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L’economia italiana ai tempi del sovranismo: una nota

di Guglielmo Forges Davanzati[1]

img 1997Questa nota si propone di (i) dar conto di alcune fallacie delle teorie sovraniste (ovvero del complesso di elaborazioni teoriche che imputano la crisi economica italiana all’adozione dell’euro e che invocano il ritorno alla valuta nazionale); (ii) evidenziare come, sebbene spesso implicitamente e forse inconsapevolmente, queste teorie siano funzionali a un progetto di secessione del Paese, da attuare mediante il trasferimento di risorse e di competenze legislative ad alcune Regioni del Nord. In quanto segue, per ragioni di spazio, non si farà distinzione fra le versioni ‘di sinistra’ e di ‘destra’ del sovranismo: data la prevalenza, in questa fase storica, della seconda versione, l’argomentazione che segue è sostanzialmente riferita a questa.

 

  1. Alcuni argomenti contro il sovranismo economico

Un argomento caro ai sovranisti italiani – ovvero a coloro che propongono il recupero della sovranità nazionale anche mediante l’abbandono unilaterale da parte dell’Italia dell’euro – riguarda il fatto che l’unificazione monetaria europea avrebbe determinato un’ondata di acquisizioni di imprese italiane da parte di imprese di altri Paesi europei.

Non vi è dubbio che questo si è verificato, ma non vi è dubbio che ciò si è verificato non per l’adesione dell’Italia al progetto di unificazione europeo, ma per effetto della lunga recessione della nostra economia (a iniziare dai primi anni novanta) e della conseguente perdita di potere politico del nostro Paese. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che – essendo l’Unione monetaria europea un’unione formale di Paesi in concorrenza fra loro – sono i Paesi con i sistemi produttivi più competitivi ad avere maggiore potere politico.

Fin quando l’Unione europea rimarrà tale, è alquanto ingenuo criticarla sul piano delle asimmetrie nel rispetto delle regole, giacché una siffatta critica confonde la dimensione del potere con la dimensione morale: è palese, infatti, che in generale, e ancor più in un assetto conflittuale, le regole risentono dei rapporti di forza e il modo in cui sono costruite e il modo in cui vengono o meno rispettate lo stabilisce il Paese (o il gruppo di Paesi) con maggiore potere politico.

I casi probabilmente più eclatanti di acquisizioni estere (si badi: non solo da parte di imprese di altri Paesi europei) sono Montedison - ora francese - Pirelli - prima russa poi cinese – Magneti Marelli – ora giapponese. Si tratta di fenomeni che dovrebbero essere inquadrati in una più generale dinamica di centralizzazione dei capitali, sia per quanto attiene agli assetti proprietari, sia per quanto attiene alla loro localizzazione: fenomeni inarrestabili a meno di non immaginare improbabili misure di controllo della circolazione internazionale dei capitali.

L’argomento sovranista è discutibile per numerose ragioni.

  1. La nazionalità di un’impresa, di per sé, non è un fattore rilevante per generare crescita economica. Così come imprese di proprietà di imprenditori italiani possono delocalizzare, così imprese di proprietà di imprenditori non italiani possono investire in Italia. D’altra parte, se l’obiettivo è la buona occupazione e la crescita economica, dovrebbe essere irrilevante se a contribuire a garantirlo sia un’impresa di proprietà italiana o estera. E non può essere invocata, al tempo stesso, la sovranità nazionale (intesa come difesa delle imprese italiane) e l’obiettivo della crescita economica e del recupero di potere politico del Paese se le imprese private italiane sono meno efficienti di quelle di altri Paesi.

In altri termini, è piuttosto strana la convinzione sovranista che stabilisce che ciò che è italiano sia da tutelare solo perché italiano, indipendentemente dall’efficienza relativa di imprese acquisite e di imprese che acquisiscono. È difficile smentire la tesi per la quale sono le imprese, di norma, più grandi, con maggiori fondi interni e maggiore accesso al credito, a essere in grado di espandere ulteriormente le loro dimensioni acquisendo imprese relativamente più piccole, anche in altri Paesi. A meno di non recepire l’ipotesi eroica per la quale l’attività d’impresa segua anche una logica ‘patriottica’.

Recenti ricerche evidenziano che le acquisizioni coinvolgono imprese italiane con margini di profitto relativamente elevati e che, negli anni successivi alle acquisizioni, questo tende a crescere. Si osserva poi un aumento delle retribuzioni medie, del numero di addetti e della quota della produzione esportata.

