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La filosofia come «Kampfplatz» e l’intervento di Lenin nella “crisi delle scienze”1
di Eros Barone
Neppure una parola di nemmeno uno di questi professori – capaci di produrre le opere più preziose in campi particolari della chimica, della storia, della fisica – può essere creduta quando si passa alla filosofia. Perché? Per la stessa ragione per la quale neppure una parola di nemmeno uno dei professori di economia politica- capaci di produrre le opere più preziose nel campo delle indagini particolari condotte sui fatti – può essere creduta quando si passa alla teoria generale dell’economia politica. Poiché quest’ultima, nella società contemporanea, è una scienza di parte, come la gnoseologia.
V.I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 336-337.
Il libro di Lenin contro l’empiriocriticismo è, secondo me, davvero eccellente.
K.R. Popper, Alla ricerca di un mondo migliore, Armando Editore, Roma 2002, p. 104.
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La lotta teorica marxista in una congiuntura storica controrivoluzionaria
Materialismo ed empiriocriticismo fu scritto da Lenin nel 1908, in esilio, dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905-1907. Sotto l’imperversare del terrore controrivoluzionario, in condizioni estremamente dure, i bolscevichi lottavano per dare ordine alla ritirata, per indietreggiare senza panico e sbandamento, per conservare i quadri, raggruppare le forze, ricostituire le file. Allora, nel momento in cui, battuta la rivoluzione, maggiore era la disgregazione tra i ‘compagni di strada’ della classe operaia e più profondi l’abbattimento e la confusione tra gli intellettuali, l’offensiva controrivoluzionaria venne sferrata anche sul fronte teorico e ideologico. Nel giro di poco tempo si moltiplicarono i tentativi di revisione del marxismo e la ‘critica’ del materialismo dialettico divenne un fatto alla moda.
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Le repubbliche monarchiche
di Carlo Galli
«Non è certo un bene se si è molti al comando; uno sia il capo, uno soltanto il re, a cui dette il figlio di Crono scettro e leggi, perché regni sugli altri». Così, con le parole di Odisseo in assemblea, l’Iliade legittima la figura di Agamennone, re dell’Argolide e per l’occasione re dei re, comandante in capo dei Greci davanti a Troia. La figura del re appare già collegata da una parte a una identità collettiva, e dall’altra alla divinità; inoltre, emerge qui un’altra caratteristica dei re: il loro compito è di esercitare la giustizia, garantire le leggi. Ma, benché sia pastore di popoli, Agamennone non gode di un pieno potere politico. Anche questa è una caratteristica della regalità, la cui essenza sta nella funzione «pontificale» di unione fra l’umano e il divino. Una funzione che ha una connotazione religiosa prima che direttamente politica.
Le principali culture – quelle storiche e quelle «primitive», di Europa, Asia, Africa, America – presentano, in modi diversi, questa costante: il re apre un gruppo umano alla trascendenza, lo sottrae alla contingenza, ai pericoli, alla rovina; funziona (lo ha spiegato René Guénon) come un asse, un albero della vita che unisce cielo e terra, attorno al quale ruota una civiltà. Il re è interno ed esterno alla città, alla tribù, all’Impero: li incorpora in sé e li porta fuori di sé, li apre a leggi cosmiche, e così garantisce che le cose terrene procedano allo stesso ritmo delle cose celesti; grazie al re la giustizia è assicurata, i mostri del caos sono respinti sotto terra, i campi sono fecondi. Come ha scoperto Georges Dumézil, vi è una corrispondenza fra ordine celeste tripartito (gli dèi regnanti, gli dèi guerrieri, gli dèi della fecondità) e tripartizione mondana fra re-sacerdoti, custodi, produttori: il posto del re è il vertice, sporgente verso il cielo, di una società gerarchica, organizzata secondo ritmi naturali e divini di cui egli è il custode.
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Berlino, 30 anni dopo
di Claudio Conti
In calce l'editoriale di Guido Salerno Aletta
Se i maestri sono in crisi, proprio mentre celebrano la storica vittoria sull’avversario numero uno (il socialismo, seppure nella sua versione più grigia, quella “reale”), è bene guardare con occhio clinico alle ragioni della sua crisi.
Che sono poi, nell’insieme, il suo normale modo di funzionare.
Ancora una volta vi proponiamo un fulminante editoriale di Guido Salerno Aletta su Milano Finanza, che impietosamente affonda il bisturi nel modello mercantilista tedesco. Un dispositivo di rapina all’interno (verso i propri lavoratori) e all’esterno (verso i paesi-partner dell’Unione Europea, e ovviamente verso i loro lavoratori) che va in crisi per aver avuto troppo successo.
Che non vuol dire aver avuto ragione, ma semplicemente di essersi potuto “finalmente” sviluppare senza avversari; né come classe contrapposta (i lavoratori, appunto), né come “sistema economico e di valori” (il socialismo).
Chi mastica di dialettica capisce senza sforzi che il momento migliore dell’economia tedesca ed europea – perché di questo sostanzialmente si parla – coincida con il periodo pre-caduta del Muro. Quando, insomma, welfare e salari furono elargiti con generosità, magari anche a scapito dei profitti, che “furono ridotti, sì, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma solo per paura del Comunismo”.
Il capitalismo, insomma, rende meglio quando è sottoposto a una non volontaria “cura dimagrante”, a una condivisione degli utili che è poi diventata bestemmia dopo l’89. Ma anche in quelle condizioni non funzionava benissimo…
Dopo l’Anschluss della Ddr e la facile imposizione a tutta l’Unione Europea delle regole più vantaggiose per sé, non troppo paradossalmente, quel meccanismo si è inceppato.
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Nick Srnicek, “Capitalismo digitale”
di Alessandro Visalli
Il libro del 2017 di Nick Srnicek, autore con Alex Williams una quindicina di anni prima del “Manifesto accelerazionista”[1], svolge un’analisi della nuova economia del web, le cui potenzialità erano state esaltate implicitamente nel manifesto.
Anche ora, quattordici anni dopo, mentre l’accelerazione non è più citata (dati i fraintendimenti ricevuti) l’era di trasformazione in corso è vista come qualcosa di potenzialmente positivo pervertito dal capitalismo. Si tratta di condivisione, flessibilità, imprenditorialità, liberazione dei lavoratori dalle costrizioni e dalle gerarchie, interconnessione e on-demand per i consumatori. O, almeno, potrebbe, perché tutto ciò nasce dentro una logica di generazione di profitti ed ampliamento della concorrenza che è tipica del capitalismo. La tesi del libro è che, “a causa di un lungo declino della redditività del settore manifatturiero, il capitalismo abbia iniziato a occuparsi dei dati come un mezzo per mantenere crescita economica e vitalità in presenza di un settore produttivo altrimenti pigro”. I dati, cioè, hanno assunto un ruolo sempre più centrale per le aziende ed i loro rapporti.
