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moneta e credito

Blanchard e Summers: rivoluzione o conservazione?

di Roberto Ciccone e Antonella Stirati*

Abstract. E’ a nostro avviso positivo che autori come Blanchard e Summers giudichino necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e mentre rispetto all’alternativa tra “evoluzione” e “rivoluzione” da essi prospettata opteremmo certamente per la seconda, riteniamo che il rinnovamento richiesto sia di grado ancora superiore a quanto gli autori contemplino. Forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, spingono ad abbandonare definitivamente l’idea, propria dell’analisi tradizionale, secondo cui in un’economia di mercato esisterebbero forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini al “prodotto potenziale”, con le conseguenti implicazioni per la politica economica, e in particolare fiscale

Macero paesaggio olio su compensato 1. Introduzione: un’alternativa all’analisi economica dominante

Chi scrive non può che dare il benvenuto al fatto che un autore come Blanchard si presti a un confronto aperto con approcci teorici alternativi, come è avvenuto nel dibattito di Milano con Brancaccio (Blanchard e Brancaccio, 2019). Così come vediamo con favore che Blanchard e Summers (d’ora in avanti B&S), nel saggio da noi assunto a premessa e traccia per questa discussione (B&S, 2017),1 ritengano necessario un cambiamento nell’analisi del funzionamento dei sistemi economici, e cioè in quella cui i due autori ripetutamente si riferiscono come ‘macroeconomia’ – sebbene, incidentalmente, sarebbe forse più appropriato dire che il cambiamento invocato debba riguardare la teoria economica tout court, essendo questa, in ogni suo aspetto, ad avere per oggetto il modo di operare di un’economia capitalistica. E di fronte al tipo di alternativa che B&S prospettano per quel cambiamento, “evoluzione” o “rivoluzione”, opteremmo certamente per la seconda. Ma a nostro avviso il cambiamento richiesto è di grado ancora superiore rispetto a quanto B&S contemplino in entrambe le ipotesi.

Riteniamo che vi siano forti ragioni teoriche, oltre che empiriche, che spingono ad abbandonare l’idea, attualmente prevalente, secondo cui in un’economia di mercato, o capitalistica, esistono forze in grado di mantenere i livelli di attività vicini a quello che viene spesso definito il suo “prodotto potenziale” – vale a dire il prodotto corrispondente alla piena occupazione delle risorse disponibili, o, con riferimento al lavoro, alla variante apparentemente più concreta del tasso “naturale” o “non inflazionistico” di disoccupazione.

A livello di teoria pura, quella visione discende dall’equilibrio generale neoclassico, nel quale, posta la flessibilità di prezzi e salari, forze di domanda e di offerta dei ‘fattori di produzione’ tendono a produrre sistemi di quantità e prezzi in grado di eguagliare impiego e disponibilità di risorse. Il sistema di relazioni che contraddistingue quella impostazione teorica determina quindi al tempo stesso sia le remunerazioni dei ‘fattori’, vale a dire salari reali e tassi di interesse, sia livello e composizione dell’output. La domanda aggregata risulta pertanto ‘passiva’ rispetto alle condizioni di offerta dettate dalle quantità di risorse disponibili, in quanto i meccanismi di prezzo ne adeguerebbero il livello a quello del prodotto potenziale.

In quella struttura teorica è quindi escluso che i livelli di produzione e di occupazione possano essere sistematicamente limitati da insufficienze di domanda, l’eventuale verificarsi delle quali è circoscritto alle fasi basse delle fluttuazioni cicliche, ossia a circostanze di breve periodo, oppure a specifiche situazioni di rigidità dei prezzi. Sono evidenti le implicazioni cruciali della visione ora delineata per le politiche economiche: tipicamente, in questa epoca storica, e in particolare in Europa, con riguardo alla politica fiscale, con la spesa pubblica generalmente considerata incapace di esercitare un’influenza persistente sul prodotto, il cui livello di lungo periodo viene fatto coincidere con il suo “potenziale”, interamente regolato da fattori di offerta.

Come si è osservato, nel sistema teorico neoclassico lo stesso insieme di relazioni determina distribuzione del reddito, salario reale e tasso di rendimento del capitale – e livelli di attività. Una diversa ‘macroeconomia’, intendendo con questo una impostazione analitica compatibile con la possibilità che in generale, e indipendentemente da rigidità di prezzi e salari, i livelli di produzione siano limitati dalla domanda, deve allora necessariamente associarsi ad una spiegazione della distribuzione alternativa a quella neoclassica.

