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Dalla crisi dei Brics all’esplosione dell’euro: problemi e prospettive
Intervista a Christian Marazzi
Partiamo da quelle che possiamo definire le lotte nei Brics. Il primo elemento con cui ci dobbiamo confrontare è la situazione per certi versi rovesciata rispetto ad Europa e Nord America: in questo caso parliamo infatti di società non in recessione ma in crescita, dove più che di politiche di austerity è necessario parlare di promesse di progresso ed espansione, più che di assenza di futuro ci sono aspettative che aumentano esponenzialmente e vengono bloccate. E tuttavia, situazioni così differenziate producono movimenti con composizioni e pratiche simili. Forse, è proprio attraverso questo “ciclo” di lotte nella crisi che possiamo vedere i tratti comuni e l’eterogeneità della crisi globale. A partire da qui, come è possibile sviluppare il compito di quella che tu hai definito una nostra geopolitica?
Bisogna partire da una constatazione: all’interno di alcuni paesi emergenti si sono date in questi ultimi anni le situazioni di resistenza e di movimento più interessanti. Viene così invertito un vecchio principio del primo operaismo, secondo cui le lotte dovevano colpire l’anello più forte della divisione internazionale del lavoro e del capitalismo mondiale, in particolare nei suoi rapporti con il sottosviluppo, cioè dovevano colpire in Europa e negli Stati Uniti.
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Meade e Kalecky vs. Mundell e Hayek
Il "Bancor" €uro-reloaded
di Quarantotto
L'interessante dibattito, (molto teorico e molto "compassato", considerando la portata degli eventi che incombono sulla realtà socio-economica italiana), sulla via "keynesiana" all'euro-exit, concretizzatasi in una sorta di "euro-Bancor" sorretto da una "International Clearing Union" (che è poi sostanzialmente un soggetto bancario "speciale", molto speciale), evidenzia uno snodo cruciale.
E cioè: se una rinegoziazione multilaterale, - con paesi portatori di interessi divergenti e in posizioni di forza contrattuale differenziate-, così difficile come quella del Bancor "reloaded" debba essere intrapresa, non è più semplice negoziare con un "congruo" numero di paesi dagli interessi affini la reintroduzione dei cambi flessibili, rifacendosi al realismo di Meade?
Che una negoziazione, cioè un accordo internazionale, ci debba essere, al riguardo, è concordemente visto come la via più razionale per attenuare gli effetti dell'euro-break. E' pacifico che quest'ultimo sarebbe altamente problematico in caso di "disorderly exit": lo ha detto Bagnai nel "Tramonto dell'euro" e lo ribadisce Sergio Cesaratto in un suo recentissimo paper.
E, nonostante ciò, il recupero dei cambi flessibili rimane, in ogni sua versione, la prospettiva "migliorativa" di medio-lungo periodo con maggior certezza di esito, per il complesso dell'attuale euro-area.
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La giustizia sommaria dell’Occidente
di Angelo d’Orsi
I bambini, i bambini, i bambini… Finirà mai la ignobile speculazione sui bambini, vittime di guerra, per giustificare nuove guerre? Indimenticabile, nel 1999, la frase dell’allora ministro della Difesa, Piero Fassino: “Solo chi non ha guardato negli occhi un bambino kosovaro è contrario all’intervento militare”. E l’Italia intervenne, sulla base di una campagna di disinformazione, diplomatica, politica e giornalistica. E fu la guerra del Kosovo, o l’ultima guerra dei Balcani, dove la più grande coalizione militare mai vista nella storia (19 Stati) si scatenò contro quel che rimaneva della Repubblica Federale di Jugoslavia, che nella propaganda veniva chiamata (un po’ sprezzantemente) “la Serbia”, colpevole di essere l’ultimo Stato che orgogliosamente si dichiarava socialista nel cuore d’Europa; uno Stato grande come un paio di regioni italiane.
La “comunità internazionale” aveva stretto con un assedio diplomatico quello staterello, poi aveva imposto condizioni inaccettabili a Rambouillet (per poter accusare Milosevic di averle rifiutate), e ormai avendo la Nato (non il Patto Atlantico, ma la Nato, ossia la struttura militare dell’Alleanza), sostituito pienamente l’Onu, si procedé alla “punizione” dei Serbi, invocata a gran voce da alcuni autorevoli intellettuali: ricordo Barbara Spinelli, in Italia, e Daniel Goldhagen, sulla scena internazionale. E fu una classica guerra ineguale, asimmetrica, che oltre a distruggere l’economia serba, e le infrastrutture, fece diecimila morti, la gran parte civili, trattandosi di guerra esclusivamente aerea.
