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Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”
di Sandro Moiso
Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro
Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.
Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nakba (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.
Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.
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Elogio dei reietti
di Martina Bastianello
I Magnifici 7: 1. La Lezione frontale, 2. Il Libro-libro, 3. I Contenuti (volevo solo insegnare i Fenici…), 4. L’Alfabeto, 5. Distillati, 6. La Cartina muta, 7. W “I Mona”! (senza certificazione)
1. La Lezione frontale.
Non potevo che iniziare da Lei. Da oltre vent’anni – da quando, in buona sostanza, ho iniziato le prime supplenze – Lei viene bistrattata, offesa, vituperata, considerata fonte di sciagure: alla stregua della bella Elena – responsabile d’aver scatenato la guerra di Troia – la Lezione frontale pare abbia inflitto infiniti lutti… non agli Achei, questa volta, ma a generazioni di sfortunati studenti. Sembra che tutti, insomma, siano convinti che sia arrivato, oggi, il momento di liberarsi definitivamente della scellerata: la maggioranza dei genitori, dei docenti, dei formatori, degli opinionisti, delle aziende e dei rappresentanti del Miur forma un nutrito quanto deciso plotone di esecuzione.
Ma con chi/con cosa se la prende chi se la prende con la Lezione frontale?
“Se la prende con un fantoccio, uno spettro, un nemico costruito appositamente per poterlo combattere”, mi sono risposta – sempre più allibita – nel corso degli anni. Forse è arrivato il momento di condividere la mia risposta, sperando che a essa si unisca un nutrito coro di risposte affini.
Primo: la Frontalità è un valore che solo i valorosi riconoscono come tale e proteggono. Per stare di fronte a qualcuno (agli studenti, nel nostro caso) ci vuole coraggio perché ci stai solo, tutto intero, con quel poco che ti sembra di sapere e quell’oceano di non-sapere che ti circonda e preme da ogni lato. Ci stai con il tuo corpo (faccia struccata, calvizie incipiente, rughe, pancetta da birra, calze smagliate, patta semiaperta…); ci stai con la tua voce che è lo strumento (scordato, stridente, tremulo, sfiancato) che racconta storie, snocciola dati, propone metafore, presenta teorie, richiama, rimprovera, elogia, interroga, grida e sussurra.
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Contro l’idea della vittoria
di Alfonso Gianni
"Deve essere sembrato a molti che in un convegno sulle prospettive del mondo di domani fosse almeno impertinente (…) chiedere la parola per ricordare ai convenuti che 'domani' il mondo, in quanto mondo culturale umano, può finire e che una qualsiasi risposta a come possa e debba essere “domani” il mondo comporta la domanda preliminare se 'domani' vi sarà un mondo e se oggi non vi sia il rischio che almeno certe forze cospirino alla sua fine”1
Con una modifica certamente non irrilevante, di parole e di senso, rispetto al sacro testo da cui è estrapolato,2 si potrebbe riproporre il celebre interrogativo: “Sentinella a che punto è la guerra?” e la risposta sarebbe “In stallo”. Naturalmente se si guarda il campo di battaglia. La pluriproclamata controffensiva ucraina ha dato scarsi e deboli segnali di sé e soprattutto nessun successo sostanzioso. D’altro canto l’avanzata russa si è fermata a consolidare le posizioni fin qui raggiunte. Naturalmente non tutte le narrazioni sono concordi, come sempre succede in tempo di guerra per ogni guerra. Il segretario della Nato Jens Stoltenberg non perde occasione di magnificare le possibilità di vittoria finale dell’Ucraina esaltando i passi in avanti fin qui fatti. In una visita improvvisata a Kiev lo scorso 28 settembre, parlando in una conferenza stampa congiunta con Volodymir Zelensky, ha affermato con enfasi che le forze ucraine starebbero “gradualmente guadagnando terreno … ogni metro che le forze ucraine guadagnano è un metro che la Russia perde”.3
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L’economia di guerra parziale russa “tiene”, mentre l’Eurozona rallenta e la Germania scende in recessione
di Andrea Vento*
Negli ultimi mesi Mosca sta evidenziando un ciclo economico in ripresa, ordinativi industriali in aumento e un regime di cambio controllato, al cospetto di una lieve ripresa dell’inflazione, un rialzo dei tassi e una riduzione del saldo commerciale.
* * * *
L’economia russa dopo la moderata, rispetto alle catastrofiche previsioni iniziali (-8,5%), recessione del -2,1% del 2022 e le prospettive di crescita per l’anno in corso dell’Outlook Fmi di luglio del 1,5% (tabella 1), grazie e non solo a un surplus commerciale positivo seppur in diminuzione (tabella 2), sembrerebbe evidenziare, benché non priva di criticità, una sostanziale tenuta, sia per l’anno in corso che nei due successivi.
