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Enrique Dussel, Metafore teologiche di Marx
di Orlando Franceschelli
Enrique Dussel: Metafore teologiche di Marx, traduzione dallo spagnolo e cura di Antonino Infranca, Inschibboleth Edizioni, Roma 2018
1. Metafore che “hanno una logica”.
Arricchito da una puntuale Introduzione di Antonino Infranca, curatore di questa edizione italiana e tra i maggiori esperti del pensiero di Dussel, Metafore teologiche di Marx offre al lettore le acquisizioni più interessanti a cui l’Autore è pervenuto grazie al suo pluriennale confronto con Marx. Al pari di tutta la produzione di Dussel, anche queste acquisizioni hanno avuto ampia risonanza. E di esse questo libro rivendica non a torto l’attualità (pp. 53-4, 96), offrendo così anche una significativa conferma di quanto Infranca precisa nell’Introduzione: veramente non è un caso se Dussel “mentre scriveva i suoi quattro libri su Marx, lentamente abbandonava le sue posizioni vicine a quelle della Chiesa latinoamericana, passava vicino alla Teologia della Liberazione, per arrivare oggi su posizioni decisamente marxiste” (p. 31).
Per risparmiare al lettore l’equivoco forse più insidioso, giova richiamare subito un punto che lo stesso Autore tiene a precisare fin dalle Parole preliminari (pp. 33-50) e dal Prologo all’edizione italiana (pp. 51-63), che illustrano egregiamente la genesi, gli scopi e il “senso” di questo libro: il suo intento non è dimostrare “che Marx ed Engels fossero credenti” (p. 59). E neppure che Marx abbia avuto una qualche “intenzione di produrre una teologia formalmente esplicita” (p. 46). Al contrario: Dussel si propone di affrontare il problema che sorge proprio dopo aver riconosciuto, da un lato, che Marx “non fu nel senso stretto del termine un teologo” e, dall’altro, che proprio per questa ragione egli “aprì l’orizzonte per una nuova teologia” (ibidem).
Com’è noto, nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico Marx ha scritto che la “critica della teologia [si trasforma] nella critica della politica”.
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Seduzioni e delusioni del neoliberismo
di Carlo Galli
Sotto l’apparenza di essere uno sviluppo del razionalismo moderno – dell’utilitarismo, dello strumentalismo, dell’individualismo –, il neoliberismo attinge la propria energia e la propria legittimità da fonti irrazionali, dalla mobilitazione del sentimento e del desiderio, da una volontà di potenza latente nelle soggettività moderne, emotivamente eccitata e governata dalle agenzie di senso (alte e basse, mediatiche e teoretiche) che nel radicarsi del neoliberismo hanno avuto un’importanza decisiva.
Il neoliberismo è la dottrina, di derivazione marginalistica (Mises e Hayek), che si pone l’obiettivo di distruggere la teoria classico-marxiana del valore-lavoro, e di spostare il baricentro del pensiero economico dalla produzione, e dalle sue contraddizioni, al rapporto domanda-offerta, e ai suoi equilibri (il kosmos, l’ordine spontaneo). Svincolata da ogni patetico umanesimo, da ogni fondazionismo personalistico, l’economia è un insieme di diagrammi che descrivono e misurano le scelte compiute dal consumatore individuale razionale perfettamente informato, all’interno di un mercato perfettamente concorrenziale. La libertà dei moderni è libertà individuale di scelta e libertà di intrapresa, del consumatore e dell’offerente. I problemi che possono insorgere e che discostano la pratica dalla teoria non sono contraddizioni strutturali ma solo ostacoli che devono essere rimossi, con la politica: le “riforme”, che fluidificano il mercato eliminando rigidità e rendite di posizione. Solo a realizzare riforme serve la politica: la dimensione pubblica è legittimata dal fatto che serve a rendere possibile lo sviluppo della dimensione privata: nessuna taxis artificiale deve frapporsi alla formazione automatica del kosmos. E la società, peraltro, non esiste (secondo la geniale signora Thatcher), sostituita – con le sue masse, i suoi ceti, le sue classi, i suoi gruppi di interesse, le sue dinamiche collettive – dalla pulviscolare moltitudine degli individui utilitaristici.
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Sul programma di governo del Conte bis
di Leonardo Mazzei
Il governo più a sinistra della storia?
Dovessimo prenderli sul serio, i 29 punti condivisi da Pd, M5s e Leu sembrerebbero dar ragione all'ex cavaliere d'Arcore, che ha parlato senza remore del "governo più a sinistra della storia d'Italia". Ma possiamo prenderli sul serio? Ovviamente no, tant'è vero che saranno proprio i berluscones (specie al Senato) a dar manforte al Conte-bis ogni volta che ve ne sarà bisogno. Che Berlusconi sia passato all'estrema sinistra?
Una montagna di promesse
La prima cosa da capire è che i 29 punti non sono un programma, bensì una lista sterminata di promesse. Limitandoci alla parte economico-sociale, troviamo alla rinfusa (ma il testo è scritto proprio così) la cancellazione dell'aumento dell'IVA, il sostegno alle famiglie ed ai disabili, misure per l'emergenza abitativa, incentivi agli investimenti, più risorse per la scuola, l'università, la ricerca, il welfare. E questo è solo il punto 1...
Ma si prosegue con il potenziamento degli incentivi alle piccole e medie imprese, la riduzione delle tasse sul lavoro (cuneo fiscale), il salario minimo, misure a favore dei giovani appartenenti a famiglie a basso reddito. Si annuncia un piano straordinario di assunzioni di medici ed infermieri, aumenti salariali ad insegnanti, poliziotti, militari e vigili del fuoco.
Non poteva poi mancare la promessa di un Green New Deal, quella di maggiori interventi per la difesa del territorio e per la velocizzazione della ricostruzione nelle zone terremotate. Ma non ci si è dimenticati neppure del lancio di un piano straordinario per il Sud, né della necessità di nuovi investimenti infrastrutturali. E questa è solo una sintesi di quanto il nuovo tripartito ha pensato bene di promettere agli italiani...
