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Che fine hanno fatto gli intellettuali?
Conversazione di Enzo Traverso con Régis Meyran
In una lunga conversazione con Régis Meyran Enzo Traverso ripercorre la storia e la parabola dell’intellettuale che da guastafeste e intelligenza critica che afferma la verità contro il potere si è progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla fine delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e dalla mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è pero scomparso. Ora per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno uscire dai loro ambiti specialistici e ritrovare un atteggiamento universalista. Qui anticipiamo un estratto dal libro-intervista uscito in Francia nel 2013 e in arrivo nelle librerie italiane il 26 marzo per le edizioni ombre corte.
Le nuove utopie potrebbero venire dai movimenti di controcultura, apparsi nel dopoguerra contro la cultura di massa?
Mi sembra che oggi la controcultura degli anni Sessanta e Settanta sia generalmente scomparsa, o che esista in forme molto limitate. I giovani che si trasferiscono in campagna, per esempio a Tarnac, per creare una sorta di falansteri moderni, sottraendosi alla società di mercato, creano una controcultura che vorrebbe diventare un modello. È un fenomeno interessante ma marginale. Inoltre, l’esperienza del passato dimostra che la controcultura può farsi assorbire dal sistema di mercato. Molti autori hanno analizzato la straordinaria capacità del capitalismo di recuperare, integrare e quindi neutralizzare i movimenti culturali che lo criticano. Il rock & roll è stato una sfida violenta all’America autoritaria, conservatrice e puritana degli anni Cinquanta, prima di diventare uno dei settori più redditizi dell’industria culturale. London Calling, la canzone che i Clash urlavano nel 1979 come un’esortazione alla rivolta, nel 2012 è diventata l’inno ufficiale dei giochi Olimpici di Londra, spettacolo planetario e gigantesca kermesse commerciale… Nel 1989, con la celebrazione del suo bicentenario, la Rivoluzione francese si è trasformata in un puro spettacolo messo in scena per l’industria culturale.
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Moneta e finanziarizzazione
Intervista a Stefano Lucarelli
Nella sedicesima trasmissione di CommonRadio abbiamo discusso di “Moneta e Finanziarizzazione” con Stefano Lucarelli, a partire da un suo scritto “Sentieri interrotti” (in C. Bermani, a cura di, “La Rivista Primo Maggio 1973 – 1989”, DeriveApprodi 2010) in cui l'economista passa lucidamente in rassegna la storia del gruppo sulla moneta della rivista “Primo Maggio”. Di seguito la trascrizione dei tratti salienti della discussione, a nostro avviso particolarmente interessanti, ancora oggi, per tutti coloro i quali si occupano di decifrare le dimensioni economico-politiche dell'attuale crisi finanziaria.
L’inconvertibilità del dollaro con l'oro, è stata descritta come una “rivoluzione dall’alto”. Sul giornale “Potere Operaio” (Mensile, agosto 1971) Toni Negri definiva tale operazione statunitense di portata epocale. Negli stessi anni Sergio Bologna scriveva “Moneta e Crisi. Marx corrispondente della New York Daily Tribune” (in S. Bologna, P. Carpignano, A. Negri (a cura di), Crisi e organizzazione operaia, Feltrinelli 1974. Ora in S. Bologna, Banche e crisi. Dal petrolio al container, DeriveApprodi 2013). Vuoi sottolineare la peculiarità del lavoro di Bologna e la centralità che questo ha assunto nella fase capitalistica che si attraversava?
La lettura del lavoro di Sergio Bologna, come il dibattito in seno alla rivista “Primo Maggio”, è un po’ ostico, visto che le categorie teoriche utilizzate sono date per scontate, in quanto il linguaggio utilizzato negli anni ’70 era una sorta di patrimonio collettivo che oggi si è un po’ perso. I due concetti su cui Sergio Bologna articola la sua riflessione sono: “comando monetario” e “composizione di classe”. L'oggetto del suo saggio sono gli scritti che Marx compone come redattore della New York Daily Tribune. La cosa interessante è che questi articoli definiscono la “rivoluzione dall’alto” come cambiamento istituzionale che coinvolge innanzitutto le istituzioni creditizie messe in campo in Francia da Napoleone III negli anni ’50 dell’800. È un periodo storico particolare, perché nel 1848 c’erano state le rivolte della classe operaia francese e Napoleone III vuole evitare una nuova rivoluzione. Occorre ricordare che Napoleone III era stato eletto Presidente della Seconda Repubblica francese nel dicembre del 1848. Il 2 dicembre 1851 Napoleone III pose fine alla Repubblica e l’anno dopo assunse il titolo di Imperatore.
