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La sottile linea rossa tra celodurismo e guerra aperta
di Enrico Tomaselli
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, l’attacco iraniano di ieri non apre una fase di guerra aperta tra Teheran e Tel Aviv. Nonostante tutto, siamo ancora nella fase della deterrenza – o, se si preferisce, del celodurismo.
Indiscutibilmente, e non poteva essere altrimenti, la rappresaglia iraniana è stata su una scala ben maggiore rispetto a quella dello scorso aprile, e aveva chiaramente lo scopo – ancora una volta – di inviare un messaggio a Israele e agli USA; messaggio sia sulla determinazione iraniana a non farsi intimidire, sia sulla propria capacità di risposta militare.
Con l’attacco di ieri, assai spettacolare, l’Iran ha quindi spostato un po’ l’asticella. Non c’è stato il largo preavviso della volta precedente, non c’è stato uso di droni (molto più lenti), la quantità di missili (quasi tutti balistici) è stata significativamente maggiore.
Altri elementi degni di nota dell’operazione sono stati: l’attacco più massiccio ad almeno 4 aeroporti (Tel Nof, Nevatim, Hatzerim, Lod), che rappresentano l’infrastruttura necessaria per l’aviazione – cioè lo strumento con cui maggiormente si manifesta la supremazia militare israeliana; la scelta di bersagli esclusivamente militari (l’occidente è risucchiato nel proprio ombelico, ma il resto del mondo vede la differenza con quanto fa Israele a Gaza e in Libano); la correlazione diretta tra bersagli e causale (aeroporto Nevatim, sede del Mossad e dell’unità 8200). E, ancora una volta, l’aver utilizzato solo una parte, e non la più avanzata, del proprio arsenale.
Al tempo stesso, non può sfuggire il fatto che ben tre degli obiettivi più rilevanti (Nevatim, Mossad, 8200) siano stati evacuati qualche ora prima, il che – al di là di una certa prevedibilità, e delle capacità d’intelligence – fa sospettare che qualcosa sia stato fatto volutamente filtrare, per ridurre al minimo il numero delle vittime.
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Ucraina, Libano, Cina: l’incredibile fenomeno editoriale che racconta la sconfitta dell’Occidente
di OttolinaTV
“Perché l’Occidente non accetta la propria sconfitta?”; eh, già: perché? A porsi la domanda nella prefazione della sua ultima fatica, La sconfitta dell’Occidente, è Emmanuel Todd, uno degli intellettuali francesi più originali e controversi degli ultimi decenni; celebre per aver previsto l’implosione dell’universo sovietico nel suo Il crollo finale del 1976 – come, d’altronde, di essersi completamente illuso sul crollo dell’impero USA e la rinascita europea nel suo Dopo l’Impero del 2003 – Todd ha l’innegabile pregio di porsi le domande fondamentali e di avere il coraggio di proporre delle risposte che, anche quando non sono del tutto condivisibili, danno un contributo fondamentale al dibattito. E lo fa da vero ottoliner: “La pace alle condizioni imposte dai russi” scrive infatti Todd “significherebbe una caduta di prestigio per gli Stati Uniti, il che significherebbe la fine dell’era americana nel mondo, il declino del dollaro, e quindi della capacità statunitense di vivere del lavoro complessivo del pianeta”, un lusso che gli USA, oggettivamente, non si possono concedere; secondo Todd, infatti, a partire dalla grande crisi finanziaria del 2008 “Gli Stati Uniti hanno rinunciato al controllo militare del mondo” e da allora “l’obiettivo principale è stato quello di rafforzare il controllo sugli alleati: dall’Europa occidentale al Giappone, passando per la Corea del Sud e Taiwan”. Dopo anni di tentato disaccoppiamento dall’economia cinese, infatti, gli USA importano ormai più dagli alleati vassalli che non dalla Cina e, ancor più che per i beni materiali, per i capitali che sostengono la finanza USA via paradisi fiscali, tutti rigorosamente sotto giurisdizione statunitense o, al limite, britannica. Ecco, così, che “La sopravvivenza materiale degli Stati Uniti dipende dal controllo dei propri vassalli”: “dal punto di vista statunitense quindi, la guerra deve continuare non per salvare la democrazia ucraina, ma per mantenere il controllo sull’Europa occidentale e sull’Estremo Oriente”.
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Il «ritorno del rimosso». Dalla guerra imperialista al conflitto nucleare?
di Gianmarco Pisa
Una riflessione sulle dinamiche del mondo contemporaneo, i recenti sviluppi dello scenario internazionale, le contraddizioni aperte e le sfide poste ai movimenti di lotta contro l’imperialismo, contro la guerra imperialista, e per la pace
Le coordinate dell’imperialismo
Se, riprendendo la celebre espressione di Jean Jaurès, “il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta”, e cioè la guerra è fattore intrinseco del modo di produzione capitalistico e naturale conseguenza della logica dell’accumulazione, della massimizzazione del profitto e dell’esasperazione della competizione su scala planetaria, che sono le fondamenta della logica e della struttura del capitalismo stesso, allora è a maggior ragione vero che l’imperialismo, in quanto «fase suprema del capitalismo», è sinonimo non solo di primato del capitale finanziario, ma anche, nuovamente, di guerra. Cosa significa, in tal senso, «fase suprema», è presto detto, tenendo a mente la fondamentale lezione di Lenin: l’imperialismo non è la fase “più avanzata” o “più evoluta”, quanto piuttosto la fase “terminale”, estrema e radicale, del modo di produzione capitalistico, nella sua evoluzione storica e sociale, giunto alla fase attuale del proprio sviluppo.