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Le cronache del nostro scontento
2015: “SuperMario” e Renzinomics
di Giorgio Gattei
Riassunto delle puntate precedenti: Non mi sono fermato. Ho soltanto rallentato la serie di queste Cronache del nostro scontento che dovevano portare, nel 2018, alla sorpresa straordinaria di un governo “giallo-verde” in Italia. E avevo fatto cominciare quelle Cronache dal 2011: il complotto di “re Giorgio” (maggiofilosofico.it 27.3.2017), quando il governo Berlusconi era stato “defenestrato” da una manovra combinata, a mezzo del nazionale e dell’europeo, per preparare il terreno all’introduzione in Italia delle politiche della “austerità espansionistica”, che però espansionistica non è stata mai. Così nel 2012: arriva Monti e il Fiscal Compact (maggiofilosofico.it 6.6.2017) ed il piano veniva portato in esecuzione col doppio obiettivo di ridurre il rapporto Debito pubblico/PIL ad una misura compatibile con la crescita economica (il che si riteneva allora possibile), ma anche e soprattutto con l’azzeramento (proprio lo 0,0%) del rapporto Deficit/PIL, il che voleva dire l’obiettivo di un bilancio statale “in pareggio” (non a caso anche inserito in Costituzione con modifica dell’art. 91) che avrebbe dovuto essere conseguito, secondo quanto previsto dal Fiscal compact, nel 2014. Naturalmente nel 2013: il bis di “re Giorgio” e quella austerità “che fa male” (maggiofilosofico.it 14.9.2017) ci si muove proprio in quella direzione, ma non ci si riesce e ad andare a zero non sarà il disavanzo, bensì la crescita del PIL! Con il conseguente calo dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della spesa dello Stato, la domanda aggregata finirà al di sotto dell’offerta ed i prezzi prenderanno a calare. Nel 2014: il fenomeno Renzi mentre arriva la deflazione (ma tra i due fatti non c’è relazione) (maggiofilosofico.it 19.10.2017) si riconoscerà che non può esserci alle viste alcun pareggio di bilancio, un obiettivo che Bruxelles rinvierà al 2017 accordandoci al momento un disavanzo pubblico del 2,9%, appena un pelino al di sotto di quel 3% fissato dal Trattato di Maastricht.
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Ecologia e vita. Critica del valore e critica della natura
di Alice Dal Gobbo
[Anche in Italia, come nel resto d’Europa e del mondo, gli ultimi mesi hanno visto centinaia di migliaia di persone scendere in piazza contro il cambiamento climatico. Importanti sono state le piazze oceaniche di Fridays For Future il 15 marzo e quella dei comitati a Roma, il 23 dello stesso mese. In attesa del terzo Climate Strike del 27 settembre, i movimenti europei si incontrano al Venice Climate Camp dal 4 all’8 settembre (https://www.veniceclimatecamp.com/it/). Sarà l’occasione per condividere percorsi di riflessione e pratiche. Il testo di Alice Dal Gobbo che segue parte da una riflessione presentata al convegno Ambientalismo Operaio e Giustizia Climatica tenutosi presso il Centro Studi Movimenti di Parma il 14 giugno 2019. (el)]
Valore, Natura
Le categorie di Valore e Natura stanno emergendo prepotentemente nel dibattito dell’ecologia politica, nel dialogo che cerca di politicizzare il discorso e le pratiche legate alla crisi ecologica. Le due categorie sono caratterizzate da un certo grado di ambiguità, sono sdrucciolevoli e quasi paradossali. Da un lato, esse – ma soprattutto il loro nesso – sono un nodo centrale di una riflessione che, partendo dall’eredità del dibattito marxista sull’ecologia e dell’operaismo italiano, vuole prefigurare delle società future. Dall’altro, tuttavia, il rinnovamento delle nostre relazioni socio-ecologiche[1] richiede di ripensare profondamente, forse superare, il valore e la Natura.
Interrogare il nesso valore-natura all’interno della crisi ecologica (che però è anche economica, sociale, psico-sociale) ci porta a scavare fino al cuore della costituzione materiale delle società contemporanee. È infatti ragionevole sostenere che il valore sia uno degli elementi chiave nella configurazione ecologica globale del capitalismo, poiché l’accumulazione e la ricerca del profitto che caratterizzano il sistema necessitano processi di valorizzazione, di trasformazione del mondo in valore. Questi processi sono, per altro, sempre più pervasivi dato che il capitale cerca di abbracciare più e più ambiti di vita sia in senso “estensivo” (il capitale globale che non lascia scoperto più un angolo di terra), sia in senso “intensivo” (il suo infiltrarsi sempre più a fondo nelle radici della vita e del vivente, come per esempio nel caso della mappatura del genoma umano).
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Sulle condizioni per una “rivoluzione” della teoria e della politica economica
di Emiliano Brancaccio*
In linea con la tradizione del Massachusetts Institute of Technology di cui fanno parte, i modelli macroeconomici mainstream di Olivier Blanchard possono essere sottoposti a un “ribaltamento” logico in grado di renderli compatibili con schemi alternativi che rifiutano la teoria neoclassica dei prezzi come indici di scarsità e il nesso tra produzione e distribuzione che da essa scaturisce. Tale ribaltamento logico sembra in grado di offrire una più solida base teorica alla “rivoluzione” della politica macroeconomica recentemente invocata da Blanchard e Summers, che viene qui sottoposta a un esame critico
A proposito di libri “Anti”, permettetemi qualche citazione preliminare. L’Anti-Catone di Giulio Cesare fu la raffigurazione letteraria di un passaggio epocale, quello che in poco più di un decennio avrebbe sancito la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero romano. A quanto pare, proprio all’Anti-Catone si ispirò Friedrich Engels, autore dell’Anti-Duhring, un libro che a sua volta segnò una fase cruciale dello scontro tra due opposte filosofie della scienza: l’idealismo e il materialismo. Ebbene, nel nostro piccolo, nel nostro infinitesimo, con l’Anti-Blanchard in un certo senso noi abbiamo tratto ispirazione da questi grandi esempi (Brancaccio e Califano, 2018).
Beninteso, l’Anti-Blanchard è un piccolo esperimento, peraltro confinato nell’ambito ristretto della critica della macroeconomia. Tuttavia, anch’esso è un libro che sebbene nel suo titolo si confronti con una sola persona, di fatto tenta di richiamare alla luce una disputa di carattere molto più generale, oserei dire collettiva: vale a dire la disputa, oggi sommersa e un po’ dimenticata, tra la concezione attualmente prevalente della teoria e della politica economica e un paradigma economico alternativo che prende le mosse dalle cosiddette scuole di pensiero economico critico. Quel piccolo libro è dunque in fin dei conti la ragione per cui abbiamo proposto questa inconsueta occasione di dibattito alla Fondazione Feltrinelli, che ringraziamo per averla messa in opera. E ovviamente ringraziamo Olivier Blanchard per avere accettato questo nostro invito.
