomiche a livello nazionale.
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L'Europa non è Leuropa (UE for dummies)
di Luca Fantuzzi
Anche se spesso i nostri giornalisti - oltre che piddini vari, preda di auto-razzismo patologico - fanno finta di ignorarlo, l'Unione Europea non è l'Europa (dalla quale, in quanto mera espressione geografica, non usciremo mai fino a quando non lo vorrà la deriva dei continenti) bensì Leuropa. Imperfetta quanto si vuole - dal momento che la vera Leuropa è sempre Laltra, che non esiste - ma (secondo i sullodati scienziati) comunque un successo.
Ma cos'è, davvero, Leuropa? Perché lasciarla porterebbe a crisi economiche e corse agli sportelli (fenomeni notoriamente sconosciuti nei Paesi della Leuropa), piogge di sangue, invasioni di cavallette e, se del caso, morte prematura dei primogeniti, esattamente come sta accadendo nel Regno Unito della Brexit?
Leuropa (l'unica esistente) si basa su quattro pilastri (art. 26, c. 2, Tfue), il cui fine ultimo (non è la prosperità delle persone, o la coesione sociale, o la protezione dei deboli, o che so io, bensì) è la pura e semplice creazione di un mercato interno fortemente competitivo (artt. 101 e ss., Tfue).
(Certo, la creazione di un mercato interno può lasciare sul campo morti e feriti. La Commissione si può adoperare per ridurre un po' il dolore.
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Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista
Enzo Pellegrin
Si sente spesso parlare della "proletarizzazione del ceto medio" come fenomeno sociale dell'attuale epoca economica. Recentemente, sull'Espresso, discorrendo dei recenti tumulti romani di tassisti e ambulanti, l'editorialista Gilioli aveva modo di notare come
"con un po' di lucidità e lungimiranza oggi potremmo mettere da parte l'antipatia per capire come la campana ora suona per loro ma domani o dopo suonerà per tutti noi - anzi per molti ha già suonato.[…] i conducenti di auto bianche sono obsoleti, è evidente. Oggi c'è Uber, c'è Enjoy, c'è Car2go, ci sono pure ZigZag e Scooterino, e tutte o quasi funzionano meglio, a minor prezzo. Tra un po' ci sarà pure l'auto che si guida da sola e buonanotte, il taxista finirà come il casellante, il linotipista, lo spazzacamini. […] Poi però accadrà che altre tecnologie - altre app, altri sensori, altri robot, altri outsourcing, altre intelligenze artificiali - renderanno altrettanto obsoleto quello che facciamo noi, cioè il nostro modo per portare a casa un reddito. Ci saranno soluzioni più soddisfacenti per i consumatori di quanto siamo noi, a un costo minore. Nessuno, fuori, ci rimpiangerà."
Viene spontanea una riflessione: il progresso tecnologico non ha un effetto neutro: dipende dalle mani e dai cervelli che lo possiedono.Non è la tecnologia che opprime ma il profitto capitalista Personalmente non vedo affatto negativamente un mondo in cui un certo tipo di lavoro divenga obsoleto e vi siano dei mezzi tecnici per evitarlo.
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Il sintomo di Lacan
di Federico Leoni
Jacques Lacan è di moda. Ha tutte le carte in regola, per esserlo. C’è il personaggio, il dandy drappeggiato di buffe camicie barocche, armato di uno strano sigaro attorcigliato e di una ricca serie di sentenze misteriose e fascinose. E c’è il suo insegnamento psicoanalitico, un discorso che nel giro di una pagina passa con nonchalance dalla drammatica dialettica servo-padrone all’algida eleganza dello strutturalismo, dagli enigmi esistenziali del desiderio all’improvviso balenare del misteriosissimo oggetto a piccolo. Infine c’è la materia bruta, incandescente, concretissima, intorno a cui ruotano il personaggio e l’insegnamento, cioè la vita di chiunque di noi, il suo percorso più o meno felice o infelice, di illusione in illusione, di scoperta in scoperta, di amore in amore. Quei concetti enigmatici e quelle manovre tortuose, di cui l’insegnamento di Lacan è intessuto, dovrebbero seguire nella loro tortuosità, illuminare nei loro anfratti più oscuri, accompagnare sperimentandone il segreto in fondo testardo e silenzioso, il tragitto di una vita. Ce n’è abbastanza, insomma, per essere di moda. E anche per resistere a ogni moda.
Per esempio, il libro che Alex Pagliardini dedica a Lacan, Il sintomo di Lacan. Dieci incontri con il reale (Galaad), è decisamente fuori moda. Il Lacan più noto è il Lacan che si riassume in una batteria di parole chiave ormai sulla bocca di tutti.