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Uscire dall'economia?
di Steeve

Ci sarebbe un'economia neutra, naturale, che sarebbe sempre esistita e poi c'è una forma perversa che sarebbe apparsa relativamente tardi, diciamo verso il XVI secolo, vale a dire il capitalismo. L'uscita dal capitalismo servirebbe allora, secondo tale prospettiva, a ritrovare un'economia sana, durevole (un'economia verde, oggi detta circolare), più giusta (con una migliore distribuzione dei frutti della crescita), ecc. Sarebbe così sufficiente, per esempio, liberare "l'economia reale" dall'influenza degli odiosi speculatori finanziari, oppure, ancora, sopprimere la proprietà privata dei mezzi di produzione, affinché possiamo salvarci dal crollo multidimensionale in corso.
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L'euro dei nazi e il nostro
di Giorgio Gattei
La storia si ripete perchè la si dimentica
Antonio De Viti De Marco
1.
È stato con intelligenza che la Rete dei Comunisti, quando Toni Negri si mise a profetare dopo il crollo dell'URSS l'avvento dell'Impero unipolare americano1, gli oppose invece il precipitare del mondo in una condizione di imperialismi in competizione globale tra loro2. E fu altrettanto acuto il riconoscimento, fin da subito, della natura imperialista della Unione Europea in via d'accelerata espansione dopo l'introduzione dell'euro3. Però adesso che la contrapposizione degli interessi geo-economico-politici tra USA ed UE è più o meno generalmente riconosciuta, bisogna andare oltre prendendo ad esaminare anche la costituzione interna del polo imperialistico europeo che non è affatto formato da un insieme di nazioni omogenee e convergenti verso gli Stati Uniti d'Europa. Al contrario: esso risulta organizzato dal "nocciolo duro" di Germania e suoi satelliti attorniato dalla "periferia" dei Paesi mediterranei cosiddetti "maiali" (PIGS = Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), mentre la Francia si presenta sospesa tra l'appartenenza al "nocciolo duro" (come ritenuto a suo tempo da Mitterand e Sarkozy) oppure alla "periferia", come invece cominciano a temere le agenzie internazionali di rating.
E stata questa la conseguenza della nascita di un rapporto economico asimmetrico europeo imposto dal "nocciolo duro" (d'ora in poi il "centro") a danno della periferia. Questo rapporto di sfruttamento (perchè proprio di ciò si tratta) non ha tuttavia i caratteri classici del colonialismo con il centro che esporta manufatti in periferia ricevendone in cambio materieprime, perchè nella Zona Euro la periferia non arriva a coprire le proprie importazioni dal centro con esportazioni equivalenti (la sua bilancia commerciale infattiè in passivo, all'opposto di quella del centro che è in attivo), ma salda il disavanzo pagandolo nell'euro che è la moneta comune ad entrambi.
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Tempo e storia sullo scaffale dell’eterno presente
di Claudio Vercelli
Sulla natura del tempo che stiamo vivendo, più ancora che sulla sua qualità, parrebbe di potere dire che siamo oramai calati in una sorta di eterno presente. Un tempo che è senza storia, se non altro perché essa presuppone non solo lo sguardo rivolto all’indietro, ovvero a ciò che è stato, ma anche e soprattutto la fiducia verso quello che potrà essere. La storia, come racconto di un’origine comune, condivisa, accettata, e come tale anche però demitologizzata, si sfarina dinanzi all’atto d’imperio di un presente che, nel dichiarare impraticabile l’idea di un tempo a venire (se non come foriero di dubbi e angosce) lo sostituisce con un «qui ed ora» che sembra essere l’unica dimensione plausibile non solo delle relazioni umane ma anche dell’identità individuale.
Il «principio-speranza», da sempre connesso al bisogno di un mutamento che non sia la sola somma di ciò che si subisce ma di quanto invece si riesce a gestire, si azzera, venendo così sostituito dall’orizzonte della sopravvivenza, basata sullo schiacciamento del quotidiano ai bisogni del momento, al loro immediato soddisfacimento, ovvero ad una logica di pura reattività. Che non è il ritorno del belluino ma, più banalmente, il trionfo della reificazione: alle trasformazioni e alle smagliature che la coesione sociale subisce si alternano e si contrappongono i falsi rimedi di un rifugio proprio in ciò che ci viene a mancare, ossia la capacità di un agire per il consumo come unico e ultimativo modo di essere delle individualità.