La lettura che viene compiuta tenta quindi di “storicizzare le tecnologie emergenti come risultato di più profonde tendenze del capitalismo, mostrando come esse siano parte di un sistema di sfruttamento, esclusione e concorrenza”. Ovvero, che, in qualche misura sono l’opposto di ciò che dicono di essere o, in altri termini, l’opposto di ciò che potrebbero essere.
Per capite l’emergenza della “economia delle piattaforme”[2] bisogna quindi inquadrarla negli eventi globali del sistema economico, almeno nella risposta alla recessione degli anni settanta, al boom e successiva piccola recessione degli anni novanta, ed alla risposta alla crisi del 2008. Questi movimenti hanno creato le condizioni per la nuova economia digitale e hanno determinato i modi in cui essa si è sviluppata.
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Il sogno di Achille
Cosa resterà di questi anni ottanta
di Figure
Ciò che dà spinta al mondo non è il crollo ma il sorgere ovunque di realtà nuove. Tutto nasce dal muro di Berlino. Dietro quell’evento reale e simbolico si intravede il movimento della storia, ad Est come ad Ovest, che è destinato a cambiare gli assetti mondiali e il modo stesso di fare politica
Avvertenza: Tutte le parti scritte in corsivo sono parole di Achille Occhetto tratte variamente da: il Comitato Centrale del PCI tenutosi tra il 20 e il 24 Novembre 1989 a Roma, il XIX Congresso straordinario del PCI tenutosi tra il 7 e il 11 Marzo 1990 a Roma e il XX Congresso del PCI – PDS tenutosi tra il 31 Gennaio e il 3 Febbraio 1991 a Rimini
Il 9 Novembre 1989 cade il Muro di Berlino. Tre giorni dopo, il 12 Novembre, a Bologna il segretario del Partito Comunista Italiano, Achille Occhetto, dichiara di voler proporre al partito – e di fatto con quel gesto propone – di concludere l’esperienza del PCI e costituire una nuova forza politica. Il 3 Febbraio 1991 a Rimini si scioglie il PCI e nasce il Partito Democratico della Sinistra; qualche mese dopo, il 12 Dicembre, i contrari alla liquidazione del PCI fondano il Partito della Rifondazione Comunista. Il 26 Dicembre dello stesso anno ufficialmente l’Unione Sovietica smette di esistere. Un mondo l’ordine delle cose per come era stato conosciuto dopo la fine della seconda guerra mondiale finisce. La configurazione internazionale definita al tavolo di Jalta da Churchill, Stalin e Roosevelt e caratterizzata dalla divisione del globo in due blocchi ideologicamente contrapposti, finisce. Finisce la conformazione del sistema politico italiano per come si era stabilizzata dopo la costituente a rispecchiamento della situazione internazionale: un governo a trainante democristiana di volta in volta appoggiato dal centro sinistra o dalla destra, e il PCI all’opposizione. Non è solo una questione di alte sfere della politica, in Italia sono le identità individuali di almeno tre generazioni di comunisti cresciuti tra le braccia del partito che vedono la realtà e la loro posizione in questa diventare incomprensibili; e non è solo una questione di comunisti: sull’anticomunismo sulla paura dei rossi e della loro incapacità a governare la DC ha costruito durante tutta la Prima Repubblica la sua legittimità, malgrado il marcio e gli scandali, malgrado le bombe, i tentativi di golpe e la mafia; malgrado tutto. È la fine di un mondo e, come al solito, l’inizio di uno nuovo.
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La classe operaia è tramontata?
di Maria Grazia Meriggi*
Da alcuni decenni ormai nella discussione pubblica si è affermata un’idea che non ha permeato solo la discussione politica ma anche il discorso sociologico e ha influenzato la ricerca storica: il tramonto della classe operaia. Di recente il perdurare della crisi iniziata alla fine del 2006 negli Usa e che ha influenzato profondamente mercati del lavoro e modelli produttivi e l’insorgere elettorale e sociale dei populismi1hanno rimesso all’ordine del giorno delle agende politiche l’importanza del lavoro come fonte di reddito e di integrazione sociale ma non certo la centralità dei lavoratori e dei loro conflitti.
Questa eclissi ha assunto le forme più svariate. Quella “di sinistra” ritiene che si possa parlare di classe solo in presenza di esplicite manifestazioni di coscienza di classe, espressa politicamente. Per questa concezione, più leninista che marxista, prima l’integrazione nel “ceto medio” poi l’adesione (supposta? reale?) ai populismi avrebbe decretato l’eclissi della classe operaia come soggetto politico e questo compito dovrebbe essere assunto da altri “ultimi del mondo”. Ho scritto più leniniana che marxista – con tutte le semplificazioni che queste definizioni implicano – perché altre tradizioni teorico-politiche attribuiscono centralità anche alle forme immediate del conflitto di classe che si può manifestare nei luoghi di lavoro o nelle mobilitazioni sociali in forme che comportano il silenzio politico: non dimentichiamo che per il giovane Marx una delle prime manifestazioni di classe nella Francia del 1848 è l’insurrezione “elementare”, accusata di essere “bonapartista”, del giugno2. “Maledetto sia il giugno!”, anche se quella sconfitta ha aperto la strada al successo elettorale di un regime autoritario – il bonapartismo – che ha esibito almeno nella propaganda della fine del ’48 alcuni tratti populisti.