Tabella 1: previsioni e dati definitivi in % anni 2022, 2023 e 2024 degli Word Economic Outlook Fmi
Tipologia di dati | Previsioni 2022 | Previsioni 2022 | Definitivo 2022 | Previsioni 2023 | Previsioni 2023 | Previsioni 2023 | Previsioni 2024 |
Economic Outlook Fmi emesso a: | Aprile 2022 | Ottobre 2022 | Luglio 2023 | Gennaio 2023 | Aprile 2023 | Luglio 2023 | Luglio 2023 |
Economia mondiale | 3,6 | 3,2 | 3,5 | 2,9 | 2,8 | 3,0 | 3,0 |
Russia | -8,5 | -3,4 | -2,1 | 0,3 | 0,7 | 1,5 | 1,3 |
Stati Uniti | 3,7 | 1,6 | 2,1 | 1,4 | 1,6 | 1,8 | 1,0 |
Germania | 2,1 | 1,5 | 1,8 | 0,1 | -0,1 | -0,3 | 1,3 |
Italia | 2,3 | 3,2 | 3,7 | 0,6 | 0,7 | 1,1 | 0,9 |
Cina | 4,4 | 3,2 | 3,0 | 5,2 | 5,2 | 5,2 | 4,5 |
India | 8,2 | 6,8 | 7,2 | 6,1 | 5,7 | 6,1 | 6,3 |
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Sogni algoritmici di intelligenze disincarnate
di Diego Viarengo
Una riflessione sul rapporto tra macchine, corpo, esperienza e limiti dell’IA
Ad Hollywood sceneggiatori e attori erano in sciopero: oltre che per questioni economiche, hanno protestato contro l’uso indiscriminato dell’intelligenza artificiale nel cinema e nelle arti. Ciò che rivendicavano è il ruolo del corpo nel lavoro creativo, un ruolo minacciato dagli algoritmi. Sostituire il corpo, parti del corpo, è infatti il cuore del concetto di intelligenza artificiale. Anzi, come scrive il filosofo Daniel Dennett in Dai Batteri a Bach (2018), è il suo assunto operativo classico:
L’assunto operativo classico dell’intelligenza artificiale è sempre stato che ogni organo vivente è in realtà soltanto un sofisticato dispositivo basato sul carbonio che può essere rimpiazzato, un pezzo alla volta o tutto insieme, da un sostituto non vivente che ha lo stesso profilo di input e output – fa tutte le stesse cose e solo quelle con gli stessi input e nello stesso tempo senza perdite di funzionalità.
Se ogni parte del corpo umano può essere sostituita da un analogo non vivente con almeno pari prestazioni, la parte più interessante – e più difficile – da sostituire è il cervello. Del resto se il cervello è come immagina Dennett un “elaboratore di informazioni”, l’informazione è indifferente alla propria consistenza, “neutrale rispetto al mezzo” che la esprime. Una delle idee popolari nella nostra epoca è che il cervello faccia quello che fa un computer, solo che è costruito di materiale organico. Per esempio Richard Masland, neurobiologo specializzato negli organi della vista, ha pochi dubbi e in Lo sappiamo quando lo vediamo (2021) si fa portavoce della comunità scientifica: “io, come quasi tutti gli scienziati, penso che il cervello sia un computer”.
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Tempesta sul Medio Oriente
di Enrico Tomaselli
Un primo tentativo di analisi del riaccendersi del conflitto in Palestina, pur nel pieno dell’azione ancora in corso, ed in particolare soffermandosi su tre aspetti: la mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi; la capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco; il senso politico e militare dell’operazione in generale.
* * * *
Come un sasso in piccionaia, l’attacco portato dalle Brigate Ezzedin al-Qassam il 7 ottobre, ha sorpreso e sconvolto tutti, gli osservatori e – ovviamente – gli stakeholders. Essendo l’operazione al Aqsa Flood ancora in corso, non è al momento possibile farne una analisi chiara ed esaustiva; ciò nonostante, alcune riflessioni possono essere già fatte. E di alcune, anzi, si avverte decisamente l’urgenza.
In particolare, sono tre gli aspetti su cui soffermarsi. La mancata previsione dell’attacco, da parte dei servizi di sicurezza israeliani e statunitensi. La capacità palestinese di ottenere il fattore sorpresa al momento dell’attacco. Il senso politico e militare dell’operazione in generale.
Prima di entrare nel merito, ed esaminare specificamente questi tre aspetti, è importante aggiungere una ulteriore premessa, di ordine più generale. Purtroppo, talvolta anche in ambienti presumibilmente identificabili come alieni dalla propaganda mainstream, si insinua un pericoloso bias complottista, che tende a vedere – nelle varie articolazioni statuali del potere occidentale – una sorta di moloc invincibile, e che pertanto, quand’anche si ritrova dinanzi ad una palese sconfitta di questo potere, ai suoi clamorosi errori, rifiuta di farsene convinto, e tende a immaginare oscure manovre e occulti disegni, in base ai quali la realtà apparente sarebbe in effetti l’opposto di ciò che è fattualmente.
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Se gli Stati Uniti scaricano l’Ucraina sull’Europa
di Gianandrea Gaiani
Al vertice Ue di Granada il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non ha usato mezzi termini per definire l’attuale situazione. Preso atto dei “tornado politici” che scuotono un’America ormai travolta da una aspra campagna elettorale in vista delle presidenziali del novembre 2023, secondo Zelensky “l’Europa deve essere forte, non abbassare le vele in attesa della fine della tempesta” perché gli europei non possono permettersi il lusso della stanchezza, o di abbandonare l’Ucraina o di accettare un congelamento del conflitto con la Russia. Se lo facessimo secondo il presidente ucraino, saremmo tutti in pericolo poiché nel 2028 l’Europa rischia un altro “momento critico” con la Russia pronta ad attaccare altri obiettivi.
Si può esprimere qualche dubbio sul fatto che la Russia (dipinta in Occidente come una “potenza imperialista”) abbia davvero intenzione o interesse a invadere un pezzo di Europa tra cinque anni e non può certo stupire che Zelensky cerchi di scongiurare il rischio, sempre più concreto, che l’Occidente abbandoni la causa ucraina o rallenti decisamente il flusso dio aiuti. L’America lo farebbe per ragioni elettorali e perché tradizionalmente gli Stati Uniti, specie quando gli americani vengono chiamati al voto, decidono che i conflitti in cui sono invischiati non sono più “la loro guerra”.