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Altre tre osservazioni sull'Ucraina
di Piero Pagliani
I custodi della legalità westfaliana internazionale contro il caos imperiale, la Responsibility to Protect (R2P) e il Right to Intervene (R2I), sul filo della guerra. Questa riflessione è il seguito delle « Sette osservazioni sulla crisi ucraina » pubblicate lo scorso 4 marzo
Ottava osservazione. È in corso da più parti un tentativo di capire se la crisi ucraina stia dimostrando la forza degli Usa o della Russia.
Incominciamo osservando che quasi sempre i termini che vengono contrapposti non sono simmetrici, bensì del tipo "Usa vs Putin" o "Comunità Internazionale vs Russia".
Nel primo caso c'è una nazione (considerata fiaccola della democrazia) che si contrappone a un individuo (considerato una sorta di aggressivo autocrate), mentre nel secondo caso c'è un ristretto club di nazioni che si autodefinisce rappresentante di tutte le nazioni del mondo e che si contrappone a un singolo Paese considerato "paria" (se non fosse così potente, in questo momento sarebbe classificato come "rogue state" senza tanti complimenti).
Questa retorica da guerra (calda o fredda non fa qui differenza) ci vorrebbe far credere che comunque la "forza della ragione" sta ad Occidente. Possiamo dubitarne, ma non è questo il punto, perché nelle relazioni internazionali durante i periodi di caos sistemico, l'idea stessa di "ragione" è sfidata da quella, per l'appunto, di "caos" nel quale concetti come "democrazia", "diritto" e, infine, "ragione" devono lasciare il posto al concetto principe di "forza".
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La grande crisi
Euro Truffa intervista il Prof. Joseph Halevi
1) Prof. Halevi, in un suo lavoro scritto con Riccardo Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e la Terza Crisi della Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi capitalistica del 2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria economica. Può spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece, le prime due crisi?
La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli approcci teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari come trasmettitori di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma questo non sarebbe un granché. La fase apertasi col 2007 mette in crisi anche le visioni secondo cui dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dell Stato a favore del mercato.
Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato la loro azione ed ingerenza negli affari economici intervenendo attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti (Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra).
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L’individuo è l’essere sociale. Marx e Vygotskij
di Felice Cimatti
Questo bel saggio di Felice Cimatti – incluso nel testo collettaneo Il transindividuale, appena uscito per Mimesis (pp. 253-271) – è dedicato a una teoria della mente che si avvale degli strumenti messi a punto da Marx e Vygotskij per mettere a fuoco i limiti e le aporie dell’individualismo cognitivo e del biologicismo delle neuroscienze
1. «La coscienza è un rapporto sociale»
L’animale non umano, per Marx,
«è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività vitale]» Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Prendiamo un esempio determinato, un castoro. Per esplicare la sua ‘attività vitale’, ad esempio il costruire dighe sul corso dei fiumi, un castoro si basa essenzialmente su abilità innate, abilità appunto che non deve imparare, che non sono fuori di lui. Essere un castoro significa appunto nascere con un insieme di aspettative e abilità innate. In questo senso se il costruire dighe è una attività che distingue il castoro dalle altre specie animali, se questa è la sua essenza animale, allora questa stessa essenza è presente in modo implicito dentro di lui già alla nascita: l’essenza del castoro è dentro il castoro, come un chilo di rigatoni sta dentro la scatola di cartone che lo contiene. Questo non signifi ca che non sia importante anche l’esperienza né che tutto il comportamento animale sia innato; il punto è che ciò che l’animale può imparare è vincolato in modo più o meno rigido dalla sua costituzione biologica innata.
Per l’animale non umano, allora, non vale la frase di Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 che abbiamo scelto come titolo, al contrario, qui l’individuo coincide con l’essere individuale, cioè l’essenza è dentro ogni singolo animale non umano. Espresso in altro modo, ogni castoro è ogni altro castoro, nel senso che dovunque ci sia un castoro troveremo più o meno le stesse attività, la stessa forma di vita, le stesse esperienze.
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L’insostenibile pesantezza dei vincoli monetari e di bilancio*
di Vladimiro Giacché
Ringrazio Stefano Fassina per questa occasione di confronto che ha voluto estendere al di là dei confini del PD.
Credo che il modo migliore per contribuire a questo incontro sia offrire il proprio punto di vista alla discussione, nel modo più diretto possibile.
Credo infatti che il primo dovere nei confronti di noi stessi sia quello della chiarezza.
In primo luogo sulla gravità della situazione. Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro – è stato fatto anche qui – io rispondo che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. La priorità non può essere rappresentata dai moniti relativi a una catastrofe eventuale, ma dal tentativo di comprendere come siamo finiti nella catastrofe attuale e cosa si debba fare per uscire dal disastro economico in cui ci troviamo.