La critica della teoria neoclassica relativa alla nozione e al ruolo analitico del capitale, e la moderna ripresa dell’approccio classico alla teoria della distribuzione – spesso sviluppate a partire dai fecondi contributi iniziali di Piero Sraffa (1951; 1960) – costituiscono a nostro avviso elementi fondamentali per una vera “rivoluzione” nell’analisi economica.

Sul piano della critica, la dimostrata possibilità di fenomeni quali il “ritorno delle tecniche” e l’“approfondimento inverso del capitale” (Pasinetti, 1966; Garegnani, 1975) contraddice un precetto fondamentale della teoria, il “principio di sostituzione” dei fattori della produzione. E con il principio di sostituzione viene meno il fondamento analitico generale delle funzioni decrescenti di domanda di fattori, cruciali per la spiegazione neoclassica della distribuzione. Ma appunto a causa della ineliminabile connessione tra quella spiegazione della distribuzione e la associata determinazione del livello del prodotto totale, la critica della teoria neoclassica della distribuzione è al tempo stesso una critica della determinazione neoclassica dei livelli di attività.

Tale duplice aspetto della critica si manifesta efficacemente nei confronti di una relazione tra le più generalmente adottate proprio nella macroeconomia: la funzione degli investimenti, inversa rispetto al tasso dell’interesse. Nella logica della teoria quella funzione altro non è che la proiezione in termini di flussi della domanda di capitale come stock: la mancanza di basi analitiche per quest’ultima funzione di domanda (come, analogamente, per una funzione di domanda di lavoro inversa rispetto al saggio del salario) si estende di conseguenza alla funzione di domanda di investimenti. Sul piano della distribuzione risulta allora compromessa la tradizionale spiegazione del saggio dell’interesse in termini di equilibrio di offerta di risparmi e domanda di investimenti; corrispondentemente, sul piano del prodotto totale non è legittimo presumere che le variazioni del saggio dell’interesse siano in grado di adeguare gli investimenti ai risparmi generati dal reddito di pieno impiego – ovvero, siano in grado di adeguare la domanda aggregata al prodotto potenziale.2

Nell’aspetto costruttivo della ‘rivoluzione’ entra in primo luogo la ripresa e lo sviluppo dell’approccio classico alla distribuzione, chiarito nei suoi elementi fondamentali e nella sua radicale diversità analitica dalla teoria marginalista, o neoclassica (Garegnani, 1984). In tale approccio la spiegazione della distribuzione del prodotto si basa sulle circostanze storico- sociali proprie dell’economia considerata, circostanze che secondo gli economisti classici costituivano le determinanti dei salari reali. Una caratteristica cruciale della spiegazione classica della distribuzione è che, a differenza dell’equilibrio neoclassico di domanda e offerta, essa è compatibile con presenza di disoccupazione di lavoro non meramente temporanea, essendo anzi la “normalità” della disoccupazione una delle condizioni rilevanti per la posizione contrattuale dei lavoratori, e quindi per gli assetti sociali che influiscono sui livelli salariali (Stirati, 1992; Levrero, 2018).

Nella impostazione classica le relazioni tra distribuzione e sistema dei prezzi non hanno implicazioni univoche per i livelli di produzione, e tanto meno sono tali da garantire la tendenza alla piena occupazione delle risorse. L’autonomia della domanda rispetto alla produzione potenziale può essere perciò coerentemente considerata come una caratteristica generale di un’economia capitalistica, indipendente dalla maggiore o minore flessibilità del sistema dei prezzi, e presente sia nel breve che nel lungo periodo. La ‘rivoluzione’ che proponiamo consiste allora nell’adottare un contesto analitico in cui la determinazione classica della distribuzione si combina con il principio keynesiano della domanda effettiva, con reciproco vantaggio sia in solidità teorica che in generalità – il superamento, da un lato, della primitiva Legge di Say e, dall’altro, il supporto più ampio e robusto per il ruolo della domanda rispetto a quello sul quale Keynes aveva tentato di stabilirlo, posta l’assenza, al tempo, di una visibile alternativa alla teoria dominante della distribuzione (Garegnani, 1978-1979).

 

2. Blanchard e Summers: cambiamento o conservazione?

Le prese di distanza dall’analisi mainstream che troviamo nel saggio di B&S (2017), come anche nell’intervento di Blanchard durante il dibattito con Brancaccio (in Blanchard e Brancaccio, 2019), pur in alcuni casi condivisibili, non sembrano tuttavia inscriversi in un disegno complessivo che si muova nella direzione di una visione alternativa. E ciò in quanto le obiezioni che essi formulano non sono mai indirizzate alle fondamenta dell’impostazione dominante, la fiducia nelle quali appare talvolta essere ribadita anche piuttosto esplicitamente.