  1. La posizione sovranista reclama, per conseguenza, un maggior potere di negoziazione con le Istituzioni europee: queste ultime anch’esse viste come un unico attore con un unico interesse. Le cose non stanno però in questi termini.

Innanzitutto, l’Italia è un Paese sostanzialmente diviso (almeno) in due macroaree, con un Mezzogiorno che, in media, ha un tessuto produttivo meno efficiente di quello del Nord. L’Italia è di fatto il Paese con maggior dualismo regionale fra i Paesi europei. Non ha perciò molto senso invocare il recupero della sovranità se questa non passa prima per politiche di riequilibrio regionale che rendano la sovranità nazionale una categoria politicamente accettabile.

In secondo luogo, non esiste un’Europa con un interesse unico, costante nel tempo e omogeneo fra le parti che la compongono. Esiste, semmai, un interesse di parte dell’industria tedesca (divergente da quello dei lavoratori tedeschi), spesso in sintonia con l’interesse di parte dell’industria francese (profondamente in contrasto con gli interessi di una parte consistente della popolazione francese, come dimostrato dalle recenti proteste dei ‘gilet gialli’).

Esistono poi interessi divergenti all’interno delle stesse istituzioni europee: si pensi, a titolo esemplificativo, alla continua opposizione esercitata dalla Bundesbank a guida Weidmann alle politiche monetarie di Mario Draghi. Detto diversamente, il sovranismo presuppone l’esistenza di qualche forma di complotto contro l’Italia e il complotto presuppone l’esistenza di un unico centro decisionale che, in modo occulto e per ragioni non facilmente decifrabili, mira a impoverirci. Il complotto non esiste, ma la percezione diffusa del complotto (e il suo corollario sovranista) sì. Ed esiste perché si stenta a riconoscere che la gran parte della recessione italiana è auto-inflitta, ovvero dipende da politiche economiche che nessuno ci ha imposto o che comunque nessuno ha imposto di farle con l’accelerazione che abbiamo dato.

Si considerino a riguardo le misure di austerità. Su fonte OCSE, al 2018, la spesa pubblica in Italia in percentuale al Pil è significativamente più bassa rispetto a quella di Francia, Finlandia, Danimarca, Belgio, Austria e Svezia e in continua diminuzione dall’inizio degli anni novanta. Germania e Spagna hanno percentuali di spesa pubblica sul Pil superiori ai nostri. Ciò sta a dire che i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni hanno volutamente imposto al Paese maggiori dosi di austerità rispetto alla gran parte dei Paesi europei, con effetti di segno negativo su occupazione e crescita. Analogamente, soprattutto per effetto della notevole accelerazione data alle misure di precarizzazione del lavoro, le retribuzioni medie italiane sono, escludendo la Grecia, le più basse dell’Eurozona e maggiori sono le ore lavorate.

Ma soprattutto, nessuna Istituzione sovranazionale ha imposto di ridurre soprattutto le spese per l’istruzione, come hanno fatto tutti i Governi italiani nell’ultimo decennio: mentre l’Europa si è data l’obiettivo del 40% di laureati sul totale della forza-lavoro, e in media lo raggiunge, l’Italia arranca intorno al 27%.

  1. I sovranisti ritengono che l’elevato debito pubblico italiano non costituisca un problema o, meglio, che costituisce un problema perché nei Trattati europei viene disposto il divieto di acquistare titoli di Stato da parte della Banca centrale europea. Per avvalorare questa tesi, ci si avvale dell’esempio del Giappone, un’economia che cresce più della nostra con un debito pubblico enormemente più alto del nostro (200% circa a fronte del 133% italiano). Il principale vulnus di questa tesi consiste nel fatto che stampare moneta di per sé può non accrescere le disponibilità effettiva di credito per imprese e famiglie, in considerazione del fatto che le banche ordinarie sono libere di usare le risorse monetarie addizionali per attività speculative.

L’elevato grado di interconnessione fra l’economia economia italiana e le economie di altri Paesi europei (si pensi alle cosiddette catene globali del valore che legano le nostre imprese del Nord a quelle del centro Europa) costituisce un ulteriore argomento contro la vulgata sovranista. Così come lo è il fatto che l’eventuale ritorno a una valuta nazionale per effettuare svalutazioni competitive non avrebbe altri effetti se non ridurre l’incentivo a innovare per le nostre imprese e accrescere i divari regionali (essendo la gran parte delle imprese esportatrici italiane localizzate a Nord).