Ora, perché proprio l’Anti-Blanchard? Perché non un “Anti-Lucas”, o un “Anti-Prescott”, o un “Anti-Sargent”? Il primo motivo è che l’esperienza di Olivier Blanchard è di tale importanza che trascende la sua stessa persona, a mio avviso più di quanto sia accaduto a qualsiasi altro economista vivente.
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Giorni che rischiarano decenni III
L'anomalia italiana
di Norberto Natali
Riceviamo e volentieri pubblichiamo [Qui la parte I, qui la parte II]
Dalla capitana coraggiosa alle "richieste" di Trump. I giorni che il PD ha iniziato con l’esaltazione della “capitana Carola” e la pretesa di essere il più affidabile garante della NATO nel nostro paese, non potevano che proseguire con la comunicazione di Trump di quale governo (addirittura con quale presidente del Consiglio) egli desideri per l’Italia: manco a farlo apposta quello con il PD!
Questo comunicato è un’umiliazione della nostra repubblica e del popolo italiano, con ben pochi precedenti nella storia recente. Viene per forza alla mente la lettera che il presidente della Commissione Europea e il capo della BCE, giusto otto anni fa, inviarono alle istituzioni italiane per ordinare un programma di governo nel quale si dettagliavano perfino le procedure: per esempio, si indicava il decreto legge (anziché la discussione in commissione) per certe misure antipopolari.
Anche allora, dopo pochi mesi, cambiò il governo in carica con l’ingresso del PD (proprio come oggi). Iniziò così il periodo delle “larghe intese” -con tutto il seguito di Fornero, jobs act, calpestamento delle masse popolari e smantellamento della Costituzione- durato fino all’anno scorso. Poco tempo fa, si è finalmente saputo che si trattò di ordini impartiti dai capi di governo francese e tedesco con l’avallo del presidente USA.
Come se tutti si fossero messi d’accordo per darmi ragione, il 29 agosto scorso il commissario (cioè ministro) tedesco della UE Oettinger, alludendo al nuovo governo che si dovrebbe formare in Italia, ha detto letteralmente che esso merita una “ricompensa”!
Ecco perché, sia pure con un certo margine di “azzardo”, proprio alla fine della seconda parte (la precedente) di questo testo, scrivevo che “l’Italia è diventata una specie di colonia di tipo nuovo, di potenze di natura diversa da quelle coloniali tradizionali: per esempio, per l’appunto, la UE e la NATO (o gli USA…”.
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Farc, la rosa e il fucile
di Geraldina Colotti
Con un lungo documento di analisi, le Farc – Ep tornano a essere Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia – Ejercito del Pueblo, e lasciano ai compagni e alle compagne che non condividono la loro scelta l’acronimo Farc (Fuerza Alternativa Revolucionaria del Comun) con il quale si erano trasformate in partito politico scegliendo il simbolo della rosa con la stella al centro, nell’agosto del 2017. Si consuma così una lunga e travagliata scissione che, a partire dal gruppo dirigente, ha progressivamente reso esplicite differenze di merito e di metodo che non hanno trovato composizione.
Da una parte, l’ex vicesegretario delle Farc, Ivan Marquez, che ha ripreso le armi insieme a due altri dirigenti storici, Jesus Santrich – recentemente uscito dal carcere – e Hernan Dario Velasquez, nome di battaglia el Paisa. Dall’altro, Rodrigo Londoño, presidente del partito politico Fuerza Alternativa Revolucionaria del Común, che ha respinto il ritorno alle armi per ribadire che la maggioranza degli ex guerriglieri intende mantenere gli impegni presi con gli accordi di pace del 2016.
Entrambi i gruppi si richiamano allo spirito delle origini, rappresentato dalla figura del fondatore, Manuel Marulanda (Tirofijo), morto del 2008. Le Farc di Marquez parlano di una seconda “Marquetalia”, una rifondazione della guerriglia nella continuità dei principi che ne hanno ispirato la formazione, oltre cinquant’anni fa. Quelle di Londoño ribattono che Marulanda ha “insegnato a mantenere la parola”, e che la loro parola, oggi, “è pace e riconciliazione”. La pace del sepolcro, purtroppo, che si è imposta dopo la firma degli accordi del 2016, secondo un copione già visto in Colombia, e che da allora ha già portato alla morte di 500 dirigenti contadini e indigeni e di 150 ex guerriglieri.
Questo è il primo punto di riflessione, che attiene all’analisi delle forze in campo e al bilancio della praticabilità del passaggio politico a tre anni dagli accordi dell’Avana.
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Se questa è “discontinuità”...
di Alessandro Bartoloni
Analisi del programma del governo giallo-rosè punto per punto, ovvero tutta la continuità che ci aspetta
La crisi di governo iniziata ufficialmente quasi un mese fa ha infine prodotto un nuovo esecutivo retto da una nuova maggioranza formata da M5Ss-Pd-Leu. Matteo Salvini esce momentaneamente di scena, e per di più malamente, stando ai sondaggi, avendo scommesso tutto su nuove elezioni anticipate già in autunno. Una sconfitta, quella del segretario della Lega, che inizia all’indomani delle europee del 26 maggio quando, forte del suo 34%, ha chiesto la testa dei ministri Tria, Trenta e Toninelli per tener conto dei nuovi rapporti di forza tra i partiti dell’alleanza gialloverde, coi grillini franati al 17%. Fallito il tentativo di rimpasto, al capitano è sembrato inevitabile il ricorso alle urne che già molti gli consigliavano: il 25 luglio Conte dichiarava di non essere disponibile ad “andare in parlamento a cercare maggioranze alternative” [1] e poi Tria che la manovra economica avrebbe avuto deficit molto contenuti, sconfessando la linea leghista; il giorno seguente la direzione nazionale del PD votava all’unanimità la relazione del segretario che indicava nelle elezioni l’unico percorso da seguire in caso di caduta dell’esecutivo escludendo un’alleanza coi 5s [2].
Salvini, tuttavia, non ha tenuto conto che solo i parlamentari di Fratelli d’Italia erano disposti ad affrontare nuovamente il giudizio degli elettori. Alla naturale riluttanza di tutti quelli confluiti nel gruppo misto si è sommata la contrarietà degli eletti grillini che non si sarebbero più potuti ricandidare per il vincolo dei due mandati e che comunque sarebbero usciti decimati, visti i risultati delle europee ed i sondaggi. Ma non erano d’accordo con le elezioni anticipate neppure i parlamentari del PD, quasi tutti scelti quando il segretario era Matteo Renzi, che difficilmente sarebbero stati ricandidati dall’attuale segretario, Nicola Zingaretti. Al senatore Renzi, inoltre, serve tempo per costruire il proprio partito ed una legge elettorale proporzionale per poter continuare a contare.