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Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa*
di Toni Negri
Contro il dominio del capitale finanziario, gestire democraticamente il governo del comune
Scusate se la prendo da lontano. Vorrei infatti chiedermi prima di tutto che cosa vuol dire “far politica oggi” e risalire poi al tema Europa. Far politica sul terreno dell’autonomia, vale a dire assumendo il punto di vista del soggetto sovversivo e di conseguenza analizzando le figure e i modi di agire del proletariato precario-cognitivo. Ritrovo infatti i bisogni e i desideri di questo soggetto come dispositivo centrale, virtualmente egemonico, nell’analisi dei movimenti della moltitudine dominata e sfruttata nella sua lotta contro l’ordine capitalista.
Ci sono due argomenti, meglio, due topoi che vanno assunti affrontando questo tema. Il primo è oggettivo, bisogna cioè chiedersi che cosa significa porsi dentro lo sviluppo capitalistico nella fase critica dell’egemonia neoliberale. Potremmo anche, probabilmente, cominciare ad interrogarci sui “limiti del capitalismo”, togliendo tuttavia di mezzo preventivamente ogni previsione catastrofica comunque questa si presenti ed ogni nostalgia di una tradizione attestata da troppo tempo su questa illusione. Il contesto capitalistico è oggi caratterizzato dal dominio del capitale finanziario che sta consolidando la sua azione dopo una lunga transizione, che risale almeno alla seconda metà degli anni ’70. L’abbiamo ampiamente seguita, questa evoluzione, e spesso anticipata nel nostro lavoro collettivo: vediamone dunque semplicemente le conclusioni. Il capitale finanziario è egemone, non lo si può più definire come facevano Marx e Hilferding, poiché esso si è fatto capitale direttamente produttivo: cerca oggi la sua stabilizzazione esercitando attività estrattive sia nei confronti della natura e delle sue ricchezze, sia nei confronti del biopolitico-sociale (cioè del welfare).
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Moneta "comune": punti oscuri, pro domo Galliarum...
di Quarantotto
Si diffonde sul web la discussione sulla posizione di Frédéric Lordon relativa alla "moneta comune" che dovrebbe sostituire la "moneta unica", chiaramente insostenibile e modellata su una prevalenza politica delle oligarchie finanziarie.
L'analisi compiuta, che include la considerazione del problema della sovranità e del suo legame con la realizzazione della democrazia in senso moderno, - problema che potremmo dire "centrale" nel discorso qui svolto - ha un interessante, quanto non del tutto convincente, punto critico in questo passaggio:
"L’equilibrio si ritrova se, invece di una moneta unica, si pensa a una moneta comune, ossia un euro dotato di rappresentanti nazionali: degli euro-franchi, delle euro-pesetas, ecc. Immaginiamo questo nuovo contesto in cui: le denominazioni nazionali dell’euro non sono direttamente convertibili verso l’esterno (in dollari, yuan, ecc.) né tra loro.
Tutte le convertibilità, esterne e interne, passano per una nuova Banca centrale europea che funge in qualche modo da ufficio cambi, ma e privata di ogni potere di politica monetaria. Quest’ultimo è restituito a delle banche centrali nazionali e saranno i governi a decidere se riprendere il controllo su di esse o meno.
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Denaro senza valore!
di Franco Senia
E' trascorso più di un anno da quel 18 luglio del 2012, quando, in seguito ad un errore medico, Robert Kurz è morto, all'età di 68 anni. Una morte prematura che ha interrotto un immenso lavoro durato più di 25 anni. Nato a Norimberga, dove ha trascorso tutta la sua vita, Kurz partecipò alla "rivolta degli studenti", al cosiddetto "1968", e alle discussioni che ne seguirono all'interno della "nuova sinistra". Dopo una brevissima adesione al marxismo-leninismo, e senza mai aderire ai "Verdi", nel 1987 fondò la rivista "Marxistische Kritik", ribattezzata dopo qualche anno "Krisis". La rilettura di Marx proposta da Kurz e dai suoi compagni (fra cui, Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle) non creò loro molti amici nella sinistra radicale, dal momento che ne attaccava, uno dopo l'altro tutti i dogmi, dalla "lotta di classe" al "lavoro", rimettendo in discussione gli stessi fondamenti della società capitalista: valore di mercato, lavoro astratto, denaro e merce, stato e nazione. Ne "Il collasso della modernizzazione", scritto nel 1991, afferma che, nel momento stesso del "trionfo occidentale", conseguente alla fine dell'Unione Sovietica, i giorni della società del mercato mondiale sono contati, e che la fine del "socialismo reale" è stata solamente una tappa.
