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Netanyahu sta usando l’Olocausto per giustificare il genocidio palestinese: non possiamo stare zitti
di Paolo Ferrero
Non si potrà mai fermare Netanyahu se non si denuncerà l’uso strumentale dell’Olocausto e il completo stravolgimento del suo insegnamento
Il governo israeliano ha approvato nei giorni scorsi il nuovo piano per proseguire il genocidio del popolo palestinese a Gaza, aggravandolo con precise misure finalizzate alla pulizia etnica, cioè allo spostamento della popolazione palestinese da larga parte della striscia di Gaza.
Gaza non solo è stata trasformata in un campo di concentramento a cielo aperto per 2 milioni di persone ma rappresenta un nuovo capitolo della barbarie umana, in cui per uccidere un bambino non si usa nemmeno una pallottola: lo si affama fino a quando muore di stenti e patimenti.
Che il responsabile di questo genocidio sia il governo Netanyahu è sicuro. Altrettanto sicuro è che ridurre tutto il problema – come viene fatto da molte anime belle – a uno spregiudicato criminale è una operazione completamente ipocrita ed in totale malafede.
Responsabile è uno Stato costruito in modo tale da non essere in grado di fermare questi crimini contro l’umanità. Responsabile è il governo statunitense che arma e sostiene – in piena continuità da Biden a Trump – il governo israeliano. Responsabili sono i governi europei, a partire da quello tedesco e italiano che sono i principali fornitori di armi a Israele al di fuori degli Usa.
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I segni del presente e le difficoltà di pensare il nuovo
di Massimiliano Civino
La condizione tragica dell’uomo
L’uomo è l’unico essere vivente capace di scegliere consapevolmente la morte per qualcosa che giudica più importante della propria sopravvivenza: la libertà, la dignità, la fedeltà a un principio. Questa possibilità, paradossale e profondamente umana, nasce dalla nostra condizione mortale e, allo stesso tempo, la riflette. Proprio perché sappiamo di essere finiti, costretti a confrontarci con il limite della morte, siamo spinti a produrre senso, a cercare direzioni che diano valore e orientamento alla nostra esistenza.
Questa relazione è circolare: la consapevolezza della morte genera il bisogno di senso, e il senso che costruiamo può arrivare a rendere accettabile, perfino necessaria, la scelta della morte per qualcosa che consideriamo superiore.
Le società umane, infatti, non possiedono un fine immanente, inscritto nella loro natura: devono darselo. Hanno bisogno di costruire scopi, significati condivisi, visioni collettive del vivere insieme.
Umanizzarsi significa allora entrare in questo processo di costruzione culturale: dar forma alla propria vita e a quella della comunità attraverso narrazioni, valori, orientamenti che ci permettono non solo di convivere, ma di dare un senso al nostro essere mortali.
Non dobbiamo confondere la formalizzazione dei significati — come li troviamo espressi nelle leggi, nelle norme o nelle istituzioni — con il loro reale processo di nascita. I significati autentici prendono forma nell’esperienza vissuta: si generano attraverso i comportamenti collettivi, le pratiche quotidiane, le relazioni, le emozioni e i desideri delle persone concrete. Essi cambiano con il tempo e variano da una società all’altra, perché riflettono ciò che gli esseri umani rappresentano gli uni per gli altri in un determinato momento storico: quali valori condividono, quali obiettivi si pongono, cosa giudicano degno o indegno.
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Per una filosofia del divenire storico: dalle necessità all’impossibile
di Luciano Vasapollo - Rita Martufi - Mirella Madafferi
«I sogni non si vendono».
Armonica, in C’era una volta il West, di Sergio Leone
Il presente Trattato è frutto di un’attenta e completa rielaborazione, attualizzazione e importanti inserimenti di aggiornamento, a partire anche, come base iniziale di riferimento, dai volumi MAAT. Capitale, crisi e guerra. Metodi di Analisi Antimperialiste per le Transizioni1 e SIDUN. In direzione ostinata e contraria…Capitale, crisi e guerra2.
L’analisi dei fenomeni della società capitalistica, oggetto di studio dei numerosi testi3 della Scuola Marxista Decoloniale per la Tricontinental del Pluripolarismo, ha permesso l’individuazione dei pilastri portanti della critica dell’economia e dell’economia critica, che sono da inquadrare nella produzione e riproduzione di uomini nel divenire storico, ossia alla luce dei rapporti storici e sociali determinati.
Negli ultimi decenni, si è sviluppato un ricco dibattito sulle prospettive del sistema mondiale, evidenziando le tendenze mondiali già chiaramente evidenti a livello internazionale secondo modelli e leggi dello sfruttamento capitalistico nelle relazioni tra paesi. Questo dibattito si è intensificato dagli anni ’70, evidenziando una maggiore consapevolezza delle dinamiche globali e delle disparità economiche tra le diverse regioni del mondo. Rifuggendo da qualsiasi meccanicismo, positivismo o messianismo socialista, sono state superate le concezioni che contemplavano la tendenza del capitalismo a evolvere, naturaliter, in modello socialista.
Citando Amin4, la frontiera tra questi due modelli è senza dubbio rappresentata da una vera e propria rivoluzione sociale. Stante la condizione endemica delle diseguaglianze e delle asimmetrie nello sviluppo delle forze produttive tra paesi, nel quadro del sistema mondiale dominato dal capitalismo, sono state – a partire dal dibattito poc’anzi ricordato – tentate delle formulazioni di scenari, proprio relativi allo sviluppo di sistema. Fattore determinante di questi scenari non può che essere l’esito della lotta di classe, nel pieno solco della lezione marxiana fondata sull’assunto per cui «la storia di ogni società sinora esistita è storia delle lotte di classe»5.