Ci allontaneremmo dal nucleo della riflessione se ci dilungassimo nella letteratura dedicata all’imperialismo e ai diversi modi di configurare la categoria stessa di imperialismo: seguendo ancora la traccia (teorica e politica) indicata da Lenin (1917), e quindi l’esigenza di una lettura e di un’interpretazione della categoria che siano, al tempo stesso, teoricamente solide (capaci di intercettare la sostanza del modo di produzione nella fase contemporanea del suo sviluppo storico) e politicamente efficaci (adeguate a fornire non solo categorie di interpretazione ma anche strumenti di lotta), vale la pena soffermarsi sui ben noti cinque “contrassegni”, vale a dire sulla caratterizzazione dell’imperialismo e su una possibile proiezione nell’attualità.
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Podemos, ascesa e fallimento
di Raúl Rojas-Andrés, Samuele Mazzolini, Jacopo Custodi
Il populismo di sinistra di Podemos è rimasto vittima della sua cultura elitaria. I leader della formazione viola sono riusciti a suscitare ammirazione intellettuale, ma non identificazione politica, e questo ha favorito il cortocircuito della sua operazione populista
Quest’anno ricorre un decennio dalla nascita di Podemos, il partito che è emerso sull’onda del movimento 15M e ha sfidato l’austerità nelle piazze delle principali città spagnole. Nei primi giorni, tutto sembrava possibile. Ben presto si è trovato in testa ai sondaggi nazionali con oltre il 20% di consensi, prevedendo di superare il Partito Socialista (PSOE) terremotando il sistema dei partiti che resisteva in Spagna dalla transizione alla democrazia alla fine degli anni Settanta.
Ma da allora molto è cambiato. Oggi, la rappresentanza di Podemos nel Parlamento spagnolo è scesa a soli quattro deputati. Al suo apice, ne aveva settantuno. Alle elezioni di giugno per il Parlamento europeo, Podemos e la sua costola, Sumar, hanno corso separatamente e hanno ottenuto rispettivamente solo il 3,3% e il 4,7%.
Podemos ha fatto irruzione sulla scena adottando una strategia populista ispirata alla sinistra latinoamericana e al lavoro del teorico politico argentino Ernesto Laclau. Si è discostato dalle logiche, dai discorsi e dai simboli tradizionali della sinistra spagnola. Invece di inquadrarsi in opposizione alla destra, ha cercato di fare appello al “popolo” in opposizione alla “casta”. Ma la sua strategia si trovò ben presto divisa in due fazioni opposte.
La prima, guidata da Pablo Iglesias e nota come “pablismo”, sosteneva un ritorno a un’identità apertamente di sinistra. La seconda, quella guidata da Íñigo Errejón, riuniva coloro che volevano mantenere la tabella di marcia populista: costruire ampie maggioranze attorno a un discorso volutamente ambiguo, abbastanza ampio da includere settori diversi e non politicizzati della popolazione. L’“Errejonismo” ha finito per lasciare il partito dando vita a un proprio gruppo, Más País, che ora fa parte di Sumar.
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Jean Luc Nancy e il non finito della democrazia
di Alessandro Simoncini
La democrazia neoliberale di cui oggi sperimentiamo l’ormai lunga crisi, non è mai stata la democrazia trionfante e compiuta che si sarebbe dovuta affermare sulla spinta della vittoria epocale del mercato. Dopo quella che in modo hegelianamente perverso Francis Fukuyama definì la fine della storia, la sconfitta del “socialismo reale” e di ogni comunismo inteso come possibile alternativa politica, economica e sociale, non ha portato a una felice fine della democrazia[1]. Al contrario – sopravvissuta come uno zombie alla “fine della fine della storia” – più che realizzare una democrazia senza fine, almeno a partire dalla crisi degli anni ’70 la democrazia neoliberale ha covato a lungo in seno tutte le contraddizioni che rischiano oggi di condurre a una fine della democrazia di segno del tutto opposto a quella gaudente ed espansiva auspicata da Fukuyama[2]. Di tutto ciò era pienamente consapevole Jean-Luc Nancy, quando nel 2019 scriveva: “trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino e della cortina di ferro i conti con i sogni sull’estensione mondiale della democrazia non tornano”[3]. A fare i conti con quei sogni, del resto, Nancy ha dedicato una parte significativa sua riflessione politica e testi molto rilevanti. Le pagine che seguono prendono in esame solo una piccola parte dell’una e degli altri.
- Critica dello spettacolo e della democrazia “gestionale”
Già alla metà degli anni ’90, nel suo Essere singolare plurale, un libro che non trattava ancora direttamente il tema della democrazia, Nancy sosteneva che le società democratiche capitalistiche realmente esistenti erano svuotate di ogni “«sociazione», di ogni «mettersi in società», per non parlare – aggiungeva senza nostalgie –, delle «comunità» e delle «fratellanze» con cui si forgiavano un tempo le scene primordiali”[4].
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Laboratorio Palestina
di Nico Maccentelli
Antony Loewenstein: Laboratorio Palestina, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00
Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo
Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.
E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a dominanza USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.
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L’arretratezza del rapporto Draghi sulla competitività europea
di Andrea Fumagalli
Qualche giorno fa, la commissione Europea ha reso pubblico il rapporto Draghi sul “Futuro della competitività europea”. Tale rapporto era stato commissionato all’ex governatore della Bce per avere un quadro analitico della realtà economica, produttiva e finanziaria del continente.
Il rapporto consta di due parti – parte A e parte B – e contiene 170 proposte concrete a livello generale poi declinate in sottoproposte di vario tipo.
La prima parte è un’analisi riguardante la strategia di competitività per l’UE che vede condensate in circa 60 pagine i punti chiave del rapporto Draghi.