L’Europa lo farebbe perché non ha più nulla da dare a Kiev in termini di armi e munizioni, perché tradizionalmente segue gli USA come un fedele vassallo nel coinvolgimento e nel disimpegno dai conflitti e poi anche perché la guerra che a dire di molti leader europei doveva logorare la Russia sta invece distruggendo la nostra economia e mina la nostra stabilità politica e sociale.
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In risposta a una lettera aperta
di Bruno Steri
Seguo con una certa continuità quello che pubblicano i compagni e le compagne di marx21. In particolare, sulla prima pagina del loro sito, mi è stato segnalato (con richiesta di risposta) un impegnativo contributo di Fausto Sorini: una lettera aperta, come l’ha definita lo stesso autore, il cui titolo esemplifica bene l’argomento: Sulla condizione dei comunisti in Italia. Che fare? Note per una discussione aperta. Certamente, per chi nel nostro Paese è comunista non è purtroppo difficile riconoscere la condizione di marginalità politica in cui oggi si trova a operare, “la palude in cui siamo immersi, tutti”: una palude - annota Sorini – che rischia di vanificare il sacrificio di tanti militanti, impegnati in “gruppi, associazioni, reti, istanze partitiche comuniste, che a tale militanza sacrificano tanta parte della loro vita”. Di qui la proposta, rivolta “a tutte le compagne e i compagni italiani”, di un Forum di discussione tra comunisti, tra quanti ritengano “del tutto insoddisfacente la situazione attuale” e conseguentemente vedano l’urgenza di indagare a fondo le sue cause e le prospettive per un eventuale ripresa. Beninteso, l’autore si affretta a escludere, nominandola esplicitamente, qualunque pretesa di creare con questa sua iniziativa “nuovi cenacoli”, qualunque scorciatoia organizzativa di breve periodo. Dovrebbe trattarsi al contrario di un percorso da impostare – egli dice – “come processo storico-politico di lunga durata”.
Raccogliamo la sollecitazione e seguiamo il ragionamento proposto. Prima di arrivare al cuore di tale ragionamento, quello sul “che fare”, è bene procedere a una verifica dei suoi “fondamentali” politici, caratterizzati dalla critica nei confronti dell’involuzione che ha condotto dal Pci all’attuale PD, con la connessa “mutazione genetica”.
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La guerra dei settant’anni, ultima puntata (per ora)
di Paolo Arigotti
Non ci soffermeremo sull’evoluzione dei fatti e/o sull’andamento della situazione bellica in Medio Oriente, non tanto perché sarebbe meglio lasciare il compito ad analisti ed esperti di strategia militare - quelli veri s’intende - ma perché siamo consapevoli che qualunque cosa dicessimo o scrivessimo al riguardo rischierebbe di essere ben presto superata. Lo stesso discorso si potrebbe fare per qualunque cifra o bilancio su numero o entità degli attacchi e/o di vittime, feriti e sfollati, numeri circa i quali è lecito attendersi, purtroppo, una rapida crescita.
Tanto meno ci soffermeremo sulle reazioni del cosiddetto Occidente, che ha dato sfoggio del solito campionario di slogan o frasi di circostanza; stessa riflessione si potrebbe fare per molti dei cosiddetti professionisti dell’informazione.
Bisogna riconoscere, senza per questo voler giustificare nessuno, che parlare in questo paese della conflittualità arabo israeliano non è affatto semplice: nel caso di narrazione non allineata si rischia, bene andando, di essere etichettati o messi all’indice da coloro che non tollerano di ascoltare voci dissonanti.
Una piccola lezione di stile la potrebbero fornire alcuni media insospettabili.
Cominciamo con Gideon Levy, cittadino israeliano e firma storica del quotidiano progressista Haaretz, che ha addebitato al premier Benjamin Netanyahu (Bibi per gli amici) la colpa dell’accaduto, concludendo il suo intervento con queste parole: “Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale ritiene che Israele sia una democrazia liberale e condivida gli stessi valori dell’Occidente, ma ciò non può essere del tutto vero se nel suo cortile sul retro mantiene in vigore una brutale tirannia.
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“Terza via” e rifondazione della sinistra nel pensiero di Lucio Magri
Fra la tradizione comunista italiana e la novità del ’68
di Mattia Gambilonghi*
Ricordare la figura di Lucio Magri a dieci anni dalla sua scomparsa è non solo un atto politico dovuto e obbligato, in quanto volto a preservare e onorare la memoria di un dirigente politico dotato di una profondissima cultura politica e di un’elevatissima capacità analitica e progettuale; ma è, soprattutto, un atto utile e necessario politicamente, per noi tutti e per la più ampia comunità della sinistra italiana: se un futuro e una capacità propositiva ed egemonica per questa disastrata sinistra possono essere immaginati, ciò può avvenire proprio ripartendo da figure dotate della statura di Lucio Magri, raccogliendo la sua eredità intellettuale e tentando di metterla a frutto nell’oggi.
E’ evidente come non sia facile scegliere – vista l’ampiezza delle tematiche affrontate da Lucio e degli spunti di riflessione che nella sua esperienza politica più che cinquantennale ci ha lasciato – da quale nodo e da quale questione partire e muoversi al fine di ragionare sull’oggi e sulle prospettive future della nostra area politica (quella della sinistra).