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Giovanni Leghissa. Neoliberalismo
Enrico Manera
La crisi dell'economia mondiale potrebbe avere quantomeno la funzione di creare le condizioni di attenzione per un'analisi critica dell'aspetto dogmatico assunto dall'economia come la conosciamo. Essa è nella sua struttura logica e nei quadri mentali dei suoi attori alla radice dei problemi drammatici dell'Italia e più in generale dell'area geopolitica che si vuole modello di sviluppo universale.
Tra le ricerche recenti il libro di Leghissa, Neoliberalismo. Un'introduzione critica (Mimesis, 212) filosofo nell'ateneo torinese, è un'agile e densa disamina che chiarisce le idee sulla questione fornendo una preziosa sintesi operativa, avvicinando le orbite degli studi filosofici e di quelli economici e permettendo di recuperare bibliografia internazionale ignota ai non specialisti.
Neoliberalismo aggira, tenendola sulla sfondo, l'analisi marxiana del reale, spuntata nella misura in cui lo stesso marxismo si è configurato come verso di una medesima concezione economicista. Nella rappresentazione sociale un sogno del marxismo, sempre più confuso, è diventato aspetto di una «rivolta malinconica» – si lamenta una perdita senza sapere cosa si è perduto e perché – contro la condizione attuale. La via dell'argomentazione passa invece attraverso l'ontologia dell'attualità di Michel Foucault, il cui lavoro di critica del presente si presenta come chiarificazione di ciò che in prima istanza si presenta ovvio.
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Mercificazione, consumismo, desublimazione repressiva
Il viaggio di Woody Allen nella terra di Machiavelli, Leopardi e Gramsci
di Salvatore Cingari*
Fra le varie critiche mosse al film di Woody Allen ambientato a Roma, To Rome with love, c’è quella di non reggersi su un “nucleo centrale”. Parto da qui per cercare di sovvertire il giudizio maggioritario di critica e pubblico su questa che invece ritengo essere una delle opere più “impegnate” del regista di Manhattan. Il nucleo centrale è infatti l’incessante processo di mercificazione del mondo della vita, il progressivo dominio di una pratica consumistica e l’esito estremo della massificazione culturale rappresentato dalla logica del reality. Questi sono i motivi che tengono assieme i quattro episodi. Che l’Italia fosse il luogo storico in cui ambientare la deriva non è strano: essa, con il berlusconismo, è stata laboratorio delle dinamiche globali, così come, fra i grandi paesi dell’Occidente, ha espresso punte di massima resistenza, rideclinando con i movimenti popolari il “pensiero vivente” della sua tradizione civile (R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Torino, Einaudi, 2012). Il Bel paese – lo notavano del resto Leopardi e Gramsci (S.Cingari, Appunti per uno studio sulla storia dell’industrializzazione della cultura nell’ideologia italiana, in “Bollettino della Domus mazziniana”, Pisa, anno LIV, 2009, num.1-2, pp.191-202) – è caratterizzato da una particolare tendenza a restringere lo spazio pubblico in un perimetro “estetico-spettacolare”. Ciò fa si che se da un lato, quindi, essa può esprimere uno scarto massimo con la commercializzazione della vita, si trova su un crinale in cui massimo è anche il rischio dell’estetizzazione della politica e del dominio dell’economia attraverso lo spettacolo.
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Quel pasticciaccio brutto dell’euro
Sergio Cesaratto
« [...] Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. »
Introduzione1
In questo saggio illustreremo la spiegazione Classico-Kaleckiana della crisi dell’Eurozona, per domandarci successivamente se questa crisi sia effettivamente un effetto indesiderato o, invece, essa rappresenti il dispiegamento dei veri obiettivi della moneta unica. Esamineremo infine le possibili vie d’uscita, inclusa quella di un massiccio piano d’investimento europeo propugnato dal sindacato tedesco. Mentre quest’ultima soluzione ci appare come inadeguata, altre due – rispettivamente la più desiderabile via Keynesiana e la più densa di incognite rottura dell’euro – ci appaiono per ora non nell’ordine delle cose, a meno di un grave incidente politico-finanziario che conduca dritti al secondo esito. Al momento quella che è stata definita come la kossovizzazione della periferia europea sembra come la prospettiva più probabile. Se essa condurrà a un certo punto ad altri rivolgimenti è impossibile a dirsi ora.