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Giovanni Arrighi prima di Il lungo XX secolo
di Giordano Sivini
Per Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo [1] l’evoluzione storica del capitalismo è caratterizzata dal progressivo ampliamento dell’area di accumulazione del capitale, dalle città-stato dell’Europa continentale al mondo quale è oggi, attraverso cicli sistemici, governati ciascuno da Stati che hanno avuto funzioni egemoniche, in fasi successive di espansione materiale e di espansione finanziaria. L’espansione materiale è il risultato di attività che mettono in movimento una crescente massa di merci, forza lavoro inclusa, producendo profitti. Quando i profitti calano a causa della crescente competizione tra i capitali, invece di essere reinvestiti fluiscono in forma liquida da tutto il sistema verso gli istituti finanziari alimentando l’espansione finanziaria. La capacità egemonica si indebolisce e gli altri Stati del sistema cercano di appropriarsene per orientarla verso nuovi orizzonti produttivi, finché emerge uno che, concentrando potenza economica e militare, diventa il perno di una nuova configurazione egemonica.
Arrighi definisce i cicli in termini di D-M-D’, entro il quale D-M è la fase di espansione economica e M-D’ quella di espansione finanziaria, così che il capitalismo può essere configurato come dominio del valore su aree di accumulazione di crescente ampiezza. L’obiettivo è di capire come si concluda al momento della sua massima espansione. Su questo terreno l’attività scientifica di Arrighi si sviluppa dopo l’abbandono di una diversa prospettiva epistemologica, basata sul rapporto antagonistico tra capitale e lavoro.
Nei primi anni ’70, direttamente coinvolto nelle lotte operaie, aveva prodotto il concetto di forza strutturale della classe, che è rimasto centrale nei suoi lavori fino alla fine degli anni ’80, quando, constatando l’incapacità del marxismo del movimento operaio di leggere le trasformazioni strutturali del capitalismo e percependo che l’omogeneità di classe si sta disgregando, viene a trovarsi in un cul de sac.
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Dodici domande ad Alberto Bagnai
di Leonardo Mazzei
Ancora a proposito della narrazione leghista sulla crisi
Al di là delle divergenze politiche chi scrive ha sempre avuto grande stima di Alberto Bagnai, ma la sua ricostruzione delle vicende che hanno portato alla fine del governo giallo-verde non fa certo onore alla sua intelligenza.
Capisco la scelta salviniana di intorbidire le acque — la propaganda ha le sue esigenze —, tuttavia da uno come Bagnai ci si aspetterebbe qualcosa di meglio del semplice accodamento ad una narrazione che fa acqua da tutte le parti. Una narrazione che include ovviamente alcune verità, occultandone però altre non meno importanti. Il tutto al solo patetico scopo di salvare la faccia a colui che l'ha persa.
Su tutto ciò ho già avuto modo di scrivere nei giorni scorsi, ma tornarci sopra non è inutile. Ed il testo di Bagnai ci dà l'occasione di andare al succo di diverse questioni, ponendo al senatore della Lega dodici precise domande.
Prima domanda
Già il titolo del suo articolo, "Cronaca di una crisi annunciata", vorrebbe dar l'idea che in fondo tutto era già scritto, che dunque — mossa di Salvini o meno — si sarebbe comunque arrivati in breve ad un governo M5s-Pd. Ecco allora la prima banalissima domanda: se così stavano le cose, perché agevolare quell'operazione aprendo la crisi con motivazioni ridicole (tipo, il "partito del sì" contro quello "del no") che non spiegavano nulla agli italiani?
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Immigrati, mercato del lavoro e ricomposizione di classe
di Domenico Moro
Negli ultimi anni l’immigrazione è stata utilizzata dai partiti di destra che hanno fatto della xenofobia il cavallo di battaglia della loro propaganda elettorale. Ciò non è avvenuto solo in Italia, sebbene Salvini e la Lega abbiano conquistato una notevole visibilità a livello nazionale ed europeo. I risultati elettorali dell’uso della xenofobia da parte della destra sono sotto i nostri occhi in tutta Europa, dalla Francia alla Germania, Paese dove si sono recentemente verificati anche fatti di violenza contro politici favorevoli all’immigrazione, come nel caso dell’assassinio di Walter Lübcke.
Quello dell’immigrazione, essendo un tema “caldo” dal punto di vista politico, è stato spesso approcciato in termini poco oggettivi. Si è fatto poco ricorso ai numeri e all’analisi economica per analizzare il fenomeno o lo si è fatto in modo strumentale per sostenere questa o quell’altra posizione. La sinistra liberale ha affrontato l’immigrazione in modo contraddittorio e alterno. Il Pd, ad esempio, si è mosso o in contrapposizione alla destra in termini “umanitari”, limitando, però, tale umanitarismo alla garanzia dell’ingresso in Italia senza estenderlo coerentemente alle dure condizioni di accoglienza e di impiego della forza lavoro straniera, oppure si è di fatto impegnato su di un programma di respingimenti, come ha fatto con Minniti.
Quanto si muove a sinistra del Pd sembra in alcuni casi limitarsi a un approccio no borders, senza curarsi di come affrontare le ricadute dei flussi migratori a livello popolare. L’arrivo di flussi di decine di migliaia di persone dall’estero bisognose di alloggio, di assistenza sanitaria e soprattutto di lavoro pone dei problemi importanti, specie in un periodo di crisi, di calo del tasso di occupazione e di contrazione degli investimenti pubblici e del welfare imposta dalla Ue. In un quadro del genere, non c’è da meravigliarsi della facilità con cui è stata alimentata, in modo certamente interessato, la guerra fra poveri.