La seconda parte approfondisce in 328 pagine i vari punti individuando dieci principali settori di intervento (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, industria farmaceutica e trasporti) e cinque policy orizzontali, rispettivamente accelerazione dell’innovazione, riduzione del gap delle competenze, sostegno agli investimenti, ripresa della competitività e rafforzamento della governance. Nella parte B sono contenute le proposte dettagliate corredate da grafici, dati e tabelle che spiegano in particolare i costi della sovranità nazionale e le potenzialità della sovranità europea.
Diverse sono state le reazioni politiche in Italia. Mentre partiti come il Partito Democratico, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Azione e Italia Viva hanno ampiamente concordato – anche se con sfumature diverse – che le proposte di Draghi sono un passo nella giusta direzione, la Lega, da un lato, il Movimento Cinque Stelle e Alleanza Versi Sinistra, dall’altro, con motivazioni antitetiche, hanno manifestato forti perplessità critiche.
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"Le tensioni mondiali sono frutto della resistenza dell’ordine coloniale contro il nuovo ordine multipolare"
intervista a Stephen Brawer
“Il pensiero neomalthusiano è una delle cause principali di guerre e conflitti, e persino del possibile scoppio di una guerra nucleare globale. Il suo obiettivo rimane quello di mantenere il mondo coloniale e imperiale”, ha dichiarato a Magyar Demokrata Stephen Brawer, filosofo newyorkese e presidente del Belt and Road Institute in Svezia.
* * * *
Signor Brawer, mentre un nuovo ordine mondiale multicentrico continua a dispiegarsi davanti ai nostri occhi, il termine “élite globalista” viene spesso usato per descrivere il potere mondiale contestato. Come definirebbe questo gruppo, chi sono queste persone e da dove vengono?
Grazie per l'opportunità di condividere con voi il mio punto di vista e le mie intuizioni. L'idea di base a cui lei si riferisce è spesso indicata come ordine mondiale unipolare o ordine mondiale basato su regole, che è stato un fattore dominante nella struttura del potere globale. Al momento credo sia molto chiaro che la situazione si sta muovendo verso una situazione molto pericolosa in cui il mondo sarebbe nuovamente diviso in blocchi, come ai tempi della cosiddetta Guerra Fredda. Credo che se ci impegniamo a fondo possiamo sperare di evitarlo. Per quanto riguarda la domanda su chi siano queste élite, esiste una struttura di potere che ha una base storica. Di solito ciò a cui mi sono riferito richiede la necessità di comprendere il lungo arco della storia. In questo contesto, credo sia molto importante identificare l'idea di quella che è la struttura di potere anglo-americana, che è stata fondamentalmente la potenza dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale.
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Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola
di Giovanni Carosotti
Nel 1997 e 1998, ormai quasi trent’anni fa, furono pubblicati i primi studi in cui si esprimeva grave preoccupazione nei confronti di un’azione politica che intendeva radicalmente trasformare, in senso anti culturale, la scuola pubblica italiana. Tra gli autori pochi insegnanti, a parte qualche lodevole eccezione (Fabrizio Polacco, La cultura a picco), che dovevano forse ancora rendersi conto di quanta determinazione si stava investendo per stravolgere il senso della loro professione. A farsi carico di questa denuncia furono importanti figure intellettuali, che avevano colto i pericoli di una strategia falsamente riformatrice i cui obiettivi rispondevano a criteri di dominio economico, e il cui interesse conseguente era dunque quello di indebolire il senso critico degli studenti, per renderli soggettività integrate in un sistema di valorizzazione, incapaci di una reale critica sistemica. Oltre al giustamente famoso Segmenti e bastoncini di Lucio Russo, l’altro testo decisivo fu La scuola sospesa di Giulio Ferroni. Ciò che colpisce in questi lavori è la capacità di intuire gli effetti deleteri di lungo e lunghissimo periodo di quelle scelte, che avrebbero investito non solo l’istituzione scolastica, ma l’intera società nel suo complesso, e reso sempre meno capace l’opinione pubblica di interfacciarsi in modo consapevole con le trasformazioni politico-economiche in atto, senza rendersi conto di quanto queste, in alcuni casi, andavano a contraddire lo stesso spirito fondativo della Costituzione repubblicana. Una serie di riflessioni che, rilette oggi (e giustamente nel 2016 Feltrinelli ha riedito il testo di Russo), sembrano profetiche; espresso in un periodo – è bene notarlo – in cui si dubitava che le intenzioni radicali della classe politica potessero avere ragione nei confronti di lavoratori intellettuali, i docenti, ancora pienamente consapevoli del valore culturale del proprio lavoro (e l’ultima dimostrazione di tale consapevolezza fu l’opposizione al cosiddetto “concorsone” voluto dal ministro Berlinguer).
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Lotta di classe e lotta anticoloniale in Palestina
di Jacques Bonhomme
1. Dal presente al passato: vecchie storie da non dimenticare
Quando sono in corso rivoluzioni o guerre civili, le svolte diplomatiche più sorprendenti possono essere una “continuazione della lotta rivoluzionaria con altri mezzi” - per parafrasare il celebre detto dell’altrettanto celebre generale prussiano -, e così è stato a Brest-Litovsk, nel 1918, o in Cina, tra i comunisti e il Kuomintang, nel 1937, di fronte all’invasione giapponese. Ma quando, come appare prepotentemente nel caso della Palestina, una Rivoluzione scaturisce da una Resistenza anticoloniale lunga e sofferta, costellata di offensive e di repressioni spietate, certe svolte diplomatiche tendono ad aprire, e a esasperare, un dualismo fra due livelli, e di conseguenza fra due forme, della lotta: l’articolazione delle alleanze e l’articolazione degli obiettivi. L’apparente complementarità di queste due forme e di questi due livelli della lotta non deve, però, ingannare, poiché le alleanze e gli obiettivi non si accordano mai spontaneamente e soprattutto – a causa della contraddizione che li oppone – non si accordano mai stabilmente. In alcune circostanze le alleanze e gli obiettivi si divaricano ampiamente.