In maniera forse un po’ ardita, cercherò di ragionare sulla macro-tematica che forse le ingloba tutte, e che proprio per questo ha rappresentato la costante, il grande filo rosso della riflessione teorica di Magri e della sua attività di dirigente politico. Mi riferisco al tema e al nodo (insieme teorico, strategico e politico) che nella storia del PdUP per il comunismo ha preso il nome di “terza via”: il tentativo, cioè, di individuare un nuovo paradigma della trasformazione sociale e della transizione al socialismo
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Moneta privatizzata: analisi e alternative
di Enrico Grazzini
La moneta viene creata dalle banche commerciali ma la privatizzazione del denaro genera debito e crisi. Perché è necessario emettere una moneta digitale pubblica e libera dal debito
Da dove nasce la moneta? Chi crea il denaro? La grande maggioranza dell’opinione pubblica e anche molti economisti credono che la moneta sia creata dallo Stato o dalla sua banca centrale, e che sia “neutrale”, che cioè sia emessa dalle autorità pubbliche a beneficio, almeno in linea di principio, di tutti i cittadini e di tutti gli operatori economici. Non è così. Pochi sanno che circa il 95% della moneta che normalmente utilizziamo viene creata ex nihilo dalle banche commerciali, e viene creata per il loro profitto. La moneta dunque non è neutrale. In effetti le banche centrali per conto dello Stato emettono banconote e monete che valgono solo per le piccole spese quotidiane, cioè per il 5% circa del valore totale delle transazioni. Il denaro vero è creato dalle banche – che, nella stragrande maggioranza, almeno in Occidente (ma non in Cina, per esempio) sono banche private. Le banche commerciali non si limitano a prestare il denaro che i risparmiatori depositano: creano moneta dal nulla. Come hanno dichiarato ufficialmente Bank of England, Bundesbank e la FED, le banche creano esse stesse moneta ogni qualvolta concedono un credito ai loro clienti (per es: per mutui, credito al consumo, per i pagamenti a fornitori e dipendenti, ecc). È Bank of England (boe), la più antica banca centrale del mondo, che ci spiega autorevolmente da chi e come viene creata la maggior parte della moneta:
La realtà di come viene creato il denaro oggi differisce dalla descrizione che si può trovare in alcuni libri di testo di economia: le banche non prestano soldi risparmiati e depositati dalle famiglie ma creano loro stesse i depositi con i loro prestiti. Ogni volta che una banca fa un prestito genera immediatamente un deposito di valore corrispondente nel conto bancario del debitore creando così nuovi soldi1.
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L’Onu e il conflitto russo-ucraino: potenzialità inattuate
di Luca Benedini
Nella Carta (o Statuto) dell’Onu c’è una tendenziale contraddizione: da un lato, l’Onu è tenuta a difendere la pace internazionale, come emerge da articoli come in particolar modo il 24, il 37 e il 39, oltre all’1 e al 2 nei quali si trovano esposti i fini e i princìpi dell’Onu stessa; dall’altro lato, tale responsabilità viene attribuita principalmente – e con estrema chiarezza – al Consiglio di Sicurezza, ma quest’ultimo può essere totalmente bloccato nel suo agire se qualcuno dei suoi 5 membri permanenti (i governi di Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia) esercita su una questione il proprio “diritto di veto” previsto nell’art. 27.
È una contraddizione che ha però uno spiraglio: in base agli articoli 10 e 12, l’Assemblea Generale ha la potestà di occuparsi praticamente di qualsiasi argomento, fatta eccezione per le problematiche internazionali (controversie, altre situazioni da cui la pace può essere minacciata, violazioni della pace) delle quali si sta già occupando esplicitamente il Consiglio di Sicurezza. In altre parole, quando quest’ultimo è bloccato da dei veti, così che di fatto non riesce ad occuparsi concretamente di una situazione, l’Assemblea Generale può in pratica surrogarlo.
L’Onu, il diritto internazionale e le rotture della pace: dagli anni ’50 agli anni ’80
Si tratta di una potestà che venne anche messa dettagliatamente “nero su bianco” nella risoluzione dell’Assemblea Generale n. 377 del 1950, nota col nome di Uniting for Peace, cioè “Unirsi per la pace” [1]. In pratica, l’Assemblea deliberò di poter – e, sostanzialmente, dover – assumere tutte le funzioni del Consiglio ogni volta che dei veti gli impedissero di affrontare adeguatamente gravi circostanze internazionali.
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Sei luoghi comuni sull’Africa
di Vincenzo Comito
L’Africa, un continente senza storia, eternamente stagnante, indifferenziato al suo interno e i cui abitanti hanno come unico scopo la fuga verso l’Europa. Luoghi comuni che alimentano il pregiudizio eurocentrico e ostacolano ogni cooperazione
Il caso dell’Africa appare abbastanza rappresentativo dello scarso livello di conoscenza del mondo nell’opinione pubblica dei nostri paesi, ignoranza che i media e il mondo politico non fanno quasi nulla per ridurre, anzi alimentano ad arte. Spesso la conoscenza della realtà si limita così ad alcuni luoghi comuni senza molto fondamento.
Abbiamo individuato a questo proposito sei questioni che riguardano il continente africano e sulle quali le idee che circolano appaiono perlomeno confuse. E non dovrebbero essere peraltro le sole, anche se sono forse le più vistose.
Un continente senza storia?
Per la gran parte delle persone istruite la storia dell’Africa ha inizio al massimo con l’arrivo degli europei nel continente, prima con la tratta dei neri verso le Americhe, poi con la colonizzazione vera e propria. In realtà il continente ha una storia molto antica e molto ricca. È sostanzialmente dagli anni cinquanta del Novecento che gli storici africani e stranieri hanno cominciato a far conoscerla meglio (Piot, 2023, a).