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Alcune questioni circa la Cina, confronto tra universalismi. Parte Seconda
di Alessandro Visalli
Scopo del testo e articolazione
Questo articolo è diviso in tre parti, di cui il presente rappresenta la seconda, la prima qui. Si tratta di una riflessione che attraversa e mette a confronto due diverse forme di universalismo, riassumibili (pur con le commistioni storiche che si sono date nel tempo) in “Occidentale” e “Orientale”. Prestando la dovuta attenzione al carattere politico e ricostruttivo di queste due etichette, come insegna Said[1], affrontare questo nodo richiede valutazioni sulla filosofia della storia, le diverse ontologie sottostanti e antropologie filosofiche, la teoria politica e culturale, la geopolitica e i diversi pensieri critici che nel tempo sono stati prodotti intorno a due centri tematici, quello marxista e quello decoloniale.
Naturalmente sullo sfondo di tutto ciò è da considerare il conflitto ibrido in corso tra i due principali egemoni dei due campi, gli Stati Uniti e la Cina. E’ utile a tal fine la lettura di un recente intervento in tre parti di Giacomo Gabellini, alla cui lettura rimando[2]. In sostanza Giacomo racconta, con l'usuale abbondanza di fonti e particolari, la storia degli ultimi venti anni durante i quali si è manifestata (dalla Presidenza Obama) la sempre crescente divaricazione strategica tra l'economia debitrice e quella creditrice, la prima impegnata a consumare e la seconda a produrre, rispettivamente americana e cinese. Parte da lontano, dalle ragioni della rottura di Bretton Woods da parte di Nixon (1971) e della crisi degli anni Settanta, risolta dalla cosiddetta “globalizzazione” e dalla caduta dell'Urss; parte essenziale di questo processo, durato un trentennio, è stata l'estensione alla Cina delle filiere produttive in uno scambio per il quale le merci a buon mercato contenevano la perdita di capacità d'acquisto interna americana e il riciclo via finanza dei surplus (da parte di Cina, Giappone e paesi arabi) consentiva l'indebitamento. Questo meccanismo alla lunga non era e non è stato sostenibile, gli Usa sono passati da creditori netti nel 1983 a debitori oggi.
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Nuova lettera a Liliana Segre
di Elena Basile
Sento il dovere di oppormi ad alcuni argomenti utilizzati da Liliana Segre nell’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 5 maggio 2025. La Senatrice rappresenta una delle voci più autorevoli e lucide della comunità ebraica, una sorta di icona, nel bene come nel male, di un certo potere italiano. Appare essenziale confutare alcune tesi da lei sostenute, proprio in quanto in grado di influenzare l’opinione pubblica, seminando una confusione che potrebbe essere nociva al dibattito democratico.
Spero che la Senatrice non me ne voglia e non mi denunci nuovamente per antisemitismo. Io la leggo con attenzione e rispetto. Mi domando se Liliana Segre faccia lo stesso con i miei scritti e quelli di tanti altri, a cominciare da Moni Ovadia e Raniero La Valle, che esprimono una critica senza indulgenze alle politiche di Israele e non solo al Governo di Netanyahu.
Ecco, in sintesi, le mie obiezioni a una certa retorica che traspare dalle risposte assertive della Senatrice.
1. Si afferma, in un inciso, di non voler confondere un governo democraticamente eletto, quello di Netanyahu, con un movimento terroristico, Hamas.
In effetti, Hamas è stato anch’esso eletto democraticamente a Gaza nel 2007 e aveva fatto non poche aperture sul riconoscimento di Israele, che vennero rimandate al mittente.
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Un ex-CIA conferma: armi all’Ucraina per dissanguarsi reciprocamente con Mosca
di Alessandro Avvisato
Un ex dirigente CIA ora scaricato dalla Casa Bianca ha rilasciato un’intervista al quotidiano britannico The Times, criticando la strategia stelle-e-strisce sull’Ucraina. Le sue parole smascherano definitivamente una delle ultime narrazioni propagandistiche ancora ripetute a pappagallo dai media nostrani: le armi inviate a Kiev servono a dissanguare i contendenti, non a spostare gli equilibri della guerra.
Dopo la chiusura dell’accordo sui minerali tra Stati Uniti e Ucraina, e dopo che l’amministrazione Trump ha riaperto all’invio di armi alle forze ucraine, il governo statunitense dice di volersi tirare indietro dalla mediazione tra Mosca e Kiev. Il tycoon era alla ricerca di buoni affari commerciali, e quelli che ha portato a casa sembrano soddisfarlo, per ora.
Gli USA hanno ottenuto il controllo di riserve sostanziose di materie prime e che le armi si paghino, hanno ottenuto che la UE continui a pagare a caro prezzo il gas naturale statunitense, e probabilmente freneranno sul togliere alle sanzioni ai russi a meno che non chiudano un accordo favorevole al capitale statunitense anche sulla riattivazione dei gasdotti Nord Stream.
L’attività di “paciere” non si addice agli Stati Uniti, e anche questa volta hanno mostrato che gli obiettivi erano quelli di mantenere una leva e una posizione di vantaggio su tutti gli altri attori globali. Anche per questo la figura di Ralph Goff, fermo sostenitore di un maggiore impegno per l’Ucraina (in linea con la gestione Biden), non era quella adatta al ruolo di vicedirettore operativo della CIA.