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Vogliamo cambiare tutto
M. Brighenti e P. Rudan intervistano Verónica Gago
Pubblichiamo sul nostro sito ‒ e in contemporanea su euronomade.info ‒ un’intervista a Verónica Gago, compagna Argentina impegnata nel percorso di NiUnaMenos e nell’organizzazione dello sciopero dell’8 marzo. Verónica pratica da tempo quella che in Italia chiamiamo «inchiesta militante», all’interno del Colectivo Situaciones e della casa editrice indipendente Tinta Limón. Nella sua militanza ha incrociato movimenti dei disoccupati, collettivi di migranti, esperienze femministe latinoamericane e molte situazioni di lotta con l’intento di tracciare le mappe complesse dell’economia popolare in Argentina e nella regione latinoamericana[1]. Proprio questo sguardo, che riconosce il ruolo fondamentale delle donne e del loro lavoro nel conferire vitalità all’economia popolare, offre una prospettiva privilegiata per osservare lo sciopero globale dell’8 marzo. Come sottolinea Verónica, è necessario ripensare radicalmente questa pratica politica al di là dei confini del lavoro produttivo mettendola in relazione – come sta avvenendo in tutta l’America Latina – con l’intera trama dei rapporti sociali e con le forme di violenza economica, sociale e ambientale che sono strutturalmente connesse a quella maschile sulle donne. La convocazione dello sciopero ha innescato ‒ in Argentina come in Italia ‒ una tensione con i grandi sindacati, che rivendicano un «monopolio» sul suo significato legittimo e le sue modalità di convocazione, ma anche al loro interno, perché una nuova generazione di donne e sindacaliste ha avanzato la pretesa di organizzare lo sciopero anche al di là dei vincoli imposti dalle loro organizzazioni.
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Riparte il movimento delle donne, internazionale e di massa
di redazione “Il cuneo rosso”
E’ davvero difficile sopravvalutare l’importanza della giornata mondiale di lotta dell’8 marzo 2017 proclamata dal movimento delle donne dell’Argentina e degli Stati Uniti e la sua evidente valenza internazionalista – specie in tempi come questi di crescenti intossicazioni nazionaliste di destra e di funesto nazionalismo di sinistra.
È altrettanto importante che questo magnifico appello a scioperare, manifestare, protestare, venga sull’onda di mobilitazioni di massa, talvolta molto imponenti, con centinaia di migliaia di manifestanti (non solo donne), avvenute nei mesi scorsi nel Nord e nel Sud America, in Polonia e in Sud Corea, in Irlanda, in Italia e altrove. I documenti che hanno promosso questo evento internazionale, inoltre, anche questo è notevole, hanno preso nettamente le distanze in modo polemico dal ‘femminismo delle donne in carriera’, in nome di un “femminismo del 99%” delle donne, che fa riferimento alle lavoratrici del mercato formale, alle donne che lavorano nella sfera della riproduzione sociale e della cura, alle donne disoccupate, alle donne precarie. E hanno annunciato un nuovo movimento femminista internazionale caratterizzato da “un’agenda inclusiva allo stesso tempo anti-razzista, anti-imperialista, anti-eterosessista, anti-liberista”.
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Io non ho paura - del robot
di Sebastiano Isaia
Tu non sei padrone tu non sei più re.
Tu non sei padrone tu non comandi più.
Prima eri tu a far girare il mondo, ora
invece è un pezzo di metallo.
Hai creduto nei libri della storia, hai
creduto che il progresso fosse questo.
Ma tu non sei padrone, tu non sei più re.
Tu non sei padrone, tu non comandi più.
A un anno dalla morte di Sergio Ricossa, «economista accademico, raffinato saggista, divulgatore appassionato», l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato «un profetico testo sull’automazione» scritto appunto da Ricossa nel 1987, il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Grazie, Robot. In effetti il brevissimo saggio, dedicato al rapporto tra l’automazione “spinta” (o “intelligente”) e l’esistenza umana è di un certo interessante, anche perché l’autore tocca, o sarebbe più corretto dire sfiora, diversi temi (di natura etica, prevalentemente) che personalmente frequento con una certa costanza – quanto ai risultati di questa ostinazione è meglio sorvolare. Un solo esempio:
«Senza il male, da intendere e da combattere, non c’è atto di genio e non c’è scelta morale. […] L’uomo moralmente meritevole non è l’uomo obbligato al bene: è il peccatore potenziale, che resiste alla tentazione. L’uomo può peccare e non deve peccare. Il suo errore può essere colpa, mentre non lo è per il robot».
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Maastricht: era tutto previsto
di Quarantotto
1. Questo video è ormai molto noto.
https://youtu.be/8TszG75t9p4
In esso Draghi spiega come deve funzionare, per necessità scientifico-economica e politica, l'eurozona. E parte direttamente dalla necessità degli "aggiustamenti", tra i paesi dell'eurozona. Spiega, nella seconda parte, delle divergenze di crescita e di inflazione tra i paesi che vi appartengono e di come ciò dia luogo a fenomeni di movimento di capitali che, dai paesi più competitivi e con tassi di inflazione più bassi, finanziano le importazioni da parte dei paesi meno competitivi.