La tesi sovranista per la quale il ritorno alla valuta nazionale comporterebbe maggiore crescita e soprattutto maggior peso politico per l’Italia è ancora più discutibile. La perdita di potere politico del Paese andrebbe semmai imputata a fattori geopolitici, rispetto ai quali l’adesione al progetto di unificazione monetaria europea è ben poco rilevante. Ci si riferisce, in particolare, al fatto che, a seguito dell’implosione dell’URSS, l’Italia ha assunto un peso progressivamente sempre più marginale, avendo perso il ruolo di argine all’imperialismo sovietico negli anni della cosiddetta guerra fredda.

Sul piano economico, il progetto sovranista non può che tradursi in politiche economiche che accentuino la già rilevante moderazione salariale in atto. Ciò a ragione del fatto che, a meno di non immaginare un improbabile ritorno all’indicizzazione dei salari, la svalutazione della nuova lira che deriverebbe dall’abbandono della moneta unica, produrrebbe inflazione e, in costanza di salari monetari, compressione del potere d’acquisto dei lavoratori. Non desta quindi stupore il fatto che il sovranismo economico sia strettamente connesso a misure di ridistribuzione del reddito a danno del lavoro dipendente e a danno delle regioni più povere del Paese.

In quanto segue, ci si soffermerà su questo aspetto, mettendo in evidenza le criticità del progetto di ‘autonomia differenziata’.

 

  1. Le autonomie regionali come concausa della stagnazione economica italiana

A partire dagli anni settanta, l’economia meridionale comincia a intraprendere un percorso di divergenza rispetto a quella del Centro-Nord del Paese. Sono anni caratterizzati dalla crescita pervasiva della criminalità organizzata (che dal Sud comincia a mettere radici nelle principali città settentrionali), dallo smantellamento progressivo della Cassa per il Mezzogiorno e dalla contrazione degli investimenti pubblici al Sud.

Sono anche anni caratterizzati da consistenti aumenti di spesa pubblica, nella gran parte dei casi improduttiva. Sia sufficiente a riguardo considerare che la spesa pubblica in rapporto al Pil sale dal 34% del 1974 (a fronte della media della Comunità europea del 38%) a oltre il 50% della fine degli anni ottanta. La pressione fiscale, pari al 25% in rapporto al Pil nel 1973 (inferiore di quasi quattro punti percentuali rispetto alla media OCSE), raggiunge il 40% alla fine degli anni ottanta. Un incremento significativo e mal distribuito: la crescita dell’evasione fiscale spinge i governi di quegli anni a provare a recuperare gettito soprattutto attraverso l’aumento dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), generando crescenti diseguaglianze distributive.

Cresce anche in modo significativo il debito pubblico, soprattutto per il continuo aumento della spesa per interessi sui titoli di Stato: dal 5% del 1980 al 12% in rapporto al Pil del 1993. Un allarme muove le politiche economiche di quegli anni: l’elevata inflazione, che viene imputata interamente a salari eccessivamente elevati e non differenziati su scala regionale.

L’Italia diventa un Paese propriamente dualistico e, negli anni successivi e fino a oggi, accenta questa caratteristica, con un Nord il cui settore industriale si irrobustisce e un Sud che viene sostanzialmente sussidiato e che volge verso una specializzazione produttiva sempre più orientata in settori tecnologicamente maturi (agroalimentare, turismo, settore dei servizi). Il Veneto - una delle regioni più povere d’Italia nei decenni successivi al termine della seconda guerra mondiale - comincia la sua traiettoria di crescita, beneficiando delle politiche di decentramento produttivo messe in atto dalla grande impresa del Nord-Ovest. Politiche che trovano la loro ragione nel tentativo (riuscito) di sedare i conflitti interni alla fabbrica che caratterizzano gli anni settanta e che si realizzano nella nascita di piccole unità produttive nel Nord-Est. A partire dalla fine degli anni ottanta, il Veneto trova la sua rappresentanza politica nella Lega Nord. La quota dei salari sul Pil comincia a contrarsi in modo rilevante.

