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moneta e credito

Sulle condizioni per una “rivoluzione” della teoria e della politica economica

di Emiliano Brancaccio*

In linea con la tradizione del Massachusetts Institute of Technology di cui fanno parte, i modelli macroeconomici mainstream di Olivier Blanchard possono essere sottoposti a un “ribaltamento” logico in grado di renderli compatibili con schemi alternativi che rifiutano la teoria neoclassica dei prezzi come indici di scarsità e il nesso tra produzione e distribuzione che da essa scaturisce. Tale ribaltamento logico sembra in grado di offrire una più solida base teorica alla “rivoluzione” della politica macroeconomica recentemente invocata da Blanchard e Summers, che viene qui sottoposta a un esame critico

sego canyon pitture rupestriA proposito di libri “Anti”, permettetemi qualche citazione preliminare. L’Anti-Catone di Giulio Cesare fu la raffigurazione letteraria di un passaggio epocale, quello che in poco più di un decennio avrebbe sancito la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero romano. A quanto pare, proprio all’Anti-Catone si ispirò Friedrich Engels, autore dell’Anti-Duhring, un libro che a sua volta segnò una fase cruciale dello scontro tra due opposte filosofie della scienza: l’idealismo e il materialismo. Ebbene, nel nostro piccolo, nel nostro infinitesimo, con l’Anti-Blanchard in un certo senso noi abbiamo tratto ispirazione da questi grandi esempi (Brancaccio e Califano, 2018).

Beninteso, l’Anti-Blanchard è un piccolo esperimento, peraltro confinato nell’ambito ristretto della critica della macroeconomia. Tuttavia, anch’esso è un libro che sebbene nel suo titolo si confronti con una sola persona, di fatto tenta di richiamare alla luce una disputa di carattere molto più generale, oserei dire collettiva: vale a dire la disputa, oggi sommersa e un po’ dimenticata, tra la concezione attualmente prevalente della teoria e della politica economica e un paradigma economico alternativo che prende le mosse dalle cosiddette scuole di pensiero economico critico. Quel piccolo libro è dunque in fin dei conti la ragione per cui abbiamo proposto questa inconsueta occasione di dibattito alla Fondazione Feltrinelli, che ringraziamo per averla messa in opera. E ovviamente ringraziamo Olivier Blanchard per avere accettato questo nostro invito.

Ora, perché proprio l’Anti-Blanchard? Perché non un “Anti-Lucas”, o un “Anti-Prescott”, o un “Anti-Sargent”? Il primo motivo è che l’esperienza di Olivier Blanchard è di tale importanza che trascende la sua stessa persona, a mio avviso più di quanto sia accaduto a qualsiasi altro economista vivente.

Il Professor Blanchard fu nominato capo economista del Fondo Monetario Internazionale il 1 settembre del 2008, vale a dire appena due settimane prima del “Chapter Eleven”, l’avvio della bancarotta di Lehman Brothers e l’inizio della crisi mondiale. Per una straordinaria congiuntura di avvenimenti, il periodo dell’incarico di Blanchard al FMI corrisponde esattamente al tempo di fuoco della grande recessione internazionale, della prima crisi dell’Eurozona, e dell’avvio di nuove tendenze protezioniste nel mondo, ben prima dell’avvento di Trump alla Casa Bianca. Ebbene, la direzione di Blanchard delle ricerche del Fondo non è passata inosservata. Sotto la sua guida, abbiamo assistito a un cambiamento significativo nelle analisi e in parte anche nelle proposte politiche del Fondo Monetario Internazionale. Penso al “mea culpa” sulla sottostima dei moltiplicatori fiscali, alla valorizzazione degli investimenti pubblici in deficit come fattore di crescita economica, all’opportunità di adottare forme di controllo dei movimenti di capitale, al riconoscimento di un legame inverso tra disuguaglianza e sviluppo economico, e molto altro.