Per quanto riguarda la Palestina, il dualismo concerne due scene non componibili: da una parte l’accordo di Pechino, con il quale le autorità cinesi hanno precostituito, all’ombra dei propri investimenti di capitale nell’area mediorientale, una riconciliazione al ribasso fra tutte le organizzazioni palestinesi e dall’altra le iniziative autonome delle formazioni della Resistenza, come, per esempio, la diffusione di una guerriglia capillare della popolazione palestinese in Cisgiordania, una guerriglia destinata a generalizzare e a radicalizzare lo scontro con lo Stato sionista nelle zone affidate alla sorveglianza dell’ANP, il solerte poliziotto di Israele.
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Benedetto Croce: pregi e limiti di un autore classico
di Eros Barone
È invece in quel Croce che seppe meditare… sui meccanismi dell’autorità, della forza e della violenza nella esistenza dei singoli, delle classi, dei ceti e dei popoli, che possiamo ancora oggi trovare un aiuto contro le stoltezze pseudo-etiche che intessono la ideologia italiana incaricata di distrarci dalle vere ragioni dei conflitti… Croce sapeva bene di dovere i propri privilegi alla violenza giacobina del 1793 e ai bersaglieri che dopo il 1860 ammazzarono, nella guerra al ‘brigantaggio’, più contadini del sud di quante vittime fossero costate, tutte insieme, le guerre del Risorgimento.
Franco Fortini
Due anni fa il 70° anniversario della morte di Benedetto Croce (1866-1952) non ebbe una particolare risonanza se non in alcuni ristretti circoli accademici. Già allora la vicinanza e la distanza, tipiche delle ricorrenze anagrafiche degli autori classici, si sovrapponevano e si intrecciavano, conferendo, per un verso, un carattere quasi protocollare al giudizio consolidato sul rilievo storico del filosofo abruzzese, ma rendendo più problematico, per un altro verso, un bilancio obiettivo della sua opera. Vediamo allora di sciogliere, almeno in parte, questa antinomia, tratteggiando a grandi linee la vita e la molteplice produzione di una tra le più importanti personalità della cultura italiana della prima metà del Novecento.
- Il giovane Croce
Iscrittosi con scarso entusiasmo alla facoltà di giurisprudenza, il giovane Croce fu attratto soltanto dall’insegnamento vivo e anticonformista di Antonio Labriola, una figura chiave del marxismo teorico italiano a cavallo fra i due secoli, che lasciò un’impronta profonda nella formazione intellettuale di quell’allievo quanto mai dotato.
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Innovazioni linguistiche nel conflitto israelo-palestinese
di Paolo Ruta
Nella loro costante e inarrestabile trasformazione le lingue sono inevitabilmente democratiche. Per affermarsi, ogni loro mutamento deve passare al vaglio della maggioranza o, per dirla con un lessico particolarmente in voga, deve diventare virale. Infatti, è la diffusione attraverso l’uso a determinare il successo di un’innovazione linguistica, in quanto esprime il consenso da parte dei parlanti che la adottano spontaneamente.
Dopo i fatti del 7 ottobre 2023, diverse lingue occidentali hanno visto la diffusione di una particolare innovazione linguistica promossa principalmente da una parte della politica e dell’informazione, il cui successo tra i parlanti è però ancora da verificare sul lungo periodo. Il fenomeno è conosciuto come risemantizzazione estensiva e interessa la parola antisemitismo.
Prima di concentrarci su questo punto occorre ribadire che per secoli l’ostilità antiebraica non ha avuto significanti atti a rappresentarla: “in una società come quella cristiana, in cui le minoranze ebraiche vivevano nettamente separate dalla maggioranza e in cui le formulazioni teologiche e la stessa liturgia contenevano espressioni codificate di ostilità antiebraica, essa appariva come un atteggiamento naturale, che non necessitava di un nome.” Si trattava di un’avversione di tipo teologico basata sugli antichi pregiudizi deicidi generati in seno alla comunità cristiana delle origini, e che solo a partire dalla seconda metà del ‘900 ha trovato nella parola antigiudaismo un segno linguistico creato e diffuso principalmente dagli storici che hanno studiato il fenomeno in relazione al posizionamento della chiesa cattolica nel contesto della Shoah.
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Scuola fascista e scuola 4.0
di Fabio Bentivoglio
In occasione della riapertura delle scuole, portiamo all’attenzione dei lettori un importante articolo di Fabio Bentivoglio, filosofo e saggista, apparso su l’Indipendenza, n. 58, luglio – agosto 2024. Ringraziamo l’autore, l’editore e Michele Maggino
“La scuola fascista” è il titolo di un saggio a cura di Gianluca Gabrielli e Davide Montino, pubblicato da Ombre corte nel 2009, organizzato in trentotto voci redatte da dodici ricercatori, incentrato su un’analisi a largo spettro delle fonti materiali, che si intreccia con una riflessione critica di spessore. Sono oggetto di esame gli elaborati scolastici, Befana fascista, arredi e decorazioni scolastiche, registri di classe, quaderni, libri di testo e altro. L’indagine – si legge nella quarta di copertina – si sviluppa da un lato attorno agli elementi istituzionali e organizzativi che caratterizzarono gli interventi del fascismo, dall’altro attorno alla cultura materiale della scuola del ventennio, che si modificò e subì fortissime torsioni sotto una spinta volta all’indottrinamento e alla socializzazione politica delle nuove generazioni.