Racconta, per implicito, come l'invariabilità del cambio favorisca tutto ciò, rendendo conveniente effettuare questo credito da parte dei sistemi bancari dei paesi più forti e di come, però, a un certo punto, le posizioni debitorie così create (sottintende dovute principalmente a credito privato da scambio commerciale e da affluenza di capitali attratti dai tassi di interesse più alti nei paesi a inflazione maggiore), divengano eccessive e quindi "rischiose" (anche perché ciò droga la crescita col capitale preso a prestito e genera ulteriore innalzamento dell'inflazione).
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La moneta fiscale del Terzo Reich
di Stefano Sylos Labini
Sylos Labini spiega come funzionava il MEFO, la moneta fiscale che permise al Terzo Reich di riguadagnare la sovranità monetaria dopo la depressione economica di Weimar (1921-1923) e Bruning (1930-32).
La tesi dell’economista è che questo meccanismo, i Certificati di Credito Fiscale potrebbe essere usato di nuovo per portare l’Italia e il paesi del Sud Europa fuori dalla stagnazione in cui versano a causa degli squilibri dell’euro, possibilmente prima che la xenofobia nazista si prenda una seconda opportunità. Tratto da IlSole24Ore.
Credo che ci sia un tema importante, che bisognerebbe portare all’attenzione dei tedeschi. Ogni anno c’è il giorno della memoria, in cui si ricordano le atrocità del nazismo, ma in realtà bisognerebbe riflettere su che cosa ha determinato l’ascesa del nazismo e perché poi il nazismo ha trovato un grande consenso nella popolazione ed è stato in grado di lanciarsi nella seconda guerra mondiale con una forza industriale e militare spaventosa.
E la risposta è semplice: il Trattato punitivo di Versailles, che umiliò la Germania e la politica economica di Hjalmar Schacht, che permise di migliorare le condizioni di vita dei tedeschi e di ricostruire un apparato militare-industriale potentissimo. Attraverso una politica di sovranità monetaria indipendente e un programma di lavori pubblici che garantiva la piena occupazione, in cinque anni il Terzo Reich riuscì a trasformare un’economia in bancarotta, gravata da rovinosi obblighi di risarcimento postbellico e dall’assenza di prospettive per il credito e gli investimenti stranieri, nell’economia più forte d’Europa.
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Psicopolitica, potere neoliberale oltre la coscienza
di Silvio De Martino
1. Il neoliberalismo e governo attraverso la libertà: un “controllo delle anime” senza resistenze?
Il paradosso dell’esperienza della libertà nella fase della storia umana caratterizzata dall’avvento della connessione globale, può essere presa in considerazione solamente compiendo un’analisi del potere. Psicopolitica di Byung-Chul Han[1], professore filosofo coreano presso l’Università di Berlino, è un libro che prova a gettare luce su svariati ambiti della contemporaneità neoliberale a partire da uno sguardo critico che vuole evidenziarne alcune sfaccettature e alcune forme in cui si incanalano le soggettività e il potere.
Psicopolitica è il titolo che prova a farsi interpretazione cogente della complessità entro cui oggi tutti ci troviamo collocati. Il tentativo di coniare questo termine si pone l’obiettivo di andare oltre l’oramai celebre concetto di biopolitica di Michel Foucault. Per l’autore coreano la biopolitica deve essere semplicemente intesa come “tecnica di governo della popolazione”, che utilizza forme di sapere che la intendono come un aggregato biologico umano, caratterizzato da tassi di natalità e strumenti propri della demografia, allo scopo di ottimizzare i corpi che è necessario disciplinare, poiché la loro attività deve essere modellata e gestita secondo degli schemi pensati e organizzati dall’esterno. Biopolitica è intesa come “sussunzione reale” dell’intera popolazione messa al lavoro a servizio della produzione, in un modello che si è realizzato pienamente nel quadro di produzione industriale fordista.