Così, da un lato, secondo B&S l’inflessibilità dei salari nominali verso il basso avrebbe “fortemente limitato il consueto processo di adeguamento dei salari e dei prezzi all’elevata disoccupazione” (B&S, 2017, p. 16, traduzione nostra). Per un altro verso, prospettando nella diminuzione del saggio di rendimento del capitale una possibile spiegazione per il livello storicamente basso dei tassi di interesse, B&S rivolgono l’attenzione aiminazione neoclassica del saggio di remunerazione del capitale, cui viene qui fatto riferimento in termini di equilibrio dei flussi di risparmi e investimenti, riappare quando, menzionando la tesi della “stagnazione secolare”, B&S ipotizzano che il basso saggio di rendimento del capitale, identificato con il ‘prodotto marginale del capitale’,3rifletta “un eccesso di accumulazione a livello globale” (ibid., p. 29, trad. nostra) – di nuovo, dunque, l’equilibrio di domanda e offerta di capitale, quest’ultimo considerato ora nella dimensione di stock. Si può rilevare, peraltro, una possibile incoerenza analitica interna alla visione neoclassica tra l’ipotizzata caduta del saggio di rendimento di equilibrio del capitale e l’idea di B&S, menzionata poco sopra, che la rigidità verso il basso dei salari monetari non consenta l’appropriato processo di aggiustamento di salari e prezzi – con riduzione del salario reale presumibilmente sottintesa – in risposta alla elevata disoccupazione. Al diminuire della remunerazione del capitale per effetto dell’ipotizzato aumento della disponibilità relativa di capitale corrisponderebbe, nel sistema teorico neoclassico, un’aumentata scarsità relativa di lavoro, e il conseguente aumento del salario reale di equilibrio: appare pertanto contraddittorio vedere al tempo stesso nella resistenza dei salari a diminuire un ostacolo a quelle che sarebbero altrimenti le spontanee variazioni del sistema dei prezzi.

 

3. La questione dell’isteresi: esiste un prodotto potenziale indipendente dalla domanda aggregata?

Un punto molto interessante che emerge periodicamente, sulla scia della forza dei fatti, nel dibattito mainstream e anche nel contributo di B&S di cui qui discutiamo, è a nostro parere rivelatore delle difficoltà dell’approccio dominante e dei suoi limiti. Si tratta della questione della isteresi, e cioè degli effetti persistenti (o permanenti) che variazioni della domanda aggregata possono avere non solo sul prodotto effettivo ma sullo stesso prodotto potenziale, e sul corrispondente tasso di disoccupazione di equilibrio (NAIRU, Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment).

Come già detto, la visione prevalente in macroeconomia è che variazioni della domanda aggregata generino esclusivamente fluttuazioni di breve periodo intorno al prodotto potenziale, visto come determinato da fattori da offerta (popolazione, tecnologia) e, nei modelli ‘neo-keynesiani’, da elementi istituzionali che causano rigidità di prezzi e salari. Il prodotto potenziale sarebbe dunque, da un punto di vista teorico, indipendente dalla domanda aggregata, e sul suo andamento nel tempo influirebbero appunto esclusivamente fattori di offerta tecnologici, demografici e istituzionali. Questa è ad esempio la base teorica della indicazione, da parte delle istituzioni europee e internazionali, che la crescita può essere perseguita solo mediante ‘riforme strutturali’, e in primis la rimozione degli ostacoli alla flessibilità di prezzi e salari.

Nel saggio pubblicato in questo numero, così come anche altrove (cfr. Blanchard et al., 2015) B&S esprimono talvolta dubbi circa la piena validità di questa visione. In particolare, alla luce dei cambiamenti duraturi nella traiettoria del PIL dopo la crisi del 2008 in vari paesi, i due autori si chiedono se ciò possa essere spiegato da una marcata lentezza nell’aggiustamento del prodotto effettivo a quello potenziale (con quest’ultimo indipendente dalla recessione stessa), oppure se ‘shock’ di domanda aggregata, in particolare associati a crisi finanziarie, possano modificare persistentemente lo stesso prodotto potenziale e il corrispondente tasso di disoccupazione di equilibrio (NAIRU) – come del resto indicherebbero le stime di quelle grandezze elaborate dalle istituzioni internazionali dopo la crisi (cfr. Ball, 2014).