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La deterrenza vacilla: cosa rivela un missile ipersonico yemenita all'Iran e al mondo intero
di Elijah J. Magnier
Una nuova realtà strategica sta prendendo forma in Medio Oriente, guidata non dalla diplomazia o dalla deterrenza teorica, ma da concrete dimostrazioni di potenza militare e tecnologica. Il lancio riuscito e la detonazione accurata di un missile ipersonico dallo Yemen verso Israele sono stati più di un evento tattico: sono stati un’onda d’urto strategica. Per Teheran, non si è trattato solo di un gesto di supporto: è stato un test a fuoco vivo che ha messo a nudo i limiti della difesa missilistica statunitense e israeliana. Ha anche offerto all’Iran una rara opportunità di convalidare il suo programma missilistico, perfezionare la sua dottrina militare e inviare un messaggio chiaro: è pronto a colpire duramente se scoppia una guerra. E ora, con la prova delle prestazioni, è probabile che i missili iraniani suscitino un serio interesse da parte degli acquirenti in tutta la regione e oltre.
Una nuova era nella guerra missilistica
Il missile ha percorso circa 2.000 chilometri in sette-nove minuti ed è riuscito a eludere diversi livelli di difesa, tra cui il THAAD (Terminal High Altitude Area Defence) sviluppato dagli Stati Uniti e i sistemi israeliani Arrow 3 e David’s Sling. Si tratta di sistemi commercializzati e ampiamente ritenuti tra i più sofisticati al mondo.
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Realtà e narrazione
di Pierluigi Fagan
Dagli eventi del 7 ottobre 2023 in Israele, è esplosa una potente bolla narrativa che ha preso il posto dei fatti. Le opinioni pubbliche occidentali, per lo più, si sono immerse nelle discussioni narrative tralasciando i fatti. Semitismo-antisemitismo è diventato un classico della tempesta narrativa. Shoa ebraica e genocidio palestinese ne è stato un altro. Civiltà e barbarie pur non convocato come tale, è stato un altro topos narrativo convocato nella tenzone. Molte discussioni, anche qui e su questa pagina, dopo aver scalato vari livelli di rincorsa ad armamenti narrativi sempre più divisivi, non hanno potuto far altro che rimandare il giudizio finale al “vedremo”.
Oggi non siamo ancora a quella fine dei fatti che ci permetterebbe di tirare la linea del giudizio, ma ci stiamo avvicinando. Il governo israeliano ha lanciato l’operazione “Carro di Gedeone”, una delle tante pièce narrative del capostipite di tutte le narrazioni occidentali: l’Antico Testamento.
La storiella di questo Gedeone si riferirebbe a fatti lontani, tipo XII secolo a.C., ma occorre ricordare che la redazione più o meno compiuta del Libro, è solo del VI secolo a.C. in quel di Babilonia, 6-700 anni dai presunti “fatti”. Quindi abbiamo un popolo che, residente su una terra condivisa con altri popoli, richiama una credenza condivisa di quasi quattromila anni fa, per un totale di meno di 18 milioni di persone in giro per il mondo (0,2% pop mondiale) inquadrando così narrativamente i fatti che sta compiendo. Per altro, la storiella di Gedeone, non si capisce affatto che parallelo anche metaforico avrebbe con la faccenda di Gaza. L’operazione “carro di Gedeone” pare voglia dislocare (deportare) tutti i palestinesi della Striscia e occuparla definitivamente.
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Il Papa del popolo: Bergoglio e il populismo
di Alessandro Volpi
Il pontificato di Papa Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, ha rappresentato per molti aspetti una novità. È stato infatti il primo papa gesuita, ma anche il primo a scegliere il nome del Santo povero di Assisi, e il primo non europeo da più di un millennio. Ma più specificamente: il primo latinoamericano e argentino. Su questa sua provenienza geografica, che egli stesso ha sottolineato fin dal suo esordio, dicendo che i cardinali erano andati a prenderlo “quasi dalla fine del mondo”, si sono soffermati molti nell’analisi delle sue posizioni su temi politici, sociali ed etici. È interessante allora chiedersi che rapporto Bergoglio abbia avuto con la tradizione politica del suo paese, e in particolare con il populismo, fenomeno che nella variante peronista, ha dominato la politica almeno a partire dagli anni ’40. Questo ci permetterà anche di gettare luce su alcune dinamiche della politica contemporanea che hanno a che vedere con trasformazioni – forse – epocali che ci attendono.
Il 4 aprile 2025 sul Wall Street Journal Joshua Chaffin e Aaron Zitner hanno parlato di quella parte conservatrice e tradizionalista di chiesa cattolica statunitense, che ora vede nel vicepresidente J. D. Vance un suo riferimento, e che è fortemente critica dell’operato di Papa Francesco. I due giornalisti hanno citato le parole di Stephen P. White (Direttore esecutivo del Catholic Project, una iniziativa di ricerca della Catholic University di Washington, D.C.) il quale definisce queste posizioni come parte di un movimento “populista” diffuso in tutto il mondo. Parla quindi, e con lui gli autori che lo hanno citato, di un cattolicesimo populista e tradizionalista contro l’eredità di Francesco, con la prospettiva di superare il suo pontificato imprimendo una svolta conservatrice.
Dall’altro lato però il Papa argentino è stato egli stesso definito spesso populista, a partire dalla sua provenienza geografica e in rapporto al suo discorso pubblico.