Ma al di là dell’esperienza istituzionale di Olivier, c’è anche un motivo più profondo che mi ha indotto a scrivere proprio un libro dedicato a un esame critico dei suoi contributi. Il motivo attiene all’approccio teorico di Blanchard, alla struttura dei suoi modelli di analisi. Il paradigma prevalente di teoria e politica economica, quello che di solito chiamiamo approccio “mainstream” e di cui Olivier Blanchard è uno dei massimi esponenti mondiali, in ultima istanza fa capo alla tradizione dell’equilibrio generale intertemporale neoclassico. Una caratteristica fondamentale di questo approccio, è che esso presume che le forze spontanee del libero mercato, quelle della domanda e dell’offerta, almeno in linea di principio dovrebbero essere in grado di determinare quei livelli del tasso d’interesse, del tasso di profitto e del salario reale che portano l’economia in “equilibrio naturale”: ossia, in un equilibrio che corrisponde a livelli efficienti di produzione e occupazione dei lavoratori e delle altre risorse, dati i vincoli di scarsità delle dotazioni e dati tutti gli altri vincoli che attengono alle istituzioni, alle informazioni, e così via. In quest’ottica, produzione e distribuzione sono legate a filo doppio, secondo una inesorabile legge neoclassica di efficienza. Questo significa, per intenderci, che per l’approccio prevalente, se tu lotti per cercare di aumentare il salario oltre il livello determinato dall’equilibrio del mercato, la conseguenza dovrà essere una caduta dell’occupazione e della produzione. In altre parole: il conflitto sociale fa danni.

Ebbene, è possibile verificare che in più circostanze, nel suo manuale didattico come in alcune sue importanti pubblicazioni di frontiera, Blanchard ha un po’ deviato da questa ortodossia neoclassica, o quantomeno ha creato le basi per una deviazione da essa. In alcuni casi, per esempio in campo didattico, nel celebre manuale la cui edizione europea è stata scritta con Francesco Giavazzi e Alessia Amighini, Blanchard ha assunto che la distribuzione del reddito tra salari e profitti fosse una variabile sostanzialmente esogena: ovvero, una variabile esterna al nucleo della sua analisi (Blanchard et al., 2017). In altri casi, come per esempio nei suoi noti modelli di “isteresi”, Blanchard si è spinto oltre, ed è arrivato a ipotizzare che quella distribuzione del reddito non solo fosse esterna all’analisi, ma non presentasse nemmeno un legame univoco con l’andamento della produzione e dell’occupazione. Più precisamente, in questi modelli, sotto date ipotesi, il salario reale può esser considerato un dato, mentre i livelli di produzione e di occupazione sono determinati dal rapporto tra salario monetario e quantità di moneta (Blanchard e Summers, 1986). C’è molto di Franco Modigliani, in questo apparato teorico. E c’è molta aria di Massachusetts Institute of Technology.

Potrei fare molti altri esempi di questo tipo, potrei entrare nei dettagli e specificare le ipotesi particolari che conducono a tali risultati. Ma in tutti i casi la mia tesi di fondo è la seguente. Quando i modelli di Blanchard assumono che la distribuzione del reddito tra salari e profitti sia una variabile esterna all’analisi, e quando i suoi modelli arrivano addirittura a ipotizzare che tale distribuzione non sia univocamente legata a uno specifico livello di produzione e di occupazione, l’implicazione teorica che ne risulta è notevole: i modelli di Blanchard risultano aperti agli approcci teorici alternativi, ossia a quelle interpretazioni che fanno capo alle varie tradizioni ‘eretiche’ di John von Neumann, Wassily Leontief, Nicholas Kaldor, Joan Robinson, Hyman Minsky, Herbert Simon, nonché Piero Sraffa, Luigi Pasinetti, Pierangelo Garegnani, Paolo Sylos Labini, Augusto Graziani e molti altri. In questa tradizione alternativa non esiste una relazione efficiente in senso neoclassico tra la produzione e la distribuzione del reddito: non esistono più dei livelli dei salari, dei profitti e degli interessi che siano tali da garantire una produzione e un’occupazione massime, dati i vincoli determinati dalla scarsità delle risorse o da fattori attinenti alle istituzioni, alle informazioni, ecc. In alcuni di questi schemi alternativi possono sussistere altri tipi di relazioni tra produzione e distribuzione, che attengono alle condizioni di equilibrio macroeconomico, alle diverse ipotesi sull’offerta di merci, e così via. Ma in generale, in tutte queste analisi alternative l’intimo legame neoclassico tra produzione e distribuzione del reddito viene meno: il nesso tra le due grandezze, laddove esiste, perde la sua aura di pura neutralità tecnica e precipita nell’universo contraddittorio del conflitto sociale e politico.

È bene tener presente che quella appena descritta è una linea di demarcazione teorica generale, che vale sempre e per tutti gli approcci esistenti. Sul nesso tra produzione e distribuzione del reddito tutte le teorie, vecchie o nuove che siano, in termini più o meno espliciti devono logicamente situarsi dall’una o dall’altra parte di quella linea “Althusseriana”: dal lato dell’impostazione mainstream oppure da quello della visione alternativa appena descritta. Il problema di situare la teoria da un lato o dall’altro di quella linea di demarcazione rimane aperto e per certi versi irrisolto anche riguardo ad alcuni approcci più recenti, come ad esempio i modelli “agent based”, per citare una delle interpretazioni non convenzionali che stanno riscuotendo un certo successo. In altre parole, nessuna nuova teoria può rifuggire dalla necessità di prendere posizione riguardo alla scelta tra l’accettare la determinazione dei prezzi relativi e della distribuzione nei termini tipici della scarsità neoclassica, oppure rifiutarla e quindi cimentarsi con le tradizioni di pensiero ‘eretico’ per delineare un’esplicita alternativa.

