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Come Goldman Sachs Ha Creato la Crisi Alimentare*
di Frederick Kaufman
Non prendetevela con gli appetiti americani, l'aumento dei prezzi del petrolio o le colture geneticamente modificate per il rincaro dei prodotti alimentari. Wall Street è il colpevole
La domanda e l'offerta sicuramente c'entrano. Ma c'è un altro motivo per cui i beni alimentari in tutto il mondo sono diventati così costosi: l'avidità di Wall Street.
Ci sono volute le menti brillanti di Goldman Sachs per realizzare la semplice verità che nulla è più prezioso del nostro pane quotidiano. E dove c'è un valore, ci sono soldi da fare. Nel 1991, i banchieri di Goldman, guidati dal loro lungimirante presidente Gary Cohn, hanno avviato un nuovo tipo di prodotto di investimento, un derivato con 24 materie prime sottostanti, dai metalli preziosi all'energia, caffè, cacao, bestiame, mais, maiale, soia e grano. Hanno pesato il valore di investimento di ciascun elemento, miscelato e riunito le parti in somme, poi ridotto quello che era un insieme complesso di cose reali in una formula matematica che può essere espressa come un fenomeno unico, conosciuto ormai come il Goldman Sachs Commodity Index (GSCI).
Per poco meno di un decennio, il GSCI è rimasto un veicolo di investimento relativamente statico, dato che i banchieri erano più interessati ai CDO (collateralized debt obligation) più che a tutto ciò che può essere letteralmente seminato o raccolto. Poi, nel 1999, la Commodities Futures Trading Commission ha deregolamentato il mercato dei futures. Tutto ad un tratto, i banchieri potevano assumere sulle materie prime delle grandi esposizioni a loro piacimento, una opportunità che, dopo la Grande Depressione, era possibile solo per coloro che effettivamente avevano qualcosa a che fare con la produzione del nostro cibo.
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L'energia nucleare, solo una parte di un modello da convertire
Guido Viale
Il passaggio dall’era dei combustibili fossili a quella delle energie rinnovabili, o anche solo la sua promozione, impongono un cambio di paradigma. L’economia degli idrocarburi è un sistema centralizzato. E’ fatto di campi petroliferi e pozzi minerari distanti migliaia di chilometri dai suoi utilizzatori finali, di oleodotti e gasdotti, di grandi petroliere, di convogli giganteschi e di navi carboniere e metaniere, di raffinerie e centrali di generazione elettrica di grande taglia, di grandi Kombinat industriali, di elettrodotti ad alta tensione, di società di prospezione, di gestione e di distribuzione, pubbliche e private, di dimensioni mondiali e di capitali proporzionati: un sistema che produce sempre più centralizzazione, dispotismo e guerre; il trasporto e i suoi impatti costituiscono una quota crescente dei costi ambientali ed economici della filiera.
La logica di un’economia delle fonti rinnovabili richiede invece un sistema distribuito, che migliora la sua efficienza quanto più è decentrato. Ogni comunità dovrà produrre, attraverso mix di fonti che variano da un contesto all’altro, la maggior parte dell’energia che consuma e le reti di vettoriamento dell’energia elettrica saranno asservite esclusivamente al riequilibrio tra le diverse utenze.
E’ vero che nella realtà, la logica con cui viene perseguito lo sviluppo delle fonti rinnovabili continua a ricalcare in gran parte l’impianto dell’economia delle fonti fossili: i casi estremi sono costituiti dalle grandi dighe idroelettriche che devastano intere regioni, o da progetti come Desertech, destinato, se mai funzionerà, a perpetuare la dipendenza dall’estero degli approvvigionamenti energetici.
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In morte di un ologramma
di Marco Cedolin
Gli “eroici” Navy Seals americani hanno ucciso Osama Bin Ladin, l’inafferrabile icona del terrorismo olografico internazionale, l’ectoplasma più ricercato del pianeta, fin dai tempi dell’autoattentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001, riguardo al quale lui stesso, quando ancora possedeva una dimensione corporea, aveva più volte ribadito la più completa estraneità.
La “sconvolgente” notizia campeggia in formato maxi lusso sulle prime pagine di tutti i media, con una tale ridda di foto, articoli, retrospettive, precognizioni, indiscrezioni e valutazioni dotte, da tenere impegnato il lettore almeno per qualche settimana, sempre che si legga di buona lena e senza troppe distrazioni.
Ci sono i racconti concernenti i risvolti dell’operazione militare di grande prestigio ed estrema difficoltà, perché ammazzare un ectoplasma non è una passeggiata che s’improvvisa così su due piedi.....
C’è la narrazione della sepoltura del “corpo” in mare, secondo le modalità del rito islamico, dal momento che quando si ammazza un ologramma non occorre attendere qualche giorno prima di fargli il funerale, anzi si può procedere perfino in anticipo rispetto all’assassinio.