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Lo Sbroglio
di Satyajit Das
Parte 1: Furie Economiche e Finanziarie
Condizioni così insostenibili devono finire come i nostri divertimenti. Come scrisse Fred Schwed in “Dove sono gli yacht dei clienti?”: “Quando le «condizioni» sono buone, l’investitore… compra. Ma quando le «condizioni» sono buone, le azioni sono alte. Poi, senza che nessuno abbia la cortesia di suonare un campanello d’allarme, le “condizioni” peggiorano”. Questo sta accadendo ora. Il fattore scatenante della tumultuosa fase finale del crollo è sconosciuto. Come aveva capito Mao Zedong: “una singola scintilla può appiccare un incendio nella prateria”. Potrebbe trattarsi di una recessione, perdite sul credito, crolli del prezzo delle azioni, il fallimento di una strategia di trading, il fallimento di un’azienda di grandi dimensioni, una frode o un evento geopolitico. Il mondo di oggi è una polveriera.
La prima parte di questa serie esamina i fattori che potrebbero rendere inevitabile una nuova crisi finanziaria. La seconda parte esaminerà la trasmissione degli shock, la resilienza e la capacità di rispondere per contenere una nuova emergenza.
Una nuova crisi finanziaria è alle porte. L’era sorprendentemente duratura dell’iperfinanziarizzazione si trova ad affrontare la prova più dura di sempre, a causa della concomitanza di condizioni economiche e finanziarie, unite a crescenti pressioni geopolitiche e ambientali. La mancanza di resilienza e la limitata capacità di risposta sono fattori aggravanti.
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Blackout: è il liberismo bellezza!
di Leonardo Mazzei
Tranquilli, dietro il blackout spagnolo, che ha coinvolto pure il Portogallo, non ci sono né complotti né misteri. Ci sono piuttosto silenzi e reticenze di un sistema di potere che non può disvelare la vera causa, che è innanzitutto economica e dunque politica, di quel che è successo.
A questo proposito l’imbarazzo di Sanchez è apparso evidente. Il capo del governo spagnolo avrebbe preferito poter additare una delle tante cause fasulle di cui si è cianciato sui media: un “misterioso” evento atmosferico, i sempre buoni “cambiamenti climatici”, la cattiva manina di hacker ovviamente filo-russi. Non ha potuto farlo, forse perché consapevole che il ridicolo può davvero uccidere la credibilità di un politico. Si farà, invece, una Commissione d’inchiesta, che è il classico modo per non arrivare a nulla.
Come avvengono i blackout
Siamo dunque ben lontani da una verità ufficiale, ma le notizie che cominciano a trapelare sono già sufficienti a indicare una prima e robusta ipotesi. Ma prima di arrivarci bisogna capire che cos’è un blackout generale, come quello verificatosi nella penisola iberica lo scorso 28 aprile. Mentre i blackout locali sono molto frequenti, basti pensare alle zone di montagna durante i temporali, i blackout generali (che interessano, cioè, interi paesi o porzioni importanti degli stessi) sono eventi piuttosto rari, ma che tuttavia capitano.
Senza scomodare i “mitici” blackout newyorchesi, in Europa, l’esempio più eclatante riguarda proprio l’Italia, che il 28 settembre 2003 rimase completamente al buio con l’eccezione della Sardegna. In questi casi, infatti, le isole – che hanno sistemi elettrici largamente indipendenti dal continente – sono in genere avvantaggiate. E’ stato così anche stavolta nel caso delle Baleari.
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Sardinia infelix. Non si uccidono così anche le isole?
di Fulvio Grimaldi
Dal banditismo di rivendicazione sociale a quello di speculazione sulle risorse. Dal devastante e fallimentare esperimento di industrializzazione, a quello delle pratiche di guerra in un’isola che è tutta un poligono. Dall’aggressione ad ambiente, cultura ed economia nel nome della transizione ecologica. Fino alla produzione delle bombe per le guerre sion-atlantiche
Non solo Rheinmetall, il colosso degli armamenti tedeschi e uno dei più grandi del mondo. E non solo Germania, con il suo nuovo megastabilimento in Bassa Sassonia. Rheinmetall Unterluess, alla luce degli 800 miliardi promessi da Ursula von der Leyen agli armaioli UE, si ripromette di passare da 200.000 a 350.OOO proiettili di artiglieria l’anno.e, nel contesto dei 1000 miliardi cui punta Ursula per il 2030, di arrivare a 300 miliardi di commesse, pari al 25% di tutto quello fanno gli altri europei.
Non solo Germania, e non solo Rheinmetall nella costellazione di nuovi o potenziati stabilimenti di armamenti che stanno sorgendo come funghi in Italia, a partire dalla Spezia, capitale di Leonardo con la sua Oto Melara, o da Colleferro, dove si produrranno nitroglicerina e altre schifezze esplosive. E a finire dove? Ma è ovvio, in Sardegna, dove nessuno si è mai sognato di impiantare qualcosa di militare….
Senza calcolare che, contagiati dalla frenesia bellica dell’eurolobbista tedesca e per non sapere nè leggere né scrivere, i nostri equipollenti della stessa lobby hanno sancito che le grandi opere, quali il Ponte sullo Stretto, o la diga foranea di Genova e, magari, la terza linea della metro romana, nel nuovo clima di festività belliche hanno assunto valenza militare e NATO.
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La Cina e i dazi Usa, keep calm…
di Claudio Conti
L’andamento ciclotimico dei mercati e dei media occidentali si nutre spesso di notizie poco verificate o di autentiche illusioni. Un sistema in crisi, del resto, fatica a fare i conti con la realtà perché ogni sforzo serio in questa direzione implicherebbe la necessità di riconoscere le cause del proprio stato.
Succede così che le borse crollino repentinamente all’annuncio dei dazi da parte di Trump e poi si risollevino in pochi giorni quando lo stesso presidente Usa sembra fare qualche marcia indietro. Specie nei confronti della Cina, al tempo stesso principale competitor strategico e fondamentale fornitore delle merci base per consumatori poveri, come sono diventati i ceti popolari yankee.