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Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalistico”
di Alessandro Visalli
Il libro di Paul Sweezy è una esposizione elementare della teoria marxiana edita per la prima volta nel 1942 e che qui si legge nella edizione introdotta da Claudio Napoleoni per la Boringheri (la prima edizione era di Einaudi) che omette solo la parte sull’imperialismo. Del resto, come bene dice Napoleoni, sul tema del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo l’autore, con Paul Baran, tornerà durante tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Il testo curato da Napoleoni include anche numerosi contributi successivi alla “teoria del valore” ed in particolare ad uno dei punti sui quali Sweezy si sofferma di più: il problema della trasformazione in prezzi del valore-lavoro incorporato nelle merci (ma da “realizzare” nella circolazione). In merito sono presenti i contributi di Dobb, Winterniz, Seton e Meek. L’economista italiano nel suo commento valorizza lo schema proposto da Sraffa, per il quale è necessario, al fine di impostare la trasformazione, conoscere anche il modo in cui ogni merce include i diversi input di lavoro (esempio per l’intervento delle macchine, o dell’istruzione dei lavoratori) e la loro relativa distribuzione nel tempo al quale sono stati rilasciati, uno per uno. Resta il fatto che mentre all’origine di ogni produzione c’è sempre il lavoro (tutto dipende dal lavoro dell’uomo sulla natura), per il marxismo questo si annulla, viene sussunto, in un altro da sé, costituendo il ‘capitale’ che è ciò in cui si trasferisce la forza produttiva. Ne deriva che ciò che è in realtà produttivo non è il lavoro, ma il capitale.
Il secondo tema messo in evidenza da Napoleoni nel testo è il trattamento delle crisi produttive, sul quale sono descritte (e rigettate) le critiche di Bohm-Bowerk e Pareto, ma anche di Lange e Samuelson. Sweezy farebbe, in tal caso, una distinzione troppo netta tra tre generi di crisi presenti nel testo marxiano: “crisi da caduta del saggio di profitto”, crisi da “sproporzioni” e crisi da “sottoconsumo”.
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Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica
Introduzione*
di Mauro Gallegati
Questo numero speciale di Moneta e Credito ( N. 287 Settembre 2019, Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio, a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro) raccoglie gli atti di un simposio ispirato da un dialogo tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio sulle crisi e le possibili future “rivoluzioni” della teoria e della politica economica. Il simposio evidenzia le potenzialità di una rinnovata comunicazione tra paradigmi concorrenti e di una critica costruttiva all’approccio oggi dominante ai fini di un rinnovato progresso della conoscenza in campo economico.
Questo numero di Moneta e Credito pubblica gli atti inerenti al dibattito “There is (no) alternative: pensare un’alternativa”, con Olivier Blanchard ed Emiliano Brancaccio, tenutosi a Milano il 19 dicembre 2018 e organizzato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli (Blanchard e Brancaccio, 2019). Già capo economista del Fondo Monetario Internazionale negli anni della crisi e tra i massimi esponenti dell’approccio prevalente di teoria e politica economica, Blanchard ha mostrato una crescente disponibilità a rivedere alcuni capisaldi dell’impostazione mainstream. Negli ultimi anni egli ha pure riconosciuto la possibilità di trarre ispirazione da linee di ricerca eretiche, come quelle di Minsky, Kaldor e altri. La sua partecipazione all’iniziativa di Milano si inscrive in questo percorso. Nell’occasione Blanchard si è confrontato con Emiliano Brancaccio, esponente delle scuole di pensiero economico critico nonché autore dell’Anti-Blanchard, un testo di macroeconomia comparata che in questi anni ha suscitato un interesse diffuso non solo tra gli studiosi eterodossi ma anche nelle file del mainstream accademico (Brancaccio, 2017; Brancaccio e Califano, 2018).
Nel 1997 Blanchard pubblicava Macroeconomics, un manuale destinato a diventare di straordinario successo, che egli presentava così: “My hope is that, as a result, readers of this book will see macroeconomics as a coherent whole, not as a collection of models drawn from a hat” (Blanchard, 1997). Da allora il suo manuale rappresenta la versione più avanzata della nuova sintesi neoclassica (Blanchard, 2016). Come nella migliore tradizione didattica statunitense, si concentra sul “nucleo” della macroeconomia contemporanea e dà allo studente l’impressione che la teoria economica segua un sentiero unico e progressivo. Dei dibattiti e dei differenti approcci non c’è traccia. Sembra la conferma del detto di Maffeo Pantaleoni secondo cui in economia esistono solo due scuole: chi la conosce e gli altri.
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Ordo-liberalismo e ordo-macchinismo
L’eclissi della democrazia e della giustizia sociale
di Lelio Demichelis
La democrazia è in crisi. Nuovamente e pesantemente.
Se per Gramsci le forze che avevano sconfitto la classe operaia erano state il fascismo e l’americanismo – «due volti, in sostanza, del capitalismo»[i] – oggi la sconfitta (di nuovo) della classe operaia, del concetto di giustizia sociale e della democrazia politica e sociale/economica è effetto diretto – questa la tesi che qui riprendiamo e approfondiamo – della filosofia neoliberale e delle tecnologie di rete[ii] (a loro volta ultima forma della tecnica come sistema), ma ambedue (tecnica e neoliberalismo) sempre le due facce, ma non del solo capitalismo bensì del tecno-capitalismo. La seconda metà del ‘900 è stato il tempo, da una parte di una crescente anche se timida e faticosa ricerca di una democrazia economica e sociale che integrasse e rendesse effettiva (essendo i diritti sociali la premessa per i diritti politici e civili) quella politica; e, dall’altro di una democratizzazione dell’impresa capitalistica (e quest’anno celebriamo i 50 anni dell’Autunno caldo, il prossimo sarà mezzo secolo dallo Statuto dei lavoratori, massima realizzazione e formalizzazione giuridica in Italia della democrazia oltre i cancelli delle fabbriche). Ma il neoliberalismo e le tecnologie di rete degli ultimi trent’anni hanno smantellato progressivamente quei concetti e quelle buone pratiche.
Il neoliberalismo (inteso qui come sommatoria di neoliberismo austro-statunitense e ordoliberalismo tedesco) si proponeva infatti di liberare l’impresa dai lacci e lacciuoli (diceva Guido Carli) della democrazia, del politico e del sociale; di potenziare l’individuo alla sua massima prestazione/produttività/egoismo-egotismo-narcisismo isolandolo dagli altri; e di annullare il vecchio contratto sociale moderno de-strutturando/suddividendo la società (soprattutto la società civile, i corpi intermedi, i sindacati) per sostituirla con mercato e competizione tra uomini.
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Cronaca di una crisi annunciata
di Alberto Bagnai
Pur essendo il primo partito della coalizione uscita vincente dalle elezioni politiche del 4 marzo 2018, la Lega non ha ricevuto l'incarico di tentare di formare un Governo. Questo diniego, indipendentemente dalle sue motivazioni e dal loro fondamento, ha dato luogo alla crisi più lunga nella storia della Repubblica: 88 giorni. Durante tutta questa crisi la Lega ha mantenuto un profilo costruttivo e leale, rinunciando a propri candidati alla presidenza delle Camere e attendendo un via libera dagli alleati di coalizione prima di intavolare discussioni con il M5S, uscito come maggiore singolo partito dalle elezioni. Queste discussioni hanno riguardato contenuti programmatici, non nomi, e sono durate quasi un mese, approdando a un documento formale, il Contratto per il Governo del cambiamento, sottoposto all'approvazione delle rispettive basi elettorali.