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Remo Bodei ha lasciato andare la gomena della vita
di Francesca Rigotti
Ogni tanto lo si incontrava a festival e congressi filosofici un po' ammaccato; una volta zoppicava un po', un'altra aveva un braccio al collo; ognuno sarebbe rimasto a casa, invece Remo no. Se Remo Bodei aveva preso un impegno, lo rispettava fino in fondo, appena possibile: «Sono coriaceo», diceva di sé, da bravo stoico; coriaceo come la suola di una vecchia scarpa. Ma questa volta non ce l'ha fatta neanche lui e se ne è andato e ci ha lasciato tutti orfani, filosofi e no. Soprattutto i non filosofi, perché più di ogni altro Bodei era riuscito a portare la filosofia nelle strade e nelle piazze, come Socrate. E l'aveva fatto con quell'invenzione geniale che fu, anche nel nome, il Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, così che dal 2001 strade e piazze e chiese e palazzi di quei luoghi ospitano le migliaia di persone che dedicano anche soltanto un poco del loro tempo alla riflessione filosofica. Viene allora da chiedersi: ma veramente anche tutte quelle persone che sono state sedute su quelle migliaia di sedie di plastica nella piazza Grande di Modena infuocata dal sole, o nella immensa spianata di Carpi in nome di Socrate, Kant e Arendt, opteranno per il verbo pupulista, sovranista, primanostrista, mettendo il loro voto nelle mani dei promotori della chiusura, della discriminazione e dell'odio?
Tra le tante altre aree di interesse, Bodei si è occupato anche delle passioni: passioni calde come l'ira, bollente, furiosa, rossa. E passioni tristi come l'odio, gelido e calcolato, alimentato e accudito costantemente. L'odio fa parte di quelle «passioni tristi» di cui parla Spinoza, il grande filosofo olandese del '600, le quali, insieme all'invidia e all'avarizia, deprimono la nostra voglia di vivere.
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Liberalismo dell'obbligo
di Il Pedante
I tempi di crisi sono tempi di contraddizioni. Non fa eccezione il tempo presente, incatenato a un modello antropologico proiettato verso l'inesistente - il «progresso», il futuro - e perciò condannato a fissare sempre più in alto l'asticella delle sue promesse per giustificare la distruzione che semina nell'esistente. La contraddizione più macroscopica, quella logica, è nello scarto ormai osceno tra gli scopi dichiarati e gli esiti conseguenti. Lì si annida l'arsenale apologetico della colpevolizzazione delle vittime, della coazione a ripetere, dello scadimento di parola e pensiero nel bar-bar degli slogan, delle emozioni a comando, degli appelli all'irrazionalismo onirico delle «visioni» e dei «sogni» e di altri numeri già descritti altrove.
Chi viola la logica viola la realtà. Il principio di non contraddizione non si dimostra né si contesta perché il suo postulato è il dato - ciò che è dato, non ciò che è prodotto o interpretato - dell'esperienza di tutti (sensus communis). E chi viola la realtà, violando tutto ciò che è reale, non può che trovare asilo in un'immaginazione malata perché inconsapevole, nella credenza che le cose, come nella cosmogonia biblica, si creino e si avverino perché ripetute dai giornali, dai manifestanti, dagli hashtag, dai pappagalli dell'accademia e delle istituzioni.
Se il risultato è alienato e contraddittorio, non può non esserlo la teoria a monte, quella in cui si celebra la «libertà» dei tempi moderni e venturi già nell'etimo dei suoi miti corollari: il liberalismo politico, il liberismo economico, le liberalizzazioni dei servizi, la libera circolazione di merci, capitali e persone, la libertà dei costumi e del sesso che deve scardinare ogni cosa, anche i vincoli della biologia, l'Occidente libero, la crociata contro un passato corrotto, provinciale e bigotto dai cui pesi bisogna liberarsi. Per realizzare tutto ciò, detta teoria si traduce nella prassi palingenetica e spavalda delle «riforme» i cui frutti ricadono tutti e senza margini di deroga nel novero... delle limitazioni delle libertà, in ogni variante possibile.
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Golpe in Bolivia!
Di golpe in golpe. La controffensiva neoliberista in America latina
di Carlo Formenti
Il “giro a l’izquierda”, la svolta a sinistra innescata dalle grandi mobilitazioni delle etnie andine (in larga maggioranza contadini) fra la fine dei Novanta e i primi anni del Duemila; dall’insurrezione argentina del 2001; dalla rivoluzione venezuelana guidata da Chavez e da una serie di altri movimenti nel subcontinente latinoamericano, sembrava avere avviato un grande esperimento di trasformazione sociale, politica e culturale in quella importante regione del mondo, immensamente ricca di risorse...
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Il golpe boliviano
di Collettivo “Le Gauche”
Fra la transizione mancata al socialismo e l'imperialismo americano
Il golpe che è avvenuto in Bolivia ci consente di fare molte riflessioni sull’America Latina e l’esperienza del socialismo del XXI secolo.
Stiamo assistendo alla reazione rabbiosa degli yankee all’erosione della propria egemonia nel vecchio cortile di casa. Le proteste in Cile ed Ecuador, la vittoria dei peronisti di sinistra in Argentina, la liberazione di Lula in Brasile, l’eroica resistenza del Venezuela, di Cuba e del Nicaragua stanno creando non pochi problemi all’Impero.
Dato che il modello neoliberista non ha alcun tipo di fascino ideologico per le masse, se escludiamo il calcolo egoista come esaltato da Ayn Rand, premessa di una società talmente infernale...
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Cosa ci insegna la Bolivia
di Sergio Cararo
Le pessime notizie che arrivano dalla Bolivia ci mettono di fronte alla brutale realtà della lotta di classe, dei suoi risultati e delle sue contraddizioni.
Cominciamo dagli ultimi fatti. Stiamo assistendo ad una feroce caccia all’uomo contro i dirigenti e i militanti del Movimento Al Socialismo e gli esponenti del governo di Evo Morales. Nell’”opposizione” boliviana hanno prevalso sin da subito non i “moderati” di Garcia Meza, ma i falangisti di Camacho e di “quelli di Santa Cruz”.
Si tratta di brutta, bruttissima gente. Molto spesso eredi di ex nazisti fuggiti in Bolivia, che erano abituati a dominare – anche con...
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Ore di rabbia e tristezza per il golpe in Bolivia
di Javier Tolcachier
La cronologia dirà che il 10 novembre 2019, Evo Morales Ayma, presidente costituzionale della Bolivia, ha rassegnato le dimissioni.
La storia raccontata dagli apparati di destra di fabbricazione del buon senso comune, i media privati dominanti, non insisterà sul fatto che Evo ha dovuto lasciare la presidenza per cercare di fermare il massacro che le orde fasciste stavano eseguendo contro funzionari governativi e loro parenti, militanti di partito e donne in abito andino.
Il falso racconto ometterà il fatto che, in realtà, il primo presidente indigeno della Bolivia è stato rovesciato da un colpo di stato...