Tornando al nostro caso specifico, quella stessa linea di demarcazione teorica sta ad indicare un fatto sorprendente: con poche modifiche alle ipotesi di partenza, i modelli di Blanchard che risultano aperti alle teorie alternative possono esser portati al di là della linea e quindi, di fatto, possono risultare aperti al conflitto sulla distribuzione del prodotto sociale. Ricorrendo a un linguaggio vecchio ma non desueto, qualcuno si spingerebbe a dire che di tanto in tanto, più o meno consapevolmente, Blanchard apre i suoi modelli alla lotta di classe nel senso di Marx.

Naturalmente Olivier non sarà d’accordo con questa mia interpretazione. Nel dibattito di Milano egli in tal senso ha rimarcato la sua tesi, secondo cui la disoccupazione si situerebbe al punto che costringe i lavoratori ad accettare i salari reali offerti dalle imprese (Blanchard e Brancaccio, 2019b). Questa interpretazione univoca della distribuzione si basa sull’ipotesi che il margine di profitto sia esogeno e refrattario alle rivendicazioni sociali, ma nelle analisi di Blanchard non è affatto chiaro il motivo per cui tale ipotesi debba essere accettata anziché esser sostituita, né è detto che conduca a risultati analitici coerenti (Brancaccio e Saraceno, 2017). Olivier potrà ribattere che questi varchi teorici, queste piccole crepe logiche che consentono ardimentose interpretazioni alternative dei suoi modelli, sono soltanto il frutto di semplificazioni provvisorie, che possono essere poi tranquillamente rimosse a gradi più avanzati dell’analisi e sostituite con altre in linea con la tradizione mainstream. La verità, però, io credo sia un’altra. La verità è che i modelli economici sono un po’ come i figli: a un certo punto assumono una personalità propria, per molti versi indipendente dalle aspirazioni dei loro genitori.

Il caso di Blanchard mi pare esattamente questo. A differenza dei modelli di un Lucas, di un Sargent o di un Prescott, e analogamente invece a molti modelli della tradizione MIT di cui egli fa parte, i modelli di Blanchard si possono ribaltare e trasformare: possono cioè diventare modelli alternativi. Adottando tecniche simili, anni fa il grande teorico e polemista Frank Hahn tentò di trasformare Sraffa in un “caso speciale” dell’equilibrio neoclassico (Hahn, 1982). Nel farlo, tuttavia, egli commise gravi errori teorici, consistenti tra l’altro nella pretesa paradossale di determinare “il passato in funzione del futuro” (Brancaccio, 2010; per una rassegna, tra gli altri, si veda Kurz e Salvadori, 1995, cap. 14; sul “ribaltamento” che consente il passaggio da una teoria all’altra, cfr. anche Dobb, 1973). Invece, potremmo dire che noi qui rendiamo Blanchard un po’ marxista, e lo facciamo con un ribaltamento che in questo caso regge alla prova logica. In fin dei conti, se non fosse stato per questa possibilità di ribaltare teoricamente i modelli di Olivier, l’Anti-Blanchard non sarebbe mai nato e noi oggi non saremmo qui a discutere.

È bene aggiungere che proprio questo rovesciamento teorico apre la via alle possibilità di rilancio di un confronto e di una competizione, in senso Lakatosiano, tra i diversi paradigmi esistenti (Brancaccio e Bracci, 2019). La comparazione che noi qui suggeriamo, tra i modelli di Blanchard e le interpretazioni eretiche degli stessi, rende più agevole una scelta tra gli uni e le altre basata sul metodo scientifico: ossia su un giudizio relativo alla rilevanza storica, alla coerenza logica e alla verifica empirica delle teorie concorrenti. Anche sulla verifica empirica, infatti, l’impostazione mainstream appare spesso in difficoltà, laddove la visione alternativa sembra maggiormente in grado di superare il banco di prova dei dati. Un esempio tipico, in questo senso, è l’analisi del rapporto tra la cosiddetta “flessibilità” del mercato del lavoro da un lato, e dinamiche del salario reale e dell’occupazione dall’altro. Come tempo fa osservò lo stesso Blanchard (Blanchard, 2006) e come oggi viene riconosciuto persino da alcuni rapporti IMF, OECD e World Bank, la tesi prevalente secondo cui la maggior flessibilità del lavoro riduce la disoccupazione non sembra trovare riscontri empirici adeguati. Sul banco di prova dei dati, invece, appare più robusta la tesi alternativa secondo cui l’unico effetto tangibile della flessibilità è quello di ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e quindi anche la quota salari (per una rassegna, cfr. Brancaccio et al., 2018a). Le politiche di flessibilità del lavoro, in altre parole, sembrano incidere non tanto sull’efficienza nella produzione quanto piuttosto sul conflitto nella distribuzione.