“Catastrofe”, “disastro”: purtroppo non si tratta di iperboli. Come hanno dimostrato i ricercatori del Centro Europa Ricerche nel luglio scorso (Rapporto CER n. 2/2013), ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929.
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La televendita (pericolosa) di Renzi
di Andrea Fumagalli
E la precarietà diventa strutturale. Nulla di nuovo, anzi d’antico nelle “novità” che il primo ministro italiano ha presentato la scorsa settimana in materia di lavoro. Totale liberalizzazione e a-causalità sino a tre anni per il contratto a tempo determinato e per l’apprendistato. In cambio di poche briciole. La Merkel apprezza e sempre più aleggia lo spettro del lavoro gratuito, pardon “volontario”. Presentiamo un’analisi dei provvedimenti della legge delega (non ancora pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale), partendo dalle prime considerazioni pubblicate sul blog di San Precario.
* * * * *
Finalmente, dopo una lunga attesa, sono state rese note le misure che il neo-governo Renzi intende adottare per traghettare l’economia italiana fuori dalle secche della crisi. I provvedimenti principali si dividono in tre parti: interventi a sostegno dei redditi di lavoro e di impresa, interventi sul mercato del lavoro, al fine di renderlo più “appealing”, interventi sugli ammortizzatori sociali.
In questi giorni, sui giornali e sulle televisioni, soprattutto all’indomani della televendita di Palazzo Chigi, condita da slides, figure e tabelle, a magnificare le qualità del prodotto, si è elevato un coro di consensi a sancire che finalmente l’”economia svolta”. Che Renzi sia un buon imbonitore e un abile utilizzatore delle pratiche comunicative non ci piove, al punto tale che, con preoccupazione, ci ricorda un altro abile comunicatore, che per 20 anni ha imperversato, con molte complicità “indecenti”, nella politica italiana. Ma ciò non toglie che, al di là della sfavillante superficie, sia necessario e doveroso analizzare la sostanza. E il risultato che emerge è del tutto sconfortante, vecchio e usato.
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Gli undici taglieggiatori
Leonardo Mazzei
L'ultimo mostro targato UE: il Debt Redemption Fund (Fondo di Redenzione del Debito)
Altro che le buffonate del berluschino fiorentino! Altro che l'altra Europa dei sinistrati dalla vista corta! E' in arrivo sul binario n° 20 (anni) un trenino carico di tasse targate Europa. Ma come!? E le riduzioni dell'Irpef dell'emulo del Berluska? Roba per le urne, che le cose serie verranno subito dopo.
Di cosa si tratta è presto detto. Tutti avranno notato lo strano silenzio della politica italiana sul Fiscal Compact, quasi che se lo fossero scordato, magari con la nascosta speranza di un abbuono dell'ultimo minuto, un po' come avvenne al momento dell'ingresso nell'eurozona per i famosi parametri di Maastricht.
Ma mentre i politicanti italiani fingono che le priorità siano altre, a Bruxelles c'è chi lavora alacremente per dare al Fiscal Compact una forma attuativa precisa quanto atroce. Anche in questo caso, come in quello dell'italica Spending Review, sono all'opera gli "esperti": undici tecnocrati di provata fede liberista, guidati dall'ex governatrice della banca centrale austriaca, la signora Gertrude Trumpel-Gugerell. Entro marzo, costoro dovranno presentare al presidente della Commissione UE, Barroso, le proprie proposte operative. Poi arriverà la decisione politica, presumibilmente dopo il voto degli europei che di quel che si sta preparando niente devono sapere, specie se sono cittadini degli stati dell'Europa mediterranea.
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Dov’è la legalità?
A proposito dello sgombero dell’Angelo Mai e delle occupazioni abitative ieri a Roma
di Christian Raimo
Ieri mattina 19 marzo, alle 6 e mezza, a Roma, è successa una cosa anomala. La polizia – parecchia polizia (blindati, camionette) – si è messa a sgomberare tre luoghi molto connotati di Roma. Due sono occupazioni abitative: una è quella della scuola Hertz, l’altra è quella di via delle Acacie (entrambe sono organizzate secondo un modello di autogestione collettive con l’aiuto del Coordinamento della Lotta per la Casa). Il terzo è l’Angelo Mai, che per chi è di Roma è un posto stranoto (facile che ci sia almeno andato a ballare un sabato sera, o a portare i bambini una domenica mattina per qualche attività organizzata nel parco davanti), e per chi non è di Roma è un centro culturale, che si trova vicino a Caracalla, gestito da un gruppo di artisti (musicisti e teatranti soprattutto): da anni uno degli spazi dove, con tutta evidenza, si vedono (si vivono) tra le cose più interessanti che si possono trovare in una città asfittica e in definitiva paesana come Roma – per capirlo, basta andare sul sito e scrollare quelli che sarebbero dovuti essere gli appuntamenti prossimi venturi: i Massimo Volume, i Motus, il Teatro delle Apparizioni, l’Accademia degli Artefatti etc…
Il motivo degli sgomberi è l’ipotesi accusatoria – pesantissima – che si sia creata un’associazione a delinquere che gestiva le occupazioni delle case estorcendo soldi. Da cui: ventuno perquisizioni, decine di persone indagate.