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Golpe in Bolivia, lo spartiacque per l'antifascismo oggi
di Redazione
Appena ieri nelle convulse ore quando il golpe prendeva forza, l’esercito boliviano attraverso un ambiguo comunicato aveva informato che non sarebbe intervenuto contro la popolazione. In realtà il messaggio era un altro: luce verde per i golpisti liberi così di compiere le violenze più indicibili.
Saccheggiare e devastare la casa di Evo Morales, così come quelle di svariati dirigenti del MAS, il fratello del presidente della Camera preso in ostaggio per costringerlo alle dimissioni in modo da non farlo subentrare a Evo Morales dopo la sua rinuncia; prendere d’assalto la sede della tv e della radio pubblica, con i dipendenti...
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Golpe in Bolivia
di Gennaro Carotenuto
Il GOLPE è consumato. Evo Morales rinuncia alla presidenza in Bolivia per evitare una guerra civile voluta dai bianchi e dai ricchi e da quei poteri internazionali che male hanno digerito che la Bolivia, per la prima volta nella sua storia sia stata in grado di prendere in mano il proprio destino.
Ancora una volta nella Storia “coloro che hanno la forza ma non la ragione”, impongono la loro volontà. Evo deve piegarsi ai diktat dei militari golpisti d’accordo con la OEA. Ma neanche questa ha mai messo in dubbio che Evo abbia stravinto le elezioni per la quarta volta consecutiva.
A questo punto è chiaro che il conteggio dei voti, se Evo avesse vinto di poche migliaia di voti del margine per da evitare il ballottaggio contro Mesa...
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In memoria di Luciano Gallino
Il finanzcapitalismo, l’euro e la moneta come bene pubblico
di Enrico Grazzini
La quasi totalità degli intellettuali italiani ha sepolto nel silenzio la formidabile eredità scientifica, politica e morale di Luciano Gallino, scomparso l’otto novembre di quattro anni fa. Gallino è stato senza alcun dubbio lo scienziato sociale più profondo, coerente e critico della sinistra italiana: ma è rimasto inascoltato – anche presso la stessa sinistra politica (che non a caso in Italia è praticamente scomparsa) e sindacale (che non a caso è in gravissima e crescente difficoltà).
Il problema è che i suoi messaggi, specialmente nell’ultimo periodo della sua vita, erano troppo intellettualmente e politicamente chiari e radicali per la cultura confusa, ambigua, sempre disponibile al compromesso che domina oggi in Italia in (quasi) tutti gli ambiti e in tutte le parti politiche. Le sue proposte sulla moneta, sull’euro, sull’eurozona e l’Unione Europea, sulle riforme monetarie e bancarie necessarie per uscire dalla crisi provocata dal finanzcapitalismo, erano e sono considerate troppo anticonvenzionali e innovative per essere accettate (o almeno discusse) dai timidi e paurosi intellettuali e politici italiani. Ho collaborato con lui e nell’ultimo periodo della sua vita: e posso dire che, nonostante la sua indiscussa autorevolezza, il maggiore studioso della sinistra era rimasto praticamente isolato.
Gallino non si è limitato a studiare come sociologo l’organizzazione industriale del lavoro, il lavoro della conoscenza, gli impatti dell’informatica sul lavoro, le crescenti diseguaglianze, le istituzioni sociali e politiche. L’autore del bellissimo libro su “La scomparsa dell’Italia industriale” negli ultimi anni della sua vita ha analizzato in maniera approfondita la crisi finanziaria, il finanzcapitalismo, la moneta, l’euro ed era arrivato alla conclusione – scandalosa per i paurosi e inconcludenti intellettuali della sinistra italiana – che, per vincere il finanzcapitalismo e superare la grave e crescente crisi nazionale, bisognava riformare alla radice il sistema monetario e trovare tutte le vie possibili per superare i vincoli dell’euro, eventualmente anche a costo di preparare l’uscita da una eurozona perennemente in crisi.
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La fusione FCA-PSA e Marx
di Domenico Moro
La fusione tra Fca e Psa rappresenta in maniera esemplare alcune importanti caratteristiche dell’attuale fase del capitalismo, confermando lo schema interpretativo dell’economia di Marx. Alla fine del capitolo XXV del Terzo libro del Capitale, quello sulle conseguenze della caduta del saggio di profitto, Marx evidenzia tre caratteristiche principali della produzione capitalistica: a) la centralizzazione in poche mani dei mezzi di produzione, b) l’unione della produzione capitalistica con i risultati delle scienze, e c) la creazione del mercato mondiale.
Il primo aspetto, quello della centralizzazione della proprietà in poche mani, è trattato da Marx anche nel capitolo XXIII del Primo libro, quello sulla legge generale dell’accumulazione. Qui Marx evidenza come il processo capitalistico dia luogo a una accumulazione di capitale sotto forma di mezzi di produzione sempre maggiore, mediante il progressivo reinvestimento del plusvalore prodotto nel processo produttivo. Questo processo viene definito da Marx concentrazione del capitale. Tuttavia, accanto alla concentrazione mediante ingrandimento progressivo di uno stesso capitale, Marx evidenzia l’esistenza di un altro metodo per l’accrescimento del capitale investito, la centralizzazione. La centralizzazione è l’ingrandimento del capitale investito mediante acquisizione o fusione di capitali diversi. Quindi, a differenza della concentrazione, la centralizzazione permette l’ingrandimento mediante l’accorpamento di capitali/imprese già esistenti, e non mediante il processo di crescita (accumulazione) di un singolo capitale/impresa.
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Riflessioni intorno a “Le nuove melanconie” di Massimo Recalcati
di Paolo Bartolini
Nel confrontarci con l’ultimo libro di Massimo Recalcati, “Le nuove melanconie. Destini del desiderio nel tempo ipermoderno” (Raffaello Cortina, 2019, € 19,00), non neghiamo di aver avvertito in principio alcune resistenze. L’autore è molto noto e la sua marcata esposizione mediatica può elicitare reazioni automatiche (di ammirazione o di diffidenza) che rischiano di invalidare un esame equilibrato dei contenuti trattati nell’opera. Inoltre, visti i risvolti sociali del tema in questione, non è stato facile mettere tra parentesi lo scarto che esiste tra le nostre rispettive posizioni politiche. Ecco perché abbiamo preso tra le mani il suo nuovo lavoro con un misto di eccitazione e titubanza. Va detto, a scanso di equivoci, che Recalcati, prima ancora di essere una star della cultura italiana, è un ottimo scrittore e uno studioso capace di comunicare in maniera coinvolgente, anche a un pubblico generalista, i concetti chiave della psicoanalisi (soprattutto di taglio lacaniano). Le antipatie che ha saputo suscitare in certi ambienti “critici” forse non sono del tutto innocenti e risentono di una polarizzazione istintiva che si genera ogni qual volta un intellettuale conquista in maniera indiscutibile le luci della ribalta. Il volume di cui stiamo per parlare è profondo e ispirato, un libro necessario che arricchisce la letteratura, non proprio fiorente, sugli intrecci tra psiche e storia, inconscio e politica. Qui offriamo modestamente le nostre prime impressioni, delle riflessioni a caldo su un testo che segnerà probabilmente il dibattito contemporaneo sulla sofferenza mentale ed esistenziale ai tempi del capitalismo finanziario e dei sovranismi populisti. Abbiamo scelto, comunque, di mettere in tensione il discorso dell’autore, evidenziandone lacune e potenzialità degne di ripresa e ulteriori sviluppi.