Ci sono le dichiarazioni dell’onorevole del PDL Michaela Biancofiore che vede nell’uccisione di Osama un miracolo del nuovo santo Wojtyla, dando della vicenda una visione mistica ricca di suggestioni.
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La città dei rifiuti. Giustizia ambientale e incertezza nella crisi dei rifiuti in Campania
Marco Armiero1 e Giacomo D´Alisa2
1. Introduzione
Come è noto, i movimenti per la giustizia ambientale affondano le loro radici nelle mobilitazioni delle comunità povere delle città americane (Pellow 2007), riconnettendosi idealmente alle battaglie per i diritti civili più che alla tradizione del movimento ambientalista (Melosi 2000). In pochi ricordano che quando venne ucciso Martin Luther King Jr. si trovava a Memphis per sostenere uno sciopero di lavoratori neri nella gestione dei rifiuti (Bullard and Johnson 2000).
Lawrence Summer, presidente dell’università di Harvard e capo del Consiglio Nazionale Economico dell’amministrazione Obama, ha sostenuto, quando era presidente della Banca Mondiale, l’esportazione dei rifiuti nelle zone povere del mondo come la migliore delle soluzioni economiche possibili[3]. Una soluzione praticata e non solo teorizzata, come il caso dell’esportazione massiccia delle navi da smantellare ad Alang in India dimostra (De Maria 2010).
I rifiuti sono stati, lo sono e purtroppo lo saranno ancora nel futuro un problema di giustizia ambientale in un’economia che aspira ad una crescita illimitata. Questo è il motivo per il quale i rifiuti devono essere sempre più un aspetto centrale del dibattito sulle ingiustizie socio-ecologiche. Questo lavoro vuole contribuire a questo risultato e lo fa illustrando le difficoltà che incontrano attivisti e studiosi nel costruire il cammino per un efficace ecologismo popolare (Martinez-Alier 2009). Il caso analizzato è quello della Campania, regione del sud dell’Italia che da più di 17 anni vive in un regime di emergenza nella gestione dei rifiuti.
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Quello che ho visto in Libia
Scritto da Paolo Sensini
«La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L’ignoranza è forza»
George Orwell, La teoria e la pratica del collettivismo oligarchico, in 1984 (parte II, capitolo 9)
Sono ormai trascorsi più di due mesi da quando è scoppiata la cosiddetta «rivolta delle popolazioni libiche». Poco prima, il 14 gennaio, a seguito di ampi sollevamenti popolari nella vicina Tunisia, veniva deposto il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, al potere dal 1987.
È stata poi la volta dell’Egitto di Hosni Mubarak, spodestato anch’egli l’11 febbraio dopo esser stato, ininterrottamente per oltre trent’anni, il dominus incontrastato del suo paese, tanto da guadagnarsi l’appellativo non proprio benevolo di «faraone». Eventi che la stampa occidentale ha subito definito, con la consueta dose di sensazionalismo spettacolare, come «rivoluzione gelsomino» e «rivoluzione dei loti».
La rivolta passa quindi dalla Giordania allo Yemen, dall’Algeria alla Siria. E inaspettatamente si propaga a macchia d’olio anche in Oman e Barhein, dove i rispettivi regimi, aiutati in quest’ultimo caso dall’intervento oltre confine di reparti dell’esercito dell’Arabia Saudita, reagiscono molto violentemente contro il dissenso popolare senza che questo, tuttavia, si tramuti in una ferma condanna dei governi occidentali nei loro confronti. Solo il re del Marocco sembra voler prevenire il peggio e il 10 marzo propone la riforma della costituzione.
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Un travet dello sterminio
Alberto Burgio
Nell'aprile del 1961 si apriva a Gerusalemme il celeberrimo processo all'ex tenente colonnello delle SS. Le polemiche che l'altrettanto famoso reportage di Hannah Arendt suscitò in quegli anni non si sono spente, a dimostrazione che le tesi della filosofa tedesca sulla «banalità del male» coinvolgono nodi tuttora elusi sul concetto di democrazia
Il processo all'ex-tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann si aprì l'11 aprile di cinquant'anni fa nell'aula della modernissima Casa del Popolo di Gerusalemme. A capo della sezione Ivb4 della Gestapo, Eichmann aveva diretto la realizzazione della «Soluzione finale» garantendo efficienza alla macchina dell'«emigrazione forzata» e dello sterminio degli ebrei. Al termine del conflitto era fuggito in Sud America. Nel 1960 agenti del Mossad l'avevano scovato in Argentina e tradotto clandestinamente in Israele.
Alla vigilia del processo vennero sollevate questioni di legittimità, in parte già sorte in occasione del processo di Norimberga. Si sostenne l'illegalità del rapimento (anche l'American Jewish Committee si associò alla richiesta di consegnare Eichmann a un tribunale internazionale, mentre il «Washington Post» accusò Israele di applicare la legge della giungla) e si mise in dubbio la competenza del tribunale israeliano. La corte ribatté che ogni Stato ha il diritto di processare «un criminale in fuga dalla famiglia delle nazioni» e che i crimini di Eichmann avevano coinvolto anche ebrei che durante la guerra si trovavano in Palestina.