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Dopo il neoliberalismo: analizzare il presente*
Stuart Hall, Doreen Massey and Michael Rustin
A poche settimane dalla sua morte, pubblichiamo il manifesto scritto nel 2013 da STUART HALL insieme a DOREEN MASSEY e MICHAEL RUSTIN
Con la crisi bancaria e creditizia del 2007-2008 e le sue ripercussioni in tutto il globo, è imploso il sistema neoliberale o del capitalismo del libero mercato, che a partire dal 1980 ha dominato il mondo per tre decenni. Quando la dimensione del debito tossico è diventata evidente, il credito e i prestiti interbancari si sono prosciugati, la spesa ha rallentato, le uscite sono diminuite e la disoccupazione si è impennata. I settori finanziari altamente inflazionati, che hanno speculato in attività in gran parte estranee all’economia reale di beni e servizi, hanno fatto precipitare una crisi le cui conseguenze catastrofiche si stanno ancora dispiegando.
Crediamo che il dibattito politico mainstream semplicemente non riconosca la profondità di questa crisi, né il conseguente bisogno di un ripensamento radicale. Il modello economico che ha sostenuto il regime sociale e politico degli ultimi tre decenni si sta disfacendo, ma apparentemente resta al suo posto il più ampio consenso politico e sociale. Proponiamo dunque questa analisi come un contributo al dibattito, nella speranza che aiuti le persone di sinistra a pensare maggiormente a come spostare i parametri del dibattito, passando dai piccoli palliativi e dalle misure restaurative all’apertura di una strada verso una nuova era politica e a una nuova interpretazione di ciò che costituisce la buona società[1].
Per tre decenni il sistema neoliberale ha generato grandi profitti per le multinazionali, le istituzioni di investimento e i capitalisti di ventura, notevoli accumulazioni di ricchezza per i nuovi super-ricchi globali, mentre ha vistosamente accresciuto il divario tra ricchi e poveri e ha approfondito le ineguaglianze di reddito, salute e possibilità di vita all’interno e tra i paesi, in un modo che non si vedeva da prima della seconda guerra mondiale.
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La rete conquistata a colpi di cinguettii
di Benedetto Vecchi
Tutto ha inizio quando il clima un plumbeo seguito al crollo del Nasdaq del 2001 comincia a diradarsi. In Rete c’è una società, Google, che fa parlare molto di sé. Fornisce un motore di ricerca che aiuta navigare in Internet. Fa molti profitti, vendendo a milioni di piccoli inserzionisti spazi pubblicitari a pochi centesimi di dollaro. I suoi fondatori, Larry Page e Sergey Brin, sostengono che mai e poi mai faranno come la Microsoft, ormai sorvegliata speciale da giudici e dal dipartimento della giustizia statunitense che l’accusano di pratiche monopoliste. Google fornisce i suoi servizi gratuitamente e nella sede a Mountain View campeggia il motto “Don’t be evil”, non essere il diavolo, chiara allusione proprio alle strategie della Microsoft. Usa programmi informatici open source e i suoi fondatori criticano apertamente le leggi sulla proprietà intellettuale, omettendo però il fatto che l’algoritmo alla base del suo motore di ricerca è coperto da un brevetto e che è stato sviluppato all’interno di un progetto di ricerca finanziato anche da soldi pubblici. Nel frattempo, un giovane e spregiudicato di nome Mark Zuckeberg ha lanciato un servizio per condividere con amici e conoscente impressioni, pensieri, immagini. Si chiama Facebook, ed è indicato come il secondo, rilevante segnale che il web è arrivato alla fase del 2.0.
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Oltre
di Elisabetta Teghil
Nel passaggio dalla sussunzione del lavoro da dominio formale a reale, il capitale conquista tutta la società,le relazioni sociali nelle sue condizioni di riproduzione, compreso il patriarcato.
Tutto lo spazio e il tempo della vita quotidiana di ognuna/o, di ogni individuo, viene sottomesso alle leggi del capitale ed il patriarcato ne è un momento. Il capitale, in questa stagione, sa ed è globale in quanto abbraccia tutte le relazioni sociali, non solo quelle classiche, il lavoro e la politica, ma anche quelle familiari, culturali, sentimentali.