1. Sovrappiù e domanda aggregata
Per comprendere il brutto pasticcio in cui il nostro paese si è cacciato può essere utile ripercorrere le origini e natura della crisi dell’unione monetaria europea (UME) (Cesaratto 2013a/b/c). Nel sviluppare il nostro ragionamento faremo alcuni riferimenti alla seconda edizione del volume di Yanis Varoufakis (2013), economista legato a Syriza, Il minotauro globale2.
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La sinistra e il tabù dell’uscita dall’euro
di Enrico Grazzini
Finalmente una testata autorevole per la sinistra europea come Le Monde Diplomatique ha pubblicato in prima pagina un lungo e argomentato articolo titolato “Uscire dall'euro? Contro un'austerità perpetua” . L'articolo rompe un tabù: finora “solo” gli economisti anglosassoni, qualche isolato economista europeo e italiano considerato originale e strambo , e qualche formazione estremista, soprattutto di destra, hanno osato parlare della possibilità di uscire dall'euro. Finalmente, grazie all'autorevolezza riconosciuta della testata francese (certamente non estremista), dovrebbe essere possibile avviare anche in Italia un dibattito critico e approfondito sull'euro e sull'Unione Europea, senza illusioni romantiche sul radioso avvenire dell'Europa, senza subalternità ideologiche e senza censure. Gran parte della sinistra italiana, sia quella tradizionale che quella cosiddetta radicale e alternativa, finora ha chiuso occhi, orecchie e bocca sulla moneta unica europea: ma la sinistra dovrebbe cominciare a ripensare radicalmente l'euro e riconoscere che l'Unione Europea ha cambiato natura genetica rispetto agli ideali originari .
La sinistra finora ha ignorato la drammaticità del problema della moneta unica. Ma non dovrebbe assolutamente lasciare alla destra fascisteggiante, reazionaria e sciovinista il monopolio della protesta sulla questione scottante dell'euro e della sovranità nazionale.
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Syrialeaks: come dare la colpa ad Assad
di Pino Cabras
Un titolo netto sul Daily Mail, un quotidiano da due milioni di copie in edicola e da tre milioni di utenti online al giorno: «Piano sostenuto dagli USA per lanciare un attacco con armi chimiche contro la Siria e dare la colpa al regime di Assad».
Il titolo in questione risale al 29 gennaio 2013. L'edizione online del Daily Mail ha pubblicato un'interessante storia - a firma di Louise Boyle - in grado di gettare la giusta luce investigativa sui tragici attacchi col gas verificatisi in Siria sette mesi dopo, ad agosto 2013.
Ogni tanto, la grande stampa riporta qualche fatto importante che suona totalmente diverso dal racconto di fondo, ma quando questo avviene è un fuoco di paglia che viene subito estinto.
Naturalmente, pochi giorni dopo la pubblicazione, l'articolo era già sparito dagli archivi online del giornale, ma per fortuna non è così facile fare sparire l'informazione da internet una volta che vi abbia fatto capolino. Pertanto siamo in grado di riproporvi l'articolo ed esporre qui i tratti salienti.
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Uscire dall’Euro, ma come?
di Frédéric Lordon
Questo articolo è apparso su “Le Monde Diplomatique” di agosto. Si tratta di un articolo dell’economista Frédéric Lordon. Ho voluto proporvelo in primo luogo perché il suo modo di ragionare è molto differente da certi economisti italiani. Non ci troverete le facili formulette e la strampalata Area Valutaria Ottimale (sulla quale vi rimando qui a Keynesblog), né l’idea che la “svalutazione competitiva” sia la bacchetta magica. Se amate questo genere di cose sapete dove andare. In secondo luogo perché tratta temi come la sovranità che so interesseranno alcuni. In terzo luogo perché le sue proposte di uscita dall’Euro hanno il merito di essere europeiste. In altri termini non viene buttata l’acqua sporca ed il bambino. In rete è apparsa una versione ridotta e mutilata che faceva pensare che l’autore dicesse delle cose differenti da quelle che, in realtà dice.Questa è la versione integrale (mancano solo le note). Come al solito vi avverto che è un pezzo molto lungo che necessità di pazienza e concentrazione. I passi grassettati sono miei. Buona lettura [Ars Longa].
Molti, specialmente a sinistra, continuano a credere che l’euro verrà modificato. Che passeremo dall’attuale euro dell’austerità a un euro finalmente rinnovato, progressista e sociale. Questo non succederà. Basta pensare all’assenza di qualsiasi leva politica nell’attuale immobilismo dell’unione monetaria europea per farsene una prima ragione.