Al di là delle obiezioni che possono formularsi nei confronti della definizione di prodotto potenziale generalmente adottata e dei metodi adottati per stimarlo,4la possibilità che esso sia influenzato dalla domanda aggregata, e di conseguenza non dipenda unicamente da fattori di offerta, è evidentemente questione centrale, sulla quale, come accennato, la forza della realtà sta stimolando la discussione anche nella macroeconomia tradizionale. A nostro parere le interpretazioni fornite all’interno di quel contesto teorico sono tuttavia spesso poco soddisfacenti sul piano analitico e scarsamente coerenti coi fatti. Per contro, l’impostazione alternativa precedentemente delineata è in grado di offrire una spiegazione immediata e diretta della persistenza degli effetti della domanda aggregata, con rilevanti conseguenze per la politica economica – delle quali si dirà meglio nella sezione seguente.

Come precedentemente osservato, nelle analisi mainstream l’aggiustamento della domanda aggregata verso un prodotto potenziale indipendentemente determinato si basa in modo cruciale sulla sensibilità della domanda aggregata stessa, e in particolare degli investimenti, al tasso di interesse. I modelli macroeconomici generalmente utilizzati determinano le necessarie variazioni del tasso di interesse mediante meccanismi endogeni di variazione del livello dei prezzi e dei saldi monetari reali (come nel modello ‘IS-LM’), oppure attraverso la risposta della Banca Centrale che reagisce a deviazioni dell’inflazione e/o del PIL dai valori di equilibrio (regola di Taylor, modelli a tre equazioni). Poiché tale meccanismo di aggiustamento mediante l’influenza del tasso di interesse sulla domanda aggregata non viene messo in discussione quando si cerca di spiegare l’isteresi, quest’ultima è generalmente ricondotta o a rigidità/vischiosità di salari nominali e prezzi, incluso lo zero lower bound del tasso di interesse, che ne impedirebbero il funzionamento (cfr. B&S, 2017, pp. 16 e 19), oppure a rigidità dei salari reali determinate dalla interazione tra ‘shock’ e istituzioni come nei modelli ‘insider-outsider’ (B&S, 1986). Quest’ultima interpretazione, molto popolare anche in Italia negli anni 1990 e primi anni 2000, non ha però trovato conferme empiriche, data la apparente assenza di relazione tra istituzioni del mercato del lavoro e andamenti occupazionali (cfr. Brancaccio et al., 2018) – tanto che gli stessi Blanchard e Summers appaiono oggi scarsamente inclini a riproporla (Blanchard et al., 2015, p. 12).

A nostro parere un primo limite delle spiegazioni mainstream dell’isteresi è quindi che da ultimo questa sarebbe comunque determinata dall’innescarsi di ‘rigidità’ che ostacolano il processo di aggiustamento verso l’equilibrio preesistente. Altri limiti sono costituiti dal fatto che essa viene talvolta associata a circostanze particolari, quali la natura finanziaria delle crisi.

Il fenomeno, inoltre, è per lo più ricondotto a episodi di recessione, e solo eccezionalmente si contempla la possibilità che aumenti di domanda abbiano effetti espansivi persistenti.

L’evidenza empirica, prodotta anche da studiosi di impostazione mainstream nonché dagli stessi B&S in alcuni loro lavori, suggerisce tuttavia che gli effetti persistenti di variazioni di domanda aggregata siano una circostanza piuttosto generale, e quindi non strettamente associata alla natura finanziaria delle crisi o alla sussistenza di un limite inferiore alla discesa dei tassi di interesse (cfr. ad es. Blanchard et al., 2015; Fatás e Summers, 2016; Blanchard, 2018). Risultati in tale direzione emergono anche dalla letteratura empirica legata ai modelli di ‘ciclo economico reale’, che ha variamente mostrato come le fluttuazioni del PIL siano associate a cambiamenti quantomeno molto persistenti, se non permanenti, dei sentieri di crescita – per cui il trend non sarebbe indipendente dal ciclo (ci si riferisce qui al dibattito sulle ‘radici unitarie’ del PIL). Ciò è stato interpretato come evidenza che ciclo e trend trovano origine negli stessi fenomeni, e quindi, secondo la letteratura del ciclo economico reale, in fattori ‘di offerta’ per lo più tecnologici. Come è già stato fatto notare da Fatás e Summers (2016), la relazione così osservata potrebbe invece essere letta come evidenza che la causa comune di trend e ciclo stia piuttosto nei livelli e nelle variazioni della domanda aggregata. Da notare, infine, la presenza di lavori che hanno messo in luce gli effetti persistenti di espansioni della domanda sul prodotto e su altre grandezze macroeconomiche (Ball, 2009; 2014; Girardi et al., 2018).