Pertanto investe, rinnova, rimodella, mantiene ed esalta il patriarcato.
Il nostro movimento di liberazione non può che essere la manifestazione di slanci ed episodi, spontanei ed organizzati, piccoli e grandi, continui e quotidiani, di rifiuto, di rigetto del modo di vivere patriarcale, così come si esprime oggi nella società neoliberista che non è altro che lo stadio dell’autosviluppo del capitale.
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Dopo il 'Dopo la fisica'
Recensione di un libro di Carlo Rovelli
Pierluigi Fagan
Metafisica è un termine che inizialmente venne coniato per ragioni editoriali da parte di chi si occupò di ripubblicare le opere di Aristotele prelevandole dall’oblio in cui erano sparite due secoli dopo la loro prima apparizione. Esso ebbe quindi un significato tecnico: gli scritti di Aristotele pubblicati dopo quelli della Fisica, -metà ta physikà-, dopo la fisica. Da allora, sino ad oggi, il termine ha perso il suo specifico tecnico ed è diventato il titolo di una nuvola di pensieri astratti che ha determinato il corso della nostra filosofia, quindi della nostra facoltà pensante, delle sue regole e procedure, del come determiniamo l’esistenza stessa degli oggetti del pensiero, quel pensiero con cui pensiamo noi ed il Mondo, che orienta le nostre azioni nel Mondo. Lo statuto di questa nuvola di pensieri e modi di pensare nasce ambiguo poiché lo stesso Aristotele, a cui era ignoto il termine metafisica, definiva quell’ambito “filosofia prima”. Quel “prima” ingenerava una gerarchia controintuitiva, poiché ciò che si leggeva per primo (il mondo fisico e fenomenico) era in realtà causato da un prima, da principi precedenti, di cui appunto si occupava la filosofia prima, che però compariva per seconda. Il mondo che ci appare per primo è secondo alla lettura dei principi che lo determinano oggetto di una filosofi prima che retrocede quella che ha in oggetto il mondo, a seconda.
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Ma Renzi lo conosce il Fiscal Compact?
di Thomas Fazi
E se la risposta è no, cosa ne avrà pensato Angela Merkel?
Cosa avrà detto ieri alla Merkel Matteo Renzi? Avrà senz’altro ammorbidito i toni rispetto a qualche anno fa – quando da sindaco si diceva pronto a violare il “patto di stupidità” –, e avrà ribadito che “nessuno si sogna di sforare il tetto” del famigerato 3% di rapporto deficit/Pil stabilito dal Trattato di Maastricht, come ha ripetuto in conferenza stampa. Chissà però se Renzi ha ripetuto quello che ha detto agli italiani e cioè che vorrà sfruttare il più possibile i “margini” che secondo lui offrirebbe il Patto. La logica renziana è quanto segue: poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% – l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10 miliardi del cuneo fiscale. L’annuncio sarebbe senz’altro apprezzabile, se non fosse che esso si basa su una lettura molto semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, cosa che sembra la Merkel gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da asino, però Angela ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità, il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack. Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. Sembra che i tedeschi si siano orientati su quest’ultima possibilità.
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Sfuggire al capitalismo neo-liberale
Antonio Lucci
Con una piccola esagerazione (tale solo a causa dei giganti che ci accingiamo a portare come pietre di paragone) si potrebbe sostenere che uno dei più interessanti eredi del pensiero critico francese, dopo la morte di Deleuze, Debord e Baudrillard, sia un italiano, Maurizio Lazzarato.
Dopo La fabbrica dell’uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013), Lazzarato continua la sua indagine sui modelli filosofici e antropologici sottesi alla nostra attuale condizione di “uomini indebitati”. Il lavoro precedente del filosofo e sociologo post-operaista da anni emigrato in Francia, era incentrato – a partire da Nietzsche e Deleuze – sulla ricostruzione di un modello antropologico che potrebbe essere definito come quello dell’ “uomo indebitato”: di quel particolare tipo di soggettività che gli apparati mediatici e di potere promulgano a viva voce quotidianamente a partire dallo scoppio della bolla economica degli immobili negli USA.
Rispetto a quel testo i saggi che formano Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista /DeriveApprodi, 2013) rappresentano sicuramente un passo in avanti, per lo meno dal punto di vista filosofico.
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Il moltiplicatore monetario è morto
di Frances Coppola
Il report trimestrale della Banca d'Inghilterra (BoE) contiene una descrizione dettagliata di come funziona la creazione di moneta nell'economia a corso forzoso del Regno Unito.