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Marx, Wall Street e la lotta di classe
di Riccardo Cavallo
Da poco è apparsa l’ultima fatica di Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica [1] che, muovendosi controcorrente rispetto alla vulgata liberista imperante, si sofferma su uno dei nodi problematici più significativi dell’opus marx-engelsiano: la teoria della lotta di classe. Si tratta di un ulteriore tassello che va inserirsi nel ventennale percorso di ricerca del filosofo urbinate che, oltre a stilare un vero e proprio cahier de doléance sui misfatti dell’Occidente liberal-capitalista, intende intervenire nelle ferite ancora aperte della tradizione marxista mettendone in evidenza luci ed ombre
1. What would Marx Think? Questo interrogativo campeggia sulla copertina della versione europea del Time del febbraio 2009, cioè nel momento clou della crisi finanziaria che partita dall’esplosione del sistema dei mutui subprime originatasi negli Stati Uniti, stava per dilagare anche nel resto del mondo. Non è un caso allora che il prestigioso magazine decida di dedicare la propria cover story ad un possibile ritorno alle tesi marxiste nell’epoca di Wall Street. Così il celebre ritratto del filosofo di Treviri diviene immagine pop, dai pixel giallo-oro che scorre al posto dei valori dei titoli azionari sul rullo della Borsa cui si accompagnano altre frasi fluorescenti che rimandano alla necessità di elaborare nuove idee per uscire dalla crisi e allo spauracchio del ritorno della povertà. Tutto insomma lascia presagire che le tesi di Marx, prima fra tutte quella sulla lotta di classe, siano più che mai da riprendere in considerazione come utile strumento per evitare il baratro generato dalla voracità autodistruttiva dei mercati.
Malgrado le apparenze, nel suo articolo intitolato Rethinking Marx[2], l’editorialista Peter Gumbel è ben lungi dal voler inneggiare ad un ritorno del marxismo, cercando anzi di evidenziare come le idee di Marx, seppur profetiche e a tratti geniali, abbiano nella pratica miseramente fallito.
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L’attacco alla Siria serve a ricomporre alleanze andate in frantumi
di Sergio Cararo
A giudicare dall’operazione di mediamenzogne messa in campo sulla Siria, c’è da ritenere che ben presto assisteremo al consueto scenario di un intervento militare congiunto per “fini umanitari”. Ci sono degli ostacoli che potrebbero essere superati come avvenne per l’aggressione alla Serbia nel 1999 dopo una campagna mediatica molto simile sui profughi kosovari, le fosse comuni, le atrocità etc etc. L’Onu infatti potrebbe non essere utilizzabile per legittimare l’aggressione alla Siria viste le posizioni di Russia e Cina che vi si oppongono. Contro la Serbia si utilizzò unilateralmente la Nato anche senza il mandato dell’Onu ed anche in questa occasione la strada potrebbe essere simile.
Tre domande si pongono e richiedono risposte che ben presto dovranno diventare iniziativa e tema di confronto:
Perché questa accelerazione dell’escalation contro la Siria?
Sulla prima questione è evidente come ormai, dopo anni di interventi di destabilizzazione imperialista sistematica, il Medio Oriente stia saltando completamente e con esso stanno saltando anche i precedenti sistemi di alleanze.
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Euro e monete nazionali
The best of both worlds
Keynes Blog
Sebbene la crisi dei debiti sovrani nell’area euro non occupi più le prime pagine dei giornali grazie al “whatever it takes” di Mario Draghi, il dibattito economico sulla sostenibilità della moneta unica nel medio-lungo periodo per fortuna continua.
Il problema centrale di questa discussione, tuttavia, è l’estrema incertezza sui concreti effetti che una deflagrazione della zona euro potrebbe produrre. Studi in una direzione e nell’altra si accavallano e contraddicono a vicenda. Sugli effetti negativi – anzi disastrosi -dell’uscita dall’euro c’è un famoso studio dell’UBS del 2011 che calcola una caduta del PIL del 40-50% per i paesi deboli e del 20-25% per quelli forti. E’ uno studio a dir poco discutibile, ma altrettanto lo sono le tesi di chi sostiene che uscendo dall’euro non succederebbe nulla o quasi.
Il difetto di questi studi pro o contro è che, sebbene condotti da studiosi di economia internazionale, generalmente trattano l’argomento guardando esclusivamente ai singoli paesi, senza tenere conto o tendendo a porre sullo sfondo, in lontananza, gli effetti continentali e globali.
E’ infatti immaginabile che un crollo “disordinato” dell’euro possa portare a un nuovo credit crunch, come quello seguito al mancato salvataggio di Lehman Brothers. In un quadro in cui nessuna economia oggi è in salute (non l’Europa, non gli USA, non il Giappone e nemmeno più i paesi emergenti) nessuno può davvero azzardarsi a dire quali sarebbero gli effetti di breve e lungo periodo di una nuova crisi e pretendere di essere creduto da popoli e governi.