Venerdì scorso lo “scatto” è stato motivato sulla notizia che la Cina “era pronta a negoziare” a proposito dei dazi, dopo aver reagito con tariffe doganali al 125% sulle importazioni dagli Usa dopo che Trump aveva portato al 145% quelle sulle merci cinesi, provocando di fatto il blocco pressoché totale degli scambi commerciali tra i due paesi.
Se “i cinesi si arrendono e sono pronti a negoziare” – così hanno presentato i media una dichiarazione del Dipartimento per il Commercio di Pechino – allora si può ricominciare a far correre le valutazioni azionarie e tutte le speculazioni finanziarie a esse collegate. Evviva!
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Metalli rari: sono loro i veri protagonisti del sostegno Usa e Ue all’Ucraina
di Federico Giusti
Il 30 Aprile scorso Stati Uniti e l’Ucraina hanno firmato gli accordi sullo sfruttamento dei metalli rari, sono stati necessari mesi di trattative per trovare una intesa a lungo termine come è stata presentata dai siti ufficiali del Governo ucraino
In sostanza l'accordo si concentra su un'ulteriore assistenza militare degli Stati Uniti e non solo come risarcimento degli aiuti passati, gli introiti per Trump saranno superiori di quattro volte la spesa fino a oggi sostenuta a sostegno dell’Ucraina, ampi margini di lucro e di profitto evidenti anche agli occhi nostri ma non ancora percepiti invece dalla sonnacchiosa stampa occidentale. E proprio accrescere la produzione mineraria statunitense, anche attraverso l’acquisizione di nuove aree dislocate in paesi stranieri, resta tra gli obiettivi primari della nuova Amministrazione e non per cultura estrattivista ma per ragioni economiche ben comprensibili se guardiamo l’utilizzo dei metalli rari nelle produzioni tecnologicamente avanzate e di natura duale.
Misure immediate per aumentare la produzione mineraria americana – La Casa Bianca
Al contrario, per mesi, lo scontro Biden Trump è stato descritto in termini semplicistici come una lotta tra fautori delle energie fossili e sostenitori della svolta green senza mai mostrare gli interessi materiali che sostengono l’una e l’altra parte del capitalismo statunitense.
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Tra Essere e Non Essere
di Salvatore Bravo
All’università di Cassino è stata discussa la prima tesi di laurea di un Avatar. Nelle scuole si assiste a un uso massiccio dell’intelligenza artificiale. Gli studenti la consultano per risolvere problemi, compiti e traduzioni. L’intelligenza artificiale sta assumendo una valenza che la rende comparabile a una ritualità magica della contemporaneità. Si esprime il desiderio e, in modo immediato, essa soddisfa le esigenze più disparate, tutto in modo rigorosamente anonimo. L’impegno e le tensioni causate dal confronto con se stessi sono così superati dalla magica presenza. L’intelligenza artificiale è dunque presenza inquietante e sconosciuta nella vita ordinaria di ogni giorno. Decenni di addestramento programmato al fatalismo e alla legge del “si può dunque si deve” hanno fondato una società ipertecnologica e superstiziosa nel contempo, in quanto la ragione pubblica ed etica è ormai considerata desueta, al suo posto regna la soddisfazione immediata dei desideri. L’intelligenza artificiale è ora la protagonista indiscussa e osannata di tale postura irriflessa. La seduzione è nella comodità, senza sforzo alcuno è possibile risolvere ogni quesito. I primi effetti sono già tra di noi, giacché non si ragiona, ormai, in termini di lungo periodo, pertanto irresponsabilità e irrazionalità dominano dietro l’apparente razionalità del sistema. Le risposte immediate hanno distorto la percezione del tempo sempre più simile a uno spazio breve lungo quanto una risposta dell’IA e mai trasformata in concetto.
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Gaza, USA e Cina: il futuro della guerra e la fine della civiltà
di Roberto Iannuzzi
La tendenza a reinterpretare le leggi di guerra è destinata ad avere serie conseguenze sulla distruttività dell’azione militare nei futuri conflitti. Gaza rappresenta un pericoloso precedente
Avevo scritto più volte in precedenti articoli che la portata della tragedia di Gaza va ben al di là degli angusti confini di questa martoriata striscia di terra sulle coste del Mediterraneo:
Ciò che sta avvenendo a Gaza non resterà confinato a Gaza, si potrebbe dire, perché è il sintomo di un malessere più generale che sta erodendo la civiltà occidentale.
Avevo scritto già in passato che
Sotto le macerie di Gaza rischiano dunque di rimanere sepolti anche l’ordine internazionale che l’ONU ha rappresentato dal 1945, e il ruolo di garante della legalità internazionale di cui gli USA si sono sempre fregiati.
Ora un’inchiesta della rivista americana The New Yorker dal titolo “What’s Legally Allowed in War”, passata perlopiù sotto silenzio, aiuta a chiarire meglio la pericolosità del “precedente” rappresentato dallo sterminio in corso a Gaza.
Il reportage a firma di Colin Jones racconta come gli esperti giuridici dell’esercito americano si stiano confrontando con l’operazione militare israeliana nella Striscia, considerandola una sorta di “prova generale” per un possibile conflitto con una potenza come la Cina.
L’articolo esordisce descrivendo due visite compiute nella Striscia da Geoffrey Corn, professore di legge presso la Texas Tech University ed ex consulente senior delle forze armate USA sulle leggi di guerra, altresì note come Diritto Umanitario Internazionale (DIU) o Diritto Internazionale dei Conflitti Armati (DICA).