Dotata di un manuale sulla moneta e di un paio di video esplicativi piacevolmente ambientati nei caveau dell’oro (vorrei sapere: dov’è il bancale etichettato "Germania"?), è una guida completa e chiara.
Ed è controversa. Rigetta le teorie convenzionali sui prestiti bancari e sulla creazione di moneta (il grassetto è mio):
• Non succede più che le banche ricevono depositi quando le famiglie risparmiano e poi li prestano, sono i prestiti bancari che creano i depositi.
• Normalmente, la banca centrale non determina la quantità di moneta in circolazione, e la moneta della banca centrale non viene ‘moltiplicata’ in altri prestiti e depositi.”
Di certo, numerose pubblicazioni di molti eminenti ricercatori e prestigiose istituzioni (inclusa la FED, l’FMI, la BCE e la Banca dei Pagamenti Internazionali) hanno dubitato che la teoria convenzionale fornisca una spiegazione adeguata della creazione di moneta in un moderno sistema a corso forzoso.
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Quando arrivano i nostri?
Considerazioni sul libro dei Clash City Workers
nique la police
Curiosamente, mentre leggo il lavoro collettivo dei Clash City Workers (Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi, La casa Usher, Firenze-Lucca 2014) mi arriva un testo, ordinato, di due studiosi dell’Hamilton College di New York (Henry Rutz, Herol Balkan, Reproducing Class: Education, Neoliberalism, and the Rise of the New Middle Class in Istanbul, BerghahnBooks, Oxford-New York, 2013): insomma la questione del ripensamento del concetto di classe, e della sua morfologia reale, finisce sempre per raggiungerti da più parti. Certo, il lavoro di Rutz e Balkan non solo riguarda un’altra classe, quella media, ma anche un altro paese, la Turchia, in un periodo economico molto diverso. Infatti buona parte del lavoro etnografico di Reproducing Class risale al periodo in cui il Pil turco cresceva mediamente del 4% annuo, anni ’90, mentre una parte successiva è del periodo in cui il prodotto interno lordo ha sfondato persino il 7% (metà anni 2000). Eppure il lavoro di Rutz e Balkan, come vedremo, finisce per tornare utile proprio per completare il commento al testo collettivo dei Clash City Workers. Testo che parla, al contrario, non solo delle classi subalterne ma di un paese, come ricordato nell’introduzione, dove sono oltre 150 i tavoli di crisi aperti presso il ministero del lavoro. E in questo scenario la necessità impellente, che muove Dove sono i nostri, è quella di capire il profilo sociologico dei conflitti di classe in Italia.
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Che fine ha fatto il conflitto sociale?
Senza conflitto non c’è democrazia
di Lapo Berti
Il conflitto novecentesco
Il novecento è stato un secolo di grandi conflitti sociali che hanno segnato gli andamenti della politica e il divenire della società giungendo a condizionare anche il contesto economico. Si è trattato a lungo di conflitti che avevano come scenario privilegiato, se non unico, il mondo del lavoro e come teatro la fabbrica, in particolare la grande fabbrica in cui si è consumata l’era della produzione di massa e si è affermato il mito del fordismo. Le condizioni di lavoro, la remunerazione del lavoro, talora i rapporti di potere, erano la posta in gioco. La sospensione del lavoro era lo strumento, l’arma, con cui questi conflitti venivano combattuti. Il conflitto in fabbrica era nel contempo causa ed effetto di un processo di socializzazione che aveva al centro il processo lavorativo e le esperienze di condivisione e di riconoscimento che in esso si generavano. Si può forse parlare, in questo senso, di una vera e propria antropologia fordista, di un uomo forgiato dentro il crogiolo di un’esperienza collettiva assorbente e totalizzante perché fortemente congiunta con la speranza di un cambiamento radicale dei rapporti sociali e delle condizioni di vita.
Quei conflitti, che avevano nella grande fabbrica la loro matrice sociale e il luogo eletto della loro elaborazione e manifestazione, hanno plasmato la società del novecento, ne hanno condizionato l’evoluzione, ne hanno segnato la cultura.
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George Orwell e la critica della modernità
di Robert Kurz
Nella storia della letteratura, sono apparse, regolarmente, alcune "opere universali" o "opere del secolo": metafore di tutta un'epoca per le quali l'effetto è stato così importante che la loro eco continua a risuonare fino ai nostri giorni. Non è assolutamente per caso che la forma letteraria di tali opere sia stata spesso la parabola. Questa forma permette di rappresentare idee filosofiche fondamentali di modo che esse vengano recepite come se fossero delle storie pittoresche ed accattivanti. Una tale doppia natura fa sì che l'opera non comunichi la stessa cosa a chi è già formato teoricamente, da una parte, e al bambino o all'adolescente, dall'altra, però entrambi possono divorare il libro allo stesso modo. Ed è proprio questo ad alimentare la profonda impressione lasciata da tali opere nella coscienza mondiale, fino a renderli topos del pensiero quotidiano e dell'immaginazione sociale.