Come già accennato, ed evidenziato anche da Emiliano Brancaccio nel suo Anti-Blanchard (2017, pp. 44 e ss.; cfr. anche Brancaccio e Califano, 2018), la persistenza di livelli di domanda insufficienti ad assorbire il prodotto potenziale scaturisce in via pressoché immediata non appena si metta in discussione la sistematica dipendenza della domanda aggregata, e in particolare degli investimenti, dal tasso di interesse – vale a dire la generale esistenza di quei meccanismi di aggiustamento della domanda aggregata al prodotto potenziale (determinato da fattori di offerta) che giocano un ruolo fondamentale nella teoria dominante. Si è già prima fatto riferimento alla debolezza teorica delle curve di domanda dei fattori produttivi che sottendono la tradizionale supposta dipendenza degli investimenti dal tasso di interesse. D’altro lato, di nuovo la ‘forza dei fatti’ e i risultati di numerosi lavori empirici hanno spesso indotto anche economisti mainstream di primissimo piano a riconoscere che gli investimenti (e di conseguenza la domanda aggregata nel suo complesso) non mostrano grande sensibilità al tasso di interesse, se non nella componente della edilizia residenziale (Blanchard, 1986; Blinder, 1997, tra gli altri). Come ha osservato Krugman, “uno dei piccolo segreti della politica monetaria è che normalmente ha effetto sul mercato immobiliare, con scarso impatto diretto sugli investimenti delle imprese” (Krugman, 2014, trad. nostra, corsivo aggiunto).

Che cosa regoli il livello degli investimenti (privati) è dunque questione assolutamente centrale alla comprensione del ruolo della domanda aggregata nella determinazione del prodotto e dell’occupazione, nonché per l’analisi del processo di crescita. Detta questione dovrebbe pertanto costituire oggetto prioritario di discussione e confronto tra economisti di tutte le tradizioni, con forte attenzione sia al rigore teorico che alle evidenze empiriche.

 

4. La politica economica

Passando a considerare le politiche economiche, e per prima la politica monetaria, si è poco sopra accennato ai dubbi di tanto in tanto sollevati anche da autori appartenenti al mainstream, e dallo stesso Blanchard, sulla capacità del tasso dell’interesse di regolare la domanda aggregata. Nondimeno nel loro saggio B&S continuano in ultima analisi a fare affidamento sulla tradizionale relazione inversa che dovrebbe legare le due variabili. Ciò si può evincere, ad esempio, dal fatto che, con riguardo all’ostacolo per l’efficacia della politica monetaria costituito dal ‘lower bound’ del tasso nominale di interesse, molta della loro discussione ha a che fare con la capacità delle autorità monetarie di generare aspettative di più elevati tassi futuri di inflazione, al fine di determinare una caduta del tasso reale di interesse – essendo implicitamente questo il tasso considerato rilevante nelle decisioni di investimento.

Nella prospettiva teorica alternativa che abbiamo precedentemente configurato, invece, l’assenza di una generale dipendenza degli investimenti dal tasso di interesse sottrae alla politica monetaria il suo principale e tradizionale canale di influenza sui livelli di produzione e occupazione, in particolare ai fini dell’uscita da situazioni di depressione. Ciò non toglie che, come si osserverà tra breve, anche in un contesto analitico diverso da quello tradizionale continuerebbe a esistere un ruolo cruciale che le autorità monetarie sarebbero chiamate a svolgere nell’ambito della politica economica complessiva.

Con riguardo alla politica fiscale, il nostro punto di vista ci fa naturalmente guardare con favore al sostegno che B&S danno ad un uso più ampio e aggressivo di questo tipo di intervento al fine di superare la fase attuale di bassi livelli di attività e di occupazione. L’apprezzamento è accresciuto dal fatto che questa posizione appare maggiormente aperta all’adozione di politiche espansive, in situazioni di effettiva o potenziale recessione quale quella in cui si trova attualmente l’Italia, rispetto a quanto più spesso si ritiene ammissibile per il nostro Paese. Difficile infatti incontrare, con riferimento all’attualità dell’Italia, osservazioni paragonabili a quelle in cui B&S prospettano, in presenza di bassi tassi di interesse, “un’aumentata necessità dell’uso della politica fiscale a fini di stabilizzazione” e, al tempo stesso, “maggiore spazio per utilizzare la politica fiscale a tali scopi”, fino a sostenere che “nella misura in cui l’aumento della produzione effettiva porti ad un incremento della produzione potenziale, è possibile che la spesa pubblica si ripaghi da sola, determinando una diminuzione del rapporto debito/PIL anche nel lungo periodo” (B&S, 2017, p. 32, trad. nostra). Significativa è anche la preoccupazione con cui Blanchard rileva che, successivamente all’espansione fiscale che in molti paesi ha consentito di attenuare gli effetti della crisi, “la maggior parte dei paesi è tornata alla precedente politica fiscale, che era una politica di austerità tesa a diminuire il deficit e a limitare l’aumento del debito” (Blanchard in Blanchard e Brancaccio, 2019, p. 20).