Un’analoga errata convinzione si focalizza sulla pretesa assenza di una tradizione scritta nel continente. La scoperta recente da parte della stampa occidentale dell’esistenza di una grande raccolta di testi manoscritti a Timbuctu basterebbe da sola a testimoniare il contrario. Si pensa infine da più parti che l’Africa sia stata colonizzata da molto tempo. In realtà è solo a partire dagli ultimi decenni del XIX secolo che i vari paesi del continente sono caduti dentro la dominazione europea. Quindi il controllo pieno da parte degli stranieri è durato meno di un secolo.
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Palestina e Israele: la pace è impossibile
di ALFATAU
Quanto sta avvenendo in Palestina non è certo una novità. La Striscia di Gaza è una delle aree che residuano dal lungo conflitto tra Palestinesi e Stato di Israele, a partire dalla costituzione di quest’ultimo (1948): qui è infatti concentrata una parte numericamente assai consistente dei discendenti dei Palestinesi che la creazione dello Stato ebraico ha espulso dalla Palestina storica.
È una delle aree più densamente popolate al mondo, 10 km di larghezza per 41 di lunghezza, dove vivono 2,3 milioni di Palestinesi, in 365 km quadrati: una superficie equivalente a quella della provincia di Prato, una delle più piccole dell’Italia, che conta però meno di 260mila abitanti (707 abitanti per kmq) contro gli oltre 4.000 per kmq a Gaza.
Israele in Palestina
Nel 2008-2009 le forze armate israeliane furono impiegate per 23 giorni in un attacco contro la Striscia di Gaza. Nel 2012 vi fu un’altra operazione israeliana, della durata di 8 giorni. Lo stesso avvenne nel 2014, per 50 giorni. Nel 2021, per altri 11 giorni.
Complessivamente, il costo umano dei ripetuti interventi delle forze armate israeliane, sia nella Striscia che nelle altre aree della Palestina (Cisgiordania, Gerusalemme Est), è stato di 6.407 caduti Palestinesi, tra civili e combattenti, a fronte di 308 Israeliani; i feriti sono stati rispettivamente 152.560 Palestinesi e 6.307 Israeliani. Sottolineiamo per chiarezza che questo bilancio è relativo ai soli anni dopo il 2008, vale a dire dopo che il movimento islamista Hamas ha acquisito nel 2007 il controllo politico e militare della Striscia di Gaza.
Aggiungiamo che dal settembre 2000, data della cosiddetta seconda Intifada (“rivolta”, in arabo), provocata dalla celebre “passeggiata” dell’allora capo del partito Likud israeliano, illustre comandante militare e più volte primo ministro, Ariel Sharon, nella spianata della Moschee, luogo sacro dell’Islam, poi estesasi a tutta la Palestina – Israele ha fatto passare nei suoi vari luoghi di detenzione oltre 135mila Palestinesi.
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Marx, l’ecologia e il comunismo per Kohei Saito
Il ritorno dell’alternativa socialismo o barbarie
di Matteo Pirazzoli
Kohei Saito è uno studioso marxista giapponese che con i suoi scritti su Marx e l’ecologia ha venduto centinaia di migliaia di copie nel suo paese. Il libro pubblicato in Giappone non è al momento disponibile in lingue europee, ma molti dei saggi principali dell’autore sono presenti nel testo Marx in the Anthropocene: Toward the Idea of Degrowth Communism (Cambridge: Cambridge University Press, 2023). Pubblichiamo in anteprima la recensione al libro, parte del numero 6 di Egemonia che uscirà nelle prossime due settimane. Questo lavoro non parla direttamente dell’importanza strategica della classe lavoratrice per il movimento ecologistica, ma rappresenta un’indagine delle condizioni di possibilità teoriche e metodologiche di tale alleanza. Esse non sono per nulla scontate, soprattutto se si considera la storia del movimento comunista del secolo scorso e i suoi difficili rapporti con concetti quali «crescita» e «ambientalismo».
* * * *
Soggetto e oggetto nella prassi trasformativa della natura
A partire dallo studio degli appunti di Marx posteriori all’edizione del primo libro del Capitale Saito indaga come il Moro abbia approfondito studi scientifici e naturalistici, conferendo alla questione ecologica un’importanza rilevante nell’analisi del capitalismo, in un panorama di parziale revisione del suo metodo che lo ha portato a studi più attenti delle società pre-capitalistiche da un lato e, dall’altro, a un approfondimento sulle implicazioni ideologiche e non puramente tecniche dello sviluppo delle forze produttive sotto il dominio del capitale.
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Ologramma 4.0
di Martina Bastianello
1. Premessa sentimental-metodologica
Ricordate gli ologrammi in 2D inflazionati negli anni Ottanta? Ci troviamo davanti una figura che se osserviamo da una posizione frontale presenta determinate caratteristiche, ma se la osserviamo assumendo un punto di vista laterale, cambia. Ricordo alcuni santini cangianti (spuntavano dalle borsette delle nonne) con il santo di turno che si presentava a mani giunte se osservato frontalmente, benedicente se osservato lateralmente. Con il Piano Scuola 4.0 succede qualcosa di simile: guardato frontalmente può apparire come un’occasione imperdibile, facendo slittare la prospettiva la visione cambia. E la seconda immagine, quella che si produce grazie allo slittamento laterale, diffonde un bagliore inquietante. L’inquietudine si amplifica quando considero che in questi mesi – da quando cioè il testo del Piano Scuola 4.0 ha cominciato a circolare nelle scuole – non si è delineata alcuna reazione degna di nota tra i docenti.