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Siria, la demonizzazione preventiva
scritto da Diego Fusaro
L’opera di demonizzazione preventiva è sempre la stessa. La si ritrova, ugualmente modulata, su tutti i quotidiani e in tutte le trasmissioni televisive, di destra come di sinistra. In quanto totalitario, il sistema della manipolazione organizzata e dell’industria culturale occupa integralmente la destra, il centro e la sinistra. Il messaggio dev’essere uno solo, indiscutibile.
Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, la Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della democrazia (la solita foglia di fico per occultare la natura imperialistica delle aggressioni statunitensi).
Alla demonizzazione preventiva come preambolo del “bombardamento etico” siamo abituati fin dall’inizio di questa “quarta guerra mondiale” (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008). Successiva ai due conflitti mondiali e alla “guerra fredda”, la presente guerra mondiale si è aperta nel 1989 ed è di ordine geopolitico e culturale: è condotta dalla “monarchia universale” – uso quest’espressione, che è di Kant, per etichettare la forza uscita vincitrice dalla guerra fredda – contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio.
Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2004, Libia 2011: queste le principali fasi della nuova guerra mondiale come folle progetto di sottomissione dell’intero pianeta alla potenza militare, culturale ed economica della monarchia universale.
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Un fallimento ben meritato?
di Claus Peter Ortlieb
Ai primi di Novembre del 2012, Der Spiegel ha rivelato l'esistenza di un rapporto "segreto" della BND, secondo il quale il piano di salvataggio previsto per le banche cipriote avrebbe giovato, in primo luogo, ai detentori di conti correnti sui quali era depositato denaro sporco russo. Oligarchi, imprenditori e mafiosi russi, avrebbero depositato circa ventisei miliardi di euro sui loro conti bancari a Cipro. Dopo aver accuratamente taciuto la questione, i media on-line si sono improvvisamente scatenati a parlare solo di questi ventisei miliardi di euro. Quanto, esattamente, di questi depositi bancari era stato acquisito attraverso mezzi criminali? Chiaramente, proprio a partire dalla natura di questo genere di denaro, non si può sapere. Per cui, tutto il contenuto informativo del rapporto della BND si può dunque riassumere in questa sola cifra: ventisei miliardi di euro sui dei conti russi, di origine indeterminata. Il resto non aveva alcuna importanza, il fine della manovra era stato raggiunto e si poteva scatenare un "dibattito sull'equità".
Lo stesso giorno della pubblicazione della notizia, il gruppo dell'SPD al Bundenstag dichiarava, per bocca del suo portavoce per la politica interna: "Prima che l'SPD dia il via libera al finanziamento degli aiuti per Cipro, bisogna parlare del modello economico di questo paese.
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Secondo alcune e alcuni..
di Elisabetta Teghil
Secondo alcuni/e la storia è finita. Questa è la migliore società possibile e l’ideologia e la lotta di classe avrebbero provocato solo disastri.
Pertanto l’unico orientamento nella vita, se mai ce ne fosse uno, sarebbe la democrazia rappresentativa e, per i laici, il pensiero scientifico di cui si tessono acriticamente le lodi.
Le radici della illibertà non sarebbero innestate nel sociale, nello sfruttamento, nella reificazione, come ci dice la lettura marxista della società, ma nel tentativo più o meno riuscito di uscire da questa società, magari di costruirne un’altra.
Quest’area racconta la crisi come crisi del marxismo e i più dogmatici sono come sempre gli spretati/e. Il loro cavallo di battaglia è la fine dell’ideologia, contribuendo così all’ideologia neoliberista. E, da neofiti di quest’ultima, sono i primi/e nel condannare il pensiero e l’esistenza dell’Altro.
Pretendono di annullare la possibilità di soggetti che non intendono piegarsi rassegnati al dominio della merce. Sono i teorici del disincanto.
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Un keynesismo forte fa respirare l'Argentina
Roberto Lampa e Alejandro Fiorito
Agitata a mo' di spauracchio dai sostenitori ad oltranza dell'austerità targata Unione europea o incensata come paradigma da imitare dal grillismo più radicale, l'Argentina occupa ormai uno spazio indiscusso nel dibattito politico italiano: «Faremo la fine dell'Argentina » o «Bisogna fare come l'Argentina » sono diventati così due aforismi, ricorrenti e perfino abusati, nella discussione sulla crisi economica in corso. Simili giudizi sono finora restati ad un livello d'analisi estremamente superficiale, scontando per di più l'utilizzo di lenti deformanti "primo-mondiste" con le quali sovente si tenta di osservare il complesso, e talvolta contraddittorio, continente latinoamericano, piegandolo alla stringente attualità nostrana. Tuttavia, una volta inquadrato nella sua specificità, il caso argentino può effettivamente contenere alcune indicazioni cruciali per il dibattito sullo stato (comatoso) dell'economia italiana ed europea.