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Golpe in Bolivia. Forza e debolezze delle alternative sociali al neoliberismo
di Redazione Contropiano - Luciano Vasapollo
Il golpe in Bolivia ha rovesciato una democrazia che era stata appena confermata il libere elezioni, in cui nemmeno gli osservatori stranieri meno benevoli erano riusciti a vedere irregolarità nel voto.
E’ assolutamente evidente che gli Stati Uniti, in ritirata in altre zone del mondo, stanno cercando di riprendersi il “cortile di casa” eliminando le esperienze alternative, dal Venezuela al Nicaragua, dal Brasile all’Ecuador e ora in Bolivia.
Un tentativo prepotente, che ottiene risultati alterni (le elezioni in Argentina hanno certo “deluso” Washington, e la liberazione di Lula può diventare la premessa per la caduta di Bolsonaro), ma va avanti perché non vede altre possibilità di mantenere l’egemonia almeno sul continente americano.
A noi sembra evidente, che questo attacco a tutto campo, condotto senza rispettare nessuno dei “valori” strombazzati tramite media, coglie i punti di debolezza dei vari tentativi di sottrarsi alla morsa yankee con metodi democratici.
La reazione imperialista organizza in modo militare quei settori sociali che sono stati democraticamente espulsi dalla gestione del potere politico ma hanno mantenuto pressoché intatto il proprio ruolo economico.E mobilita tutte le funzioni chiave che aveva provveduto a “istruire” ai tempi del dominio assoluto (dalle forze militari ai “giudici” catechizzati al ritmo di “mani pulite”, come l’attuale ministro di Bolsonaro, Sergio Moro).
E’ questa la conseguenza di un errore abbastanza comune, quello di credere che la conquista del governo politico coincida con la conquista del potere reale. Ma se non si mette mano alla modifica sostanziale del sistema economico, ossia se non si fa prevalere l’autodeterminazione sul come e cosa produrre e ci si limita soltanto alle politiche di redistribuzione sociale, non si modificano le modalità di riproduzione delle parti reazionarie e benestanti della società.
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Il gioco dei tre Conte
di Valeria Turra
Il risultato delle elezioni regionali in Umbria va sicuramente interpretato nella sua valenza specificamente locale come una insofferenza profonda a un malgoverno che verrà giudicato compiutamente nelle aule di più di un tribunale, ma acquisisce, per il quadro in cui de facto esse si situano, un valore politico generale, di formidabile vaglio collettivo di una scelta (quella assunta dal presidente della Repubblica, di non sciogliere le Camere dopo la crisi di governo innescata da Salvini, proprio perché il risultato atteso da una nuova consultazione non era quello desiderato dall’Ue e dal Vaticano, alla cui voce Mattarella è tutt’altro che sordo); di un’alleanza (quella fra due partititi prima avversari acerrimi, il Pd e il M5S), e di un tentativo finora riuscito di radicamento al potere (quello di “Giuseppi” Conte, figura di grottesco “doppio” euripideo rivisitato, con il suo voler essere sosia diverso di se stesso nel passaggio da Conte 1 a Conte 2 -che qualcuno non dica bis, rimarcando una continuità!: al 2 non essendo però legittimato che da quella prima esperienza di governo come “avvocato del popolo” con la Lega di Salvini, forse con troppa fretta accantonata). Dato che negli ultimi giorni di campagna elettorale alleanza e tentato radicamento hanno sfilato in Umbria, presumere di escludere la portata nazionale da queste elezioni sarà un tentativo tanto scontato quanto infelice, legittimato solo dalla prassi ormai consolidataci dalla permanenza in Europa, quella di non dare più peso alcuno allo scollamento fra volontà popolare ed eletti.
Cosa ci dice dunque questo voto? Almeno tre cose.
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A 30 anni dalla caduta del muro
di Antonio Di Siena
Mancano due giorni alle solenni celebrazioni per il trentennale della caduta del Muro di Berlino, e siamo già tutti pronti a sentirci raccontare come gli eventi che presero il via il 9 novembre 1989 cambiarono per sempre la storia del continente europeo.
Ma la narrazione dell'informazione dominante ci racconterà del crollo non di un semplice muro, ma di un intero Paese comunista con un sistema economicamente al collasso, la Repubblica democratica tedesca (DDR - meglio conosciuta come Germania Est), che fu magnanimamente soccorso da un altro Paese, generoso e democratico.
Di come un popolo oppresso e affamato da un sistema totalitario, che scappava a gambe levate in direzione ovest, sia stato liberato dal giogo del socialismo reale e accolto nella moderna, florida e democratica Repubblica federale tedesca. Quella Germania Ovest che, con grande generosità, tese la mano ai suoi fratelli più sfortunati e, grazie ad una imponente politica di investimenti pubblici, riuscì a ricostruire e integrare un paese distrutto da mezzo secolo di economia socialista, portando a compimento il processo di riunificazione delle due Germanie.
Ma dopo trent'anni è passata abbastanza acqua sotto i ponti della storia per poter guardare a quell'evento epocale con uno sguardo lucido e disincantato, potendosi rendere facilmente conto che le cose non sono andate proprio così. E soprattutto che fra la vicende dei tedeschi dell'est e la moderna storia dell'Unione europea si possono tracciare importanti parallelismi.
Nel 1989 la Germania Est era sicuramente un Paese in crisi, politica ed economica, come altri del blocco socialista. I suoi cittadini chiedevano profonde riforme del sistema politico, più libertà e soprattutto la democratizzazione dello Stato. Non di certo una svolta capitalista.