Bene. Si metta in parallelo quanto emerge da questo testo circa gli interventi capillari del regime in ambito scolastico, con quanto prevede il decreto ministeriale “Piano Scuola 4.0” varato dal governo Draghi il 14 giugno 2022, in merito a istruzione e ricerca 1. Si tratta di verificare se, al di là, ovviamente, della diversità degli specifici contenuti delle prescrizioni imposte, esista una matrice comune tra il progetto di scuola del regime e il progetto della Scuola 4.0: una matrice comune riconducibile a due diverse declinazioni del totalitarismo, quello novecentesco, declinato sul piano politico, e quello contemporaneo, declinato sul piano tecno-aziendale.
Per chiarezza: in sede storica la categoria di totalitarismo indica la riduzione delle molteplici istituzioni e delle molteplici sfere di attività proprie di una società moderna a una totalità unitaria che obbedisce a un’unica logica di funzionamento, tale da non ammettere criteri di giudizio e scelte operative difformi da quelle prescritte.
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Spunti per una discussione necessaria
dal Forum italiano dei comunisti
Una nuova fase di lavoro
Abbiamo più volte ribadito che l'obiettivo del Forum non è creare un nuovo gruppo politico o mantenere steccati fittizi, ma aprire nell'area comunista un dibattito e un rapporto nuovo che contribuisca a superare lo stato in cui versano gruppi e anche singoli compagni e che fino a oggi ha prodotto solo macerie e mistificazioni.
Nei dieci mesi che ci separano dall'inizio dell'attività del Forum ci siamo concentrati soprattutto nel definire la necessità che si ponga fine a nuove avventure corsare e a un modo romantico e soggettivo di intendere la ripresa di un movimento comunista in Italia. Su questo continueremo a insistere, aprendo interlocuzioni che, seppure difficoltose, sono l'unico strumento che ci può permettere di scavare sui luoghi comuni, le ambiguità e le improvvisazioni che hanno caratterizzato finora l'esperienza comunista. Senza la pretesa di salire in cattedra, ma cercando di arrivare, attraverso l'analisi e la discussione, a un punto di vista comune e a ipotesi di lavoro politico sufficientemente verificate.
Per il futuro non ci aspettiamo dunque svolte organizzative che annuncino la nascita di una nuova verità che dovrebbe riaggregare le esauste schiere di comunisti che per decenni hanno provato a riorganizzarsi. Crediamo, invece, che sia arrivato il momento di aprire una fase in cui le questioni di fondo che riguardano l'avvenire dei comunisti italiani vengano messe al centro di una elaborazione collettiva che ci faccia fare dei passi in avanti.
Imboccare questa strada è arduo e presuppone che di fronte al bilancio negativo si eviti di rinchiudersi in nicchie organizzative o culturali che sono solo dimostrazioni di difficoltà nel rapportarsi alla realtà. Per noi comunisti la teoria è la scienza della trasformazione.
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Gli USA dichiarano l’inizio della terza guerra mondiale e invocano lo stato di guerra permanente
di OttolinaTV
L’Europa che dà il via libera all’impiego dei suoi missili a lungo raggio per colpire direttamente il territorio russo; Israele che, col sostegno incondizionato degli USA, si prepara ad attaccare il Libano e prova in ogni modo ad allargare il conflitto all’intero Medio Oriente; Africa e America Latina che tornano a incendiarsi tra golpe tentati, golpe riusciti, guerre per procura e guerre ignorate; e tutti gli alleati occidentali che insieme appassionatamente, come se non avessero già abbastanza guai sugli altri quattro fronti, trovano anche il tempo per andare a stuzzicare i cinesi nel loro giardino di casa, tra gite in barca di tedeschi e italiani nello stretto di Taiwan e sistemi d’arma Typhon installati in pianta stabile nelle isole settentrionali delle Filippine. Vista superficialmente, sembra una caotica guerra mondiale a pezzi, come la definiva il compagno Papa Ciccio; in realtà, però, è tutto meno caotico e improvvisato di quanto non appaia: lo spiega chiaramente e con dovizia di particolari questo lungo documento licenziato nel luglio scorso dal Congresso degli Stati Uniti e che, molto stranamente, era passato sostanzialmente inosservato. E’ il rapporto finale della commissione sulla National Defense Strategy, il documento che mette nero su bianco la strategia complessiva dell’impero a stelle e strisce; il rapporto ufficiale, che abbiamo descritto in lungo e in largo negli anni passati, era stato pubblicato nell’ottobre del 2022 con oltre un anno di ritardo perché, nel frattempo, con l’inizio della fase 2 della guerra per procura in Ucraina il mondo era cambiato. Evidentemente, però, il mondo continua a cambiare molto più rapidamente di quanto gli analisti del dipartimento della difesa USA impiegano a comprendere questi cambiamenti e a dire come andrebbero affrontati; ed ecco così che, a meno di due anni di distanza, una commissione di altissimo livello è costretta a rimettere mano all’intero dossier per arrivare ad ammettere, nel modo più chiaro possibile immaginabile, quello che da mesi continuiamo a ribadire in ogni occasione: gli Stati Uniti sono, a tutti gli effetti, già in guerra contro il Sud globale.
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Le trappole della democrazia borghese e la verità del socialismo bolivariano
di Geraldina Colotti
“Mai ci è importato che alcuni fascisti europei votino una risoluzione senza nessun valore contro la sovranità del Venezuela”. Così, con la dignità e l’orgoglio di chi si sente erede del Libertador Simon Bolivar, il presidente dell’Assemblea venezuelana, Jorge Rodriguez, durante una conferenza stampa internazionale, ha commentato la decisione dell’Eurocamera di “riconoscere” come “presidente eletto” del Venezuela, l’ex candidato dell’estrema destra, Edmundo Gonzalez Urrutia.
Dello stesso tenore la reazione dell’ambasciatore all’Onu, Alexander Yánez, che ha definito un “ridicolo volantino” dettato da Washington la dichiarazione con cui, al Consiglio per i diritti umani, 40 paesi hanno “denunciato Nicolás Maduro”. In un successivo comunicato, il ministro degli Esteri venezuelano, Yvan Gil, ne ha precisato i termini, denunciando il tentativo di rieditare il fallito Gruppo di Lima, azionato ai tempi della precedente autoproclamazione, nel 2019.