Riteniamo utile partire dai freddi numeri. Tra il 2003 ed il 2011, il Pil argentino è cresciuto in media del 7,6% annuale; nel 2012 ha subito un rallentamento attestandosi al +1,9% (complice l'improvvisa crescita zero della "locomotiva regionale" Brasile, ma anche un brusco freno alla spesa pubblica) ed infine quest'anno si va assestando ad un +6%. Vale la pena sottolineare che, come osservato da Mark Weisbrot ed altri, la crescita argentina fino al 2011 è stata la più rapida e corposa del mondo occidentale contemporaneo.
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Il costo proibitivo del capitale
di Laurent Cordonnier
Può essere interessante ripercorrere il cammino barcollante, tortuoso e vacillante che ha attraversato l'Europa e che alla fine ha ridotto la causa di tutti i nostri mali a questioni di competitività e, poco a poco, a problemi di costo del lavoro. La crisi dei subprime, la crisi di liquidità bancaria, le colossali svalutazioni degli attivi, il crollo del credito, l'immobilismo della domanda, la trasformazione dei debiti privati in debiti pubblici, le politiche di austerità sono state tutte dimenticate.
Come aveva ben spiegato già nel 2012 Ulrich Wilhem, all'epoca portavoce del governo tedesco, «la soluzione per correggere gli squilibri [commerciali] nella zona euro e stabilizzare le finanze pubbliche consiste nell'aumento della competitività dell'Europa nel suo insieme (1)».
Quando si fornisce una spiegazione, bisogna essere pronti a difenderla contro qualsiasi nemico, compreso il rigore aritmetico. Avendo ormai capito che i nostri squilibri interni non possono risolversi in una gara infinita e fratricida tra i ventisette paesi europei per guadagnare competitività gli uni contro gli altri - quel che si chiama, a rigore, un gioco a somma zero ... - il progetto che ci viene proposto ora mira ad aumentare la nostra competitività nei confronti del resto del mondo.
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CIEra una volta la dignità umana
Il 12 Agosto nel CIE di Crotone, in seguito alla morte di uno degli “ospiti”, è scoppiata una rivolta che ha portato alla chiusura “temporanea”, ma a tempo indeterminato del centro. Non è che una delle continue proteste in cui l’esasperazione dei migranti cerca una qualche valvola di sfogo, nella speranza di essere sottratti ad una condizione di detenzione ingiustificata ed indeterminata. Nel nostro curioso Paese, infatti, chi non possiede un certificato amministrativo finisce internato con il solo timbro di un giudice di pace, mentre chi è stato condannato in ben tre gradi di giudizio scivola indisturbato sui parquets della sua villa di lusso e gioca a birilli con il governo nazionale.
Ma come funziona, questo antropofagico mostro CIE? In realtà al di fuori della cronaca se ne parla poco, anche per un motivo strutturale: si tratta di un mondo blindato, i cui contatti con l’esterno sono ridotti all’osso e rigorosamente irreggimentati dalle rispettive direzioni. Nel 2011 una circolare di Maroni aveva addirittura vietato l’ingresso a CIE e CARA ai mezzi d’informazione, alle organizzazioni indipendenti e agli esponenti della società civile. Un provvedimento revocato in seguito dalla ministra Cancellieri, ma il cui intento prosegue tutt’oggi, con mezzi più sottili. La prima indagine indipendente si deve all’associazione MEDU (Medici per i Diritti Umani), pubblicata pochi mesi fa e ricca di osservazioni che avrebbero dovuto quantomeno scuotere questa istituzione. Vale la pena, di fronte ai fatti recenti, di ricordarne alcune.