Nonostante nel 1953 Israele avesse abolito la pena di morte, il dibattimento si concluse, dopo quattro mesi, con la condanna dell'imputato alla pena capitale per crimini contro il popolo ebraico e l'umanità. Contro la decisione del tribunale si pronunciarono intellettuali del calibro di Gershom Scholem e Martin Buber. Eichmann venne impiccato il 31 maggio 1962, dopo che la Corte suprema aveva confermato la sentenza di primo grado e respinto la domanda di grazia.
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Diario economico-politico
Christian Marazzi
Globosclerosi. Il 18 aprile l’agenzia di notazione Standard&Poor’s ha assegnato un “negative outlook” alla capacità degli Stati Uniti di gestire, cioè ridurre, il proprio debito pubblico, che si aggira attorno al 105% del PIL. Per ora si tratta di una semplice minaccia di downgrade, di declassamento: se il debito statunitense dovesse continuare su questa strada (e, secondo l’agenzia, le probabilità sono 1 su 3), allora gli USA saranno downgraded, come è capitato ai paesi periferici della zona-euro o, in passato, ai paesi in via di sviluppo. Non era mai capitato in settant’anni. Secondo l’Economist (“Wakey, wakey”, 23 aprile), la mossa di S&P’s va interpretata come un tentativo di sciogliere il tira e molla tra democratici e repubblicani sul che fare con il debito pubblico. Tagliare le spese, quelle sociali in particolare, e/o aumentare le imposte sui redditi elevati e su quelli del ceto medio (su questo punto Obama, almeno finora, ha cercato di resistere). La tensione è alta, anche perché entro il 16 maggio bisognerà trovare un accordo sull’aumento del debt ceiling, il limite di debito che ora è pari a £14,3000 miliardi: se il Congresso non agisce in fretta, “il paese più grande del mondo potrebbe fallire entro l’inizio di luglio” (“Nervous Wall St warns on debt limit”, Financial Times, 27 aprile).
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Bonaccia italiana, tempeste mondiali
di Augusto Illuminati
Una strana impressione. Che tutto nella politica italiana, al solito, resti in sostanza fermo, girando in tondo. Che nel contempo il potere personale di Berlusconi (non del centro-destra) sia sempre più isolato e asfittico.
Il primo enunciato risulta di per sé evidente. Stallo dell’attività di governo, ridotto alla produzione di emendamenti su emendamenti per scongiurare i processi del Sultano e in genere la sua processabilità, costretto addirittura a revocare con scippo fraudolento i pochi provvedimenti programmatici ma assoggettabili a referendum (energia atomica e privatizzazione dell’acqua) pur di evitare una verifica elettorale. I molteplici disegni costituzionali e le riforme “epocali” sono fumo negli occhi, stanti i tempi di approvazione. Stallo dell’opposizione, attiva solo sugli scandali sessuali, imbarazzata perfino sulla marcia indietro nucleare, divisa sulla gestione privata della distribuzione dell’acqua per non parlare dell’intervento in Libia.
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Che succede in Siria?
di Domenico Losurdo
Da giorni, gruppi misteriosi sparano sui manifestanti e, soprattutto, sui partecipanti ai funerali che fanno seguito allo spargimento di sangue. Da chi sono costituiti questi gruppi? Le autorità siriane sostengono che si tratta di provocatori, per lo più legati a servizi segreti stranieri. In Occidente, invece, anche a sinistra non ci sono dubbi nell’avallare la tesi proclamata in primo luogo dalla Casa Bianca: a sparare sono sempre e soltanto agenti siriani in civile Obama è la bocca della verità? L’agenzia siriana «Sana» riferisce del sequestro di «bottiglie di plastica piene di sangue», usato per «produrre video amatoriali contraffatti» di morti e feriti tra i manifestanti. Come leggere questa notizia, che io riprendo dall’articolo di L. Trombetta in «La Stampa» del 24 aprile? Forse su di essa possono contribuire a gettar luce queste pagine tratte da un mio saggio di prossima pubblicazione. Se qualcuno rimarrà stupito e persino incredulo nel leggere il contenuto di questo mio testo, tenga presente che le fonti da me utilizzate sono quasi esclusivamente «borghesi» (occidentali e filo-occidentali).
«Amore e verità»
Negli ultimi tempi, per bocca soprattutto del segretrario di Stato Hillary Clinton, l’amministrazione Obama non perde occasione per celebrare Internet, Facebook, Twitter come strumenti di diffusione della verità e di promozione e, indirettamente, della pace.