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Anschluss. L’annessione
intervista a Vladimiro Giacché
Vladimiro Giacchè: Anschluss. L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa, DIARKOS 2019, € 18.00
Dott. Vladimiro Giacché, Lei è autore del libro Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa edito da Diarkos: a trent’anni dal crollo del Muro di Berlino, la riunificazione tra le due parti della Germania può dirsi compiuta?
No. Sussistono tuttora marcate differenze sotto il profilo economico e sociale: basti pensare che un lavoratore dell’Est riceve uno stipendio pari a poco più dell’80 per cento di un lavoratore dell’Ovest e che la disoccupazione è tuttora superiore del 50 per cento a quella dell’Ovest, nonostante un’emigrazione che ha interessato milioni di cittadini della ex Germania Est. Molte città e paesi, soprattutto nelle aree rurali, si sono spopolati. Una ricerca dell’istituto di ricerca tedesco Ifo uscita nel luglio scorso ha reso noto che, mentre la parte occidentale della Germania ha oggi più abitanti di quanti ne abbia mai avuti, la parte orientale è tornata ad avere gli abitanti che aveva nel 1905. Queste differenze si riflettono anche in un voto molto differente da quello espresso nei Länder dell’Ovest, e che penalizza in particolare i partiti di governo.
Ancora di recente un sondaggio ha evidenziato che i cittadini dell’Est si sentono cittadini di serie B. È difficile dar loro torto. Ma soprattutto, col passare del tempo, è sempre più difficile addebitare quelle differenze a “quello che c’era prima”. Non soltanto perché dalla caduta del Muro sono ormai passati 30 anni, e perché Kohl aveva promesso “paesaggi fiorenti” all’Est in due-tre anni. Ma per un motivo più sostanziale: perché gran parte del fossato che non si chiude tra Est e Ovest è stato scavato con l’unificazione, per il modo in cui essa è stata realizzata. L’unificazione politica è del 3 ottobre 1990.
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Su capitalismo e imperialismo
Intervista al prof. Michael Hudson
Michael Hudson, professore emerito di economia all’Università del Missouri-Kansas City, è uno dei più importanti economisti marxisti del mondo. Intellettuale di classe, attento nell’analisi della storia del capitalismo, fornisce sempre delle chiavi di lettura interessanti per capire il mostro contro cui ci battiamo ogni giorno. Dallo studio dell’imperialismo americano alla storia del debito passando per le sue importanti visite alla Cina, Hudson ci fornisce sempre degli spunti su cui riflettere attentamente. Ha lavorato come analista per Wall Street, scrive sulle principali riviste di economia del mondo come il Financial Times.
Con la speranza di vedere tradotti in italiano i suoi libri, sono orgoglioso di avere avuto l'opportunità di intervistarlo.
Lascio ai lettori il link al suo sito.
* * * *
Professor Michael Hudson, lei è spesso associato al pensiero di illustri economisti marxisti come Samir Amin e Giovanni Arrighi, soprattutto per aver capito che il capitalismo perdura nella sua crisi non dal 2008 ma dagli anni ‘70. Come è centrale nei suoi lavori l’imperialismo e lo sviluppo ineguale, tema fuori dalle agende di molti “compagni” specialmente quando affrontano il problema della crisi migratoria proveniente dall’Africa e dal Medio Oriente.
A suo avviso, oggi, l’imperialismo americano è in crisi oppure è vivo e vegeto come negli anni ‘90?
Gli Stati Uniti possono ancora gestire ad infinitum il passivo del bilancio governativo e della bilancia dei pagamenti. Ciò rimuove i vincoli (che altre nazioni invece continuano ad avere) alla loro spesa, sia militare che per altre porcherie, e alle acquisizioni di società straniere.
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Le origini della Guerra Fredda e la nascita del “complesso militar-industriale”
di Giacomo Gabellini
Giacomo Gabellini torna sulle colonne dell’Osservatorio Globalizzazione, con una magistrale ricostruzione dell’inizio della Guerra Fredda, siamo sicuri che così, non la avevate mai letta. Buona lettura!
Verso la fine della Seconda Guerra Mondiale, divenne palese agli occhi degli strateghi Usa che le necessità connesse alla conduzione del conflitto avevano assorbito una quota ragguardevolissima della forza lavoro statunitense, e che che all’interno di gran parte delle fabbriche operanti in settori civili la produzione era stata orientata a sostegno dello sforzo bellico. Era quindi chiaro che una riconversione dell’economia al tempo di pace avrebbe prodotto un impatto fortissimo sull’occupazione e sull’andamento dell’economia nazionale.
La dimostrazione empirica di ciò la si ebbe nell’immediato dopoguerra, quando la smobilitazione e la contestuale sospensione delle commesse militari fecero aumentare il tasso di disoccupazione del 130% nell’arco di un biennio, deprimendo allo stesso tempo l’indice di produzione dal picco dei 212 punti registrato in corrispondenza del culmine dello sforzo bellico ai 170 punti rilevati del 1948. Nel primo trimestre del 1950, i capitali d’investimento rappresentavano appena l’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, mentre le esportazioni diminuirono del 25% tra il marzo del 1949 e il marzo del 1950. Di fronte al precipitare della situazione, l’amministrazione Truman decise di incaricare alcuni esperti del Dipartimento di Stato di elaborare un piano strategico in grado di rilanciare il Paese.
Le conclusioni a cui il gruppo, guidato dall’ex banchiere della Dillon, Read & Co. Paul H. Nitze, giunse dopo un anno di studio furono condensate nel National Security Council raport 68 (Nsc-68), un documento che coniugava le necessità economiche alle aspirazioni egemoniche degli Stati Uniti, individuando in una sorta di “riarmo permanente” la chiave di volta per far ripartire l’economia.
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Le Tigri di carta del capitalismo e le raffiche di vento delle rivolte
di Giorgio Griziotti
Volentieri condividiamo la recensione di Giorgio Griziotti del libro di Maurizio Lazzarato recentemente uscito in italiano per DeriveApprodi: “Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione”, 2019
“Il capitale odia tutti [1], fascismo o rivoluzione” di Maurizio Lazzarato fa parte del gruppo ristretto dei libri che segnano una svolta nella riflessione sugli attuali “tempi apocalittici” a cui si accenna nell’introduzione.