Per spiegare il livello di distruzione di cui è stato testimone a Gaza, Corn lo ha paragonato a quello di Berlino al termine della seconda guerra mondiale. Egli non è stato né il primo né l’unico a proporre un simile confronto.
Già nel dicembre 2023, ad appena due mesi dall’inizio del conflitto, esperti militari consultati dal Financial Times avevano equiparato la distruzione di Gaza nord a quella di città tedesche come Dresda, Amburgo e Colonia a seguito dei bombardamenti alleati.
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György Lukács, un’eresia ortodossa / 5 – Sul filo del tempo
di Emilio Quadrelli
La lettura del conflitto di classe non avviene stilando una statistica al fine di individuare il punto medio della conflittualità ma osservando e facendo proprie le istanze strategiche che provengono dalle punte avanzate della classe. Su ciò si plasma la tattica cosciente del partito. Dalla prassi d’avanguardia della classe al partito dell’avanguardia di classe al fine di riversare e generalizzare in questa, quella tendenza. Il partito, quindi, non si accoda semplicemente alla lotta di classe, non si limita a portare solidarietà a questa, cosa che può fare chiunque, e neppure, come le letture burocratico-organizzative di Lenin offrono, si limita a porsi alla testa delle lotte. Certo, il partito solidarizza con la lotta e cerca di prenderne la direzione ma perché? A qual fine? Qui sta il nocciolo della questione. Il partito deve, soprattutto, trasformare coscientemente quella lotta in qualcosa che sta nella lotta ma solo in potenza. Non ha senso prendere la direzione di qualcosa che rimane in potenza, ma lo ha se questo prendere la direzione vuol dire realizzare la potenza. Detta in altre parole la tattica del partito mette la classe nella condizione di compiere un salto nell’elaborazione della strategia. In altre parole il partito più che prendere la testa del movimento è la testa del movimento. Facciamo un esempio: nel 1905 le masse organizzano una dimostrazione la quale, come noto, sfocia nel sangue e in seguito a ciò, in piena spontaneità, iniziano a battersi. Il partito sicuramente solidarizza con la lotta e cerca di mettersi alla testa di questo movimento, ma fare questo significa operare per far fare un salto qualitativo a quanto sta andando in scena. Questo salto è l’indicazione pratica dell’insurrezione quindi, di fatto, essere la testa del movimento. Dalla classe al partito, dal partito alla classe. Il partito non si è inventato nulla, non fa nulla, esso agisce come elemento cosciente e d’avanguardia dentro il punto più alto della conflittualità di classe. Ecco che, in quel momento, tutto il suo lavoro preparatorio emerge in maniera cristallina. Ma, una volta fatto ciò non è che all’inizio del suo lavoro perché la stessa pratica dell’insurrezione non farà altro che dare vita e forme qualitativamente diverse alla strategia della classe e inevitabilmente ciò porterà a una nuova lettura della strategia di classe e a una successiva rielaborazione della tattica di partito.
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Il valore della cultura classica
di Francesco Coniglione
Ha ancora senso affaticarsi su testi scritti in un linguaggio scarsamente comprensibile, con strutture sintattiche molto lontane dalla agilità e stringatezza oggi diffuse con i sistemi di comunicazione elettronica; o immedesimarsi in concetti distanti, spesso superati e comunque non sempre in sintonia con le più diffuse sensibilità odierne?
Sono queste le domande alla base del sempre rinnovato attacco di tutti coloro i quali ritengono qualcosa di superfluo, di dispensabile, i classici e in generale la cultura umanistica in cui questi sono per lo più rappresentati (non bisognerebbe però dimenticare che ci sono “classici della scienza” ancora oggi assai utili da rileggere, per l’umanista e per lo scienziato). Un fardello “inutile” se confrontato ai saperi che si ritengono immediatamente produttivi perché capaci di stimolare, crescita, produttività, innovazione, mantra dell’odierna cultura. Ne viene che siano da marginalizzare gli studi e le scuole che a esse danno un qualche peso, come il Liceo classico, la cui stessa esistenza è da molti indicata come un esempio dell’arretratezza culturale e scientifica dell’Italia.
I classici sono in sostanza ritenuti opere vetuste, volumi da riporre in qualche polverosa scaffalatura, utili semmai a imbellettare auguste biblioteche di rappresentanza, magari nei negozi di mobili; non strumenti del pensiero ancora significativi per l’uomo d’oggigiorno. Ai classici si attribuisce semmai il solo valore di essere una testimonianza del passato, il ricordo nostalgico di un “come eravamo” e non certo una piattaforma per proiettarsi nel futuro, scintillante dei prodotti della tecnologia moderna, guidato da sempre più potenti sistema di intelligenza artificiale e orientato solo al consumo voluttuario e di intrattenimento.
Ma questa è una visione superficiale e per molti aspetti parziale.
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Washington caput mundi
di Manlio Dinucci
Mentre il presidente Trump negozia con l’Ucraina e l’Iran alla ricerca di un’ipotetica pace, la sua amministrazione continua le politiche sanguinose del predecessore. I tentativi di pace non devono nasconderci che in questa lotta contro il tempo, smettendo di finanziare le agenzie delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti provocano più sofferenza di quando finanziavano direttamente le guerre
“Trump e Zelensky si parlano, prove di pace a San Pietro”, titola l’Ansa pubblicando la “storica foto dell’incontro”, definito “un capolavoro della diplomazia vaticana”. I rappresentanti di Stati Uniti e Ucraina vengono così fatti apparire agli occhi del mondo come coloro che vogliono la pace, mentre Putin continua a fare la guerra. Trump scrive: “Mi fa pensare che forse non vuole fermare la guerra, mi sta solo tampinando, e deve essere affrontato attraverso sanzioni”. Il segretario di stato Usa Marco Rubio avverte che “gli Usa metteranno fine alla loro mediazione sul conflitto a meno che non arrivino proposte concrete da Russia e Ucraina”. Si continua così a ignorare la insistente richiesta russa di affrontare, in una sede ufficiale, le questioni di fondo che sono all’origine della guerra. Si continua allo stesso tempo a diffondere la fake news che la Russia voglia invadere l’Europa. Titola un articolo sul Wall Street Journal: “Le mosse militari russe che mettono in allarme l’Europa: Putin sta espandendo le basi e si sta preparando a spostare più truppe nelle regioni europee di confine, lontano dall’Ucraina”.