La richiesta di autonomia differenziata da parte di alcune regioni del Nord (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) è il compimento, ad oggi, di questa tendenza. Si tratta della richiesta di trattenere in quei territori la massima parte delle tasse lì pagate, oltre che di trasferire alle regioni competenze fin qui proprie dello Stato: istruzione in primis. E’ stata suggestivamente definita secessione dei ricchi ed è motivata fondamentalmente con due argomenti:

  1. Le aree più ricche del Paese non possono più permettersi di concedere alle aree più povere trasferimenti perequativi, che non farebbero altro che finire nel calderone della spesa improduttiva, della corruzione, del clientelismo. D’altra parte – si sostiene – le stesse regioni meridionali avrebbero tutto da guadagnare dalla loro maggiore autonomia – e quindi da minori risorse pubbliche – dal momento che sarebbero maggiormente incentivate a fare uso produttivo di queste ultime.
  2. L’arricchimento delle aree già più ricche del Paese favorirebbe anche le aree più povere per effetto di un meccanismo di locomotiva: se la crescita delle aree più ricche (ri) parte, la ricchezza lì prodotta ‘sgocciola’ nelle aree più povere. Come dire: se la locomotiva parte, trascina con sé anche i vagoni.

Vi sono buone ragioni per dubitare di questi argomenti e per sostenere che, semmai, l’autonomia differenziata – se pienamente realizzata – non solo danneggerebbe ulteriormente le regioni meridionali, ma potrebbe essere un ulteriore fattore di recessione. 
Ciò a ragione delle seguenti circostanze.

  1. Le Regioni italiane più ricche sono tali perché le loro imprese (quantomeno quelle più innovative) sono legate tramite rapporti di subfornitura al capitale tedesco e dell’Europa continentale. È evidente che un rallentamento della crescita in quei Paesi – peraltro già in atto - produrrebbe, a cascata, un impoverimento delle aree, al momento, più ricche e, per conseguenza, minore crescita.
  2. Un rallentamento del tasso di crescita genererebbe minori entrate fiscali e, in costanza di spesa pubblica, un aumento del debito pubblico in rapporto al Pil. E’ un esito ragionevolmente prevedibile, se si considera che il debito pubblico italiano è sempre aumentato in concomitanza con l’accentuarsi delle spinte autonomistiche e proprio a partire dall’istituzione delle Regioni.
  3. Il progetto secessionista genera incertezza (se non altro per la prospettiva di una maggiore confusione normativa, almeno nella fase di transizione al nuovo regime) e l’incertezza si associa al declino degli investimenti privati e, dunque, del tasso di crescita.

L’allarme degli sprechi e delle inefficienze è, in ultima analisi, all’origine del consenso che si è creato – in modo trasversale fra partiti politici – in ordine all’idea che l’economia italiana possa riprendere un percorso di crescita solo accentuando i divari regionali. Si tratta di un allarme in larga misura ingiustificato, dal momento che i) non è chiaro come possano essere quantificati gli sprechi e le inefficienze al Sud; ii) non è dimostrato – ed è difficilmente dimostrabile – che gli sprechi e le inefficienze siano maggiormente concentrati nelle regioni meridionali e che, per contro, le regioni del Nord siano sempre e necessariamente più virtuose. A titolo esemplificativo, si può considerare il caso della scuola. Secondo le regioni ‘secessioniste’ occorrerebbe differenziare gli stipendi degli insegnanti, aumentandoli al Nord e riducendoli al Sud. Ciò consentirebbe di attrarre docenti nelle scuole del Nord. Chi, in questo caso, spreca? Si potrebbe sostenere che lo facciano le regioni meridionali che non creano occasioni di lavoro per tutti i docenti che lì risiedono. Ma si potrebbe sostenere – altrettanto legittimamente – che a sprecare sono le regioni del Nord, in considerazione del fatto che non pongono le condizioni per disporre di un numero congruo di docenti lì residenti. Chi, in ultima analisi, dirime la questione?

Vi è infine da considerare che è fondata l’impressione che, al netto della crisi di governo in corso, il progetto secessionista verrà al più rinviato, ma non cassato dall’agenda dei prossimi governi.


Note
[1] Università del Salento – Dipartimento di Scienze Sociali e Università di Cambridge (UK) – Department of Land Economy. Email: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.. Questo testo costituisce una rielaborazione di miei articoli pubblicati sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” nell’agosto 2019.

Comments

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Sandro
Wednesday, 11 September 2019 18:32
Grazie Guglielmo per questo articolo che sicuramente è molto più compelsso du quello che pensano i smeplici cittadini, ma nello stesso modo permette comunque a chiunque di avere un minimo di informazione che invece la politica non riesce a fare.
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