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Le cose dette, quelle non dette, quelle taciute e le parole vuote
di Elisabetta Teghil
“Oh che bel castello marcondiro ndiro ndello,
oh che bel castello marcondiro ndiro ndà”
“Il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndello,
il mio è ancora più bello marcondiro ndiro ndà”
”E noi lo ruberemo marcondiro ndiro ndello,
e noi lo ruberemo marcondiro ndiro ndà”
”E noi lo rifaremo marcondiro ndiro ndello,
e noi lo rifaremo marcondiro ndiro ndà”
Filastrocca
Nei documenti e negli appelli in vista dello sciopero delle donne chiamato per questo 8 marzo 2017 dalla socialdemocrazia femminile, vengono dette e sono state dette tante cose. Vengono dichiarate le condizioni lavorative ed economiche a cui sono sottoposte le donne, i salari ridotti in molti casi rispetto a quelli maschili, la licenziabilità, il ricatto della gravidanza, lo strumento infido del part-time, le molestie sessuali a svariatissimi livelli sul posto di lavoro e le vessazioni quotidiane, la subalternità e lo sfruttamento delle lavoratrici migranti…
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Lavoro e reddito: una questione di produzione!
di Marta Fana - Simone Fana
Di ritorno dalla California, Renzi si imbatte nella difesa del lavoro, come principio sui cui la Repubblica italiana si fonda, con questa argomentazione respinge l’idea del reddito di cittadinanza che al contrario del lavoro è, secondo lui, incostituzionale. Un atteggiamento che rasenta il paradosso, ma anche una non banale dose di approssimazione su argomenti chiave: il lavoro, il reddito, l’autodeterminazione individuale e collettiva, la libertà.
Paradossalmente Renzi parla di lavoro come diritto costituzionalmente garantito nonostante le riforme adottate dal suo governo in materia di lavoro e occupazione siano ben distanti dai principi fondamentali della Carta.
Il lavoro e la costituzione.
A partire dalle periferie del mercato del lavoro, quello gratuito, in appalto o a voucher in cui sono negati i diritti previsti dall’art 36 della Costituzione in base al quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
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Come abbiamo bloccato il SOPA
Against "Stop Online Piracy Act"
Aaron Swartz
Una battaglia per difendere internet, ma soprattutto una lotta per bloccare lo Stop Online Piracy Act, la controversa proposta di legge Usa per fermare la pirateria online. La cronaca è di Aaron Swartz, il corsaro della Rete morto suicida nel suo appartamento di Crown Heights, Brooklyn l'11 gennaio del 2013. Oggi più che mai serve ricordare questo hacktivist, perché non dobbiamo "mai farci illusioni: i nemici della libertà di usare la Rete non sono scomparsi. L'ira negli occhi di quei politici non è stata cancellata. Ci sono un sacco di persone potenti che vogliono reprimere Internet. E a essere onesti, non ce ne sono tante che hanno interesse a proteggerla da tutto ciò".
Di seguito pubblichiamo l’intervento alla conferenza F2C2012 (Freedom to Connect), del 22 Maggio 2012. Traduzione di Mauro Pili (Da “AARON SWARTZ (1986 – 2013) una vita per la cultura libera e la giustizia sociale”, progetto e coordinamento a cura di Bernardo Parrella e Andrea Zanni).
* * * *
Per me, tutto è iniziato con una telefonata. Era settembre, non dell’anno scorso, ma quello prima, settembre 2010. Ho ricevuto una telefonata dal mio amico Peter: «Aaron, c’è un disegno di legge incredibile al quale devi dare un’occhiata». «Cos’è?», ho chiesto.
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Tutti i conti dell'Italexit: nessuna catastrofe se l'Italia esce dall'euro
di Enrico Grazzini
Il sistema dell'euro si sta sgretolando e anche l'Italia è a un bivio. E' possibile che in Francia Marine Le Pen, presidente del Front National – il partito popolar-populista, xenofobo e post-fascista –, vinca le elezioni per la presidenza. Se il Front National vincesse, l'euro si sbriciolerebbe immediatamente. Che cosa accadrebbe allora all'Italia? Il ritorno alla lira potrebbe produrre certamente una nuova crisi ma, se ben gestita, la crisi non provocherebbe un disastro irreparabile. Anzi: l'uscita dall'euro e la ritrovata sovranità monetaria potrebbero finalmente consentire all'economia italiana di riprendere a correre.
Il break-up dell'euro provocherebbe il caos nel breve periodo. Tuttavia – a meno che non si adotti la moneta fiscale, che ho più volte proposto ma della quale in questo articolo accennerò solamente[1] – uscire dall'euro potrebbe essere l'unica maniera di ridare ossigeno all'economia italiana ed evitare il disastro di una depressione prolungata all'infinito. Il vero e proprio terrorismo sull'Italexit e sul break-up dell'euro da parte dei media e di una classe politica nazionale che sembra in gran parte venduta agli interessi stranieri, non ha alcuna valida motivazione.
Se l'euro cadesse, il quadro sarebbe assai complesso sul piano valutario, finanziario e geopolitico. Ma una recente ricerca su 12 Paesi europei – probabilmente la più approfondita e analitica che sia stata compiuta finora - dell'autorevole Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE), affiliato a Science Po, la prestigiosa Fondation nationale des sciences politiques, sulle conseguenze del break up dell'euro afferma che, in caso di Italexit, la crisi italiana potrebbe essere molto limitata e presto recuperabile[2].
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