Ora, quali sono le implicazioni generali di politica economica di questo discorso? Io credo siano notevoli. In un recente articolo scritto con Larry Summers, Olivier Blanchard ha recentemente evocato la possibilità di una “evoluzione”, e magari addirittura una “rivoluzione” della politica economica prossima ventura (Blanchard e Summers, 2017; riprodotto in traduzione italiana in questo numero: Blanchard e Summers, 2019). Un punto chiave della “rivoluzione” evocata da Blanchard e Summers riguarda l’opportunità di sostenere e di stabilizzare i livelli di occupazione utilizzando la spesa pubblica per investimenti, e in generale la politica espansiva di bilancio pubblico, in modi molto più sistematici e più incisivi rispetto al passato. “Rivoluzione”, per Blanchard e Summers, significa dunque, tra le altre cose, anche un rinnovato ruolo delle politiche di bilancio dello Stato nel sostegno allo sviluppo economico e all’occupazione. Nell’ambito del mainstream si tratta di una presa di posizione importante.

Tuttavia, occorre precisare che la “rivoluzione” della politica economica suggerita da Blanchard e Summers è legata a un’ipotesi: che in futuro il tasso d’interesse si collochi stabilmente al di sotto del tasso di crescita economica. Un tasso d’interesse più basso rispetto al tasso di crescita dell’economia è importante per varie ragioni: aiuta a ridurre le disuguaglianze, diminuisce il peso dei debiti e favorisce l’intervento pubblico nell’economia, perché solo se i tassi d’interesse sono più bassi dei tassi di crescita allora il debito può convergere verso uno stato stazionario anche in presenza di disavanzi pubblici primari atti a finanziare l’espansione. Curiosamente, nelle vecchie edizioni del suo manuale, Blanchard sosteneva che un tasso d’interesse più basso del tasso di crescita fosse un caso ‘esotico’, ossia improbabile e in fin dei conti poco rilevante. Oggi, invece, Blanchard e Summers ammettono che un tasso d’interesse stabilmente più basso del tasso di crescita è una possibilità concreta.

Blanchard e Summers sembrano però giustificare questo cambiamento di scenario alla luce di un fenomeno per così dire spontaneo, un fenomeno di mercato, che talvolta essi interpretano aggiornando il vecchio concetto di “stagnazione secolare” di Hansen. In buona parte, cioè, un tasso d’interesse più basso della crescita sarebbe frutto di un aumento spontaneo del risparmio rispetto all’investimento e di una conseguente riduzione del tasso d’interesse “naturale” che dovrebbe metterli in equilibrio. Ancora una volta, se ci pensiamo, torna l’idea mainstream di livelli “naturali” delle variabili distributive in grado di mettere in equilibrio la produzione: riemerge cioè la tesi un nesso, un legame neutro ed efficiente, tra produzione e distribuzione del reddito.

Noi tuttavia sappiamo che per i modelli teorici alternativi quel legame efficiente non esiste, e quindi anche il tasso d’interesse “naturale” è un concetto che non esiste. L’implicazione è che nei modelli alternativi un tasso d’interesse stabilmente al di sotto del tasso di crescita non può mai essere semplicemente un evento spontaneo e di mercato, non può esserlo nemmeno in situazioni di “stagnazione secolare”. Un tasso d’interesse inferiore alla crescita economica può essere allora solo il risultato di un deliberato atto politico.