Il sentimento di trovarsi davanti a un libro “importante” emerge man mano che, percorrendo le pagine, si delineano il vasto scenario e le cause della sconfitta storica del post ’68. Situazione che si aggrava man mano che entriamo nell’era del “crollo” senza che sinora siano apparse diagnosi credibili proprio perché alla sconfitta politica corrisponde quella teorica che coinvolge tutto il pensiero dell’epoca, da Foucault e Deleuze a Negri ed Agamben per restare in un registro italo-francese che corrisponde alle due patrie dell’autore.
Per farci comprendere che il problema è essenzialmente politico Lazzarato ci ricorda come nel secolo scorso masse di quasi analfabeti siano riuscite a compiere rivoluzioni in paesi poveri e colonizzati, che nel caso di Cina e Russia si trasformano in durature potenze mondiali, mentre oggi il tanto da noi celebrato General Intellect, all’origine dei nuovi paradigmi tecnologici (p. es. il free software), subisca nell’impotenza d’ascesa del fascismo 2.0. Cherchez l’erreur!
Lazzarato rimprovera al pensiero postsessantottino di aver accreditato una visione in qualche modo “positiva” del binomio produzione e innovazione del capitalismo, dove il lavoro creerebbe e riprodurrebbe le condizioni della vita. Se questo è stato in parte valido nei “trenta gloriosi” del dopoguerra con l’avvento del neoliberismo alla fine degli anni ’70, produzione e lavoro capitalisti creano condizioni di distruzione (della biosfera per esempio) e morte. Il fatto è che dal ’68 in poi sono stati usati gli strumenti politici e teorici del XIX secolo per trattare i problemi del XXI.
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I vecchi padroni della “nuova” Unione Europea
di Claudio Conti
In calce un articolo di Guido Salerno Aletta
Come si smontano interi Paesi per acquisirne il controllo, sia sul piano industriale che diplomatico. L’Unione Europea è nata per questo. O perlomeno è diventata l’espressione “semi-statuale” di un processo guidato da grandi gruppi multinazionali, che si appoggiano – per le normali necessità geopolitiche e militari, di cui non intendono accollarsi i costi – su Stati “forti”.
Francia e Germania sono in questo schema i punti di riferimento obbligati, specie da quando è iniziato il travaglio della Brexit, che può tradursi in un maggior grado di autonomia dell’”Europa” rispetto all’influenza statunitense.
Come se non bastasse, la crisi economica è tornata a bussare alle porte continentali, con la Germania inopinatamente “ultima della classe”, alle prese con la fine di un modello di sviluppo mercatilista, orientato dalle esportazioni, prosperato sui bassi salari e la precarietà contrattuale.
Il frutto avvelenato di quel modello di sviluppo – le “politiche di austerità”, incardinate in trattati come il Fiscal Compact – è noto: nessun governo europeo gode più del consenso popolare. Ed anche se alle ultime elezioni europee la crescita della forze nazionaliste di destra è stata meno esplosiva di quanto temuto, il contemporaneo indebolimento della “grosse koalition” continentale (tra democristiani e “socialdemocratici”) rende molto più fragile il governo politico delle tensioni.
Lo si è visto con le difficoltà nella formazione della Commissione Europea. Il candidato predestinato – Frans Timmermans, “socialista” olandese – è stato bocciato. E lo stesso è accaduto con la “riserva”, il democristiano tedesco Manfred Weber. La scelta è infine caduta sul ministro della difesa tedesco, Ursula Von der Leyen, che a sua volta si è vista bocciare ben tre “ministri” europei da lei proposti. Al punto da costringere Margrete Vestager, confermata “commissario alla concorrenza”, ad ammettere che questa legislatura europea non sarà governata come in passato, ma attraverso una serie di patti ad hoc con i “sovranisti”.
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Marx e l'ornitorinco1
di Antonio Savino
Il mondo popolato da spiriti
Il metodo: guardare le cose è diverso dal guardare le relazioni tra le cose. Le prime sono visibili con gli occhi le seconde con la mente.
Nel passato si chiamavano “spiriti” (fantasmi) perché esiste una realtà dietro le apparenze e queste sono le vere causali che muovono il mondo visibile. Anche nelle realtà umane esistono relazioni sociali che sono invisibili ma non per questo meno vere.
Sulla natura di questi spiriti i filosofi e studiosi si sono dati da fare: dal delirio di onnipotenza di Nietzsche all'inconscio di Freud fino all'economia di Marx (tralasciando gli spiriti religiosi o animisti).
L’economia per Marx
Nella teoria di Marx nella società capitalista, lo sfruttamento non avviene a forza d'imposizione, di virtù di razze, di norme morali ed etiche, di regole religiose ecc., ma attraverso lo scambio di prodotti del lavoro. I rapporti di dipendenza tra gli individui assumono l'apparenza di rapporti tra cose, tra prodotti del lavoro.
Il dominio capitalistico è un meccanismo impersonale perché mediato dai rapporti di scambio.
Per Marx l'economia è lo spirito che ben rappresenta la forma di relazione sociale dominante nella modernità, l'economia segna il passaggio epocale tra il mondo pre-moderno e moderno.
Il nocciolo della sua analisi era la teoria del valore. Intorno a questa tesi di Marx, da centinaia d'anni si sono imbastite teorie, carriere, sudore, partiti, guerre, sangue, e tante rotture di capo di molte persone.
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Perché Freud è ancora necessario
a cura di Nicole Janigro
Introduzione
di Nicole Janigro
Di Freud oggi sappiamo tantissimo, ogni suo oggetto, lettera, testo, incontro è stato studiato e interpretato. Alla Biblioteca del Congresso, sono ora consultabili tutte le sue carte: ci sono le opere, l’elenco e gli appunti dei libri letti, l’enorme epistolario. Durante la sua esistenza Freud conserva un senso ben preciso di quanto fosse possibile mostrare in pubblico e quanto si dovesse mantenere privato. È forte la sua preoccupazione che gli aspetti intimi, i “tristi segreti”, potessero esser utilizzati contro di lui. Nella sua Autobiografia, malato, convinto di essere prossimo alla fine, dopo la diagnosi di cancro alla mandibola, nel 1924, Freud propone «una nuova combinazione di elementi oggettivi e soggettivi», anche se, scrive, «il pubblico non ha diritto di saperne di più», «né dei miei rapporti personali, né delle mie battaglie, né delle mie delusioni, né dei miei successi». Quello che prevale è il Freud che distrugge le lettere alla fidanzata, che dice «ho parlato di me stesso più del consueto o più del necessario», perché «tutte le mie personali esperienze non hanno alcun interesse se paragonate ai miei rapporti con questa scienza». Il segno e lo stigma della sua vita sono affidati a queste righe: «Anzitutto mi feriva l’idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri».