Stupita dal silenzio e dalla mancata reazione del corpo docente, ho cercato comunque di confrontarmi con i colleghi poiché non riuscivo e non riesco a capacitarmi di questo atteggiamento: il Piano Scuola 4.0 è il testo che accompagna e contestualizza la gestione dei fondi PNRR destinati alle scuole, fondi che, è bene ricordarlo, non sono una vincita alla lotteria, ma un ulteriore aggravio del nostro debito. Chi ha letto il documento con un minimo di attenzione sa bene che quel testo esplicita non solo il modo in cui devono essere spesi quei fondi, ma veicola chiaramente una determinata visione della Scuola, visione che si può condividere o criticare, ma che nel corso di questi mesi non è mai stata discussa, visione rispetto alla quale non si è aperto alcun confronto.
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Perché i nostri movimenti di massa popolari falliscono
di Chris Hedges – Scheerpost
Dal 2010 fino alla pandemia globale del 2020 ci sono stati dieci anni di rivolte popolari. Queste rivolte hanno scosso le fondamenta dell’ordine globale. Hanno denunciato la dominazione delle corporation, i tagli delle politiche di austerità e chiesto giustizia economica e diritti civili. Ci sono state proteste a livello nazionale negli Stati Uniti incentrate sugli accampamenti Occupy durate 59 giorni. Ci sono state sollevazioni popolari in Grecia, Spagna, Tunisia, Egitto, Bahrein, Yemen, Siria, Libia, Turchia, Brasile, Ucraina, Hong Kong, Cile, la Rivoluzione delle candele della Corea del Sud. Politici screditati furono cacciati dalle loro cariche in Grecia, Spagna, Ucraina, Corea del Sud, Egitto, Cile e Tunisia. Le riforme, o almeno la loro promessa, ha dominato il discorso pubblico. Sembrava annunciare una nuova era.
Poi la reazione negativa. Le aspirazioni dei movimenti popolari furono schiacciate. Il controllo statale e la disuguaglianza sociale si espansero. Non c'è stato alcun cambiamento significativo. Nella maggior parte dei casi le cose sono peggiorate. L’estrema destra è emersa trionfante.
Quello che è successo? In che modo un decennio di proteste di massa che sembravano annunciare l’apertura democratica, la fine della repressione statale, l’indebolimento del dominio delle multinazionali e delle istituzioni finanziarie e un’era di libertà si sono trasformati in un ignominioso fallimento? Che cosa è andato storto? Come hanno fatto gli odiati banchieri e politici a mantenere o riprendere il controllo? Quali sono gli strumenti efficaci per liberarci dal dominio aziendale?
Vincent Bevins nel suo nuovo libro “If We Burn: The Mass Protest Decade and the Missing Revolution” racconta come abbiamo fallito su diversi fronti.
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Nadef senza impatto sull’economia
di Andrea Fumagalli, Paolo Maranzano, Roberto Romano
Dall’analisi della Nadef la prossima legge di bilancio “muoverà” 30 miliardi ma avrà un impatto di appena 0,2% del Pil. Perché? In osservanza ai precetti neoliberisti e in barba alla Costituzione il governo ha l’obiettivo solo di tagliare le tasse, mentre dovrebbe aiutare la transizione e aumentare la coesione sociale
Preambolo
Lo smarrimento, o la inedita consapevolezza, del governo circa i vincoli di bilancio sono il tratto distintivo della NADEF 2023 (aggiornamento al 27 settembre 2023). Tuttavia non possiamo nemmeno attribuire a questa compagine governativa tale smarrimento. Piuttosto è frutto di una storia economica, sociale e politica che ha rimosso i precetti costituzionali e il piano “normativo” ad essi sotteso. La finanza pubblica con il passare degli anni è passata da strumento di governo dei fenomeni economici a un esercizio ragionieristico che assicura l’indipendenza del mercato, così come i suoi meccanismi allocativi. Inoltre la discussione politica è (amaramente) piegata solo sulle tasse e le imposte, sempre “troppo alte”, che appesantiscono e che rallentano la cosiddetta “mano invisibile” del mercato.
Sostanzialmente è elusa la seconda parte dell’articolo 3 della Costituzione (“E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”), così come l’articolo 53 (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Infatti la Costituzione affida alla Repubblica un compito preciso, cioè quello di “rimuovere gli ostacoli”, mentre l’articolo 53 lo declina in spesa pubblica che deve essere finanziata in base alla propria capacità contributiva. La spesa pubblica è lo strumento (normativo) di politica economica che, meglio della riduzione delle tasse, la Costituzione assegna alle istituzioni della Repubblica (il Parlamento e il governo nella fattispecie) per la rimozione dei vincoli economici, sociali e politici che impediscono a tutti i cittadini di diventare protagonisti dei grandi cambiamenti sociali.
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Walter Benjamin tra salvezza e oblio
di Roberto Gilodi
Chi sono i veri maestri e che cosa impariamo da loro? E noi come ci disponiamo dinanzi a colui che eleggiamo a nostro maestro? Il problema sotteso a queste domande può sembrare anacronistico nell’età dell’informazione globale disponibile in ogni momento e in ogni luogo. In realtà è tutt’altro che inattuale, anzi: la relazione maestro allievo è oggi più necessaria che mai perché restituisce al sapere la sua naturale fisiologia, che è fatta di tempi e di luoghi, di durata, di incertezza, di ostacoli, di sconfitte e successi, perfino di tratti fisiognomici, un impasto di situazioni, un’alternanza di stati emotivi, che toccano le esistenze degli allievi restituendo all’acquisizione del sapere quella dimensione umana che l’offerta infinita e gratuita della rete ha cancellato.