Resta tuttavia che sul piano analitico, e quindi nella visione complessiva di B&S, quelle ‘deviazioni’ rispetto a linee di pensiero più strettamente ortodosse non si accompagnano a un superamento delle posizioni tradizionali. Non senza qualche incoerenza rispetto a quanto essi stessi sostengono circa i possibili effetti persistenti della domanda sui livelli di attività, in vari punti del loro saggio il ruolo attribuito alla politica fiscale appare limitato alla sola funzione anticiclica. La politica fiscale non sarebbe invece in grado di influire positivamente sul trend di lungo periodo del prodotto, e potrebbe anzi esercitare effetti riduttivi su di esso. Così, riferendosi alla spesa pubblica in deficit, e al conseguente aumento del debito pubblico, gli autori affermano che tale misura, pur se espansiva nel breve periodo, “in ultimo porterà a minore accumulazione di capitale” (B&S, 2017, p. 31, trad. nostra). E ancora, essi sostengono che l’opportunità di effettuare investimenti pubblici dovrebbe essere valutata sulla base del confronto “tra il tasso di rendimento degli investimenti pubblici e il costo opportunità dello spiazzamento di consumi e investimenti privati” (ibid., p. 32, trad. nostra, corsivo aggiunto).

Nel sottoscrivere la concezione secondo cui la spesa pubblica (quale ne sia la forma di finanziamento) ‘spiazzerebbe’ componenti di spesa privata, B&S aderiscono al postulato, proprio della impostazione teorica neoclassica, per il quale in virtù del libero funzionamento del sistema dei prezzi il prodotto complessivo oscillerebbe intorno al suo livello potenziale. Come si è già sottolineato, entro un quadro teorico diverso dal mainstream in cui si ammetta che in generale, e in assenza di interventi, un’economia capitalistica è caratterizzata da una sistematica insufficienza di domanda, la spesa del settore pubblico viene invece a costituire una componente aggiuntiva della domanda aggregata, in grado di innalzare permanentemente i livelli di produzione e occupazione. In tale prospettiva non soltanto non esiste necessità di trade-off tra spesa pubblica e spesa privata ma, come viene di seguito illustrato, risultano radicalmente differenti le implicazioni del finanziamento in deficit della spesa pubblica.

Così, se si guarda agli effetti per il settore privato, la spesa pubblica in deficit genera (mediante più elevati livelli di reddito) risparmio privato aggiuntivo, che non si sarebbe altrimenti formato; in altri termini, il volume del risparmio privato si espande fino ad eguagliare la somma di deficit e investimenti privati, le cui rispettive dimensioni non sono perciò messe in concorrenza da alcuna ‘scarsità’ del risparmio stesso. Relazioni dello stesso genere valgono per le corrispondenti grandezze stock: il debito pubblico costituisce ricchezza che il settore privato accumula quale somma dei flussi di risparmio generati dalla sequenza dei deficit pubblici.5I titoli pubblici presenti nei portafogli privati costituiscono quindi una componente della ricchezza privata che si aggiunge, e nulla deve sottrarre, alle altre forme di attività detenute dal settore privato, inclusi gli asset reali (mezzi di produzione, immobili, ecc.).

In questa prospettiva è importante considerare come riduzioni del debito pubblico ottenute mediante avanzi di bilancio si risolvano in un’equivalente riduzione della ricchezza del settore privato nel suo complesso, analogamente all’effetto aggregato che verrebbe prodotto da un mero ripudio del debito da parte del governo emittente. Oltre agli effetti più direttamente restrittivi sui flussi di domanda e produzione, una simile manovra avrebbe dunque un ‘effetto ricchezza’ negativo, che potrebbe ulteriormente influire sui livelli di attività.

Riconoscere l’effetto della politica fiscale sui livelli di domanda, e quindi di produzione, ha conseguenze rilevanti anche con riguardo al rapporto tra debito pubblico e prodotto interno, spesso considerato misura significativa della dimensione del debito stesso e come tale oggetto di prescrizioni indirizzate a singoli paesi anche da parte di istituzioni internazionali. Politiche fiscali restrittive, mirate a ottenere una diminuzione del rapporto, potrebbero tuttavia produrre un risultato opposto qualora l’effetto riduttivo sullo stock del debito sia proporzionalmente minore di quello che subirebbe il prodotto interno – circostanza evidentemente tanto più probabile quanto maggiore sia la dimensione del debito rispetto alla dimensione del prodotto,6e quindi, paradossalmente, proprio quando più forti possono essere le pressioni per politiche ‘di rientro’.