È stato accettato un Presidente del Consiglio, presentatosi come "avvocato difensore del popolo italiano", che avrebbe dovuto essere di garanzia e mediazione fra i due partiti della maggioranza (e che certamente offriva sufficienti garanzie all'establishment), ed è stata inoltre recepita la raccomandazione del Presidente della Repubblica di avere un Ministro dell'economia che non desse "un messaggio immediato di allarme per gli operatori economici e finanziari". Pertanto il Ministro dell'Economia e delle Finanze che, stando agli accordi avrebbe dovuto essere proposto dalla Lega, è finito per essere un "tecnico" senza mandato elettorale. Credo di essere l'unico parlamentare che lo conoscesse.
Va osservato che nel suo intervento del 27 maggio il Presidente della Repubblica dichiarava di aver nutrito "perplessità sulla circostanza che un governo politico fosse guidato da un presidente non eletto in Parlamento" e di averle poi superate. Si parva licet, perplessità simili potevano essere nutrite anche per un ministro di peso come quello dell'Economia e delle Finanze.
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Una difesa degli studi classici
di Paolo Di Remigio
Che agli alunni sfugga la natura della difficoltà della versione mi appare evidente: appena consegnato il testo da tradurre, i candidati si precipitano a cercare i significati delle parole sul vocabolario. I risultati sono univoci: per la maggior parte le versioni consistono in una assurda sequenza di frasi quasi tutte senza senso. Lo studio delle lingue classiche finisce per suggerire agli studenti che la frase sgrammaticata e informe, il discorso insensato e privo di contenuto siano espressioni linguistiche accettabili. Per noi il periodo complesso, la ricchezza lessicale, l’etimologia e il senso storico sono i vantaggi più evidenti dello studio delle lingue classiche. Anche nel mondo tedesco a cavallo tra Settecento e Ottocento sembrava che la cultura moderna dovesse rendersi autonoma e che lo studio delle opere antiche si perdesse in un’erudizione oziosa. A questa contestazione Hegel replicava innanzitutto dal lato del contenuto. A chi sosteneva che l’attività didattica si può esercitare su qualunque materia, Hegel rispondeva che l’esercizio non è indifferente alla materia: solo un contenuto valido e significativo corrobora la mente, le procura contegno, saggezza, presenza di spirito, senza le quali essa non acquisisce la versatilità. “Chi non ha conosciuto le opere degli antichi ha vissuto senza conoscere la bellezza”. Il nutrimento offerto dalle opere antiche non è però soltanto nel loro contenuto; non meno importante è la forma in cui è realizzato. Il rigoroso studio grammaticale delle lingue classiche si raccomanda così – questa la conclusione di Hegel – come uno dei mezzi didattici più nobili e universali. Se la didattica gentiliana era guastata da intenzioni classiste; l’attuale scuola pubblica non fa meglio sotto il profilo sociale: disprezzando gli obiettivi didattici, essa mantiene ignorante chi la frequenta.
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L’involuzione della Sinistra dalla scienza al mito
di Norberto Fragiacomo
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Esaurita in apparenza[1] la sua spinta propulsiva, la sinistra sedicente marxista si crogiola oggigiorno alla luce di una costellazione di miti/feticci che, interpretabili come coperte di Linus, segnalano anzitutto l’inaridirsi del metodo dialettico che Marx trasmise in eredità ai suoi successori.
Scrivendo, in una celebre lettera a Lafargue, “Quel che so per certo è che io non sono marxista” Carlo Marx intendeva sottolineare – assieme al suo ripudio del dogmatismo – l’esigenza che la ricerca andasse avanti in ogni direzione e che lo strumento dialettico da lui forgiato venisse rettamente adoperato nella prassi, senza caricarsi di indebiti contenuti religiosi e/o metafisici. Colpisce che l’ammonimento sia stato lanciato in un’epoca di dinamica diffusione del verbo socialista, non sorprende invece che in un periodo di ripiegamento qual è l’attuale la tentazione di rifugiarsi in un rasserenante marxismo da beghine sia presente, prima ancora che in singoli compagni spaesati, in intere formazioni politiche – e ne detti la linea.
Sebbene la pretesa marxiana di creare una società giusta ed egualitaria “definitiva” sia figlia di un’educazione giudaico-cristiana (d’altra parte la formula “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” valeva anche per chi l’ha enunciata…), egli si sarebbe opposto con vigore all’emergere di un perbenismo di sinistra che, osservato da vicino, assomiglia fin troppo a un catechismo dei buoni sentimenti. Polemico e all’occorrenza “spietato”, ma sempre problematico, il filosofo di Treviri ci ha offerto un’infinità di spunti e generalizzazioni che vanno prese per quello che sono, non elevate a regole che non ammettono eccezioni (pena immediate scomuniche, da parte loro tutt’altro che “buoniste”).
E’ da un pezzo però che, smarrita la rotta, la sinistra va alla deriva, e non sapendo più che farsene delle mappe se le incornicia e le trasforma nell’identità fittizia di cui abbisogna per occupare il tempo che la separa dall’ormai prossimo naufragio sulle scogliere del reale.
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L’economia italiana ai tempi del sovranismo: una nota
di Guglielmo Forges Davanzati[1]
Questa nota si propone di (i) dar conto di alcune fallacie delle teorie sovraniste (ovvero del complesso di elaborazioni teoriche che imputano la crisi economica italiana all’adozione dell’euro e che invocano il ritorno alla valuta nazionale); (ii) evidenziare come, sebbene spesso implicitamente e forse inconsapevolmente, queste teorie siano funzionali a un progetto di secessione del Paese, da attuare mediante il trasferimento di risorse e di competenze legislative ad alcune Regioni del Nord. In quanto segue, per ragioni di spazio, non si farà distinzione fra le versioni ‘di sinistra’ e di ‘destra’ del sovranismo: data la prevalenza, in questa fase storica, della seconda versione, l’argomentazione che segue è sostanzialmente riferita a questa.
- Alcuni argomenti contro il sovranismo economico
Un argomento caro ai sovranisti italiani – ovvero a coloro che propongono il recupero della sovranità nazionale anche mediante l’abbandono unilaterale da parte dell’Italia dell’euro – riguarda il fatto che l’unificazione monetaria europea avrebbe determinato un’ondata di acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese di altri Paesi europei.