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Lotte sociali in Italia
In ordine sparso contro la Crisi
L'Italia, come altri paesi d'Europa e non solo (si pensi ai recenti scontri nel nordafrica), da qualche mese a questa parte è teatro di lotte sociali a cui non si assisteva da tempo, sia per numeri che per intensità.
Già due anni fa il movimento studentesco dell' »Onda Anomala« aveva coinvolto migliaia di studenti universitari contro l'ennesimo episodio di disinvestimento nei confronti dell'Università pubblica (i famigerati tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario presenti nel documento di programmazione economico-finanziaria estivo). Esso si unì alle più generali mobilitazioni del mondo della formazione che vedevano coinvolti studenti medi e insegnanti della scuola primaria e secondaria contro le riforme della scuola del Ministro Gelmini.
Esso però, non riuscendo ad intercettare un più generale malcontento della società (anche quello antigovernativo della sinistra »legalista«, nella veste del quotidiano La Repubblica, accompagnò solo i primi passi del movimento), rimase sostanzialmente isolato fino a spegnersi inesorabilmente con il calo fisiologico post-autunnale, ottenendo poco o nulla.
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Rossana Rossanda e la bislacca difesa di Asor Rosa
No, non è colpa del «porcellum»
di Leonardo Mazzei
Porcelli, nel senso di figli del calderoliano «porcellum», o più semplicemente oligarchici? L'articolo di Rossana Rossanda, pubblicato sul Manifesto del 22 aprile, non lascia spazio a dubbi: l'attuale degenerazione della politica italiana, che ha in Berlusconi il solo colpevole, arriva al ridicolo di un parlamento ridotto a votare sulla parentela tra Ruby e Mubarak unicamente a causa della legge elettorale escogitata dalla destra alla vigilia delle elezioni politiche del 2006.
In verità Rossanda ha un suo preciso scopo: difendere Asor Rosa dalle accuse che si è attirato con il noto articolo del 13 aprile. Impresa francamente sovraumana, che Rossanda fallisce miseramente. L'articolo è tuttavia interessante, perché le argomentazioni portate a sostegno della sua arringa difensiva mostrano qual è il destino di chi non vuol fare davvero i conti con la storia italiana degli ultimi vent'anni: la cecità assoluta.
Ma partiamo dalla difesa di Asor Rosa.
Secondo Rossanda, Asor Rosa sarebbe stato frainteso, dato che invocando lo «stato d'emergenza» egli intendeva soltanto rivolgersi al Capo dello stato ed ai poteri previsti dall'art. 88 della Costituzione in materia di scioglimento delle camere. Materia opinabile e comunque delicata, dato che sta anche in ciò la differenza tra una Repubblica parlamentare ed una presidenziale. Ma il fatto è che Asor Rosa è andato ben oltre dall'invocare l'intervento di Napolitano
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Le asimmetrie informative di Stiglitz
di EffeEmme
Uno dei paradossi di quest'ultima crisi economica è legata ad un fenomeno che un decennio fa non ci saremmo potuti immaginare: il ritorno dello "stato"-come struttura di controllo- nei proclami dei neo-liberisti.
Come ha ben mostrato D. Harvey, nel volume "Breve storia del neoliberismo", tale termine è entrato in voga per significare le politiche di deregolamentazione e di privatizzazione di alcuni governi di destra dei primi anni Ottanta: Thatcher e Reagan, su tutti.
Tali azioni erano volte a diminuire le restrizioni e il controllo da parte dell'autorità centrale per favorire il libero auto-strutturarsi del Mercato. Si riteneva, così facendo, di poter stimolare l'aumento della ricchezza.
Oggi sappiamo che questa è una "stronzata", nel senso concettualizzato da Harry G Frankfurt di "inquinatrice" del dibattito pubblico. Una notizia infondata e pericolosa che non permette di discernere ciò che può essere argomentato da ciò che deve essere soltanto creduto.
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L’ottusa austerità della BCE
Massimo Pivetti*
La BCE ha aumentato il tasso di interesse – è probabilmente il primo di una serie di aumenti previsti nei prossimi mesi – al fine di contrastare l’inflazione salita a marzo al 2.6% rispetto al 2.4 di febbraio. Trattandosi di inflazione di origine esterna, provocata dagli aumenti dei prezzi internazionali delle materie prime energetiche ed alimentari, la ratio antinflazionistica dell’avvio nelle presenti condizioni di una politica di moneta più cara non è immediatamente evidente.
Innanzi tutto, secondo le versioni oggi dominanti del punto di vista ortodosso in materia di politica monetaria, un aumento del tasso di interesse da parte della banca centrale sarebbe giustificato solo se dietro la maggiore inflazione vi fossero anche aumenti dei salari monetari e dei prezzi attribuibili a squilibri nelle condizioni interne di domanda e offerta aggregate. Ma certamente neppure Trichet può pensare che oggi, all’interno dell’eurosistema, la domanda aggregata stia premendo sui limiti posti dal prodotto potenziale.