Grottesco che a guidare all’Onu la condotta del gruppo sia stata la ministra degli Esteri argentina, Diana Mondino, portavoce di quel Javier Milei che sta calando quotidianamente la “motosega” sui diritti basici del popolo argentino. Insensato che i rappresentanti dei paesi europei definiscano una golpista dichiarata e confessa come Maria Corina Machado “leader delle forze democratiche”. Significativo, invece, che il magnate delle piattaforme digitali, Ellon Musk, abbia ricevuto in pompa magna Milei e che ora abbia dato un premio alla presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni, di estrema destra. Tutti, ovviamente, grandi campioni di democrazia. E altrettanto “democratiche” sono le minacce proferite dal capo di Black Water, Erik Prince, di riservare “sorprese” mercenarie al Venezuela, come poi è puntualmente accaduto, nel silenzio assordante dei media europei.
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Le armi segrete dell’impero, e la sua nemesi
di Paolo Di Marco
0- premessa: per ora va bene…
Quando i nostri amici americani bombardarono Milano ero troppo piccolo per capire che non era normale lanciare bombe sui civili, per di più quando c’era stato un armistizio, ma ci pensarono Dresda (v. Mattatoio 5) e Hiroshima a chiarire la morale della situazione.
Ero un poco più consapevole quando protestavo contro la guerra in Vietnam scappando sui marciapiedi per evitare che le camionette del 3° Celere del siciliano a stelle e striscie Scelba mi facessero piatto. E ancora quando marciavo a Vicenza verso la base americana lungo una strada circondata da filo spinato pensavo di esercitare una pressione morale cui il popolo americano non sarebbe stato insensibile.
Fu solo più tardi che compresi che se n’erano andati dal Vietnam non per le proteste dei giovani ma perchè erano stati sconfitti.
Se l’ingloriosa fuga da Kandahar echeggia le immagini dell’evacuazione da Saigon viene allora da chiedersi a che punto è il dominio americano sul mondo.
Alcuni parlano di crisi dell’impero americano. (recentemente anche Pietro Terzan comentando il libro di Burgio, Leoni, Sidoli: Terza guerra mondiale? Il fattore Malvinas, L’AntiDiplomatico, 2024)
Il più autorevole è probabilmente McCoy (To Govern the Globe: World Orders and Catastrophic Change, del 2021), famoso per la sua opera magistrale ‘The Politics of Heroin, the complicity of CIA in the global drug trade’, insuperato per documentazione e ampiezza di prospettive -il più bel libro mai scritto sulla droga e la sua gestione.
Lui ora aggiorna il libro con un intervista a Tom’s Dispatch:
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Con la fine del tempo di lavoro finisce anche il tempo libero
di Leo Essen
Benjamin Kline Hunnicutt è professore di storia all’Università dell’Iowa. La sua ricerca si è concentrata sulla riduzione dell’orario di lavoro. Molto noto è il suo libro Kellogg’s Six-Hour Day, sulle prospettive e gli effetti della riduzione della settimana lavorativa presso Kellogg’s, la multinazionale delle merendine. Con studiosi come Joseph Pieper e Hannah Arendt ha anche esplorato l’«ascesa del lavoro totale».
In un articolo pubblicato nel 1999 sulla rivista Nord Sud, Hunnicutt si confronta con Giovanni Mazzetti, esponente europeo di primo piano degli studi sulla riduzione dell’orario di lavoro.
Come mai, si chiede Hunnicutt, in Occidente abbiamo abbandonato la riduzione dell’orario? Per quale ragione, dopo aver ridotto la giornata lavorativa della metà nel corso del “secolo della riduzione del tempo di lavoro” e dopo aver immaginato un’età dell’oro, con un tempo libero così ampio da poter perseguire il vero bene della vita – i liberi prodotti della mente, la comunità, lo spirito – per quale ragione, dicevo, ci siamo rivolti verso un tempo pieno di lavoro, perdendo di vista il vecchio principio secondo il quale il lavoro non è che un mezzo per altri fini? Le risposte che mi sono dato si possono riassumere così: consumismo e mercificazione della vita; politica governativa di creazione del lavoro; cambiamento culturale corrispondente all’inversione del rapporto tra lavoro e tempo disponibile.
L’idea di lavoro, dice Hunnicutt, ha invaso e sottomesso tutta l’azione e l’esistenza umana. Tutta la vita moderna ha finito con l’essere dominata dall’ideologia del lavoro. Il lavoro ha finito per essere considerato come connaturato alla condizione umana, come una proprietà naturale. E invece, dice, il lavoro deve essere considerato come storico e relativo.
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Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana
di Sandro Moiso
Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)
Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)
Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense a una guerra sul fronte mediorientale.
Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano.
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“Guerra di movimento” e costruzione del partito comunista
di Fosco Giannini
Tra la terza guerra mondiale già in corso, la crisi sistemica dell’Ue, la torsione in senso fortemente reazionario del capitalismo italiano e la totale assenza di un’opposizione politica, sociale e sindacale, cresce in Italia l’esigenza della costruzione di un’avanguardia comunista, di un partito comunista di classe, unitario, di quadri, con una linea di massa.