Non vi è dubbio che questo si è verificato, ma non vi è dubbio che ciò si è verificato non per l’adesione dell’Italia al progetto di unificazione europeo, ma per effetto della lunga recessione della nostra economia (a iniziare dai primi anni novanta) e della conseguente perdita di potere politico del nostro Paese. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – essendo l’Unione monetaria europea un’unione formale di Paesi in concorrenza fra loro – sono i Paesi con i sistemi produttivi più competitivi ad avere maggiore potere politico.
Fin quando l’Unione europea rimarrà tale, è alquanto ingenuo criticarla sul piano delle asimmetrie nel rispetto delle regole, giacché una siffatta critica confonde la dimensione del potere con la dimensione morale: è palese, infatti, che in generale, e ancor più in un assetto conflittuale, le regole risentono dei rapporti di forza e il modo in cui sono costruite e il modo in cui vengono o meno rispettate lo stabilisce il Paese (o il gruppo di Paesi) con maggiore potere politico.
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Globalizzazione della chiacchiera
di Salvatore Bravo
Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l'illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, pewr la quale non esiste èiù nulla d'incerto
L’impero della chiacchera
La globalizzazione neoliberista non si può ridurre a mera espansione geografica, ad avanzamento bellicoso dell’occidentalizzazione anglosassone. La sua espansione imperiale avviene nell’invisibile, nella mente: le coscienze sono coartate dalla struttura economica, sono curvate all’avanzamento della globalizzazione neoliberista. Il capitalismo attuale è stato definito immateriale, non solo per l’uso del digitale e degli algoritmi, ma anche per il potere di incantare che ha assunto, di suscitare illimitati desideri.
Heidegger, in Essere e Tempo, ha ben interpretato il significato profondo dell’espressione modo di produzione capitalistico, il quale si connota per un movimento anonimo ed autonomo che ingloba le coscienze, le rende irrilevanti (Man). L’ambizione del modo di produzione capitalistico è svilupparsi, in modo meccanico, attraverso le coscienze sussunte all’impianto capitalistico (Gestel). Non a caso il linguaggio comune non solo ha adottato la lingua del vincitore, l’inglese commerciale, ma specialmente sostituisce il concetto (Begriff) con la chiacchiera (Gerede) o con la gestualità seduttiva.
La chiacchiera si diffonde nel discorso come nella scrittura, il nichilismo pervade il quotidiano nella forma della passività che la chiacchiera comporta. L’attività è nella scelta dell’offerta mercantile, sempre più individualizzata. Consumatori attenti ai propri desideri scrutano i prodotti, alla ricerca della merce a loro misura, l’incantatore sibila: «Ce n’è per tutti i gusti». L’individualizzazione estrema depoliticizza, per cui il pubblico è valutato in relazione ai bisogni del cliente-consumatore.
La chiacchiera è orientata al privato, il pubblico è solo un mezzo per esaudire narcisismi illimitati. Heidegger nel paragrafo trentacinque di Essere e Tempo, così descrive l’impero della chiacchiera:
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“Il tempo delle cavallette”
di Elisabetta Teghil
Le telefonate sono tutte registrate, questo indipendentemente dal fatto che ci sia un’indagine in corso e sono archiviate e vengono tirate fuori quando servono. E’ un dato che caratterizza la nostra società. Le telecamere di sorveglianza sono invasive oltre ogni misura, le motivazioni sono sempre nobili e passano attraverso gli utili idioti che dicono che tanto se non c’è niente da nascondere non si ha nulla da temere. Le prossime mosse saranno l’installazione in tutti gli ambienti pubblici e perché no anche nei condomini e perché no perfino nelle case. L’alibi sarà che la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia. Come del resto l’invasivo controllo della velocità su strade e autostrade che serve a far fare cassa ai Comuni ma la motivazione nobile è la nostra sicurezza.
Viviamo, e lo sarà sempre di più, in un controllo serrato ventiquattro ore su ventiquattro in ogni momento della nostra vita. Le cimici ambientali sono diffuse e non solo e non soltanto per un’indagine magari con l’autorizzazione della magistratura ma anche negli spazi e nei locali pubblici. E il motivo vero è sempre e soprattutto il controllo dell’antagonismo e del dissenso in una situazione in cui le forze di polizia in tutte le loro articolazioni si sono affrancate dalla direzione politica e conducono una vita propria e si muovono a tutela delle corporazioni di cui fanno parte.
Indipendenza delle istituzioni poliziesche che non sono più in rapporto gerarchico con quelle politiche e che, ferma restando l’autonomia della gestione degli affari di propria competenza, continuano a lavorare in maniera subalterna agli Stati Uniti e, fatto nuovo, anche a Israele. I poteri forti utilizzano e strumentalizzano ogni possibile manifestazione di dissenso a partire dalla forma più compiuta di lotta di classe che c’è stata in Italia negli anni ’70 e ’80 cioè il fenomeno della lotta armata che non viene raccontata per quello che è ma viene attribuita ai servizi stranieri.
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Contro la felicità
Intervista di David Broder a Edgar Cabanas e Eva Illouz
Un mondo che vuole mantenere lo status quo cerca di imporci la felicità come supremo dovere individuale, forse per paura di cosa potrebbe fare una società che accettasse di essere arrabbiata. Jacobin Mag intervista Edgar Cabanas ed Eva Illouz, autori di un saggio che critica il pervasivo movimento ideologico noto da vent’anni come “psicologia positiva” ed “economia della felicità”: ammantato di pretese scientifiche, è il solito vecchio puntello culturale al pensiero unico neo-liberale, che vuole convincerci di essere tutti imprenditori di noi stessi. Ma se la felicità diventa un opprimente dovere da perseguire individualmente, le implicazioni di questo sono profonde quanto già note: i grandi cambiamenti socioeconomici non sono possibili e comunque non servono, mentre i sentimenti negativi (paura, rabbia) vengono denigrati prima e poi criminalizzati
La felicità suona come una bella cosa. Non per nulla c’è un sacco di gente nel mondo che è pronta a vendercela. C’è un’industria con un giro di 12 miliardi di dollari all’anno che produce libri di auto-aiuto, conferenze, materiale audiovisivo, tutta roba che ci spiega quali sono i piccoli cambiamenti che tutti noi possiamo fare per raggiungere questa elusiva esistenza felice: dal visualizzare i nostri successi futuri al perdere peso o riordinare la nostra stanza.