Pur preventivandone un effetto a lungo termine negativo sulla accumulazione di capitale, B&S considerano comunque ammissibile il finanziamento in deficit della spesa pubblica nel caso in cui il tasso di interesse sul debito pubblico si mantenga inferiore al tasso di crescita del prodotto interno, così che il rapporto debito/prodotto non sia destinato a crescere indefinitamente.

A questo riguardo appare certamente condivisibile che un basso tasso d’interesse sul debito pubblico rientri negli interessi generali della politica economica, e della politica tout court. Quella condizione limita infatti la crescita ‘endogena’ del debito, e quindi degli stessi pagamenti per interessi, i quali rappresentano esborsi del Tesoro di natura ‘contrattuale’, e come tali sottratti alla deliberazione politica. Di più, ove emergesse l’opportunità o necessità di ridurre la dimensione del deficit pubblico, la rigidità dei pagamenti per interessi scaricherebbe l’onere dell’aggiustamento fiscale su categorie di spesa con maggiore legittimità politica e sociale, oltre che presumibilmente dotate di più elevati valori dei moltiplicatori. Contribuire al finanziamento del debito pubblico a tassi d’interesse relativamente bassi costituisce appunto quel compito fondamentale nel contesto della politica economica del Paese che, come si è precedentemente accennato, le autorità monetarie sarebbero utilmente chiamate a svolgere. Un compito peraltro a lungo attribuito loro in passato.

Tornando alla questione inizialmente menzionata, il dissenso con B&S sta nel fatto che nel saggio i due autori non sembrano contemplare la possibilità di una decisa influenza della politica economica né sul tasso dell’interesse sul debito pubblico, né sul tasso di crescita del prodotto. Per il tasso sulle attività finanziarie ‘sicure’, B&S offrono due spiegazioni alternative. Nella prima esso è concepito come quota del saggio sul rendimento del capitale al netto della remunerazione del rischio (B&S, 2017, p. 18); in tal caso, dato il compenso per il rischio, esso sarebbe determinato dal saggio di rendimento del capitale (che, come abbiamo già notato, B&S non esitano a individuare nel ‘prodotto marginale del capitale’: ibid., p. 5). Alternativamente, B&S menzionano circostanze che parrebbero influire autonomamente sulla domanda o sull’offerta di attività ‘prive di rischio’ (ibid., p. 18), e quindi sul loro rendimento (incidentalmente, senza notare come la determinazione a quel punto meramente residuale del compenso per il rischio possa svuotare di significato tale quota del rendimento del capitale). Tra quelle circostanze, “la regolamentazione finanziaria” e “più alti coefficienti di liquidità per le banche” sono le sole che paiono poter riflettere una influenza, per quanto indiretta, della politica monetaria.

Per il tasso di crescita del prodotto, B&S non danno esplicite indicazioni circa le sue determinanti, ma questo silenzio, e il complessivo contesto teorico in cui essi si muovono, consentono di presumere che, nonostante i loro contributi sulla possibilità di ‘isteresi’ – cioè di cambiamenti persistenti del prodotto determinati da variazioni della domanda aggregata – dei quali si è discusso nella sezione precedente, in ultima analisi i due autori non si discostino dalla tradizionale concezione neoclassica che vede la crescita regolata dal lato dell’offerta. Se invece si vede nella domanda il propulsore del trend di lungo periodo dei livelli di attività, anche tramite gli effetti indotti sulla accumulazione di capitale,7il tasso di crescita del prodotto diventa una variabile sulla quale la politica fiscale, e in particolare i livelli e i ritmi di aumento della spesa pubblica, possono esercitare una rilevante influenza diretta. Un eventuale obiettivo di eccedenza del tasso di crescita rispetto al tasso di interesse sul debito pubblico potrebbe allora essere perseguito tramite questa via,8oltre che per mezzo dell’accennato controllo del livello del tasso di interesse.

Per concludere, l’insoddisfacente stato dell’analisi economica e l’inefficacia, se non dannosità, delle politiche che ne discendono richiedono, a nostro avviso, un cambiamento di paradigma ben più radicale di quelli contemplati da B&S. Troviamo perciò difficile immaginare una ‘sintesi’ dei due tipi di proposta che possa risultare coerente. Del resto lo stesso Blanchard, nella parte conclusiva del suo intervento al dibattito di Milano con Emiliano Brancaccio, sembra escluderlo, quando afferma: “È utile che ci siano persone che promuovono punti di vista diversi dal mainstream, perché a volte hanno ragione. Allo stesso tempo, però, io credo ancora che la strada cui il mainstream sta guardando sia quella giusta” (Blanchard e Brancaccio, 2019).