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La nuova scuola premia i signorsì senza spirito critico
Due menzogne: competenze e meritocrazia
Christian Raimo
Quando si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece, nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
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L'infezione hayekiana
Una nota di commento al lavoro di Wolfgang Streeck
di Gmdp
la democrazia funziona solo se non la sovraccarichiamo e se le maggioranze evitano di
abusare del proprio potere interferendo con la libertà individuale
(Friederich von Hayek, The economic conditions of Interstate Federalism, 1939)
fatta eccezione per la questione della sicurezza nazionale poco importa chi sia il prossimo
presidente. Il mondo è governato dalle forze del mercato
(Alan Greenspan, President of the US Federal Reserve, 2007)
Wolfgang Streeck è il direttore del Max-Planck Institut per la ricerca sociale di Colonia, ha diversi incarichi di ricerca e docenza in molteplici istituti tedeschi, europei ed americani; è un sociologo, che all'inizio della sua carriera fu dalle parti di Francoforte dove frequentò il sapere della Scuola di Adorno, Marcuse ed Habermas.
E' a tutti gli effetti un sapiente della knowledge factory che ha dato alle stampe un testo che ha innescato un dibattito forte e potente in Germania ed è stato appena pubblicato in Italia per i tipi di Feltrinelli (Wolfang Streeck, Tempo guadagnato, Campi del sapere, Feltrinelli, Luglio 2013).
Streeck fornisce una rilettura genealogica degli ultimi trent'anni in Europa, abbracciando nell'analisi l'economia e le coniugate riforme di politica economica, istituzionali e politiche.
Un sociologo, ovvero non un tecnico dell'economia - dio ce ne scampi! -, si assume il compito di riunire ciò che nell'economia classica era un connubio indissolubile per costruzione, due parole che se lasciate separate seducono ed inducono alle peggiori catastrofi tanto nell'analisi quanto nelle scelte: economia e politica ovvero economia politica.
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Quousque tandem?
1. I liquidatori "zeloti" runnin'on empty
di Quarantotto
Quousque tandem?
Questa domanda è probabilmente la più frequente che si pongono i lettori consapevoli dei vari blog che analizzano la crisi senza le formule preconfezionate e ripetute, sostanzialmente, da oltre 20 anni, che mugugnano su concorrenza globale, competitività, inflazione (monetaria), e, di conseguenza, attenzione esclusiva ed ossessiva al "debitopubblicobrutto".
Questo, a sua volta, viene visto, arbitrariamente, come fenomeno la cui rilevanza è compressa nella dinamica degli ultimi 4-5 anni, e quindi accomunata a quella degli spread, come se fosse da questi ultimi, improvvisamente, che ne sarebbe derivato il problema della insostenibilità.
Ora, l'elemento più macroscopico di questa mistificazione, tutta incentrata sull'occultamento del conflitto sociale, cioè della compressione della quota salari (in generale delle retribuzioni di ogni forma di lavoro), rispetto alla quota profitti e rendite finanziarie, in rapporto al reddito delle varie realtà statali coinvolte, anzitutto in Europa, ha il nome di "euro".
L'euro è certamente un sistema monetario pensato ed applicato per "disciplinare" le dinamiche salariali e riorientare il profitto verso una crescita fondata essenzialmente sulla "competitività", cioè sulle esportazioni, e lo fa in contrapposizione allo Stato, visto come l'inefficiente alimentatore della domanda interna.
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Gioco e teologia del denaro
di Mario Pezzella*
Nessuno dei personaggi del Giocatore[1] che non sia indebitato con qualcun altro: già dalle prime pagine, apprendiamo che il generale ha ricevuto, da poco, un prestito, che egli stesso deve soldi al protagonista (e gli dà un acconto di 120 rubli), che Polina ha urgente bisogno di danaro per pagare un creditore – “altrimenti sono perduta”. La catena del debito, nel corso del romanzo, diventerà universale, soffocante e minacciosa. Essa è ben lungi dall’essere una semplice sequela di transazioni economiche, anche perché nessuno si aspetta veramente di essere pagato, anzi tutto il contrario. Il credito viene concesso nell’aspettativa che il beneficiario non possa mai estinguerlo e così si trasformi da debitore in servo: il dominio su Polina è il vero scopo che ha spinto De Grieux a prestare danaro al generale (mentre lui stesso, probabilmente, deve restituirlo ad altri): “Voleva semplicemente dire che lui la dominava, che la teneva come incatenata”(58). Il possesso del danaro concede la libertà, la sua mancanza inchioda alla schiavitù. La relazione servo padrone di Hegel si è completamente finanziarizzata. Il motore profondo delle vicende del romanzo è la totale ipoteca concessa dal generale a De Grieux, che potrebbe essere sanata solo con la morte della ricca zia, di cui dunque tutti si augurano senza alcuno scrupolo la dipartita.
La catena del debito non si impone solo sul piano economico e morale, stimola anche un profondo e perverso impulso erotico ed anzi al di fuori del legame che esso istituisce non si può concepire nessuna relazione d’amore o d’amicizia.
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