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L’altro Novecento
di Pierpaolo Poggio
Pubblichiamo, per i «Cantieri della critica», l’introduzione al primo volume de «L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico», opera pubblicata da Jaca Book in coedizione con la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia (693 pagine, 40 euro). Un grande lavoro di ricerca attorno ai pensatori e militanti «eretici» del comunismo del Novecento. In questa introduzione, Pier Paolo Poggio, coordinatore del volume, ne spiega gli scopi. In questi giorni è in uscita il secondo volume
Il Novecento, secolo del comunismo e del suo fallimento. La somma di queste due affermazioni, che noi consideriamo fondate, ha prodotto, assieme a molte altre conseguenze, la cancellazione di persone, movimenti, concezioni senza i quali la comprensione del nostro passato è impossibile o fortemente mutilata. La loro eliminazione o stravolgimento sono stati parte costitutiva del programma dei vincitori, anche, e spesso, appartenenti alla loro stessa parte politica.
Il primo obiettivo del presente lavoro è quindi di carattere storico e storiografico. Si tratta di riportare alla luce un mondo che rischia di sprofondare nel nulla, ingoiato dall’implosione del sistema sovietico. La finalità e le motivazioni non sono però di carattere antiquario e archeologico; in base a un giudizio di valore e a una valutazione interpretativa, sicuramente contestabili e che per ciò è bene esplicitare, la nostra tesi è che le idee e le esperienze prese in esame non abbiano un interesse unicamente storico, ma rappresentino dei referenti per il presente e il futuro.
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Paradisi fiscali, un altrove solo apparente
di Christian Marazzi
Nel suo Offshore. Paradisi fiscali e sovranità criminale (ombre corte 2011, pp. 253, euro 17), Alain Deneault compie un’operazione tanto coraggiosa quanto impegnativa, e cioè quella di ridefinire le categorie del pensiero politico moderno, come Stato di diritto, sovranità politica, giustizia, legge e crimine, classi sociali e razionalità economica, a partire dal fenomeno offshore mondiale, dei paradisi fiscali che, a tutt’oggi, conservano la metà delle riserve mondiali di denaro. L’inversione semantica delle stesse nozioni con le quali abitualmente vengono descritti e analizzati i paradisi fiscali si impone alla luce del potere non solo finanziario, ma sempre più politico dei centri offshore, siano essi le Isole Cayman, la City di Londra, le isole dei Caraibi, la Svizzera, il Lussemburgo, il Delaware statunitense, Singapore o l’Isola di Jersey.
La tesi di Deneault è la seguente: l’offshore non è un altrove della finanza in cui i capitali fuggono e i loro titolari evadono, l’offshore non è un’economia parallela, tutto sommato marginale e anomala. In realtà, i paradisi fiscali sono organismi politici positivi e sovrani nei quali i fondi ammassati, il denaro accumulato da imprenditori, banche, istituti finanziari, hedge funds e criminali d’ogni tipo, «lavora» all’interno degli stessi processi d’accumulazione del capitale e del potere su scala globale.
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Finché dura il lutto. Walter Benjamin e la rivoluzione
Bruno Moroncini
Saturno è il più lento dei pianeti, e il più crudele. Come Aprile – il più crudele dei mesi secondo la Terra desolata di T. S. Eliot – genera lillà da foglie morte, così Saturno vanifica le attese e differisce fino allo sfinimento il compimento dei progetti umani. Ritenuto ancora da Copernico il corpo celeste più esterno del sistema solare, – Urano e Nettuno saranno scoperti molto dopo –, di conseguenza il più freddo e inospitale e quello dall’orbita più lunga, Saturno, nel registro immaginario, conserva ancora oggi il primato della lentezza e resta, almeno per Benjamin, il pianeta «delle diversioni e dei ritardi». Da qui discende quella sindrome melanconica che colpisce chi cade sotto il suo dominio: i nati sotto Saturno non riescono a rinunciare all’oggetto perduto del loro desiderio e si lasciano sprofondare nella disperazione e nella morte.
Cosa accadrebbe se, alla pari di ciò che accade all’oggetto del nostro desiderio, anche quegli eventi storici che sono le rivoluzioni, cioè le trasformazioni repentine e inaudite, le novità assolute che modificano gli assetti del nostro essere-insieme, si scoprissero governati dall’intelligenza astrale di Saturno? Diverrebbero anch’essi fonti di tristezza e di malinconia? Oggetti di un’impossibile rinuncia? Causa di una malattia mortale se non di un lutto senza fine? Sembra che proprio questo sia accaduto a ciò che dalla rivoluzione francese in poi si definisce ‘sinistra’ in riferimento agli assetti economici e politici delle società moderne: il crollo, sperato forse, ma del tutto inaspettato – qualcosa di nuovo anch’esso in fin dei conti –, dell’Unione Sovietica ha messo fine non solo ad una potenza politica mondiale e alla gara con gli Stati Uniti usciti vincitori da cinquantanni di guerra fredda, ma anche e soprattutto al comunismo almeno come lo avevano pensato e praticato generazioni su generazioni lungo il corso di un secolo e mezzo (1848-1991).