La collana ‘Eredi’ di Feltrinelli diretta da Massimo Recalcati promuove ormai da molti anni incontri con i maestri affidati alla memoria degli allievi. Allievi, non sempre per avere frequentato direttamente i maestri, anzi, spesso si tratta di relazioni lontane nel tempo, in cui non sono solo in gioco i contenuti insegnati ma anche, e forse soprattutto, gli stili di pensiero.
Osservando queste relazioni si sono potuti evidenziare i tragitti individuali di apprendimento e con essi la mutazione sostanziale del concetto di magistero nei diversi stadi della Modernità.
A fine Settecento, soprattutto in Germania, non era infrequente incontrare nei romanzi di formazione un Meister, un maestro che insegnava il mestiere ai suoi garzoni di bottega. ’Meister’ non a caso si chiama il protagonista di quello che a torto o a ragione è stato considerato il capostipite dei romanzi di formazione, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister di Goethe.
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La Yugoslavia ….e la nuova Europa dei fratelli Grimm
di Paolo Di Marco
1- l’intervento all’ONU di Vučić (da l’Antidiplomatico)
Il 20 Settembre, davanti a un’assemblea generale delle Nazioni Unite tutta presa dal conflitto ucraino, il presidente serbo Vučić ha fatto un discorso di grande coraggio e lucidità:
“Sono davanti a voi come rappresentante di un Paese libero e indipendente, la Serbia, che si trova nel percorso di adesione all’Unione europea ma che, al tempo stesso, non è pronto a voltare le spalle alle sue tradizionali amicizie costruite da secoli )”. “Voglio alzare la voce a nome del mio Paese, ma anche a nome di tutti coloro che oggi, a 78 anni dalla fondazione delle Nazioni Unite, credono veramente che i principi della Carta delle Nazioni Unite siano l’unica difesa essenziale della pace nel mondo, del diritto alla libertà e all’indipendenza dei popoli e degli Stati. Ma anche di più: sono la garanzia della sopravvivenza stessa della civiltà umana. L’ondata globale di guerre e violenze che colpisce le fondamenta della sicurezza internazionale è una conseguenza dolorosa dell’abbandono dei principi delineati nella Carta delle Nazioni Unite […] Il tentativo di smembrare il mio Paese, formalmente iniziato nel 2008 con la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è ancora in corso. Per la precisione, la violazione della Carta delle Nazioni Unite nel caso della Serbia è stato uno dei precursori visibili di numerosi problemi che tutti dobbiamo affrontare oggi, che vanno ben oltre i confini del mio Paese o il quadro della regione da cui provengo. Più in generale, dall’ultima volta che ci siamo incontrati qui, il mondo non è né un posto migliore né più sicuro. Al contrario, la pace e la stabilità globale sono ancora minacciate. […]
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La fragilità di Israele sotto attacco nel vortice della crisi
di Alessio Galluppi
Attaccato da aria e da terra Israele si sveglia fragile e impaurito nelle prime ore del mattino del 7 ottobre 2023 e che vede ancora stamattina l’esercito Israeliano in un disperato tentativo di riconquistare il controllo di almeno ventidue villaggi e cittadine Israeliane prossime al confine con Gaza. Nonostante la reazione criminale di Israele che è e sarà sempre di più di estrema violenza, con un altissimo sacrificio di vite umane tra donne e bambini di Gaza, è chiaro che questa offensiva militare Palestinese era inevitabile, proprio per motivi di sopravvivenza dalla pulizia etnica e uccisione di bambini che l’IDF e le truppe di occupazione Israeliane portano avanti quotidianamente e con crescente violenza da tre anni in tutta la West Bank.
Uno stillicidio quotidiano operato con la collaborazione della direzione della ANP (Autorità Nazionale Palestinese), dei paesi Arabi e dell’Arabia Saudita e legittimata dall’Occidente che non può rinunciare al proprio storico avamposto imperialista in Medio Oriente.
Quello che viene definito come “attacco terroristico di Hamas” è una azione di difesa di massa che parte dalla striscia di Gaza – ovvero una vera e propria prigione, un lager a cielo aperto circondato da alte mura fortificate e armate Israeliane – per far respirare gli sfruttati Palestinesi di West Bank. Non si tratta – come si cerca di far credere – di una azione circoscrivibile a un pugno di miliziani di Hamas, ma si è trattato e si sta trattando di una vera incursione delle masse sfruttate di Gaza, che una volta che il colpo delle milizie ha conquistato militarmente e di sorpresa gli avamposti dell’esercito Israeliano lungo diversi punti del confine militarizzato di Gaza, ha sfondato le recinzioni in più punti e ha dato vita a una invasione verso i centri abitati Israeliani in una sorta di euforia liberatoria di un popolo sfruttato, oppresso e segregato da troppo tempo.
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L’11 settembre di Israele
di Il Pungolo Rosso
Chi pensava che le esercitazioni militari organizzate qualche settimana fa a Gaza dal comando unificato delle diverse fazioni palestinesi (attenzione: non dalla sola Hamas, come piace dire, mentendo, alla disinformazione di regime) fossero l’ennesima manifestazione di intenti, retorica quanto materialmente impotente, e pertanto incapace di imprimere una svolta nella lotta di liberazione, ha ricevuto una secca smentita.
Da ieri sappiamo che lo Stato israeliano, da sempre raccontatoci (e raccontatosi) come un Moloch invincibile, in virtù dei suoi insuperabili servizi segreti, dei suoi armamenti di ultima generazione e soprattutto delle sue forze speciali, tra le più letali al mondo, non è così invulnerabile come si credeva. Le tante spie presenti a Gaza, gli scudi missilistici e il pattugliamento permanente di terra, cielo e mare da parte di droni, veicoli a controllo remoto e fregate militari non sono bastati per impedire alle forze palestinesi di evadere dalla prigione di Gaza per prorompere militarmente nelle colonie israeliane e restituire un po’ di terrore all’occupante sionista.