Fino dalla fine degli anni ’90 questa industria è sostenuta da un bastione di scientificità, ovvero dalla “psicologia positiva”, promossa dall’ex presidente della American Psychological Association, Martin Seligman. La sua idea di “ottimismo appreso”, assieme a concetti come la “mindfulness”, è diventata parte delle idee che il buon senso ci suggerisce per migliorare la nostra esistenza.
Alcuni di questi discorsi sembrano voler creare un “culto”, e assomigliano piuttosto a invocazioni a digerire una realtà della quale siamo scontenti. Viene suggerito che i nostri problemi siano tutti nelle nostre teste, così come il sentiero per trasformarci in persone migliori. Non sorprende che tutto questo venga usato nei posti di lavoro per farci restare belli sorridenti mentre facciamo quello che ci dicono di fare.
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Quelli che... "La Repubblica parlamentare" e l'inarrestabile frattura democratica
di Francesco Maimone
“… (terzo) aspetto essenziale di questo concetto di sovranità è il problema della partecipazione permanente. Il popolo è composto da tutti i cittadini e se la decisione sovrana deve intervenire con il concorso di tutti i cittadini, è necessario che tutti i cittadini abbiano possibilità di partecipare non saltuariamente ma continuamente al governo della cosa pubblica… In un ordinamento democratico ci dev’essere corrispondenza continua fra la volontà degli elettori e quella degli eletti… il nostro ordinamento conosce alcuni meccanismi volti a questo scopo, e precisamente:… d) lo scioglimento anticipato delle Camere da parte del Presidente della Repubblica che dovrebbe essere pronunciato quando fosse constatata un’aperta frattura fra Parlamento e Paese…”.
[L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, IV, Aspetti del sistema costituzionale, Firenze, Vallecchi, 1969, 10-36]
1. Nelle stesse ore in cui mi accingo a confezionare questo intervento, si sta consumando - a mio sommesso avviso – l’ennesima violazione sostanziale del dettato costituzionale che non è escluso venga portata a termine in modo repentino. Ed infatti, la crisi di governo agostana, che ha condotto alle dimissioni del Presidente del Consiglio, ha innescato il conferimento di un nuovo incarico nonché le frenetiche consultazioni del Colle all’esito delle quali dovrebbe essere sancito lo sciagurato amplesso tra forze politiche accomunate dalla devozione indefessa verso L€uropa, senza che ciò suoni in alcun modo sorprendente (in particolare per i malcelati apritori di scatole di tonno rivelatisi appartenenti a pieno titolo al partito del PUD€). Posticcio “Fogno di una nott€ di m€zza estat€” in salsa italica (scelga il lettore a chi attribuire, tra gli esponenti politici di spicco protagonisti del probabile sodalizio, il ruolo di Ermia e quello di Lisandro).
2. Ci si chiede, tuttavia,se la tragicomica vicenda istituzionale, alla quale per l’ennesima volta è costretto ad assistere il Sovrano buggerato, trovi legittimazione nella nostra Carta Costituzionale, ciò soprattutto (ma non solo) alla luce degli avvenimenti che hanno scandito la vita politica repubblicana quantomeno negli ultimi tre anni.
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Che cos’è questa crisi?
di Carlo Galli
I poteri mondialisti ed europeisti erano usciti parecchio ammaccati dalle elezioni del 2018, in cui aveva prevalso la ribellione popolare contro il paradigma economico vigente e contro le sue conseguenze politiche e sociali – la precarizzazione e l’indebolimento del lavoro e della funzione pubblica come risultato del vincolo monetario esterno hanno generato l’ormai ben noto momento Polanyi –. Privato del suo partito di riferimento, il Pd, clamorosamente sconfitto, l’establishment non era tuttavia rimasto privo di risorse e poteva contare su alcuni ministri, graditi anche al capo dello Stato. E su di un’incessante lavoro più o meno sotterraneo a vari livelli, interni ed europei, per imbrigliare l’azione non ortodossa del governo. Sottoposto a critiche giuridiche e morali sulla questione dei migranti e sfidato sul versante economico dalla Commissione che ha minacciato una procedura per deficit eccessivo, il partito più numeroso ma anche più debole, il M5S, ha fatto proprie le ragioni dell’establishment e ha impedito di fatto l’autonomia regionale rafforzata – forse non carissima a Salvini, cui tocca l’arduo compito di gestire una Lega proiettata oltre se stessa, cioè fortissima anche al Sud, e costretta quindi a una complexio, per cui non è culturalmente attrezzata, tra pulsioni anti-sistema e richieste del Nord liberista, embedded nell’economia tedesca –. E ha preventivamente bocciato la flat tax, questa sì di significato strategico per la Lega, in diretta opposizione all’impianto ordoliberista dell’eurozona, accettando dalla Commissione serie ipoteche sulla nostra libertà di manovra in sede di legge finanziaria. È quindi pura propaganda la tesi di Zingaretti che Salvini scappasse dalla finanziaria. Al contrario, la voleva fare senza condizionamenti, anche in extra-deficit (per non aumentare l’IVA).
Per reagire a questa situazione (e alle minacce trasversali di cui era fatto oggetto: il caso Savoini) e non solo per capitalizzare il consenso delle europee (finalità che certo sarebbe ridicolo negare), Salvini ormai accerchiato ha mandato in crisi il governo, fidando anche nell’interesse di Zingaretti a seguirlo sulla strada delle elezioni anticipate: con queste il segretario Pd avrebbe potuto sbarazzarsi dei renziani, che ora sono il sessanta per cento dei gruppi parlamentari.
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Siamo vicini al collasso?
di Marino Badiale
Sono ormai in molti a sostenere che l’attuale organizzazione economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di qualche decennio. In Francia si parla, forse con un po’ di ironia, di “collapsologie” come di una nuova disciplina scientifica che studia appunto il collasso prossimo dell’attuale organizzazione sociale [1,2,3]. Intendo qui provare a riassumere i termini fondamentali della questione. Cercherò di sostenere che in effetti vi sono argomenti ragionevoli a favore della tesi del collasso prossimo. Questo ovviamente non implica che si possano fissare dei limiti temporali precisi, né che si possano fare ipotesi ragionevoli su quale potrà essere la nuova forma di organizzazione sociale che sostituirà l’attuale.
La tesi fondamentale che intendo esporre è che il collasso prossimo venturo deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare che sarà proprio la loro contemporaneità a innescare il collasso.
Le crisi fondamentali che stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica.
Esaminiamole in quest’ordine.
La crisi economica scoppiata nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di “stagnazione secolare” [4,5]. È certo vero che la fase più acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato tassi di crescita economica sostenuti.
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