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I guru pentiti rileggono McLuhan
Carlo Formenti
Il testo che segue riproduce parte del terzo capitolo del saggio Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, che sarà in libreria il 27 aprile prossimo per i tipi di EGEA. Invece di evidenziare i tagli con puntini di sospensione, si è preferito giuntare le parti estratte tramite interpolazioni ad hoc, per cui il testo presenta alcune varianti rispetto all’originale (sono state eliminate anche le note). Per le tesi dei tre autori citati, vedi Andrew Keen, Dilettanti.com, De Agostini, Milano 2009; Jaron La-nier, Tu non sei un gadget, Mondadori, Milano 2010; Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi?, Cortina, Milano 2011
Qualche anno fa rilasciai all’«Espresso» un’intervista nella quale sostenevo che la maggioranza dei blog contenevano patetici esercizi di scrittura spacciati per letteratura sperimentale, oscene esibizioni di emozioni e sentimenti personali, polemiche da bar e auspicavo che questa spazzatura sprofondasse nell’oblio, restituendo alla rete la vocazione di canale di controinformazione. Successivamente ho fatto autocritica, non perché mi sia convinto che i blog siano migliori di come li avevo descritti, ma perché ho capito di avere dimenticato la lezione di McLuhan, secondo cui ciò che importa è l’architettura di un medium, più dei contenuti che veicola: a contare non è che cosa si pubblica bensì la facilità con cui chiunque, anche soggetti privi di ogni competenza culturale e tecnologica, viene messo in condizione di pubblicare.
Prima di celebrare quest’evoluzione come un passo sulla via della «democratizzazione della comunicazione», tuttavia, occorre rispondere al seguente interrogativo: chi «possiede» i contenuti «autoprodotti» dall’utente comune, chi detiene il controllo sui loro effetti politici ed economici?
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Le bugie di un usciere neoliberista
Paolo Barnard
“Si faccia curare e non mi importuni più, che ho cose più serie di cui occuparmi”. Marco Travaglio così risponde a un lettore che criticava il suo lavoro sulla base di quanto io ho documentato a fondo. L’usuale arroganza cafona di questo uomo sarebbe solo una sua piaga privata che non ha pubblica rilevanza, non fosse che costui ha “cose più importanti di cui occuparsi”. Ecco di cosa si occupa Marco Travaglio:
Ingannare incessantemente gli italiani in prima serata e sulla stampa per abbattere il governo del politico che non obbedisce alla finanza speculativa internazionale e per riportare in Italia gli uomini del modello Neoliberista anglosassone nel pugno d’acciaio di Wall Street, della City e del Trattato di Lisbona: Il Vero Potere. Riportare cioè a Palazzo Chigi gli affiliati italiani alla Mafia di coloro che hanno “distrutto il 40% della ricchezza planetaria con una frodecriminale” (Matt Taibbi, Democracy Now) e che sono autori di “un colpo di Stato finanziario in piena regola” (Michael Hudson, New Economic Perspectives), cioè Mario Draghi e i notori ‘tecnici’. Questo fa Marco Travaglio, oltre a tacere il motivo per cui lui, Genchi e De Magistris hanno abbandonato di colpo il giudice Clementina Forleo, quella dell’altrettanto abbandonato slogan “Clementinafaccisognare”, la protagonista di un intero capitolo scomparso misteriosamente dalle bozze del noto libro di Genchi, quella soprattutto che aveva messo le mani sul centrosinistra interamente manovrato dal Vero Potere. Non ci è dato sapere se egli esegua ordini discussi con gli uomini che ho elencato nel precedente Aggiornamento, o se semplicemente le sue idee coincidano con le loro. Il risultato è il medesimo, egli funge da loro usciere mediatico in Italia.
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Spunti di riflessione e proposta sulla politica economica, finanziaria e fiscale in Europa e in Italia
di Alfonso Gianni
I più acuti tra gli analisti economici di vario orientamento dottrinario e politico ci avevano avvertito che questa crisi mondiale sarebbe stata lunga. Si era detto che non sarebbe durata meno di sette anni. Sette anni di vacche magre, come nella Bibbia. Quindi, dato che le prime manifestazioni della crisi finanziaria si sono prodotte negli Usa nell’agosto del 2007, non siamo che a mezza strada. Solo che da allora la crisi si è rovesciata sull’Europa e le misure fin qui adottate non sono state in grado di invertire la situazione. Gli interventi dei governi per salvare le banche sono stati ingenti come mai è accaduto. Il principio di autoregolazione dei mercati, uno dei pilastri del pensiero neoliberista, ha manifestato tutta la propria inconsistenza e illusorietà. Ma l’enorme quantità di liquidità immessa nel mercato, se ha impedito a molti istituti finanziari di fallire, dopo il clamoroso default della Lehman Brothers, non è stata in grado di rilanciare l’economia. Infatti la liquidità si è fermata negli istituti finanziari e non si è trasformata in una coraggiosa apertura di credito. Ma soprattutto le politiche economiche nonhanno cambiato di segno. Non si sono creati nuovi sbocchi produttivi in settori innovativi non sottoposti alla crisi di sovrapproduzione che è invece presente in quelli maturi – come nel caso del mercato dell’automobile -; conseguentemente la disoccupazione e la precarietà sono continuate a crescere (in Italia nell’anno passato la percentuale nelle nuove assunzioni di contratti atipici, cioè a termine, ha superato il 75%!).