Nel XVIII secolo, Daniel Defoe e Jonathan Swift, con le loro grandi parabole, hanno fornito dei paradigmi al nascente mondo della modernità capitalista. Il Robinson di Defoe divenne il prototipo dell'uomo diligente, ottimista, razionale, bianco e borghese, che crea, dopo aver concepito un piano rigoroso, un mondo fisico sull'isola selvaggia, in quanto custode della sua anima e della sua esistenza economica, un luogo piacevole a partire dal niente, e che riesce inoltre ad elevare per mezzo del "lavoro" l'uomo di colore "sottosviluppato" ai meravigliosi comportamenti civilizzati.
Al contrario, il Gulliver di Swift vaga attraverso dei mondi favolosi, tanto bizzarri quanto spaventosi, nei quali la modernizzazione capitalista si riflette in quanto satira mordente e come parodia delle "virtù dell'uomo moderno" di Defoe.
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“Neoliberalismo. Un’introduzione critica”
Recensione
di Piotr Zygulski
Il saggio di Giovanni Leghissa Neoliberalismo. Un’introduzione critica, edito da Mimesis nel 2012, è un libro che si propone di scavare nella pervasività della “condizione neoliberale” per problematizzarla criticamente.
Come si può già intuire dal lessico utilizzato in questa premessa, l’Autore mostra un’esplicita impostazione foucaultiana, che fa ampio uso di concetti quali biopolitica, dispositivo, antropotecnica e govermentalità per analizzare lo scenario presente. Al contempo, egli presta attenzione a non cadere in un impasse “malinconico” che a suo dire caratterizzerebbe il neoliberalismo. Per spiegarci meglio, la “malinconia neoliberale” sarebbe causata dall’impossibilità di separare la sfera politica – ossia l’ambito in cui perseguire la felicità – dalla sfera economica dello scambio di beni.
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Il governo Renzi e la finanza
di Guglielmo Forges Davanzati
Il Governo Renzi annuncia un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (con eccezione dei titoli del debito pubblico), per provare a recuperare risorse per finanziare i provvedimenti che, nello stesso programma, dovrebbero creare le condizioni di fuoriuscita dell’Italia dalla recessione.
Le obiezioni sollevate sono molteplici e riconducibili alle seguenti. In primo luogo, non è assolutamente certo che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari dal 20 al 26 per cento saranno in grado di generare entrate di entità tali da garantire la totale copertura del taglio dell’Irap. L’aumento dell’aliquota potrebbe determinare un calo della domanda di titoli, di entità tale da generare semmai una riduzione del gettito. In secondo luogo, l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie attuata da un singolo Stato (sebbene questo provvedimento ponga la tassazione italiana sulle rendite più in linea con quella europea) – in mercati finanziari globali pressoché totalmente deregolamentati – rischia di generare fughe di capitali e, anche per questa via, di vanificare l’obiettivo di recuperare risorse.
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Cattivi maestri e cattivi padri
Appunti di una pedagogia per orfani
di Gerolamo Cardini
La pedagogia, in quanto studio dei processi formativi degli esseri umani che coinvolgono unitamente educazione e istruzione, è da sempre troppo intrisa di politica per lasciarla ai pedagogisti. Se il suo intento disciplinante, di per sé non deprecabile se si fa riferimento alla disciplina come forza autonoma, può diventare oppressivo, l’opposizione a essa, spesso supportata da una credenza, secondo la quale crescere ‘spontaneamente’ e ‘naturalmente’ è salutare – fingendo di non sapere che spontaneità e natura sono costruzioni artificiali – ha portato a processi di emancipazione da codici autoritari, moltiplicatori, quando non addirittura forieri, di disuguaglianze d’ogni genere. Non ha saputo, però, tenere separata la necessità della critica al sapere e ai modi della sua trasmissione dall’istigazione della società ad abbracciare l’etica del «godimento», che si sta diffondendo, secondo alcune recenti riflessioni di Massimo Recalcati[2], grazie alla capacità del capitalismo contemporaneo di mettere in crisi, se non addirittura di far evaporare, il ruolo del Padre
Il Padre o il Maestro è, non solo simbolicamente, «un personaggio che ‘ne sa di più’, e che, in grazia di questo maggior sapere, ha posizione egemone su di un altro che ‘ne sa di meno’»[3]: una posizione in cui il maggior sapere porta di solito con sé anche un maggior potere.
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