Riarmare politicamente la “classe” – oggi disarmata, muta, inane –, l’intera “classe politecnica” del lavoro, il movimento operaio complessivo attraverso la messa in campo di un partito comunista, rivoluzionario, d’avanguardia, di lotta, di quadri, con una linea di massa. Questo è l’obiettivo che le forze comuniste che si vanno unendo (Movimento per la Rinascita Comunista, Resistenza Popolare, Patria Socialista, Costituente Comunista) vogliono, in modo risoluto, perseguire – assieme ad altre soggettività comuniste che vorranno condividere il cammino – e hanno “proclamato”, pubblicamente e di fronte ad un vasto “pubblico” di compagne e compagne, di lavoratori e intellettuali, nell’ultima e importante giornata, nel dibattito finale (“Verso la costruzione del partito comunista”) della Festa nazionale del MpRC tenutasi a Castelferretti (Ancona) dal 13 al 15 settembre scorsi.
La messa in campo di una forza comunista e rivoluzionaria è un progetto che fa tremare le vene dei polsi. Ne siamo consapevoli. Ma la determinazione a proseguire l’impegno e la lotta per cogliere questo obiettivo acquisiscono a mano a mano più forza in relazione alla razionalità degli argomenti che sono alla base dello stesso progetto strategico. È una ratio politica e ideologica, un’interpretazione materialistica della fase, internazionale e nazionale, a guidarci, non il cuore, non un’idealità immateriale, non un sogno.
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La solita vittima dell’austerità: le pensioni
di coniarerivolta
Tra la fine d’agosto e l’inizio di settembre, come da tipico copione tardo-estivo, si è tornato a parlare con una certa frenesia di sistema pensionistico.
L’ormai conclamato e ufficiale ritorno in grande stile dell’austerità di bilancio impone ai governi europei di tornare con forza alle politiche di tagli draconiani che erano state in parte congelate nel periodo pandemico e post-pandemico (2020-2023).
Come sempre i bocconi più appetibili per fare cassa sono quelli dove potenzialmente c’è tanto da drenare e da risparmiare e dove le vittime designate sono le classi subalterne: sanità, scuola, servizi pubblici locali e, naturalmente, pensioni.
Il saccheggio pensionistico: un po’ di storia recente
Queste ultime sono state oggetto di una politica di spoliazione senza tregua dall’inizio degli anni ’90 in poi e continuano a esser viste dai governi di turno come un enorme pozzo dove scavare fino a raschiare il fondo. Essenzialmente in due modi: 1. allungamento continuo dell’età pensionabile; 2. riduzione dell’assegno pensionistico attraverso una transizione accelerata al calcolo contributivo e il costante taglio delle percentuali di indicizzazione all’inflazione.
In tema di età pensionabile, con la manovra finanziaria dello scorso anno eravamo rimasti al drastico aggravamento delle condizioni della già miserrima quota 103, peggiorativa a sua volta di quota 102, peggiorativa a sua volta della misera e pro-tempore quota 100, intese tutte come misure ponte temporanee per tornare di fatto alla regola generale della Legge Fornero che, al netto degli altri strumenti d’eccezione, consente ad oggi di accedere alla pensione attraverso due canali standard:
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Gli USA appaltano l’escalation nucleare ai vassalli europei e preparano la guerra contro l’Iran
di OttolinaTV
Carissimi Ottoliner, come saprete tutti benissimo la minaccia di escalation che ci ha tenuto sulle spine per tutta la scorsa settimana è stata sventata: il via libera di Washington all’utilizzo dei missili a lungo raggio USA per colpire dentro al cuore della Russia alla fine non è arrivato; purtroppo, però, non si tratta di un capitolo chiuso, ma di un semplice rinvio. Un teatrino che abbiamo già visto enne mila volte e che c’avrebbe anche abbondantemente rotto i coglioni. Ve lo ricordate il tira e molla sui carri armati? Mandagli prima gli Abrams te; no, prima i Leopard te. E poi gli F-16 mandaglieli te. No, te. Il tutto immancabilmente accompagnato da decine e decine di articoli che ci raccontavano la leggenda metropolitana dell’Occidente pieno zeppo di armi capaci di mettere fine alla guerra in un battibaleno, se solo non fosse stato per le opinioni pubbliche manipolate dalla potentissima macchina propagandistica del Cremlino. Poi alla fine, come ampiamente previsto, arrivavano i carri armati sia dell’uno che dell’altro; e pure gli F-16 e tutto quello che l’Occidente ha davvero a disposizione, ma sul campo non cambiava una seganiente. E tutte le volte il solito identico copione: qualche giorno di silenzio stampa per assestare un po’ il colpo, durante il quale la guerra scompariva dalle prime pagine della propaganda, e poi riborda, una nuova arma immaginaria e un nuovo teatrino; una sceneggiata che ormai gli italiani hanno capito alla perfezione: e così, oggi, è favorevole all’invio di nuove armi in Ucraina meno di un italiano su tre. Se ci levi quelli che campano di incarichi pubblici (che hanno bisogno della benedizione di Washington e di Bruxelles), i giornalisti del gruppo GEDI e i loro parenti, la percentuale scende a uno su dieci; alla fine ne rimarranno solo due e si chiameranno Iacopo Jacoboni e il suo ex direttore Maurizio Sambuca Molinari, che si rimette un po’ in sesto e ci riprova: Ucraina, le autocrazie armano Mosca titolava il suo esilarante editoriale di domenica su La Repubblichina.