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La merce
Roberto Fineschi
Il concetto di merce è la chiave della teoria marxiana del “capitale”. La sua complessa definizione implica una serie di nozioni di carattere filosofico ed economico che trovano poi pieno sviluppo nello svolgimento della teoria nella sua interezza. Essa è, infatti, detta “forma economica cellulare”.
La merce è unità immediata di valore d’uso e valore. Essa è, dunque, da una parte un oggetto utile, caratteristica che non la distingue dal più generico “prodotto”, in quanto l’utilità è presupposto comune a qualunque forma del risultato del processo lavorativo – il prodotto – in qualsiasi forma di organizzazione della riproduzione umana. Questo è il suo “contenuto materiale”, condizione necessaria ma non sufficiente alla definizione di merce.
L’indistinzione di prodotto e merce, ovvero di produzione in genere e forme storicamente determinate di essa, è uno dei limiti fondamentali dei pensatori che precedono Marx, nonché uno degli assiomi più controversi, ma più o meno indiscussi della dominante ideologia/teoria economica ufficiale.
Torniamo alla merce. Oltre che valore d’uso, essa deve essere anche valore, ovvero avere “forma sociale” storicamente specifica. Se pare meno controversa la definizione del valore d’uso, da sempre si discute su quella di valore.
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Vizi e virtù dei ceti medi
Alberto Burgio
Quindici anni fa Paolo Sylos Labini pubblicò un agile libretto per attaccare Marx. Tracciava un bilancio che intendeva mettere in mostra il suo errore fondamentale: la previsione che il capitalismo avrebbe scomposto le società in due blocchi, da una parte i capitalisti, dall’altra i proletari. A questa «profezia» Sylos Labini contrapponeva la crescita della classe media, non solo sempre più vasta e articolata ma anche sempre più influente sul piano politico. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti. Il cosiddetto neoliberismo ha dispiegato i propri effetti, che la crisi dei mutui ha portato alle estreme conseguenze. Forse, considerando il paesaggio sociale dei paesi a capitalismo maturo oggi, Sylos Labini ci penserebbe su due volte prima di mandare Marx in soffitta.
Gran parte dei ceti medi si ritrova a leccarsi le ferite, non ha capitali, gode di protezioni sociali sempre più incerte, non trova lavoro o ha impieghi precari e sottopagati. Ha raggiunto un elevato grado di scolarizzazione, ma sempre più raramente a questo risultato si accompagna un riconoscimento sociale. La crisi storica del capitalismo (il ridursi, da trent’anni a questa parte, dei margini di profitto del capitale produttivo) si riflette nella proletarizzazione dei ceti medi, un processo che sembra andare nella direzione di quanto ipotizzato un secolo e mezzo fa dall’autore del Capitale e che si profila gravido di implicazioni politiche. L’impressione è che molto, in questo nuovo secolo come già nel Novecento, dipenderà dall’evolversi di questo processo.
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La crisi dell'Irlanda, un esempio delle contraddizioni dell'Unione Europea
di Michele Nobile
1. Le «storiche» elezioni irlandesi del febbraio 2011
Mentre imponenti rivolte popolari facevano tremare la costa meridionale del Mediterraneo e cacciavano a viva forza i despoti, al di là della massa continentale e del canale della Manica, nell’isola detta di smeraldo, si verificava una piccola scossa d’assestamento. Si trattava delle elezioni politiche tenutesi in Irlanda il 25 febbraio, poco appariscenti sulle pagine dei giornali (italiani in particolare), ma pressoché unanimamente qualificate come «storiche».
È importante capire se e per quali ragioni le recenti elezioni abbiano un reale valore «storico» per l’Irlanda; ma, poiché negli anni tra il 1994 e il 2007 quella irlandese fu la storia di maggior successo economico sia tra i paesi europei ma sia nell’intero gruppo dell’Ocse, e un esempio internazionale dei benefici del «neoliberismo» e dell’appartenenza all’area dell’euro, ad essere in causa nella crisi irlandese sono anche il significato e, potenzialmente, l’esistenza, dell’attuale costruzione europea.