Nei tanti video amatoriali che circolavano in rete fin dalle prime ore della mattina si sono visti carri armati Merkava, spacciati come indistruttibili, messi fuori gioco da armamenti non certo sofisticati. Schemi di difesa missilistica completamente nel pallone (la richiesta di ordinativi e commesse militari non ne beneficerà granché!), generali che fino a ieri comandavano battaglioni d’assalto, portati via in mutande come ostaggi.
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La critica del lavoro nel “duplice” Marx
Dialettica “categoriale” e “Wertkritik”
di Afshin Kaveh
Premesse (o “cronache marxiane”)
Quando Roman Rosdolsky scrisse «ist klar, dass eine fruchtbare Anwendung der Marxschen Theorie nur möglich ist, wenn man die esoterischen und die exoterischen Elemente derselben auseinanderhält»[è chiaro che un'applicazione fruttuosa della teoria di Marx è possibile solo se si tengono separati gli elementi esoterici e quelli essoterici]1, quello che lui anticipava come «chiaro» in verità non poteva di certo esserlo all’epoca, in un angusto panorama pullulato da dubbie ortodossie e animato da fedele estimazione per il “socialismo da caserma” (Kurz). Eppure, in riferimento al contesto nostrano, anche oggi, col fioco lamentìo di quegli spettri, la «fruttuosa applicazione della teoria marxiana» possibile solamente «se si distinguono gli elementi esoterici ed essoterici» della stessa, non trova alcuno sbocco per permettersi di prendere respiro, soffocata per mano di decenni di riletture limitate e fortemente problematiche dell’opera dell’agitatore di Treviri.
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Nessuna “fine della storia” in Ucraina
di Scott Ritter* – ConsortiumNews
La visione trionfalista della democrazia liberale post-Guerra Fredda di Francis Fukuyama – pubblicata nel 1989 – aveva un grosso punto cieco. Ha omesso la storia.
“Quello a cui stiamo assistendo non è solo la fine della Guerra Fredda, o il superamento di un particolare periodo della storia del dopoguerra, ma la fine della storia in quanto tale: cioè, il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e l’universalizzazione dell’Occidente, la democrazia liberale come forma finale di governo umano”.
Queste parole, sono state scritte dal politologo americano Francis Fukuyama, che nel 1989 pubblicò “The End of History”, un articolo che sconvolse il mondo accademico.
“La democrazia liberale”, scrive Fukuyama, “sostituisce il desiderio irrazionale di essere riconosciuto come maggiore degli altri con il desiderio razionale di essere riconosciuto come uguale”.
“Un mondo composto da democrazie liberali, quindi, dovrebbe avere molti meno incentivi per la guerra, dal momento che tutte le nazioni riconoscerebbero reciprocamente la legittimità delle altre. E in effetti, negli ultimi duecento anni esistono prove empiriche sostanziali del fatto che le democrazie liberali non si comportano in modo imperialistico le une verso le altre, anche se sono perfettamente in grado di entrare in guerra con stati che non sono democrazie e non ne condividono i valori fondamentali.“
Ma c'era un problema. Fukuyama ha continuato notando quanto segue:
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Frontiere e diritti
Tra etica, diritto internazionale e politica del potere
di Luca Benedini
Alla luce del recente riesplodere di situazioni cruente e altamente drammatiche nel Nagorno-Karabakh, così come dell’indefinita e tragica prosecuzione della guerra russo-ucraina, appare opportuno ripresentare qui gran parte di due articoli scritti lo scorso anno (rispettivamente nell’aprile e nel maggio) sul tema politico estremamente controverso rappresentato dal rapporto tra popoli e frontiere
I
Un delicato nodo profondamente dialettico
Impegnarsi specificamente nella ricerca della pace nel momento presente, in una tremenda situazione come quella ucraina, non significa dimenticare le contraddizioni storiche che in quella parte del mondo possono aver stimolato delle tensioni culturali, etniche, ecc. dalle quali sono poi emerse le minacce per la pace sfociate infine nella guerra attuale.
Basti ricordare per esempio che nei trattati internazionali è ampiamente riconosciuto un generico (ma non per questo privo di significato) diritto dei popoli all’autodeterminazione: è addirittura l’argomento dell’art. 1 sia del Patto internazionale sui diritti civili e politici che del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, entrati in vigore entrambi nel 1976 e ratificati ormai da quasi tutte le nazioni del mondo (che in tal modo hanno fatto entrare nella loro legislazione quanto stabilito in tali Patti), dopo essere stati approvati nel 1966 dall’Assemblea Generale dell’Onu. Questo diritto consente di guardare, con uno sguardo particolarmente consapevole, a una serie di questioni inerenti proprio alle frontiere tra gli Stati.
Ci sono confini di Stato che sono stati tracciati d’autorità da qualcuno senza avere alcun riguardo per la situazione etnica e culturale dei popoli coinvolti. Il caso più drammatico è forse quello del territorio curdo, diviso tra quattro nazioni diverse (Turchia, Iraq, Iran e Siria) dopo la caduta dell’impero ottomano: una divisione – decisa in pratica dai governi britannico, francese e turco nel 1923 – che continua da un secolo a provocare tensioni e conflitti, senza che nessuna autorità politica o giurisprudenziale abbia mai riconosciuto ai curdi un qualsiasi diritto all’autodeterminazione.
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