Più precisamente, per tenere i tassi d’interesse sotto la crescita, sono necessarie precise decisioni di politica economica. In primo luogo è necessaria una politica monetaria che non sia vincolata alle “regole” anti-inflazionistiche che hanno imperversato in questi anni, come ad esempio la Taylor rule e le sue numerose varianti. I dati indicano che tali regole non sembrano in grado di stabilizzare il ciclo e l’inflazione. Piuttosto, esse rischiano di determinare tassi d’interesse relativamente alti, potenzialmente distruttivi per le condizioni di solvibilità del sistema economico e in ultima istanza capaci di accelerare quella che Marx definiva la tendenza verso la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani (Brancaccio e Fontana, 2016). Inoltre, per tenere il tasso d’interesse sotto il tasso di crescita, è necessaria una politica di controllo dei movimenti di capitale, che consenta di ridurre il tasso d’interesse senza rischiare fughe di capitali all’estero. Ma soprattutto, per tenere il tasso d’interesse sotto il tasso di crescita, è necessaria una politica che contrasti la deflazione dei salari e dei prezzi, ossia occorre una politica che impedisca ai salari e ai prezzi di cadere. La deflazione dei salari e dei prezzi va scongiurata, perché accresce i tassi d’interesse reali, che sono i tassi al netto dell’inflazione, e più in generale accresce il valore reale dei rimborsi, e quindi rischia di rendere insostenibile il peso dei debiti.

Quello della deflazione dei salari e dei prezzi è un punto delicato, perché su questa materia Blanchard ha espresso varie posizioni, ha valutato caso per caso. In particolare, riguardo alla crisi dell’Eurozona, quando ha considerato i casi della Grecia e dei paesi del Sud Europa, Blanchard ha più volte supportato una politica di deflazione dei salari, nella speranza di veder crescere la competitività a livelli tali da stimolare le esportazioni, ridurre le importazioni e riassorbire così i pesanti deficit commerciali verso l’estero che erano stati accumulati da questi paesi (Blanchard, 2012; Blanchard e Summers, 2019).

Ebbene, su questo punto devo dire che il mio dissenso è profondo. In primo luogo, credo che prima di discutere su come rimediare a tali squilibri commerciali, bisognerebbe prioritariamente interrogarsi sulle ragioni per cui si sono formati. In particolare, bisognerebbe studiare a fondo le ragioni per cui il mercato finanziario ha lungamente alimentato gli squilibri dentro l’Eurozona, per poi farci scoprire all’improvviso che erano insostenibili: grandi flussi di finanziamento, che per anni hanno permesso a tanti paesi di importare più di quanto esportassero, improvvisamente hanno fatto marcia indietro, un giro di giostra pazzesco che ha minato la stabilità dell’euro molto più degli squilibri nei conti pubblici. Io ricordo che assieme a Francesco Giavazzi, Blanchard è stato per lungo tempo sostanzialmente ottimista sulla possibilità che il mercato stesse operando correttamente, ossia che gli squilibri verso l’estero dei paesi del Sud Europa potessero essere ripianati, secondo un ottimo intertemporale, grazie a incrementi della produttività e della produzione (Blanchard e Giavazzi, 2002). In seguito si è visto chiaramente che quegli squilibri erano insostenibili e anch’essi hanno cambiato idea. Questo cambiamento di prospettiva è positivo. Resta però un problema in sospeso, per tutti noi: un mercato finanziario che foraggia squilibri che poi si rivelano del tutto insostenibili, è un mercato intrinsecamente inefficiente e può essere fonte di gravi tensioni nelle relazioni internazionali. Questo problema, che tocca un nodo centrale del capitalismo del nostro tempo, praticamente non è stato affrontato. È una minaccia del tutto irrisolta, che potrebbe da un momento all’altro ripresentarsi.

In secondo luogo, passando dalle cause ai rimedi, a differenza di Blanchard, la mia opinione è che la deflazione dei salari non sia mai una valida soluzione. Anche quando ci si trovi dinanzi a importanti squilibri verso l’estero, la politica di deflazione dei salari e dei prezzi andrebbe comunque evitata e bisognerebbe cercare altre strade.

A Milano, su questo punto, Olivier si è dichiarato “al cento per cento d’accordo” con me (si veda il suo intervento in Blanchard e Brancaccio, 2019a). Egli ha ricordato che l’ostinazione con cui la Germania tiene l’inflazione interna a livelli relativamente bassi costituisce un grave ostacolo al riequilibrio interno dell’Unione. Con la sua politica di contenimento dell’inflazione la Germania ha contribuito ad alimentare una pericolosa tendenza alla deflazione in molti altri paesi europei. Il fatto cioè che proprio il paese più forte dell’Unione abbia giocato al ribasso, in termini relativi, sui salari e sui prezzi, ha costretto ad attivare processi distruttivi di competizione al ribasso in gran parte dell’Europa. In questo senso egli ha suggerito, per l’Unione monetaria europea, una soluzione coordinata di livello sovranazionale in grado di scongiurare i rischi di deflazione. Ha sostenuto che la Germania dovrebbe finalmente accettare un’inflazione interna dei salari e dei prezzi più alta di quella attuale. Si tratta, per l’appunto, di una soluzione coordinata di tipo sovranazionale, in cui il paese più forte agirebbe in linea con l’interesse complessivo dell’Unione a scongiurare la deflazione.