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Xi Jinping a Mosca per la Parata del 9 Maggio: Pechino sfida gli avvertimenti di Kiev
di Clara Statello
Nonostante le minacce e gli allarmi su possibili attacchi o false flag, nessun leader ha ritirato la partecipazione. L’evento si trasforma in un banco di prova per l’asse Russia-Cina e l’influenza diplomatica di Zelensky
Il presidente della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping si recherà a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio, nonostante gli avvertimenti di Kiev. Lo ha confermato domenica mattina il Cremlino con una nota ufficiale, nella quale comunica che il leader cinese compirà una visita ufficiale nella Federazione Russa dal 7 al 10 maggio.
Oltre alla partecipazione alle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della vittoria sul nazismo, sono in agenda colloqui bilaterali sulle “principali questioni relative all'ulteriore sviluppo delle relazioni di partenariato globale e di interazione strategica, nonché le questioni di attualità dell'agenda internazionale e regionale” tra Russia e Cina.
Inoltre si prevede la firma di una serie di documenti bilaterali intergovernativi e interdipartimentali, riferisce la nota.
Chi sarà presente alla parata della Vittoria
Il primo ministro slovacco Robert Fico e il presidente serbo Aleksandr Vucic saranno a Mosca per le celebrazioni del 9 maggio. Ieri la loro presenza era stata messa in dubbio dalle condizioni di salute dei due leader, che negli scorsi giorni avevano annullato all’ improvviso di importanti attività politiche. Questa mattina entrambi hanno ufficialmente confermato la partecipazione.
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Democrazia selettiva
di Michele Agagliate
Dall’AfD a Georgescu: quando il sistema decide chi ha diritto di parola e chi no
Non ho alcuna simpatia per l’AfD, sia chiaro. Lo ritengo un partito pericoloso, regressivo, intriso di pulsioni xenofobe, autoritarie e revisioniste. Ma proprio per questo, la notizia che l’intero partito sia stato classificato come “pericolo per la democrazia” da parte dell’Ufficio federale per la protezione della Costituzione tedesca dovrebbe inquietare anche chi, come me, sta ben lontano da ogni deriva reazionaria. Perché quando uno Stato democratico si arroga il diritto di stabilire non solo ciò che è legittimo, ma anche chi lo è, si apre una voragine.
Non parliamo di atti criminali individuali. Parliamo di interi movimenti politici, rappresentati in Parlamento, sostenuti da milioni di cittadini, che vengono trattati come deviazioni da contenere, sorvegliare, delegittimare. Come se il problema non fosse il disagio sociale che li alimenta, ma la sua manifestazione. Come se fosse più comodo demonizzare che comprendere. O peggio: reprimere che rispondere.
La democrazia liberale, quando funziona, è proprio il luogo dove anche le opinioni più estreme possono esprimersi, a patto che restino nei confini della legalità. Ma se la legalità stessa diventa strumento per zittire, allora la posta in gioco è più alta. Se oggi si dichiara che un partito – per quanto ripugnante nei suoi messaggi – è “incompatibile con la democrazia”, domani chi sarà il prossimo? Un sindacato radicale? Un movimento ambientalista che “minaccia l’ordine economico”? Una lista pacifista che mette in discussione la NATO?
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Il declino di SWIFT: come le potenze globali stanno sfuggendo alla trappola del dollaro
di Aidan J. Simardone*
Gli USA hanno trasformato SWIFT in un’arma per punire i nemici, ma ora alleati e avversari stanno costruendo vie di fuga dal sistema finanziario globale dominato dal dollaro.
La militarizzazione della finanza globale è diventata un pilastro della politica estera americana. Al centro di tutto c’è il controllo di Washington sul Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (SWIFT), un servizio di messaggistica finanziaria un tempo considerato neutrale, ma oggi apertamente utilizzato per imporre sanzioni occidentali e isolare i rivali.
Mentre il presidente Donald Trump minacciava punizioni economiche per i Paesi che abbandonavano il dollaro, i suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca hanno registrato il crollo più forte della valuta dall’era Nixon. Quel momento simbolico ha coinciso con un cambiamento globale già in atto: l’accelerazione degli sforzi delle nazioni per ridurre la dipendenza dalle infrastrutture finanziarie controllate dagli USA.
Oggi, una coalizione sempre più ampia di Stati – alcuni sanzionati, altri semplicemente cauti – si sta allontanando dal dollaro e dalla rete SWIFT, abbracciando nuovi sistemi finanziari che promettono di operare fuori dalla portata di Washington.
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Škola kommunizma: i sindacati nel Paese dei Soviet
di Paolo Selmi
Terza parte
Cari compagni,
ci eravamo lasciati nell’ultima puntata dopo aver abbozzato un collocamento del caso sovietico all’intesto di un contesto mondiale laddove, il caso cinese, rappresentava un caso decisamente “limite” di “importazione” del marxismo.