La sua idea di terapeuta era quella di un analista neutrale, eppure il suo studio era stracolmo di immagini, oggetti, riproduzioni, quadri, tappeti e mobili. Una casa museo, dove era circondato da tutto quello che serviva al suo lavoro, ma anche al suo spirito. Chi arrivava non ci poteva credere: figure archeologiche egiziane, greche, romane, cinesi. Un’atmosfera onirica. Un insieme particolare di casa e studio, di intimità e formalità: un po’ come accade durante un’analisi.
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“2020?”
di Elisabetta Teghil
Qua e là per il mondo continuamente e in maniera sempre più serrata si susseguono rivolte e sollevazioni, apparentemente per le ragioni più svariate e difficilmente confrontabili.
Il neoliberismo in questi anni ha lavorato con pervicacia, sistematicità, coerenza e chiarezza ideologica su fini, obiettivi e strumenti. L’iper borghesia ha vinto. Le borghesie nazionali sono alla frutta, oscillano tra sacche di resistenza e asservimento al vincitore consce di aver perso definitivamente il loro ruolo.
Le politiche neoliberiste hanno decretato l’impoverimento generalizzato e profondo delle popolazioni occidentali sul fronte interno e lo sfruttamento violento e la destabilizzazione di intere aree sul fronte esterno con il neocolonialismo portato avanti con le così dette “guerre umanitarie”, con la strumentalizzazione dei diritti umani, della violenza sulle donne, dell’antirazzismo, con le mire di sfruttamento e soggezione mascherate dalla pretesa dell’esportazione della “democrazia” occidentale come modello unico ed universale.
Il Cile in particolare è stato terreno di sperimentazione dei principi neoliberisti già con il colpo di Stato di Pinochet nel 1973 fomentato e foraggiato dagli USA, e stiamo parlando di quasi cinquant’anni fa. Tutte le elaborazioni del neoliberismo che fino a quel momento erano solo teoria sono state applicate in quello sfortunato paese a cominciare dal mondo dell’istruzione, dalla privatizzazione della scuola e dell’università in sintonia con il credo neoliberista per cui “l’istruzione è merce” insieme alle altre merci. Non è un caso che gli studenti siano in prima fila ora nelle mobilitazioni e nella rivolta generalizzata che è dilagata per il paese e che siano stati i primi a innescare la lotta saltando i tornelli della metropolitana.
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Assange in tribunale
di Craig Murray*
Sono rimasto profondamente turbato in qualità di testimone degli eventi che si sono svolti ieri presso la Westminster Magistrates Court. Ogni decisione è stata pilotata attraverso gli argomenti e le obiezioni inascoltate della difesa di Assange da un giudice che non si dava quasi la pena di fingere di prestare attenzione.
Prima che mi dilunghi sull’evidente mancanza di un processo equo, la prima cosa che non posso fare a meno di notare è lo stato di Julian Assange. Sono rimasto profondamente sbigottito da quanto peso il mio amico abbia perso, dalla velocità con cui si è incanutito e dall’evidenza di un prematuro invecchiamento in rapido avanzamento. [Assange] ha una marcata zoppia che non avevo mai notato prima. Da quando è stato arrestato, è dimagrito di 15 chili.
Ma il suo aspetto fisico era ben poca cosa paragonato al declino mentale; quando gli è stato chiesto di dire il suo nome e la sua data di nascita, ha faticato visibilmente per svariati secondi per ricordare entrambi. Parlerò al momento opportuno dell’importante contenuto della sua dichiarazione alla fine dell’udienza, ma la sua difficoltà nel parlare era più che evidente; ha dovuto sforzarsi veramente per articolare le parole e concentrarsi su una linea di pensiero.
Fino a ieri ero sempre stato tacitamente scettico delle voci – anche di quella di Nils Melzer, il Relatore Speciale ONU sulla tortura -, secondo cui il trattamento inflitto a Julian equivaleva ad una tortura, e parimenti scettico anche verso coloro che sostenevano che venisse sottoposto a trattamenti farmacologici debilitanti.
Ma, dopo aver assistito ai processi in Uzbekistan di diverse vittime di forme estreme di tortura e avendo lavorato con dei profughi della Sierra Leone e di altri paesi, posso dire che da ieri mi sono ricreduto completamente e che Julian esibiva esattamente gli stessi sintomi delle vittime di tortura portati semi-accecati alla luce del giorno, in particolare in termini di disorientamento, confusione e di sforzo palpabile nell’affermare la propria libera volontà al di sopra di un acquisito senso di impotenza e disperazione.
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"...Aveva continuato la politica della destra con uomini e frasi di sinistra..."
di Norberto Natali
Questo titolo è tratto dai “Quaderni dal carcere” di Gramsci nella parte in cui egli descrive il tradimento della sinistra storica nel tardo ‘800. Da quando fu fondato lo stato italiano (Regno d’Italia) nel 1861 -scrive Gramsci- il governo fu guidato dalla destra, mentre uomini come Crispi erano all’opposizione: ferventi repubblicani ispirati da Mazzini e Garibaldi, generalmente su posizioni sociali molto moderne e progressiste.
Dopo un quindicennio, la destra storica fu sostituita dalla sinistra nella direzione del paese; essa, appunto, continuò la politica della destra ma ingannando il popolo con frasi di sinistra e facendosi rappresentare da uomini con un passato di sinistra (è il caso del governo Depretis).
Tuttavia si trattò solo di un passaggio intermedio (una decina di anni) perché poi -queste stesse forze- proseguirono più semplicemente come destra, macchiandosi di colpe che la destra storica, in precedenza, aveva forse sognato ma non realizzato. In primo luogo, lo spargimento del sangue del proletariato reprimendo ferocemente le rivendicazione e le istanze degli operai e dei contadini, iniziando dai “Fasci siciliani” movimento di lotta bracciantile.
Ciò prese avvio con il governo Crispi.
Non a caso il termine “trasformismo” cominciò ad essere usato proprio in quegli anni, con riferimento a quei governi e alla metamorfosi di quelle forze politiche. Tuttavia quel termine non esprimeva un mero giudizio morale su alcuni individui: era piuttosto un’analisi politica. Il De Sanctis, infatti, denunciò che quei sinistri tentavano di disarticolare i partiti e cancellarne la funzione “strappando” dai loro gruppi alcuni parlamentari e “trasformandoli” in gestori di un disegno di governo e di un assetto di potere determinato.
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