Il problema è che questo tipo di soluzioni coordinate della crisi dell’integrazione europea non sembra oggi trovare condizioni politiche favorevoli (cfr. anche Rodrik, 2011). Su tale difficoltà, mi sia permesso di riportare una piccola testimonianza personale, relativa a un’esperienza che è stata per me molto istruttiva. Era il 2012, un momento in cui i partiti del socialismo europeo nutrivano forti aspettative di successo politico in Francia, in Germania e in Italia. In occasione della candidatura di Franҫois Hollande alla presidenza della repubblica francese, la Foundation for European Progressive Studies, emanazione del Partito Socialista Europeo, organizzò a Parigi, presso l’Assemblea nazionale, una conferenza finalizzata a elaborare un manifesto comune dei socialisti per la riforma in senso progressista della politica economica dell’Unione europea. Gli ex primi ministri francese e italiano, Laurent Fabius e Massimo D’Alema, invitarono anche me a partecipare a questa conferenza. Mi venne chiesto di presentare una proposta che avevo avanzato alcuni mesi prima e che in Italia era stata già inserita nei programmi politici del Partito democratico e di altre forze. A questa proposta avevo dato il nome di “standard retributivo europeo”. In poche parole, essa consisteva nell’adozione di sanzioni nei confronti di quei paesi dell’Unione che, pur trovandosi in sistematico surplus commerciale verso l’estero, pretendevano di insistere con una politica di competizione relativa al ribasso dei salari e dei prezzi. In sostanza, lo “standard retributivo” non era altro che un meccanismo di coordinamento sovranazionale della contrattazione salariale per impedire che la Germania, il paese più forte dell’Unione, trascinasse tutti gli altri nella deflazione (Brancaccio, 2012). In quella sede la proposta raccolse consensi da parte dei rappresentanti di vari paesi: francesi, spagnoli, portoghesi, greci, e molti altri. A un certo punto, però, in questa armonia generale si levò la voce dei due rappresentanti tedeschi, del sindacato e della socialdemocrazia. Essi in buona sostanza affermarono: “Abbiamo apprezzato il suggerimento del professor Brancaccio. Il problema, però, è che Brancaccio non ha capito il funzionamento dell’Unione europea. L’Unione non è stata costruita su basi solidaristiche e di coordinamento, ma è stata costruita su basi competitive, e così è destinata a restare”. Uno di essi poi aggiunse di essere in disaccordo anche con la più modesta proposta francese di istituire un salario minimo europeo. Dopo quegli interventi il clima della discussione cambiò in modo significativo. Alla fine di quella conferenza non uscì nessun manifesto comune. Non credo di esagerare affermando che quella per me quella fu una piccola lezione di vita. In quel momento mi resi conto che se persino gli eredi più o meno degni e diretti della tradizione del movimento operaio esaltavano le virtù della competizione salariale europea, molto difficilmente sarebbero emerse delle soluzioni sovranazionali per fronteggiare la crisi dell’Unione. Questo scenario non lascia presagire nulla di buono per le prospettive dell’integrazione europea. Vorrei essere chiaro su questo punto: se noi pensiamo che l’Eurozona dovrà affidarsi anche in futuro alla deflazione per cercare di rimediare ai suoi squilibri interni e sopravvivere, ebbene io non soltanto sospetto che non sopravvivrà, ma non credo nemmeno sia opportuno sperare che sopravviva. Perché insisto così tanto su questo aspetto: il motivo è che la storia ci insegna che il rimedio basato sulla deflazione dei salari è un rimedio pericoloso, che può avere ripercussioni violente sulla struttura economica come sugli assetti sociali e politici. Qualcuno ha sostenuto che proprio la deflazione fu una delle cause scatenanti dell’ascesa del nazismo. Ecco, la storia non si ripete, ma in quest’epoca di spaventose rimozioni collettive può essere utile ricordarla. In fondo proprio la memoria della deflazione come propulsore dell’ascesa di Hitler è stato uno dei motivi che ispirarono il “monito degli economisti” che pubblicammo con Dani Rodrik e molti altri sul Financial Times, qualche anno fa, e che consideriamo ancora attuale (Brancaccio et al., 2013). Dunque, io dico: bisogna evitare la deflazione, sempre e in ogni caso. Del resto, se ci pensiamo, escludere la deflazione dalla cassetta degli attrezzi degli economisti è stato esattamente uno degli insegnamenti di fondo della principale “rivoluzione” della politica economica che si sia mai realizzata in regime capitalistico: la “rivoluzione” che porta il nome di Keynes.