A fronte di questo genere di posizioni è da un lato condivisibile l’attenzione che Brancaccio rivolge ai modelli in cui Blanchard sembra invece oggettivamente ‘aprire’ a impostazioni teoriche alternative, assumendo una distribuzione del reddito ‘esogena’, e per di più non univocamente connessa ai livelli di produzione e occupazione (cfr. Brancaccio in Blanchard e Brancaccio, 2019). Al di là dell’interesse che può suscitare in sé, quella ‘contaminazione’ della teoria tradizionale si presta infatti a essere utilizzata quale strumento di confronto, onde rendere più evidente quali caratteristiche e implicazioni della teoria tradizionale si conservano, o invece si perdono, introducendo aspetti estranei ai suoi fondamenti (ibid., p. 12; cfr. anche Brancaccio, 2012).

Tuttavia, come puntualizza anche Brancaccio, va precisato che tali deviazioni di Blanchard dalla struttura analitica ortodossa si presentano come elementi incoerenti con il corpo complessivo e soprattutto con le conclusioni cui quel sistema teorico perviene: la loro introduzione sembra determinata dalla necessità pragmatica di consentire all’analisi di rispondere ad esigenze di interpretazione dei fatti e di politica economica, senza tuttavia mettere pienamente ed esplicitamente in discussione la teoria tradizionale. Tornando alla parte finale del già menzionato intervento di Blanchard, ci sembra significativo che, subito dopo il passo riportato in precedenza, egli aggiunga:

Non penso che ci siano realtà alternative ma che ci sia una realtà sola che va compresa. […] Sono un ingegnere sociale […]. È una macchina complessa quella che sto cercando di capire e mi apro a suggerimenti, ma alla fine quella è la macchina, e sono i suoi meccanismi che dobbiamo comprendere (Blanchard in Blanchard e Brancaccio, 2019, p. 30).

Impostazioni teoriche alternative al mainstream avrebbero dunque ragion d’essere solo in quanto applicate a realtà diverse da quella in cui viviamo – in altri termini, la teoria tradizionale sarebbe la sola legittimata a fornire una rappresentazione corretta della ‘macchina’ che costituisce il nostro sistema economico. Riteniamo invece che quella rappresentazione soffra di profondi limiti, che periodicamente si manifestano nella incapacità di fornire interpretazioni chiare e coerenti dei fatti della realtà economica e degli effetti delle politiche economiche. Sarebbe tempo, a nostro parere, che le numerose e profonde crepe nell’edificio dell’interpretazione tradizionale venissero viste nel loro insieme, portando ad accettare la necessità di una revisione lungo linee alternative e rigorose, a partire dalle sue fondamenta, di quell’impianto di analisi dei fenomeni economici e della politica economica.


Ciccone: Università Roma Tre
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Stirati: Università Roma Tre
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* Contributo al numero speciale di Moneta e Credito dal titolo “Crisi e rivoluzioni della teoria e della politica economica: un simposio”, ispirato dal dibattito tra Olivier Blanchard e Emiliano Brancaccio tenutosi presso la Fondazione Feltrinelli a Milano il 18 dicembre 2018. Numero a cura di Emiliano Brancaccio e Fabiana De Cristofaro. Roberto Ciccone è presidente del Centro di Ricerche e Documentazione “Piero Sraffa”. Antonella Stirati è presidente dell’Associazione Italiana per la Storia dell’Economia Politica – STOREP.

Note
1 Il saggio di Blanchard e Summers pubblicato in questo numero di Moneta e Credito (B&S, 2019) è la traduzione italiana di una versione successiva e parzialmente modificata di B&S (2017). Come detto nel testo, quest’ultima è la versione da noi considerata nella stesura del presente intervento, alla quale si fa pertanto qui riferimento.
2 Cfr Petri (2004, cap. 7), per una discussione critica della letteratura teorica relativa alla funzione di investimento.
3 Ma, come è emerso nel dibattito sulla teoria del capitale, “non vi è definizione alcuna del capitale la quale permetta di affermare che il suo prodotto marginale […] sia pari al saggio dell’interesse” (Garegnani, [1970] 1975, p. 101).
4 Cfr. Palumbo (2015); Fontanari et al. (2019); Stirati e Paternesi Meloni (2018).
5 Cfr. Ciccone (2012, pp. 90 ss.).
6 Cfr Ciccone (2013). Possibili effetti ‘perversi’ di politiche fiscali restrittive sul rapporto debito-PIL sono state evidenziate anche da De Long e Summers (2012); Fatás e Summers (2016); Nuti (2013).
7 Cfr. Garegnani e Palumbo (1998).
8 Cfr. Ciccone (2002, cap. 2).

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