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Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica
Toni Negri
Questo testo è stato estratto dall'intervento pronunciato in occasione di una conferenza tenutasi a Londra nel maggio 2009 al Birbeck Institute, per iniziativa di Alain Badiou e Slavoj Žižek, dal titolo On the idea of Communism. Gli atti di questo incontro, che hanno visto la partecipazione di alcuni dei principali filosofi contemporanei, sono stati raccolti in un libro che ha visto la pubblicazione in Francia, Spagna e Inghilterra. In Italia, con il titolo L’idea di comunismo, lo stesso libro sarà disponibile nel mese di aprile nel catalogo delle edizioni DeriveApprodi. Segnaliamo che il testo qui riportato non rappresenta la versione integrale dell'intervento
L’affermazione che la storia è storia della lotta di classe, sta alla base del materialismo storico. Quando il materialista storico indaga sulla lotta di classe, lo fa attraverso la critica dell’economia politica. Ora, la critica conclude che il senso della storia della lotta di classe è il comunismo: «il movimento reale che distrugge lo stato di cose presente». Si tratta di starci dentro a questo movimento. Si obietta spesso che queste affermazioni sono espressioni di una filosofia della storia. A me però non sembra che si possa confondere il senso politico della critica con un telos della storia. Nel corso della storia, le forze produttive normalmente producono i rapporti sociali e le istituzioni dentro i quali sono trattenute e dominate: questo sembra evidente, questo registra ogni determinismo storico. Perché allora ritenere che un eventuale rovesciamento di questa situazione e la liberazione delle forze produttive dal dominio dei rapporti capitalisti di produzione costituiscano (secondo il senso operativo della lotta di classe) un’illusione storica, un’ideologia politica, un non-senso metafisico? Cercheremo di dimostrare il contrario.
1) I comunisti dunque assumono che la storia è sempre storia della lotta di classe.
Taluni dicono che non è possibile assumere questa affermazione perché la storia è stata talmente predeterminata, ed è ora talmente dominata dal capitale da rendere questa assunzione ineffettuale e inverificabile.
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Dall' università dei baroni all'università dei padroni
Andrea Martocchia
L'attacco al sapere
Lo stravolgimento del sistema della formazione e della ricerca in Italia ha segnato un suo momento topico nel passaggio in Senato della riforma Gelmini. Ad attestare l'importanza del frangente è tra l'altro l’impressionante dimensione e determinazione delle iniziative del movimento di protesta, che ha catalizzato insieme molti diversi settori: non solo studenti ma anche ricercatori, precari e non, dell’università, degli enti di ricerca, pezzi del mondo della scuola di ogni ordine e grado, della cultura e dello spettacolo, rappresentanti del precariato diffuso, giovani disoccupati e sotto-occupati. Il movimento, per la sua stessa composizione, è stato una dimostrazione vivente del fatto che il colpo sferrato contro l'università con la riforma Gelmini è parte di una ristrutturazione ampia e strategica, che in altra sede abbiamo definito un generalizzato attacco al sapere rivolto contro più di una generazione di “giovani”, che attraverso il sapere per l’appunto avevano creduto di poter costruire un futuro per se stessi e per la società tutta.
In questa sede cercheremo di spiegare che l'attacco al sapere non è un fatto contingente, bensì strutturale; esso non è legato ad una specifica gestione politica di centrodestra, ma è bipartisan; non accade solamente in Italia per ragioni legate alla nostra storia o fase specifica, ma è riconoscibile in tutti i Paesi a capitalismo avanzato. La prospettiva nella quale tale attacco va inquadrato è una prospettiva globale ed epocale, poiché il suo carattere è sistemico e perciò non può essere compreso, tantomeno efficacemente contrastato, se non se ne considerano le cause macro economiche.
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Lettera a un giovane morto invano per una pace che non ci sarà
Restiamo Umani
Vik da Gaza city
Caro Vittorio,
da uno dei tanti inutili uffici pace messi su nei comuni d’Italia (per salvarsi la coscienza e continuare intrighi e politica di piccolo cabotaggio), l’amica Ornella ha fatto spuntare oggi sul video del mio PC, un comunicato di Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace, nel quale si annuncia che «il 29° Seminario nazionale» di tale organizzazione «che si apre oggi ad Assisi sarà dedicato a Vittorio Arrigoni». Chissà, ti dedicheranno pure strade, scuole, parchi!
Che ipocrisia!
Trovo indecente, subdola, viperina la prontezza con cui si gioca d’anticipo su ogni possibile concorrente e ci si appropria della tua morte. La lobby pacifista italiana ti vuole “santino pacifista subito”! Guai se, ragionando sulla tua uccisione, si uscisse dal piagnisteo! La spiegazione da far circolare nel “mercatino della pace” è una sola ed è già pronta: Lotti ha detto che la tua uccisione è «assurda». E chiude così qualsiasi interrogativo più scomodo.
Rassegniamoci, dunque?
È una buona, consolidata, abitudine italiota non andare a fondo sui “fatti di sangue”.
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