Proprio su Keynes, permettetemi un cenno ulteriore. Quando Blanchard e Summers evocano la possibilità di una “rivoluzione” della politica economica, in termini più o meno evidenti la loro fonte di ispirazione è Keynes. A tale riguardo, la domanda che un po’ mi assilla, e che vorrei condividere con tutti voi, è questa: una “rivoluzione” della politica economica che in un modo o nell’altro si richiami a Keynes, è oggi realizzabile? Blanchard e Summers precisano che a loro avviso sarebbe un bene che tale “rivoluzione” avvenisse, ma poi aggiungono che essi non sono affatto certi che avverrà. Io temo che il loro dubbio sia fondato. Noi conosciamo Keynes come intellettuale progressista, uomo di Bloomsbury, fautore delle libertà civili e nemico dei rentiers. Ma tutte queste caratteristiche, a mio avviso, risultano dal fatto che Keynes fu figlio di un’epoca straordinaria, segnata da un grande conflitto di sistema fra capitalismo e socialismo. L’intelletto di Keynes venne chiaramente forgiato dall’antagonismo tra quei due grandi sistemi di vita sociale, le sue idee furono modellate su quella storica contesa, e il suo successo dipese dal fatto che egli tentò in un certo senso di incarnare una possibile sintesi dialettica di quella controversia. Non tutti i biografi rimarcano questo aspetto, eppure secondo me risulta decisivo e solleva delle domande importanti per l’oggi, per il tempo presente.

Perché vedete, noi siamo stati abituati a liquidare l’esperimento del socialismo realizzato come un disastro. Ovviamente ci sono diverse ragioni per questo giudizio: sappiamo che si è trattato di un esperimento colossale che, certo, ha accelerato la transizione di molti paesi da uno stadio di sviluppo poco più che medievale a uno stadio di industrializzazione moderna e di effettivo avanzamento civile, ma sappiamo pure che il socialismo realizzato è stato un laboratorio politico carico di errori e macchiato da orrori. D’altro canto, pure una totale rimozione del socialismo dal discorso politico può dar luogo a conseguenze indesiderate. Potremmo dire che quando la minaccia del “grande altro” socialista viene a mancare, diventa inevitabile chiedersi se in un tale, spaventoso vuoto dialettico possano mai realmente crearsi le condizioni politiche per una sintesi keynesiana. Ebbene, io temo di no. Temo, cioè, che la sintesi keynesiana del Novecento sia stata in ultima istanza una risultante diretta della minaccia socialista. Io temo che senza il pungolo del pericolo socialista, sia oggi davvero molto difficile che una sintesi keynesiana possa venire alla luce. Comunque la pensiamo, credo che questo sia un problema aperto per chiunque oggi tenti di rievocare Keynes. Credo quindi sia un problema aperto per molti di noi, e anche per Olivier Blanchard.

A tale riguardo, Olivier nel nostro dibattito di Milano sembra aver preso posizione su un punto fondamentale, indicando che non c’è alternativa al capitalismo (Blanchard e Brancaccio, 2019a). La sua proposta verte sulla ricerca di un giusto mix tra intervento statale e meccanismi spontanei del mercato, ma in un quadro generale di tipo essenzialmente capitalistico. Olivier accenna a una tesi che è tipica delle tradizioni di pensiero che escludono opzioni altre rispetto al mercato capitalistico. Egli infatti afferma che in un mondo così complesso, popolato da miliardi di individui, solo il libero mercato in ultima istanza può regolare, disciplinare e orientare i processi e le decisioni. È una tesi forte, che come è noto gode oggi di molto consenso. Eppure, a ben guardare, le evidenze scientifiche a favore di questa presa di posizione non sono chiarissime. La letteratura accademica sui sistemi economici comparati non ha fatto registrare grandi avanzamenti, negli ultimi anni. Non solo in ambito mainstream, ma anche nel campo degli approcci alternativi, non si avverte un grande interesse verso l’approfondimento di tale fondamentale questione. Tuttavia, anche senza espliciti riferimenti alla comparazione tra sistemi economici alternativi, c’è un dato che mi pare oggi sia largamente condiviso tra gli economisti delle diverse scuole di pensiero. Come del resto lo stesso Blanchard ha riconosciuto, il livello di instabilità dei meccanismi spontanei del mercato si è rivelato molto maggiore di quanto si immaginasse qualche anno fa. Su questo, l’accordo tra gli studiosi mi sembra oggi piuttosto ampio. Oltretutto, l’instabilità delle libere forze del mercato è risultata di tale portata da travalicare i confini stessi dell’economia, nel senso che sta generando importanti ripercussioni sugli stessi assetti sociali e politici. Questo è un punto di grande rilevanza, perché chiarisce che l’attuale sistema non solo è economicamente più instabile ma è anche politicamente più distruttivo di quanto si prevedesse qualche tempo fa.