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La sinistra necessaria: nuovi soggetti e nuove forme organizzative
di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni
Le elezioni europee hanno confermato, al di là del dato numerico, l’egemonia della destra. Il loro esito, inoltre, ha assunto una rilevanza che va oltre il nuovo assetto dell’Europa. Lo scenario politico ne esce, anche sul versante nazionale, profondamente segnato. All’analisi dei risultati abbiamo dedicato, nell’immediato, due ampie analisi di Marco Revelli (https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/13/elezioni-a-che-punto-e-la-notte/ e https://volerelaluna.it/commenti/2024/06/19/europa-occidente-il-canto-stonato-delle-anatre-zoppe/) e un primo intervento di Livio Pepino (https://volerelaluna.it/controcanto/2024/06/17/dopo-le-europee-la-necessita-di-un-dibattito-senza-reticenze/) teso a mettere sul tappeto alcune questioni aperte. La situazione interpella, peraltro, anche noi di Volere la Luna e i gruppi e movimenti che compongono il variegato arcipelago che ci ostiniamo a chiamare sinistra alternativa. Che fare? La domanda di sempre richiede oggi analisi particolarmente accurate e risposte all’altezza dei tempi bui che stiamo vivendo, in cui all’ormai consolidata vittoria del mercato si affiancano, in Italia, il consolidamento di una svolta autoritaria che non tollera dissenso e, sul piano internazionale, una guerra mondiale “a pezzi” che rischia di degenerare in guerra nucleare. Abbiamo, dunque, deciso di aprire, sul punto, un dibattito franco e – lo speriamo – capace di non fermarsi all’esistente e di individuare nuove modalità e nuove strade da percorrere. Le analisi e le proposte pubblicate rappresenteranno uno sforzo collettivo ma saranno tra loro assai diverse e impegneranno, per questo, solo i loro autori. Poi, a suo tempo, forti del confronto realizzato, proveremo a trarre delle conclusioni, magari in un’iniziativa di carattere nazionale su cui stiamo cominciando a ragionare. (la redazione)
* * * *
Non ci vuole solo coraggio, ma anche una buona dose di temerarietà nel cercare di rispondere alla domanda che Volere la Luna ci pone: “Che fare?”.
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La rivoluzione culturale
di Alain Badiou
Tratto da Alain Badiou, Pietrogrado, Shangai. Le due rivoluzioni del XX secolo, Mimesis, 2023, Titolo originale: Petrograd, Shanghai, La Fabrique Éditions, 2018. Traduzione italiana di Linda Valle
1. Perché?
Perché parlare della “Rivoluzione culturale” – il nome ufficiale di un lungo periodo di gravi disordini nella Cina comunista tra il 1965 e il 1976? Per almeno tre motivi.
Primo motivo. La Rivoluzione culturale è stata un riferimento costante e vivo per l’azione militante in tutto il mondo, e in particolare in Francia, almeno tra il 1967 e il 1976. Fa parte della nostra storia politica, ha fondato l’esistenza della corrente maoista, l’unica vera creazione degli anni Sessanta e Settanta. Posso dire “noi”, io c’ero e in un certo senso, per citare Rimbaud, “sono qui, sono sempre qui”. Nell’instancabile inventiva dei rivoluzionari cinesi, ogni genere di traiettoria soggettiva e pratica ha trovato la sua nominazione. Già cambiare la soggettività, vivere in modo diverso, pensare in modo diverso, i cinesi – e poi noi – lo chiamavano “rivoluzionamento”. Dicevano: “cambiare l’uomo in ciò che ha di più profondo”. Ci hanno insegnato che nella pratica politica bisogna essere sia “l’arciere che il bersaglio”, poiché la vecchia visione del mondo è ancora molto presente in noi. Alla fine degli anni Sessanta siamo andati ovunque, nelle fabbriche, nelle case popolari, nelle campagne. Decine di migliaia di studenti diventavano proletari o vivevano in ostelli operai. Anche per questo c’erano le parole della Rivoluzione culturale: “grandi scambi di esperienze”, “servire il popolo” e, ancora fondamentale, “legame di massa”. Combattevamo contro la brutale inerzia del Partito comunista francese, il suo violento conservatorismo. Anche in Cina veniva attaccato il burocratismo del Partito, per cui si utilizzava l’espressione “lotta al revisionismo”. Anche le scissioni, gli scontri tra rivoluzionari di diverso orientamento, si dicevano alla cinese: “stanare la banda nera”, sbarazzarsi di coloro che “sembrano di sinistra e in realtà sono di destra”.
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La Pace, Trump, Putin e lo spettro del rossobrunismo
di Antonio Castronovi
Con in calce tre commenti di Alessandro Visalli, Fabrizio Marchi e Giulio Bonali
Viviamo nell’epoca dei paradossi e dei conflitti identitari, in cui il Bianco è Nero e il Nero è Bianco, in cui la Sinistra non sembra sinistra e la Destra non sembra destra, in cui Pace è sinonimo di Guerra, in cui Democrazia è sinonimo di Oligarchia e in cui Libertà è sinonimo di Dittatura e di Censura.
La confusione semantica nell’uso delle parole e del loro significato contribuisce ad annebbiare le coscienze e a depotenziare qualsiasi anelito di rivolta e di opposizione al regime oligarchico e tecnocratico che domina l’Occidente e ci impedisce la comprensione della natura dei conflitti che attraversano il cuore dell’Impero anglosassone e delle sue élite dominanti.
Emblematico è il caso delle elezioni statunitensi in cui si fronteggiano la “democratica” Kamala Harris e il “repubblicano” Donald Trump, che nel linguaggio orwelliano rappresentano la destra e la sinistra, in cui la sinistra spinge per la guerra alla Russia e la destra “frena” e promette una soluzione pacifica del conflitto che insanguina l’Ucraina, salvo verifica.
Nel mondo orwelliano chi parla di pace è un nemico della democrazia e della libertà, è un putiniano amico dei dittatori, quindi va censurato, zittito. Negli USA, si sa, non ci vanno per il sottile, e sono più pratici e sbrigativi: li ammazzano, soprattutto se sono ai vertici del potere o vi aspirano. Inutile citare i fratelli Kennedy o riandare indietro nel tempo fino all’assassinio di Abramo Lincoln.
Già, la guerra civile americana! Abramo Lincoln era il presidente repubblicano degli USA e rappresentava il Nord industriale che voleva emanciparsi dal colonialismo inglese e propugnava politiche protezionistiche per sostenere la nascente industria, concentrata nel Nord.
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