Restando nella metafora dei trasporti, ogni volta che “esportiamo” non uno spinterogeno, ma qualcosa di immateriale, dotato di un significante e di un significato, si pone il problema della sua “traduzione”, “importazione”, “selezione e adattamento”, “rielaborazione”. ANCHE IN UN CONTESTO COSÌ VICINO AL NOSTRO COME QUELLO RUSSO-SOVIETICO.
Si badi, questo “vicino” non ha alcuna intenzione provocatoria. Avendo passato ormai la maggior parte della mia vita, trenta su cinquanta grosso modo, a manipolare concetti di culture lontane diecimila chilometri da noi, il leggendario cinese wan li 万里, diecimila li, ogni volta che ritrovo “Gente del Libro”, come la chiamano i fratelli musulmani, ritrovo anche i binari noti del mio pensiero, del mio modo di vedere il mondo.
Ciò nonostante, paradossalmente forse per questa vicinanza, quando SI “ESPORTA” O SI “IMPORTA” QUALCOSA, spesso SI DÀ TROPPO PER SCONTATO CHE IL RICETTORE O IL MITTENTE SIA ESATTAMENTE SINTONIZZATO SULLE NOSTRE LUNGHEZZE D’ONDA. E così non è. Vale per i nostri traduttori di Lenin, ma valeva anche nel senso contrario.
L’obiezione è sempre la stessa: “epperò, non possiamo mica mettere una nota a piè pagina ogni due righe”. Giusto. Appesantisce il testo. Allora che facciamo, tagliamo con l’accetta? Semplifichiamo? Traduciamo pravda e istina sempre come “verità”, partijnost’ come “partiticità” e chi s’è visto s’è visto? Oppure, peggio ancora, le lasciamo in russo e cavoli di chi legge?
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Smascherata la truffa NATO: l'Europa è indifesa senza la "cavalleria americana"
di Kit Klarenberg
Il 23 aprile, Politico ha pubblicato uno straordinario articolo, “La cavalleria americana non arriva”, che documentava con dovizia di particolari quanto la pianificazione e le infrastrutture di difesa europee siano state per decenni esclusivamente “costruite sul presupposto del supporto americano” e “accelerare l’invio di rinforzi americani in prima linea”. Ora, “la prospettiva che ciò non accada sta gettando nel caos i piani di mobilità militare” e il continente “si trova solo”, indifeso, senza una direzione e privo di soluzioni ai disastrosi risultati della sua prostrazione per molti decenni all’egemonia statunitense.
L’articolo inizia con un tentativo mediocre di fantasy, tratteggiando uno scenario da incubo che si scatena nel marzo del 2030. “Nella nebbia di inizio primavera”, un attacco russo su più fronti inizia contro Lituania e Polonia, costringendo i soldati stranieri di stanza lì a cercare riparo, mentre “i paesi alleati si affrettano a rispondere”. Ma mentre Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e i paesi nordici mobilitano i loro eserciti per l’impresa, “c’è una netta assenza”:
Leader e soldati guardano a ovest, verso l’oceano, sperando nelle navi da guerra che sono sempre accorse in soccorso dell’Europa nell’ultimo secolo. Ma il mare offre solo silenzio. Gli americani non arrivano. La seconda presidenza di Donald Trump ha posto fine all’impegno degli Stati Uniti per la difesa europea.
Certo, Trump non ha ancora disimpegnato Washington dalla NATO. “Ma cosa succederebbe se l’America abbandonasse l’Europa?”, riporta Politico, è una domanda inquietante che riecheggia con crescente urgenza nei corridoi del potere occidentali. La risposta evidenzia una “realtà scomoda”: “senza il supporto degli Stati Uniti, spostare truppe in Europa sarebbe più lento, costoso e ostacolato da una serie di colli di bottiglia logistici”. In caso di guerra totale, queste carenze “potrebbero non solo creare inefficienze”, ma “potrebbero rivelarsi fatali”.
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Kiev, in difesa dei principi liberali
di G. P.
Chi annava a immagginà che ne la mente je ce covava er libbero pensiero, o, pe’ di’ mejo, nun ciaveva gnente?” (Trilussa)
Mentre il vecchio mondo unipolare scricchiola travolgendo la propaganda di ieri, i nostri intellettuali di servizio si danno da fare per sgombrare le macerie delle loro stesse narrazioni diventate d’un tratto un ingombro imbarazzante. Fino a ieri la democrazia partecipata era il mantra che ci distingueva dalle tirannie, ma ora che il popolo non ne vuole sapere di rischiare la pellaccia per slogan vuoti e consunti, fanno tutti dietrofront e spiegano che il popolo non capisce, che non tocca a lui decidere della guerra e della pace, di ciò che è giusto o sbagliato, morale o immorale.
All’improvviso anche la parola “liberale” va ristretta, reinterpretata, resa essenziale e stringente, direi dittatoriale. Si avvera la profezia di Trilussa: in fondo, liberale non vuol dire niente, e chi ha in testa il libero pensiero, alla fine, nun pensa gnente, o meglio si adatta a quel che serve. Come si dice in questi casi, additare le dittature altrui serviva solo a distrarre dalla propria.
Si moltiplicano i casi in cui i sinceri democratici iniziano a dubitare dell’efficacia delle elezioni, talvolta arrivando a truccarle apertamente, estromettendo gli avversari scomodi, laddove prima si imbrogliava solo un po’ per aggiustare i risultati, o persino negandole in nome della guerra che non si può fermare per colpa loro. Anche sulla nostra stampa, falsamente equilibrata, si cominciano a porre certe questioni, mentre ci si prepara al mondo di domani, quando al popolo si dovranno far ingoiare ideologie del tutto nuove, visto che quelle vecchie sono fritte.
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