Blanchard ha accennato ai sommovimenti sociali e politici che stanno attraversando la Francia e altri paesi. Egli ha richiamato l’attenzione sulle proteste in atto, e ha sottolineato che i manifestanti oggi rivendicano cose che sono al di là delle possibilità concrete della politica economica, dati i vincoli di sistema esistenti. Per esempio, Blanchard ha fatto notare che se un singolo paese aumenta la tassazione sui profitti delle società, accade poi che i capitali fuggono all’estero. Egli evoca la possibilità di un accordo internazionale per la tassazione delle società. In alternativa si potrebbero anche adottare controlli sui movimenti internazionali di capitale, che per altre ragioni egli stesso talvolta ha evocato. Tuttavia, non mi sembra che questo genere di provvedimenti sia all’ordine del giorno delle agende politiche. La conseguenza è che la tassazione delle società è vincolata dal rischio che i capitali e le aziende si spostino altrove. Ebbene, in questo scenario di rivendicazioni da un lato e di vincoli di sistema dall’altro, si fa concreta la minaccia che per tenere insieme le cose, per accettare l’instabilità economica ma reprimere l’instabilità sociale e politica, si finisca a un certo punto per ridurre i diritti: non solo i diritti sociali, che sono stati già fortemente ridimensionati, ma anche i diritti civili e politici. Per difendere il sistema dalla sua stessa instabilità, potrebbe cioè diventare necessario sacrificare qualcos’altro: vale a dire la democrazia, con le sue istituzioni e i suoi processi. Io credo che questa sia già una tendenza di questo tempo, che potrebbe tuttavia intensificarsi. Esistono evidenze di un fenomeno generale di centralizzazione dei capitali in sempre meno mani: a quanto pare, su questo punto Marx aveva avuto una giusta intuizione (Brancaccio et al., 2018b). Ma la tendenza del capitale a centralizzarsi costituisce una minaccia per la tenuta delle istituzioni democratiche. Il motivo di fondo è che quando il potere economico si concentra, prima o poi anche il potere politico e le relative istituzioni che lo sorreggono dovranno tendere verso la concentrazione. La centralizzazione dei capitali, dunque, può essere intesa come una delle forze economiche sottostanti le crisi sociali e politiche di questo tempo.

È questa una delle ragioni per cui tali crisi non possono esser liquidate quali meri fenomeni transitori. Il fatto stesso che l’ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale abbia concluso il suo intervento a Milano evocando il pericolo di “future catastrofi” e sostenendo che urge trovare i modi per scongiurarle, mi sembra un’autorevole testimonianza delle tremende contraddizioni del nostro tempo.


* Contributo al numero speciale di Moneta e Credito dal titolo “Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio”, ispirato dal dibattito tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio tenutosi presso la Fondazione Feltrinelli a Milano il 18 dicembre 2018. Numero a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro. Questo articolo rappresenta uno sviluppo del mio intervento al dibattito con Olivier Blanchard tenutosi nel dicembre 2018 presso la Fondazione Feltrinelli a Milano (pubblicato in Blanchard e Brancaccio, 2019a; 2019b). Ringrazio tutti i partecipanti a questo numero di Moneta e Credito, nonché Massimo Amato, Enrico Bellino, Sergio Beraldo, Andrea Califano, Roberto Cellini, Sergio Cesaratto, Enrico Colombatto, Lilia Costabile, Antonio Maria Fusco, Carlo D’Ippoliti, Marcello Messori, Gary Mongiovi, Marco Musella, Paolo Pini, Fabio Ranchetti, Francesco Saraceno, Anna Soci, Roberto Scazzieri, Robert Skidelsky, Gennaro Zezza e due anonimi referees per i commenti a versioni preliminari di questa relazione o per contributi su articoli e saggi precedenti dedicati all’argomento. Ogni responsabilità per quanto qui riportato è esclusivamente a carico dell’autore.

Bibliografia
Blanchard O. (2006), “European Unemployment: The Evolution of Facts and Ideas”, Economic Policy, 21 (45), pp. 6- 59.
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Roberto
Sunday, 22 September 2019 12:22
Sempre grande e lucido il prof. Brancaccio
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Vincesko
Friday, 13 September 2019 17:45
Molto interessante e condivisibile e uno stimolo alla rinascita di un'idea e una politica autenticamente socialista, ispirata al motto pertiniano: LIBERTA' E GIUSTIZIA SOCIALE.
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